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GÉRARD-HENRY BAUDRY
SIMBOLI CRISTIANI DELLE ORIGINI I-VII SECOLO
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© Internazionale, 2009 Editoriale Jaca Book SpA, Milano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana settembre 2009 Grafica e copertina Ufficio Grafico Jaca Book
Traduzione dal francese di Anna Regalzi
ISBN 978-88-16-60420-9 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book SpA - Servizio Lettori Via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520-29, fax 02/48193361 e-mail: serviziolettori@jacabook.it, sito internet: www.jacabook.it
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INTRODUZIONE 9 I SIMBOLI 27 Capitolo primo I SIMBOLI DI CRISTO IL MONOGRAMMA DI CRISTO LA CROCE La croce come trofeo La croce cosmica «L’economia del legno» I NOMI DI CRISTO Il Cristo Pastore Il Cristo Orfeo
29 32 35 35 36 37 37 39
Il Cristo Agnello Il Cristo Ichthys Il Cristo Helios Il Cristo filosofo e dottore e la tradizione della nuova Legge Il Cristo medico Il Cristo re del mondo Il trono vuoto: l’etimasia La mano divina
40 41 42 42 44 47 48 50
Capitolo secondo IL SIMBOLISMO DELLE LETTERE, DEI NUMERI E DELLE FIGURE GEOMETRICHE IL SIMBOLISMO DELLE LETTERE La taw ebraica, il «segno» del Signore L’alpha e l’omega (A W) La zeta (Z) La hypsilon (Á) IL SIMBOLISMO DEI NUMERI L’uno Il due Il tre (Trinità) Il quattro Il sei Il sette
53 53 57 59 60 60 60 61 61 62 65 66
L’otto (ogdoade) Il dieci Il dodici Il quaranta La ghematria
67 69 69 72 72
IL SIMBOLISMO DELLE FIGURE 73 73 76 77 78 80
GEOMETRICHE
Il cerchio La sfera Il quadrato L’ottagono Il labirinto
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Capitolo terzo SIMBOLI TRATTI DALLA NATURA IL MONDO CELESTE Il cielo Gli angeli Le stelle I pianeti Il sole Rivolti a Oriente La luna Il simbolo della luce IL MONDO TERRESTRE La montagna La roccia (masso, pietra) L’acqua La piantagione La vigna del Signore
81 81 81 82 84 85 87 88 89 89 91 92 93 94 95
L’ulivo Palma, ramo di palma GLI ANIMALI SIMBOLICI Il pesce Il delfino L’agnello, la pecora e l’ariete Il serpente e il drago Il cervo Il bue Il leone Il lupo GLI UCCELLI La colomba Il pavone La fenice L’aquila
96 98 100 100 101 103 103 106 108 108 109 110 111 113 114 116
Capitolo quarto SIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE SIMBOLI VARI L’orante L’oro La corona della vittoria, la corona di gloria L’aureola La barba La veste bianca Il bastone La nave L’ancora Il porto e il faro La falce e l’aratro
117 117 120 120 123 126 128 131 132 134 134 135
Il giogo «Le due vie» L’imposizione della mano GLI ALIMENTI SIMBOLICI L’acqua Il pane Il vino L’olio «L’olio di salvezza» Il miele Il latte «Il sacramento del sale»
136 137 140 141 141 143 144 146 147 149 149 151
Capitolo quinto EPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO E LORO SIGNIFICATO TIPOLOGICO ADAMO ED EVA L’ARCA DI NOÈ IL CICLO DI ABRAMO Abramo e i tre visitatori Il sacrificio di Melchisedek Il sacrificio di Isacco IL CICLO DI MOSÈ Il passaggio del Mar Rosso
6
INDICE
153 156 158 158 159 160 162 163
GIOSUÈ E L’ATTRAVERSAMENTO DEL GIORDANO L’ASCENSIONE DEL PROFETA ELIA IL CICLO DI DAVIDE IL CICLO DI DANIELE Daniele nella fossa dei leoni I tre giovani ebrei nella fornace Susanna e i vegliardi IL SEGNO DI GIONA
165 167 168 169 169 171 172 173
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Capitolo sesto EPISODI DELLA VITA DI GESÙ E LORO IMPORTANZA TEOLOGICA LA NATIVITÀ L’ADORAZIONE DEI MAGI IL BATTESIMO DI GESÙ I MIRACOLI DI GESÙ Le nozze di Cana La moltiplicazione dei pani
Le guarigioni La guarigione del cieco nato La resurrezione di Lazzaro
177 177 179 180 180 181
183 183 184 188 188 191
LA TRASFIGURAZIONE DALLA PASSIONE ALL’ASCENSIONE DI CRISTO LA DISCESA AGLI INFERI
Capitolo settimo LE FIGURE DELLA CHIESA E IL SIMBOLISMO DEI RITI LITURGICI E DEGLI EDIFICI DI CULTO LE FIGURE DELLA CHIESA I tipi biblici della Chiesa La torre-Chiesa e la città di Dio IL SIMBOLISMO DEI RITI LITURGICI I sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo ed eucaristia
193 196 198 200
Il battesimo L’eucaristia
200 201
LA SIMBOLOGIA ARCHITETTONICA DEGLI EDIFICI CRISTIANI: 204
CHIESE E BATTISTERI
200
Capitolo ottavo I SIMBOLI ESCATOLOGICI LA VITA ETERNA I SIMBOLI DELLA RESURREZIONE «IL SENO DI ABRAMO» IL PARADISO
DALLA GERUSALEMME TERRESTRE ALLA GERUSALEMME CELESTE IL SIMBOLISMO DEI RITI FUNERARI I BANCHETTI FUNERARI
217 217 218 220
221 222 223
EPILOGO 226 NOTE 228 BIBLIOGRAFIA 230 INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI 232 INDICE DEI SIMBOLI 237
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1. Catacomba anonima di via Anapo, Roma.
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Questo studio vuole essere un’introduzione al mondo dei simboli del cristianesimo antico, quali possono essere individuati negli scritti degli autori cristiani e nei testi liturgici della Chiesa. Il confine tra l’Antichità cristiana, che corrisponde all’incirca a ciò che gli storici chiamano «tarda Antichità», e l’alto medioevo è alquanto indefinito e dunque piuttosto arbitrario. In queste pagine ci atteniamo al criterio che ne fissa il limite al VII secolo e, per la precisione, alla morte nel 636 di Isidoro di Siviglia, uno degli ultimi grandi rappresentanti della tradizione dei Padri. Questo inquadramento storico è motivato anche dall’iconografia del cristianesimo antico, perché in questo studio abbiamo scelto di illustrare i simboli cristiani attraverso la loro raffigurazione nell’arte. In effetti, nel periodo preso in esame vi è una certa omogeneità nella scelta dei simboli raffigurati, che rientrano in schemi divenuti tradizionali e che si ripetono, certo con delle varianti, ma secondo uno stile convenzionale e seguendo canoni che evolveranno considerevolmente in seguito, tanto in Oriente che in Occidente. A proposito dell’iconografia paleocristiana, occorre precisare numerosi punti importanti. Il primo concerne la scelta dei simboli. Essi sono molto meno numerosi che negli scritti cristiani. Ciò è riconducibile a due motivazioni: da un lato, la scelta degli artisti o dei loro committenti si concentra di preferenza, come avremo modo di vedere, sui simboli di salvezza, quelli cui si ricorreva nei riti di iniziazione cristiana e nella catechesi. Occorre tener presente che le rappresentazioni giunte fino a noi, e che datano prima dell’editto di Milano del 313, riguardano essenzialmente un contesto funerario: pitture catacombali e rilievi di sarcofagi. Questo ambito è di per sé limitativo. In seguito, quando l’arte potrà esprimersi alla luce del sole, ad esempio nei luoghi di culto, la scelta dei soggetti rappresentati si amplierà necessariamente. Dobbiamo soffermarci ulteriormente sul caso particolare dell’arte funeraria, collocandola nel quadro della legislazione romana riguardante i cimiteri. Questi si trovavano sempre al di fuori degli agglomerati urbani. Lo statuto legale era abbastanza liberale. Concedeva a tutti, anche agli schiavi e ai giustiziati, il diritto a una sepoltura. Pertanto, i cristiani poterono seppellire i loro martiri. I cimiteri appartenevano sia a famiglie che ad associazioni, che li amministravano a loro discrezione, tanto in superficie che sottoterra, quando il suolo si prestava e lo spazio era insufficiente. Sono evidentemente le decorazioni delle necropoli sotterranee, le «catacombe», quelle meglio conservate. Visto il carattere privato dei cimiteri, la loro organizzazione e la loro decorazione dipendevano da iniziative private, famiglie o associazioni funerarie, che ricorrevano a professionisti – necrofori e artisti. Questo spiega perché i motivi pagani coesistano con motivi cristiani – sia specificamente cristiani, che pagani cristianizzati. Stando così le cose, l’arte funeraria paleocristiana è in larga misura di ispirazione popolare, diciamo laica. Anche nel caso di cimiteri cristiani patrocinati dalla Chiesa, non è sicuro che le autorità ecclesiastiche abbiano avuto pieno controllo sulla scelta delle decorazioni, come avverrà più tardi nelle chiese. L’arte funeraria è espressione della fede popolare. La scelta delle decorazioni INTRODUZIONE
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dipende in larga misura dalle famiglie e dalle associazioni che, se in possesso dei mezzi per pagare gli artisti, sviluppano in base al loro gusto le pitture e i rilievi dei sarcofagi. Quelli riccamente scolpiti appartengono a famiglie agiate, la cui fede trova espressione nella loro decorazione, senza alcun intento di catechesi o di proselitismo, poiché essa era riservata ai congiunti. Quanto ai poveri, essi venivano seppelliti in semplici loculi. Un altro aspetto importante è quello della conservazione delle opere d’arte, soprattutto le pitture. Queste subiscono gli oltraggi del tempo e degli uomini più facilmente degli scritti, che si possono ricopiare in modo identico indefinitamente. Ad esempio, tutte le pitture paleocristiane presenti nei locali in superficie sono scomparse, con rarissime eccezioni, come nel caso della dimora cristiana di Dura Europos, nell’attuale Siria. A ciò si aggiunge, per quanto riguarda l’Oriente, la distruzione massiccia e sistematica delle raffigurazioni antropomorfiche all’epoca della crisi iconoclasta. Per tutte queste ragioni, non ci è stato possibile fornire le illustrazioni corrispondenti a tutti i simboli analizzati in questo studio. Il lettore comprenderà anche perché la maggior parte delle illustrazioni qui riprodotte provenga dalla parte occidentale dell’impero romano. D’altra parte, bisogna comprendere che molti simboli cristiani erano ritenuti 12
INTRODUZIONE
1. Due magi offrono doni al Bambino Gesù in braccio a Maria, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. In alto: Mosè riceve la Legge; in basso: soggetto incerto; non si tratterebbe della resurrezione di Lazzaro ma ancora di Mosè, catacomba di via Dino Compagni, Roma.
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difficilmente trasponibili nell’arte per diverse ragioni, la principale delle quali è la diffidenza delle autorità ecclesiastiche nei confronti delle immagini. Il timore ossessivo di deviazioni idolatriche, ereditato dalla tradizione ebraica (Esodo 20,4; Deuteronomio 4,15-18), persiste fino al IV secolo, e probabilmente oltre in determinate regioni. Il rischio di contaminazioni idolatriche era scontato per individui immersi in una società permeata a tutti i livelli da pratiche pagane. Ireneo cita il caso di gnostici discepoli di Carpocrate che «possiedono delle immagini, alcune dipinte, altre fatte di diverse materie (...) Incoronano queste immagini e le espongono con quelle dei filosofi profani (...) Rendono a queste immagini tutti gli altri onori in uso presso i pagani»1. Occorre tuttavia ridimensionare la portata dell’interdetto, che riguardava essenzialmente le immagini cultuali. Per le altre era concessa una certa tolleranza, quando il pericolo di contaminazione idolatrica sembrava fugato. È così che nel tardo giudaismo si sono scoperte pitture e mosaici con rappresentazioni antropomorfiche, come nelle sinagoghe di Dura Europos, di Hammath vicino Tiberiade o di Beth Alpha (con un mosaico rappresentante Helios sul suo carro). Pari tolleranza nel cristianesimo, come si riscontra nell’arte funeraria, poiché non si tratta di immagini cultuali in senso stretto. In ogni caso, è sorprendente constatare come i documenti scritti dei primi tre secoli non testimonino nessun interesse particolare per l’illustrazione dei simboli cristiani nell’arte che, nondimeno, abbondano nella letteratura. Vi si leggono piuttosto ammonimenti, come in Tertulliano o Eusebio di Cesarea. Ancora all’inizio del IV secolo, il canone 36 del sinodo di Elvira in Spagna proibisce le rappresentazioni (probabilmente pitture) sui muri delle chiese. Tuttavia, non 14
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1. Catacomba anonima di via Anapo, Roma.
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2. Catacomba di via Dino Compagni, Roma.
bisogna sopravvalutare questo provvedimento disciplinare, che si deve a una situazione locale deviante. Lo stesso sinodo, in effetti, attacca le pratiche pagane dei cristiani della regione che addirittura tengono idoli nelle loro case. È probabilmente la stessa interpretazione che bisogna dare delle sentenze di Epifanio di Salamina, alla fine del IV secolo, contro la presenza di pitture e di mosaici nelle chiese. Nel complesso, i vescovi cercano di controllare e contenere la pressione popolare che reclama le immagini come supporti della fede e della preghiera. Sin dal III secolo compaiono rappresentazioni di scene bibliche che, del resto, non hanno pretese di realismo storicizzante; vi si trovano soprattutto simboli di salvezza. L’evoluzione si svilupperà nel senso di una presa di coscienza del valore pedagogico delle immagini, dal momento che l’illustrazione visiva è posta al servizio della predicazione del Vangelo. Questa sarà la posizione assunta da papa Gregorio Magno (590-604) alla fine del periodo preso in esame in questo studio. «La pittura insegna agli illetterati» scrive al vescovo di Marsiglia, «quel che la Scrittura insegna alle persone colte». Abbiamo voluto delineare questo sfondo storico, perché permette di comprendere che il mondo dei simboli cristiani è molto più vasto di quanto lascerebbe intendere il repertorio iconografico paleocristiano. Avendo definito il quadro, si tratta ora di precisare il senso che attribuiamo al concetto di «simbolo» nella nostra indagine. In origine, la parola greca symbolon indicava un oggetto spezzato in due metà che, accostate, permettevano a coloro che ne erano in possesso di riconoscersi senza essersi mai visti. Questo segno di riconoscimento fungeva da «parola d’ordine» concreta, oggettiva. Ne INTRODUZIONE
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troviamo un esempio nell’Antico Testamento. Il padre di Tobia invia il proprio figlio nel paese dei Medi per recuperare il denaro che teneva in deposito presso una certa persona. Poiché questa persona e Tobia non si conoscono, hanno bisogno di un «segno di riconoscimento». Allora suo padre gli spiega: «Mi ha dato un documento autografo e anch’io gli ho consegnato un documento scritto; lo divisi in due parti e ne prendemmo ciascuno una parte; l’altra parte la lasciai presso di lui con il denaro» (Tobia 5,2-3). Ad Atene, il symbolon designava ogni specie di segno convenuto per identificare qualcuno, ad esempio per indicare che a uno straniero era consentito soggiornare. Il significato fondamentale di questo termine è quello di «legame», «rapporto tra due cose», come indica il verbo da cui deriva, symballein, «raccogliere», «riunire», «congiungere». Numerose espressioni formate da questo verbo illustrano il concetto di rapporto, di relazione, come «scambiare parole con qualcuno» o «unire le mani», cioè darsi la mano. Stessa idea nelle parole del medesimo gruppo, come symbole, che significa «accostamento», e talvolta «patto», e che è dunque sinonimo di symbolaion, «contratto tra due persone», «relazione» in senso figurato. Il symbolon cominciò a designare in generale ogni segno di riconoscimento. È opportuno attribuire questo significato alla denominazione simbolo di fede della confessione di fede ufficiale della Chiesa, comunemente detta credo. Esiste anche una formula equivalente, la «regola di fede», che ne precisa bene la ragion d’essere. Il simbolo di fede contiene, in effetti, un compendio degli elementi fondamentali della fede cristiana, che definiscono l’adesione alla fede degli apostoli, alla Chiesa di Cristo, ossia alla dottrina ortodossa. 16
INTRODUZIONE
1. Cubicolo «di Leone», catacomba di Commodilla, Roma. 2. L’Agnello, mosaico della volta, oratorio di S. Giovanni Evangelista, complesso del battistero di S. Giovanni, Roma.
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Coloro che non li riconoscono sono considerati eretici. Il simbolo di fede ha dunque la funzione di segno di adesione e di riconoscimento. Questo sarà il ruolo del simbolo battesimale, del simbolo apostolico, del simbolo niceno-costantinopolitano, per non citare che i più antichi. Nella letteratura cristiana antica, il termine «simbolo» assume un’estensione piuttosto vasta. Si applica a qualcosa che rappresenta una realtà diversa da sé, il più delle volte sovrasensibile. Questo significato generale può essere l’equivalente di «segno», di «immagine», di «emblema», di «figura», di «tipo». In ogni caso indica un significante che rinvia a un significato: ancora, dunque, l’idea originaria di legame, di rapporto tra due cose. Corrisponde alquanto alla metafora proposta da Nikolaj Berdjaev: «Un ponte gettato tra due mondi». Se il cristianesimo ha sviluppato una cultura del simbolo, questa non ha la funzione di accessorio immaginifico, decorativo, ma, per necessità dottrinale, è al contempo filosofica e teologica. Ogni linguaggio è di per sé simbolico, perché rinvia a un reale che lo trascende; il linguaggio lo designa, ma non si identifica con esso. Il grande Origene lo ha detto più efficacemente di chiunque altro: «Ognuno che cerca la verità non si deve curare del18
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1. Mosaico absidale, basilica dei Ss. Cosma e Damiano, Roma. 2. Mosaico absidale (parte centrale), basilica Lateranense, Roma.
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le parole e dei discorsi, perché ogni popolo ha un suo diverso modo di parlare; ma deve stare attento a ciò che viene significato piuttosto che alle parole con cui viene significato, soprattutto riguardo a problemi così importanti e difficili»2. Al di là del linguaggio concettuale, è l’uso dei simboli che si rivela necessario se si vuole parlare di Dio e delle realtà trascendenti. Un altro grande teologo alessandrino, il patriarca Cirillo († 444), lo ha così magistralmente formulato: «Dal momento che le caratteristiche e le prerogative della divinità sono difficili da descrivere e da spiegare e che esse si negano all’osservazione, poiché dunque ciò che se ne potrebbe dire si rivelerebbe del tutto insignificante e rimarrebbe al di là della verità, è attraverso le figure e le immagini, il più possibile espressive, come in uno specchio o grazie a qualche arcano simbolico, che impariamo a conoscerle»3. 20
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1. Cristo con la Chiesa dei Pagani a destra e quella degli Ebrei a sinistra, mosaico absidale, S. Pudenziana (403-417), Roma.
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2. Pietro riceve la Legge da Cristo, mosaico (particolare), mausoleo di S. Costanza, Roma.
La simbologia cristiana è culturalmente contestualizzata. Le sue radici prime e fondanti si trovano nella tradizione biblica. Essa ne assume dapprima i simboli classici come il pastore o la roccia per designare Dio, il «seno di Abramo» per rappresentare il soggiorno dei giusti presso Dio. Inoltre, ed è la sua peculiarità, la simbologia cristiana, seguendo l’interpretazione della Scrittura già praticata da Gesù, vede nei testi dell’Antico Testamento l’annuncio profetico della nuova alleanza da lui inaugurata. Pertanto, non soltanto i grandi eroi della storia santa (Abramo, Mosè, Giosuè, ecc.), ma anche gli eventi fondanti o esemplari (il passaggio del Mar Rosso, il dono della Legge sul Sinai, l’ascensione di Elia, ecc.) divengono «tipi» di Gesù. Il termine «tipo» (typos, «tipo», «figura» in greco) è spesso usato come sinonimo di simbolo proprio per designare la prefigurazione del Nuovo Testamento nell’Antico. Questo rapporto simbolico tra i due testamenti non è arbitrario, si basa sulla convinzione che la rivelazione depositata nelINTRODUZIONE
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la Bibbia sia l’annuncio profetico e la preparazione effettiva del Vangelo, della buona novella della salvezza. Esiste dunque un rapporto storico e dottrinale essenziale tra le due alleanze, l’antica e la nuova. La maniera simbolica di interpretare questo rapporto è detta proprio «tipologia». Essa rappresenta la componente essenziale della simbologia paleocristiana. I pensatori e gli artisti applicheranno lo stesso metodo alla vita e alle azioni di Gesù, riprendendone le parabole, che attengono al genere simbolico, e vedendo in esse i «segni» delle realtà del regno di Dio in corso di realizzazione nella storia, e del suo compimento ultimo nel regno dei cieli. I simboli tratti dal Vangelo sono dunque nel contempo simboli della vita dei fedeli nella Chiesa e simboli escatologici della vita beata presso Dio. Origene, il grande pensatore di Alessandria, ha ben espresso questo modo di 22
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1. Mosaico dell’arco trionfale, S. Maria Maggiore, Roma.
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concepire il messaggio di Gesù: «Raccomandiamo» affermava, «che si veda sotto un duplice aspetto ogni passo del Vangelo che menziona avvenimenti che si sono realizzati corporalmente quando Nostro Signore è sceso in terra; perché tutto ciò che accadeva nel suo corpo era figura e tipo degli avvenimenti futuri»4. Ai giorni nostri, Manigne lo ha espresso con efficacia: «Gesù ci introduce nell’impero dei segni». Egli è «il padrone dei segni»5. Tutta la simbologia cristiana si organizza di fatto attorno alla figura di Cristo, immagine visibile del Dio invisibile, il grande paradigma della storia della salvezza. La simbologia cristiana si radica quindi nel mondo culturale dell’epoca, la cultura greco-romana, che gode di grande prestigio presso la maggior parte INTRODUZIONE
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dei pensatori cristiani, del resto formatisi alla sua scuola. Sebbene essi conservino il loro spirito critico, sanno riconoscerne i valori. Inoltre, alcuni vi vedono anche una «preparazione evangelica». Si tratta certo di un argomento apologetico, ma si basa anche su una convinzione più concreta. Esistono «semi di verità» che il Logos divino ha seminato nella ragione umana e che hanno fruttificato presso i filosofi. Quindi, «tutto ciò che di valido è stato detto, appartiene a noi, i cristiani» (Giustino). Gli insegnamenti più spirituali della filosofia greca hanno preparato la strada al cristianesimo (Eusebio di Cesarea). Su questa base, alcuni simboli pagani potranno essere cristianizzati, come il sole, Orfeo, il pastore, ecc. A maggior ragione, i simboli naturali universali che rientrano nei riti religiosi: l’immersione in acqua per rappresentare la purificazione dalle colpe, la condivisione di un pasto per esprimere la comunione con Dio, la luce per rappresentare il mondo celeste, ecc. È così che i simboli tratti dalla cultura pagana circostante assumeranno un significato propriamente cristiano, che non si coglierebbe se li si isolasse dal complesso della simbologia cristiana. 24
INTRODUZIONE
1. Decorazione con foglie di acanto, mosaico absidale, vestibolo del battistero Lateranense, Roma. 2. Ercole e l’Idra, catacomba di via Latina, Roma. Il principale eroe della mitologia greca che, per le sue imprese, veniva posto sul piano degli dei, viene a rappresentare presso i cristiani il «liberatore» dal Male. Pagina seguente: 1. Mosaico pavimentale, basilica di Aquileia.
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CAPITOLO PRIMO
I SIMBOLI DI CRISTO 1. Entrata della chiesa di S. Stefano prima dello scavo, con croci scolpite su una trabeazione caduta, Umm al-Rasas (Kastron Mefa), Giordania. 2a-b-c. Monogramma di Cristo (o chrismon), segno che combina le due lettere iniziali (X e P) di Christos e designa Cristo, sarcofago di san Drusino proveniente dall’antica chiesa di NotreDame de Soissons (Aisne), fine VI-inizio VII secolo, Musée du Louvre, Parigi. 2a) Lato anteriore della vasca. 2b) Lato posteriore. 2c) Lato destro.
Tutti i simboli che incontriamo nella letteratura cristiana dei primi secoli sono incentrati – come è giusto che sia – direttamente o indirettamente sulla persona di Cristo. All’interno di questo orientamento generale, in particolare all’inizio del periodo preso in esame, si scorge tuttavia un indirizzo privilegiato che dà risalto alla figura centrale di Cristo in quanto Salvatore, cui corrisponde l’altra figura, anch’essa centrale: quella del salvato, il battezzato. È per questo che cominciamo con l’esporre i simboli che riguardano direttamente Cristo. Ciò, non soltanto per esaltare la sua preminenza nella simbologia cristiana, ma anche perché egli fa luce su tutti gli altri simboli che, in definitiva, sono cristiani solo nella loro relazione ultima con lui. IL MONOGRAMMA DI CRISTO Il monogramma (dal greco monos, «solo», e gramma, «lettera») di Cristo ne designa il nome in greco (CRISTOS) per mezzo di un solo segno, formato dalle prime due lettere maiuscole del suo nome, chi (C) e rho (R), sovrapposte e incrociate. Per questa ragione, questo segno si chiama anche «cristogramma» o più spesso chrismon. Tuttavia, quest’ultima definizione, non usata nell’antichità, si presta a fraintendimenti, a causa della somiglianza con la parola greca chrisma, che significa «unzione». I cristiani utilizzarono questo segno di riconoscimento per designare Cristo e la loro fede in lui in epoca imprecisata, ma antica. Lo si trova scolpito su sarcofagi del III secolo. Ma è a Costantino che si deve principalmente la sua grande diffusione. Si sa che dopo la sua conversione e la vittoria di Ponte Milvio, avvenuta a Roma il 28 ottobre 312, egli attribuì la sua
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vittoria a Cristo e fece apporre il chrismon sullo scudo dei suoi soldati come pure sul labarum, lo stendardo portato dall’avanguardia dell’esercito. Eusebio racconta che questo segno, raffigurato sul labarum, era circondato da una «corona d’oro», evidentemente emblema della vittoria. Aggiunge che l’imperatore portava il chrismon sull’elmo e che, secondo l’antica consuetudine, si faceva spesso il segno della croce sulla fronte. Si dice che avesse anche posto una grande immagine del chrismon all’ingresso del suo palazzo. A partire dal IV secolo, il monogramma figura frequentemente nei monumenti funerari cristiani, in particolar modo sui sarcofagi; altrettanto nelle pitture catacombali, nei mosaici, su diversi oggetti come lucerne, anelli, mo-
1. Monogramma di Cristo (o chrismon) ai lati della Madonna, prima metà del IV secolo, cimitero Maggiore, Roma. 2-3. Monogramma (o chrismon) di Cristo inscritto nella corona della vittoria e sormontante una croce, con due custodi al sepolcro; l’insieme simboleggia la resurrezione di Cristo. 2. Sarcofago proveniente da S. Paolo fuori le mura, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 3. Sarcofago proveniente dalla catacomba di Domitilla, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 4. Sarcofago «dell’arcivescovo Teodoro», basilica di S. Apollinare in Classe, Ravenna.
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5. Croce monogrammatica, mosaico del battistero, cappella di Jucundus, Sufetula (Sbeitla), Museo del Bardo, Tunisi.
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6. Croce monogrammatica di Cristo, mosaico, battistero di S. Giovanni in Fonte, Napoli. La chi (X) del monogramma (crisma) è trasformata in una croce latina (†). Affiancata dall’alpha e dall’omega e sormontata dalla mano del Padre,
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circondata da una corona d’alloro (simbolo della vittoria sulla morte), si inscrive in un doppio cerchio; il primo raffigura il cielo stellato, il secondo contiene fiori, frutti e uccelli, tra cui una fenice nella parte superiore. L’insieme illustra la dimensione cosmica della croce salvatrice. 7. Due Vittorie mostrano il chrismon (monogramma di Cristo) inserito in una corona, a indicare che Cristo ha trionfato sulla Morte, sarcofago di Sariguzel, detto «del Principe», Museo archeologico di Istanbul.
nete, ecc. Questo simbolo, spesso affiancato dall’alpha (A) e dall’omega (w o W) (→ Alpha → Omega), divenne così popolare da essere tuttora in uso. Il crisma è talvolta circondato da un cerchio o da una corona della vittoria, il che ne accentua il carattere trionfale. Alle volte, la forma del monogramma si trasforma in croce latina (†) – da cui la definizione di croce monogrammatica – dal momento che la chi greca (C) non era più conosciuta in ambito latino. È da segnalare anche un altro monogramma di Cristo, composto dalle iniziali greche iota (I) e chi (C) del nome di Gesù Cristo in greco (Ihvsou;" Cristov"), che sovrapposte e incrociate come il chrismon, assumono lo stesso significato di quest’ultimo).
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LA CROCE La croce come strumento di supplizio era un’atrocità del mondo romano. In memoria di Cristo, Costantino soppresse questo tipo di esecuzione per le condanne alla pena capitale. È per questo che le prime rappresentazioni della crocifissione di Gesù non appaiono prima del V secolo e, in principio, timidamente. È solo a partire dal VI secolo che si moltiplicano. Poiché la morte di Cristo sulla croce costituiva un elemento essenziale della loro fede («crocifisso sotto Ponzio Pilato»), i primi cristiani non potevano non parlarne, seguendo san Paolo e i Vangeli. Teodoro di Mopsuestia lo ricorda nella sua catechesi: «È una regola delle Scritture quella di indicare attraverso la menzione della croce tutta l’economia di Cristo, perché attraverso la croce arrivò alla morte; ora, è attraverso la morte che egli abolì la morte e presentò manifestamente la vita nuova, immortale e immutabile»1. Cirillo, vescovo di Gerusalemme, là dove Gesù aveva subito il suo supplizio, non esitava, a sua volta, a dire ai suoi catecumeni: «Ogni azione di Cristo è una gloria per la Chiesa cattolica, ma la croce è la gloria delle glorie»2. Molto presto i cristiani trovarono un segno simbolico per designare nel contempo la croce e Cristo. Ripresero il «segno» che corrispondeva all’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, la taw mistica che designava il nome del Dio ineffabile. Questo segno aveva la forma di un + o di un × (→ Taw). Tracciandolo sulla fronte ci si faceva il segno della croce. È dunque questo segno che il battezzatore tracciava sulla fronte del catecumeno: proprio in tal modo si indicava che costui entrava a far parte del popolo di Dio. Sant’Agostino poteva affermare a giusto titolo: «Qual è il segno di Cristo che tutti conoscono, se non la croce di Cristo?». Il segno +, che ricorda una croce, è detto «croce greca». Quando questo segno è circondato da un cerchio, evoca la croce gloriosa e dunque la resurrezione. Questo simbolo di Cristo è soprattutto presente in Oriente. Nel mondo latino prevale piuttosto la forma a «croce latina» (†). I cristiani egiziani, condizionati dalla cultura dell’antico Egitto, utilizzarono a partire dal IV secolo l’ankh, il geroglifico che significava «vita» e che era visibile ovunque, nelle iscrizioni e nelle 32
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1. Croce greca inscritta in un cerchio formato da tralci di vite tra due monogrammi di Cristo, bassorilievo, ruderi della chiesa dedicata nel 512 ai Ss. Martiri Sergio, Bacco e Leonzio, Bostra, Giordania. 2. L’ankh. Statua del tempio di Ammone recante il simbolo egizio della vita, XVIII dinastia, Karnak, Egitto. 3. Personificazione della pace recante la croce ansata egizia (ankh), affresco della cupola, V secolo, cappella paleocristiana (protocopta) della Pace, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 4. Disegno in silhouette della figura della pace con l’ankh. 5. Croce ansata, o «croce di vita», simbolo ispirato all’ankh (simbolo della vita) dell’antico Egitto, bassorilievo, stele egiziana, V secolo, Museo Copto del Cairo Vecchio.
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raffigurazioni dei templi. Essi ne fecero il simbolo della croce di Cristo che, trionfante sulla morte, procura la vita eterna ai battezzati: un eccellente esempio di inculturazione. Per la forma che la caratterizza, questa croce è detta «ansata» o anche «chiave di vita» per il suo significato e il disegno a chiave. Questo significato della croce va associato a un’altra immagine, quella dell’«albero della vita» del giardino dell’Eden. La croce di Cristo è il vero albero della vita che procura l’immortalità beata. Seguendo la medesima interpretazione tipologica, I SIMBOLI DI CRISTO
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1. La croce «albero della vita» da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci, basilica di S. Giovanni in Laterano, Roma. I fiumi portano i nomi indicati nel libro della Genesi (2,10-15). La croce salvatrice diviene fonte di vita eterna. 2. Cristo imberbe tiene nella mano destra la croce gemmata come emblema della sua vittoria sulla morte; tipo della rappresentazione paleocristiana della resurrezione, parte centrale del sarcofago a cinque riquadri detto «del Cristo degli adoranti», fine IV secolo, Musée de l’Arles antique, Arles. 3. Trofeo in bronzo in memoria della vittoria di Giulio Cesare a Tapso, Museo di Ippona, Annaba, Algeria. Il «trofeo», che aveva la forma di una croce, divenne simbolo della «croce vittoriosa» di Cristo sulle forze del male: «Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Giovanni 16,33). 4. Medaglione di Valentiniano II recante il labarum (stendardo) costantiniano con il chrismon, Bibliothèque Nationale de France, sezione medaglie. In seguito a una visione, Costantino aveva posto alla testa delle sue armate il proprio stendardo con il «segno di Cristo»: «Con questo segno vincerai». 5. Croce gemmata (ornata di pietre preziose), simbolo della croce gloriosa, mosaico absidale, VII secolo, chiesa di S. Stefano Rotondo, Roma.
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essa viene messa in relazione con l’immagine dei quattro fiumi dell’Eden, ripresa dall’Apocalisse. Abbiamo quindi constatato che il monogramma di Cristo era interpretato come una croce simbolica, soprattutto a partire da Costantino che lo aveva reso popolare. Dall’editto di Milano, che l’imperatore aveva emanato nel 313, la rappresentazione della croce nuda, vale a dire senza il crocifisso, venne spesso considerata come il trofeo della vittoria di Cristo sulla morte. Ciò richiede una spiegazione. 34
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La croce come trofeo Nell’Antichità, si definiva «trofeo» (trophaeum) l’armatura di un nemico vinto, che veniva appesa al tronco di un albero; successivamente, il termine indicò un emblema commemorativo, come l’eccezionale trofeo in bronzo, conservato nel museo di Ippona, che ricordava la vittoria di Giulio Cesare sul re di Numidia Giuba I, all’epoca della battaglia di Tapso nel 46 a.C. Osservando l’aspetto cruciforme di questo oggetto, si comprende perché i cristiani dell’impero romano considerassero per analogia la croce di Cristo il trofeo della sua vittoria sulle forze del male e sulla morte. La croce era signum victoriae, «segno di vittoria», crux invicta, «croce invitta»3. Seguendo la stessa linea di interpretazione simbolica, si vedeva nel labarum («stendardo») costantiniano, recante il monogramma di Cristo, il trofeo della sua vittoria. La croce gloriosa, come la croce gemmata, vale a dire ornata di pietre preziose, ne era un altro esempio; lo stesso vale per la croce celeste, che evocava il «segno» visto in sogno da Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio: «Con questo segno vincerai». La croce cosmica Ampliando il senso di questa interpretazione, si vide nella croce gloriosa il simbolo cosmico del dominio di Cristo su tutto l’universo. Questa idea non è affatto estranea al pensiero dei Padri della Chiesa. Colui che l’ha espressa con maggior vigore è indiscutibilmente Ireneo di Lione: «Dal momento che Cristo è il Verbo del Dio onnipotente, Verbo che, sul piano invisibile, condivide la stessa estensione dell’intera creazione e ne sostiene la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità – è dal Verbo di Dio che l’universo è retto – fu
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1. La croce dorata della vittoria tra le stelle disposte in cerchi concentrici; ai quattro angoli, i simboli dei quattro evangelisti (tetramorfo), V secolo, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna. La «croce cosmica» illustra l’insegnamento di san Paolo: «Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Colossesi 1,19-20). 2. Mosè durante il passaggio del Mar Rosso separa le acque con un bastone, catacomba di via Latina, Roma. Per i Padri il bastone di Mosè, secondo «l’economia del legno», diviene prefigurazione simbolica della croce salvatrice di Cristo. 3. Gesù Buon Pastore, seconda metà del III secolo, Musei Capitolini, Roma. Nella parabola del Buon Pastore, il pastore parte alla ricerca della pecorella smarrita: «Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento» (Luca 15,3-7). Per i Padri «la pecorella smarrita era l’uomo» allontanatosi da Dio. 4. Il Buon Pastore che reca la cetra come Orfeo, incanta gli animali con la sua musica, pittura murale, IV secolo, catacomba di Domitilla, Roma. Immagine di Cristo che attira a sé tutti gli uomini e li conduce alla verità per mezzo della seduzione della parola divina.
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dunque crocifisso in queste quattro dimensioni, lui, il Figlio di Dio, che si trovava già impresso sotto forma di croce nell’universo: occorreva infatti che il Figlio di Dio, divenendo visibile, manifestasse la sua impronta cruciforme nell’universo, allo scopo di rivelare, attraverso la sua manifesta condizione di crocifisso, la sua azione sul piano invisibile [vale a dire il suo ruolo di Verbo creatore]»4. La misteriosa allusione all’impronta di Cristo in forma di croce nell’universo è probabilmente presa a prestito da Giustino5 e si riferisce all’idea platonica, ripresa dallo stoicismo, dell’anima del mondo, rappresentata mediante la lettera greca chi (C), interpretata come il segno della croce6. Per i cristiani, il suo significato è a tal punto fondamentale e pieno di mistero, che i Padri hanno sviluppato a questo proposito tutto un insieme di interpretazioni tipologiche e simboliche, riassumibili nella formula «economia del legno».
«L’economia del legno» Per metonimia, il «legno» designa piuttosto spesso negli scritti dei Padri la croce di Cristo. Ireneo parla dell’«economia del legno»7. Con «economia», il vescovo di Lione intende il disegno di Dio riguardo l’uomo, poiché questo disegno include la croce di Cristo. Insomma, con un’associazione per noi alquanto sorprendente, ogni volta che nell’Antico Testamento un oggetto di legno ha assunto una certa importanza, questo legno è stato interpretato come una prefigurazione di quello della croce. Citiamo alcuni esempi: l’albero del paradiso, il legno dell’arca di Noè, il bastone di Mosè, l’aratro, l’albero della nave, ecc. 36
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Nella cultura biblica il nome riveste una grande importanza, perché partecipa in qualche modo dell’essenza stessa della persona che designa. Dare un nome a un essere, equivale a prenderne possesso, esercitare un potere su di lui. È il motivo per cui non si doveva pronunciare il nome di Yahweh, ma utilizzare termini metaforici come «l’Altissimo». Non è così per gli esseri umani; nondimeno, più che un semplice appellativo, il nome è tutt’uno con la persona. Per limitarci al Nuovo Testamento, quando Gesù cambia il nome di Simone in Kephas, Pietro, è per esprimere il senso della missione che gli affida: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Il nome attribuito non ha solo un valore simbolico, ma anche profetico. Quello dato a Gesù bambino, in ebraico Yeshua, significa «Yahweh salva». È tutto in queste parole: egli sarà il Salvatore. Per questo motivo, i nomi dati a Cristo hanno una grande importanza agli occhi dei Padri. Secondo Giustino, ad esempio, i nomi di Cristo sono stati anticipati dai profeti; egli scrive che Cristo «è colui che a volte è chiamato angelo della grande volontà e che Ezechiele chiama uomo e Daniele come figlio d’uomo, che Isaia chiama bambino e Davide Cristo e Dio adorabile e pietra e che Salomome chiama sapienza, Mosè Giuseppe, Giuda e stella, Zaccaria oriente, ancora Isaia sofferente, Giacobbe e Israele e che è chiamato anche bastone, fiore, pietra angolare e Figlio di Dio»8. Per accostarsi al mistero della persona di Cristo, i cristiani lo designeranno anche con un certo numero di immagini e di simboli, alcuni dei quali saranno tratti dalla cultura collettiva, allo scopo di rendere più accessibile ai loro contemporanei il significato della sua persona e della sua opera di salvezza. Ne indicheremo i principali. Il Cristo Pastore Per le ragioni sopra citate, Cristo non è rappresentato attraverso un ritratto, un’immagine che si ritiene riproduca i suoi tratti, ma mediante una figura simbolica. Le più note sono quelle del Buon Pastore e dell’Agnello. Tra le sole pitture catacombali, se ne contano centoquattordici del Buon Pastore, ossia il doppio della figura di Giona, che occupa il secondo posto nella statistica elaborata da Mons. Martimort. La rappresentazione del Buon Pastore, così popolare tra i primi cristiani, trae origine dall’unione di due influenze, biblica e pagana. La fonte originaria è la metafora utilizzata da Gesù stesso: «Io sono il Buon Pastore», in Giovanni 10,11, come pure la parabola del pastore partito alla ricerca della pecorella smarrita: «Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento» (Luca 15,3-7). Per i Padri, come Ireneo, «la pecorella smarrita era l’uomo» (Esposizione della predicazione apostolica, § 33). Sullo sfondo, non si può trascurare la tradizione biblica. Questa vede nel pastore che guida il suo gregge l’immagine di Dio che guida il suo popolo (Salmi 23; Isaia 40,11). Essa si adatta quindi al suo rappresentante, il re d’Israele, come pure al futuro re messianico: «Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al
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1. Pastore crioforo (recante un ariete sulle spalle) simbolo del Buon Pastore, III secolo, catacomba di Priscilla, Roma. 2. Cristo Buon Pastore e le sue pecore; il capo circondato da un nimbo dorato, tiene la croce della vittoria mentre carezza una pecora: «Io sono il Buon Pastore» (Giovanni 10,11); mosaico, V secolo, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna.
pascolo, sarà il loro pastore» (Ezechiele 34,23). La metafora si adattava dunque particolarmente a Cristo. L’immagine del pastore abbonda pertanto nella letteratura patristica. Quando i primi artisti cristiani vollero rappresentarla, trassero naturalmente ispirazione dalle scene pastorali che si trovavano nelle pitture romane e, in particolare, dalla rappresentazione di Hermes con le sembianze di pastore crioforo, cioè di pastore che porta sulle spalle un ariete. Presso i Romani, le scene pastorali rappresentavano l’armonia del mondo e la felicità dei beati nell’aldilà. Il vantaggio di questo prestito era evidente in tempo di persecuzioni: l’immagine aveva significato cristiano solo per gli iniziati. Com’è ovvio, essa trovava una collocazione privilegiata nelle catacombe, che sono cimiteri, e ugualmente sui sarcofagi, poiché il Cristo Buon Pastore era colui che portava la salvezza e procurava la vita eterna ai defunti («il buon pastore offre la vita per le pecore», Giovanni 10,11). Una delle più belle raffigurazioni si trova a Ravenna nel mausoleo di Galla Placidia. Essa ci fa pensare al «Pastore grande delle pecore» del-
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la lettera agli Ebrei (13,20). Allo stesso modo, nella cultura coeva, sui sarcofagi pagani con scene mitologiche del II e III secolo, il pastore crioforo simboleggia la felicitas, vale a dire la vita beata nell’aldilà. Nell’immagine del pastore si cela quella del Cristo Salvatore. Spesso presente sui soffitti delle catacombe all’interno di una cornice paradisiaca, essa evoca la vita eterna e, contemplandola, ogni battezzato può identificarsi nella pecora salvata. In sintesi, il pastore è l’immagine dell’umanità di Dio rivelata in Gesù, della sua «filantropia»9. Talvolta la simbologia cristiana del Buon Pastore si arricchisce della figura di Orfeo che incanta gli animali, immagine della pace edenica nella nuova creazione compiuta da Cristo. 3
3. Orfeo che incanta gli animali, parte di pisside intagliata in altorilievo su zanna d’elefante, fine V-inizio VI secolo, Museo del Bargello, Firenze. Si tratta di un arredo liturgico in cui viene ripresa una scena mitologica «cristianizzandone» l’interpretazione. 4. Il Buon Pastore nei panni di Orfeo con la cetra, pittura murale, IV secolo, catacomba di Domitilla, Roma.
Il Cristo Orfeo Il mito di Orfeo, poeta, cantore e musico ispirato, era molto popolare nell’Impero all’epoca delle origini del cristianesimo. L’orfismo era una delle religioni di salvezza che prosperavano a quel tempo. L’ispirazione dualista la rendeva affine a una vasta corrente filosofica rappresentata dal pitagorismo, il platonismo, il neopitagorismo e il neoplatonismo. La scena che rappresenta Orfeo nell’atto di incantare gli animali con la propria musica si ritrova in ogni parte dell’Impero, nelle pitture, nei mosaici, ecc. Questa grande diffusione popolare spiega la sua paradossale presenza nella cultura ebraica. In effetti, si è scoperto un mosaico con questo soggetto in una sinagoga di Gerusalemme e un altro in una sinagoga di Gaza; quest’ultimo reca una scritta in ebraico che paragona il musico trace a Davide, anch’egli suonatore d’arpa. I primi cristiani sono stati sedotti a loro volta da quest’immagine bucolica che simboleggia l’armonia edenica tra l’uomo e gli animali. Il Buon Pastore cristiano venne così rappresentato talvolta con le sembianze di Orfeo. Clemente Alessandrino vi scorge un simbolo del Cristo
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che attira a sé tutti gli uomini e li conduce alla verità attaverso la seduzione della parola divina. È anche probabile che il racconto assai popolare della discesa di Orfeo nell’Ade, allo scopo di farne uscire la sposa Euridice, morta in seguito al morso di un serpente, favorisse il suo accostamento alla discesa di Cristo nell’Ade al fine di farne risalire Adamo e tutti i giusti. Il Cristo Orfeo diventa così una delle immagini simboliche della salvezza.
Il Cristo Agnello L’agnello come segno emblematico di Cristo trae origine unicamente dalla Bibbia, a differenza dell’immagine del Buon Pastore. La fonte principale è costituita dalla metafora utilizzata da Giovanni Battista per designare Gesù come il Messia: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo» (Giovanni 1,29). La metafora verrà sviluppata nella tradizione giovannea, a cominciare dall’Apocalisse, di cui è il quarto «segno»: «Poi guardai ed ecco l’Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo» (Apocalisse 14,1). Poiché si tratta chiaramente dell’«Agnello immolato» (Apocalisse 13,8), la metafora rinvia al significato dell’agnello pasquale, sullo sfondo del racconto dell’esodo e del sacrificio rituale della Pasqua ebraica (Esodo 12,1-14). Per cogliere meglio l’importanza della metafora cristica dell’agnello pasquale, non si dimenticherà che il Vangelo di Giovanni colloca la morte di Cristo sulla croce nel giorno della vigilia di Pasqua, nel momento in cui si immolavano gli agnelli
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1. L’Agnello cristico in piedi sul monte Sion, IV secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. Secondo il «quarto segno» dell’Apocalisse: «Poi guardai ed ecco l’Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo» (Apocalisse 14,1). 2. Il Buon Pastore nei panni di Orfeo con la cetra che conduce la pecorella smarrita, mosaico pavimentale, Aquileia.
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3. L’Agnello benedice sette ceste di pane, secolo, catacomba di Commodilla, Roma. Allusione alla moltiplicazione dei pani e all’eucaristia; l’agnello simboleggia Cristo secondo la designazione di Giovanni Battista: «Ecco l’agnello di Dio» (Giovanni 1,29). IV
4. Mosaico con pesci, simbolo dei nuovi battezzati, piscina battesimale, Cuicul (Djemila), Algeria. Il termine piscina designa una vasca in cui vivono pesci (piscis), da cui deriva l’accostamento simbolico alla piscina battesimale: «Noi, piccoli pesci, che prendiamo il nome dal nostro Ichthys, Gesù Cristo, nasciamo nell’acqua» (Tertulliano, Il Battesimo, 1,3).
nel Tempio per la cena pasquale (Giovanni 19,31). La simbologia giovannea che riguarda questo punto si riconnette a quella di san Paolo: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato» (1 Corinzi 5,7). Non sorprende, quindi, che l’Agnello cristico occupi un posto importante nella letteratura e nell’iconografia paleocristiane. Ireneo scrive che «Dio salvò i figli d’Israele dallo sterminio, rivelando loro simbolicamente la passione di Cristo, tramite il sacrificio di un agnello senza difetto». Come scriveva anche sant’Ambrogio, l’agnello è «il simbolo del Verbo divino». O ancora Giustino, nel suo dialogo con l’ebreo Trifone: «Il mistero dell’agnello, che Dio comandò di immolare come pasqua, era figura di Cristo, col sangue del quale (...) coloro che credono in lui ungono le loro case, cioè se stessi»10. Ricordiamo ancora che le rappresentazioni artistiche si ispirano a testi scritturali e riflettono l’insegnamento catechetico. A titolo d’esempio, gli scavi condotti sul sito della Cartagine cristiana hanno portato alla luce una lucerna recante l’emblema dell’Agnello sormontato da un chrismon, che illustra il messaggio dell’Apocalisse: la Gerusalemme celeste non è illuminata dal sole, perché «l’Agnello è la sua lampada». Ci si riconnette in tal modo al tema ricorrente di Cristo «luce del mondo». A proposito di questo emblema cristico, così diffuso nell’arte cristiana primitiva, conviene ricordare la decisione del concilio di Costantinopoli, detto In Trullo (691-692), che stabilisce (canone 82) che la rappresentazione simbolica di Cristo sotto forma di agnello debba essere sostituita da una raffigurazione in forma umana. Il decreto conciliare sorprende, perché sembra minimizzare il fondamento biblico dell’emblema. È tuttavia motivato da un’evoluzione all’interno della Chiesa che riguarda la concezione delle rappresentazioni. In precedenza, le autorità ecclesiastiche privilegiavano i simboli astratti, metaforici o allegorici, con una certa diffidenza per le raffigurazioni antropomorfiche. Questo concilio testimonia dunque un cambiamento che si è verificato grazie allo sviluppo della teologia dell’incarnazione. Dio si è fatto uomo, si è rivelato con sembianze umane in Gesù di Nazaret. Pertanto, le rappresentazioni, senza perdere il loro carattere simbolico, ne assumono uno più storico, più preoccupato dell’aspetto concreto dei racconti evangelici. È in questo che le rappresentazioni antropomorfiche di Cristo trovano giustificazione. Il Cristo Ichthys
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Il pesce, che vive nell’acqua, è associato alla simbologia dell’acqua generatrice di vita. All’inizio, i cristiani hanno mantenuto la pratica di battezzare nell’«acqua viva», come faceva Giovanni Battista, vale a dire in un’acqua che scorre, un fiume, una fonte o addirittura il mare. Il cristiano, che nasce dall’acqua battesimale, verrà paragonato in maniera piuttosto naturale a un pesce. Ci si rifaceva così alla parola di Gesù che reclutava Simone e Andrea, pescatori di professione, per farne suoi discepoli: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini» (Matteo 4,18-19). In greco «pesce» si dice ichthys (icquv"). Non si sa chi abbia avuto l’idea di comporre un acrostico con le cinque lettere della parola, facendone le iniziali di una formula che esprime la fede cristiana: Iesous Christos, Theou Yios, I SIMBOLI DI CRISTO
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Soter, che significa «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore». Agostino riferisce di aver visto un testo greco della Sibilla di Eritrea (anche detta di Cuma) che conteneva questo acrostico. Ne cita una versione latina, poi conclude con queste parole: «Pesce, un nome che esprime in senso spirituale Cristo, in quanto soltanto Lui può mantenersi vivo, cioè senza peccato, al fondo di questa condizione mortale, come nella profondità delle acque»11. L’Ichthys ebbe un successo considerevole. Il pesce divenne il simbolo di Cristo e dei cristiani. In una cultura in cui il greco era la lingua internazionale e in un clima di persecuzione latente, questo simbolo consentiva di esprimere segretamente la fede cristiana, essendo un segno di riconoscimento tra i fedeli. All’inizio dell’opera Il battesimo, Tertulliano riprende questa immagine significativa, nota ai suoi lettori: «Noi, piccoli pesci, che prendiamo il nome dal nostro Ichthys, Gesù Cristo, nasciamo nell’acqua [del battesimo] e solo rimanendo in essa siamo salvati» (I,1). Questo simbolo è illustrato nelle piscine battesimali d’Africa, il cui rivestimento in mosaico raffigura dei pesci. Scoperta ad Autun, in Gallia, l’iscrizione in greco di un certo Pectorios comincia con queste parole: «Stirpe divina del celeste Ichthys, conserva un cuore santo, tu che ricevi tra i mortali [la fonte] immortale dell’acqua divina». Datata alla prima metà del III secolo, questa iscrizione testimonia anche in Gallia l’antichità del simbolo. Nell’arte paleocristiana il simbolo del pesce è frequente (catacombe, sarcofagi, mosaici). Il pesce viene rappresentato su numerosi oggetti, come gioielli, vasi. Si conoscono lucerne a forma di pesce. Il Cristo Ichthys è sempre simbolo di vita eterna. È in questo senso che va interpretata l’iscrizione ICHTHYS ZONTON, «pesce dei viventi». La stessa parola si trova anche nell’abside di S. Apollinare in Classe a Ravenna, sopra una croce gemmata che reca in basso la formula esplicativa in latino SALUS MUNDI, «salvezza del mondo». Il Cristo Helios
1. L’«Ichthys dei viventi», Museo delle Terme, Roma. La formula designa Cristo che procura la vita eterna ai fedeli. Ichthys, «pesce» in greco, corrisponde alle iniziali delle parole greche che significano «Gesù, Cristo, Figlio di Dio, Salvatore». 2. Il Cristo «filosofo», sarcofago di Concordio, Musée de l’Arles antique, Arles. L’insegnamento di Cristo, «la sola filosofia sicura e proficua» (Giustino). 3. Il Cristo «didascalo» (che insegna) tra gli apostoli, V secolo, cappella di S. Aquilino, basilica di S. Lorenzo Maggiore, Milano. «Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava» (Matteo 5,1-2). 4. Il Cristo «filosofo», sarcofago, Museo delle Terme, Roma.
Vedi più avanti il simbolo del sole (capitolo terzo, p. 86). Il Cristo filosofo e dottore e la tradizione della nuova Legge Secondo il IV Vangelo, Gesù accetta il titolo di «maestro» (didaskalos, traduzione greca dell’ebraico rabbi): «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono» (Giovanni 13,13). È un titolo che ricorre con frequenza negli scritti dei Padri. Gesù è presentato anche come filosofo. Per Giustino, martire e a sua volta filosofo, l’insegnamento di Cristo è «l’unica filosofia certa e proficua» (Dialogo con Trifone, 8). Cristo è didascalo (Giustino), pedagogo e insegnante (Clemente Alessandrino), doctor virtutis (Lattanzio), espressione che si potrebbe tradurre con «maestro di saggezza». Per Gregorio di Nissa, la filosofia rappresenta la vita secondo l’insegnamento di Cristo. Allo scopo di mostrare che la dottrina cristiana che egli professava era una filosofia – la vera – Tertullia42
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no aveva simbolicamente abbandonato la toga romana per il pallium, veste costituita da un pezzo di stoffa rettangolare di lana, che indossavano, tra gli altri, i filosofi. Terminava l’opuscolo sul pallium, in cui giustificava il suo cambiamento d’abito, con le parole non prive d’umorismo: «Rallegrati, pallium, esulta! Una filosofia migliore si degna ora di onorarti, perché hai iniziato ad essere l’abito del cristiano». Gesù che insegna, ruolo ben caratterizzato nei Vangeli, è quindi uno dei modi in cui viene rappresentato anticamente Cristo. Lo si vede spesso seduto in mezzo ai suoi discepoli, la mano destra levata a significare che sta parlando. Più significativo il fatto che egli porti nella mano sinistra un volumen (rotolo di pergamena) o un codex (libro), che rappresenta i Vangeli, cui è consegnato il suo insegnamento. Questa scena paradigmatica simboleggia l’annuncio della buona novella della salvezza di Cristo, che affida ai suoi discepoli la nuova Legge.
Il Cristo medico Poiché Gesù ha compiuto numerose guarigioni nel corso della sua vita, i primi cristiani hanno visto in lui il medico divino che guarisce non soltanto i corpi, ma 44
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1. Traditio legis, Cristo consegna a Pietro il rotolo della nuova Legge: il Vangelo, sarcofago, ca. 400, basilica di S. Ambrogio, Milano. 2. Cristo in piedi sulla montagna da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci con ai piedi quattro pecore, sarcofago detto «del Cristo dottore che consegna la Legge a Pietro» (particolare), ca. 400, Musée de l’Arles Antique, Arles.
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anche le anime malate dai loro peccati, come scrive Clemente Alessandrino: «Il buon Pedagogo, la sapienza, il Logos del Padre, il Creatore dell’uomo si prende pensiero di tutta quanta la creatura, e corpo e anima cura il medico che guarisce la natura umana»12. Per quanto riguarda le diverse guarigioni compiute da Gesù, agli occhi dei cristiani il miracolo è di per sé meno importante del suo significato. Queste, come gli altri miracoli, mostrano che Cristo ha un potere divino sulla creazione. «Il Dio che con una parola ha creato il mondo visibile, può dunque, con una parola, guarire da un’infermità», affermava Tertulliano13. Per Gesù, i miracoli vengono ad avvalorare il suo messaggio e indicano che l’era messianica ha avuto inizio. La sua risposta agli inviati del Battista, che gli domandavano se fosse o meno il Messia, è scevra da ogni ambiguità: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano (...), ai poveri è predicata la buona novella» (Matteo 11,4-5). L’interpretazione più diffusa nei primi secoli cristiani è quella che vede nelle guarigioni fisiche un segno della remissione dei peccati che infettano l’anima. I catecumeni sono tal-
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3. Guarigione del paralitico di Cafarnao, mosaico, VI secolo, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna. «È lui la medicina che guarisce tutti i mali dell’umanità» (Clemente Alessandrino). 4. Guarigione del cieco e resurrezione di Lazzaro, lipsanoteca, IV secolo, Museo Civico Cristiano, Brescia.
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volta presentati come malati che il bagno battesimale guarirà dai loro peccati, per farne delle creature nuove, risanate e sante. Come Cirillo di Gerusalemme insegnava ai suoi catecumeni, il battesimo è la terapia per mezzo della quale si ottiene la guarigione morale. Dopo aver spiegato che il nome di «Gesù equivale a ‘Salvatore’ secondo gli ebrei, ma a ‘medico’ secondo la lingua greca», aggiunge: «infatti, egli è medico delle anime e dei corpi e guaritore degli spiriti (...) Se dunque un’anima giace malata nei peccati, possiede il medico»14. È in questo senso spirituale che bisogna interpretare, nell’arte cristiana primitiva, le rappresentazioni delle guarigioni riportate nei Vangeli. Si può citare, a titolo d’esempio, la guarigione del paralitico, quella dell’emorroissa e quella del cieco. 46
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1. Guarigione dell’emorroissa, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. «Gesù andava attorno per tutta la Galilea (...), curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo» (Matteo 4,23).
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Il Cristo re del mondo È noto che l’appellativo di «Cristo» è la traduzione greca dell’ebraico «Messia», che significa «unto», e designa in particolare il re di Israele, colui che ha ricevuto l’unzione reale. Per i cristiani, Cristo non è solo il Salvatore del mondo, ma il suo Signore; più esattamente, egli ha potuto salvare il mondo perché esercita una sovranità universale «fin dalla creazione del mondo». Il suo trionfo sulla morte ha reso manifesto il suo dominio universale. Abbiamo visto in precedenza che la croce ne è divenuta il segno, «il trofeo». Come diceva Ireneo: «Questa croce è la sua sovranità, ovvero il segno della sua regalità»15. Questa sovranità è rappresentata, dopo Costantino, dalla cosiddetta figura del «Cristo in maestà». Questo tipo di rappresentazione ha certo subito l’influenza del modello imperiale, ma la sua giustificazione fondamentale poggia sulla fede nella sovranità di
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2-3-4. Mamhoud Zibawi parla di arte «copto-bizantina» riferendosi ai famosi affreschi di absidi rinvenute in Egitto a Bawit e Saqqara (V-VII secolo). Caratteristica frequente in varie absidi è la rappresentazione nella parte superiore di «Cristo in trono» fra gli angeli. Nella parte inferiore è frequente la Madonna con gli Apostoli. 2) Ricostruzione di un’abside di Bawit, cappella XVII; 3) Affresco proveniente da Saqqara, cella 709, Museo Copto del Cairo Vecchio; 4) Affresco, cappella VI, monastero di S. Apollo a Bawit, Museo Copto del Cairo Vecchio. 4
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Cristo, che non è politica, ma cosmica. Come afferma molto appropriatamente Cirillo di Gerusalemme: «Egli è in primo luogo Creatore, poi Signore. Ha creato dapprima tutto per volontà del Padre, quindi esercita la sua signoria su ciò che esiste per suo tramite»16. La maniera più comune di rappresentare la maestà di Cristo è quella di mostrarlo assiso su un trono. Sin dalla più alta Antichità, in numerose civiltà il trono è un seggio particolare, destinato a capi, re e imperatori. Per rendere manifesta la loro posizione al di sopra degli uomini comuni, il trono era sopraelevato in modo da dominare gli astanti. Esso è di per sé l’emblema dell’autorità suprema. Le divinità principali come Apollo o Zeus erano talvolta rappresentate assise su un trono. Vi sedeva il re anche all’epoca della monarchia ebraica. Per analogia, si diceva che Dio, il padrone del mondo, avesse il suo trono in cielo. Gesù annuncia che, al momento del giudizio finale, «il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria», e che gli apostoli saranno assisi «su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele» (Matteo 19,28; vedi Giovanni 25,31). In una delle visioni dell’Apocalisse compare «il trono dell’Agnello» (7,9-17). A ciò si deve il fatto che, nell’iconografia cristiana, Cristo è spesso rappresentato assiso su un trono.
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Il trono vuoto: l’etimasia A partire dal V secolo si rappresenta curiosamente un trono vuoto. In realtà, è vuoto della presenza visibile di Cristo, sebbene Cristo resti misteriosamente presente nella sua Chiesa. Questa presenza sarà simboleggiata sul trono vuoto dai suoi emblemi: la croce, la corona, il libro dei Vangeli, ecc., definiti insigna Christi. Ciò rappresenta la trasposizione nell’arte figurativa di quanto avveniva nei concili. Gli storici del concilio di Efeso e del secondo concilio di Nicea riferiscono che al centro dell’assemblea dei vescovi era stato installato un trono su 48
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1. Cristo in maestà assiso su un trono, IV secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. «Il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria» (Matteo 19,28). 2. Cristo in trono tra Pietro e Paolo, avorio, dittico di Berlino (anta destra), VI secolo, Staatliche Museen, Berlino.
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3. «Etimasia»: trono col rotolo dei Vangeli al posto di Cristo, cappella di S. Prisca, S. Maria Capua Vetere. Indica la continuità della parola di Cristo nel tempo della Chiesa. 4. «Etimasia»: il trono all’interno di un cerchio con il rotolo dei Vangeli, sormontato dalla croce gemmata; ai lati Pietro e Paolo, al di sopra i simboli degli evangelisti, mosaico, arco trionfale (primo registro), S. Maria Maggiore, Roma.
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La mano divina La mano come simbolo è già presente nelle grotte preistoriche, ma non se ne conosce l’esatto significato. Quella frequentemente raffigurata nelle pitture paleocristiane a partire dal IV secolo, trae il suo significato dalla Bibbia. La mano di Dio è simbolo del suo potere: «Io mostrerò loro (...) la mia mano e la mia forza» (Geremia 16,21), ma anche del suo amore: «Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio» (Sapienza 3,1). Quando la Scrittura dice che «la mano di Dio» è con qualcuno, significa che questi riceve la forza di Dio e l’ispirazione del suo Spirito: «La mano del Signore stava con lui [Giovanni Battista]» (Luca 1,66; cf. 1 Re 18,46). L’immagine passò senza difficoltà negli scritti cristiani. Viene usata soprattutto da Ireneo, che si ispira al secondo racconto della creazione dell’uomo (Genesi 2,7), secondo il quale il Creatore ha modellato l’uomo come avrebbe fatto un vasaio. Questa metafora gli dà modo di affermare che le due mani del vasaio divino sono il Figlio e lo Spirito, «cui ha detto: ‘Facciamo l’Uomo’»17. Nell’arte cristiana la mano divina può simboleggiare il Padre, il Figlio o lo Spirito Santo, a seconda dei casi. Nell’abside di S. Apollinare in Classe 50
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1. Trasfigurazione simbolica, VI secolo, basilica di S. Apollinare in Classe, Ravenna. La trasfigurazione di Gesù annuncia la sua filiazione divina e la sua resurrezione gloriosa, indicata qui dalla croce gemmata sul fondo del cielo stellato. In alto, a sinistra, Mosè e, a destra, Elia, i profeti che assistono alla teofania; in basso, tre pecore che rappresentano i tre apostoli testimoni della scena; infine, nella parte superiore, la mano del Padre che esce dalle nuvole a rappresentare la voce udita: «Questi è il Figlio mio prediletto» (Marco 9,7). 2. Mano divina recante la corona di gloria per la martire sant’Agnese, mosaico absidale (parte superiore), VII secolo, basilica di S. Agnese fuori le mura, Roma.
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a Ravenna, la trasfigurazione simbolica di Cristo è sormontata da una mano che scende dal cielo, rappresentante la manifestazione del Padre, la cui voce affermò: «Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo» (Marco 9,7). Nel battistero di S. Giovanni in Fonte, la mano del Padre, circondata dalla corona di gloria, sovrasta la croce monogrammatica su uno sfondo celeste stellato (→ Monogramma). In S. Agnese fuori le mura, la mano divina pone la corona di gloria al di sopra della martire sant’Agnese. Nel cosiddetto Vangelo di Rabula, la mano aperta che si distacca dal carro divino che conduce il Signore in cielo simboleggia il dono dello Spirito alla Chiesa, prefigurante la Pentecoste, la cui scena è appunto rappresentata proprio al di sotto della mano. Talvolta, la mano divina rappresenta Cristo, come nel caso di una croce di Ravenna dove, posta al centro, è affiancata dall’alpha e dall’omega. Stesso significato ha la mano che accarezza la testa di una pecora su un sarcofago del V secolo. Ireneo affermava: «La mano è il Figlio di Dio». 52
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1. Ascensione, Vangelo detto «di Rabula», fine VI secolo, Biblioteca Laurenziana, Firenze. Dal carro divino si distacca la mano divina aperta che sprigiona fiamme (segno del dono dello Spirito) al di sopra della scena della Pentecoste.
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CAPITOLO SECONDO
SIMBOLISMO LETTERE, NUMERI FIGURE GEOMETRICHE IL
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2. Le due forme scritte della lettera ebraica taw (+ o ×), «Il segno del Signore».
E DELLE
IL SIMBOLISMO DELLE LETTERE La taw ebraica, il «segno» del Signore La lettera taw è l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico; corrisponde alla greca tau e alla nostra t. Queste due lettere non occupano l’ultimo posto nel nostro alfabeto o in quello greco, differenza non priva di importanza sul piano simbolico, come avremo modo di vedere. Nella simbologia ebraica la lettera taw designa Dio, sostituisce il suo «nome», che non si può pronunciare perché è «incomunicabile» (Sapienza 14,21). Essa veniva scritta molto semplicemente con il segno + o con il ×, facili da tracciare, come si riscontra nelle iscrizioni ebraiche antiche, ad esempio negli ossuari palestinesi. Queste precisazioni consentono di comprendere il testo fondamentale del profeta Ezechiele, che servirà da riferimento per l’utilizzazione del simbolo. Si tratta di un passo che annuncia il giorno del Signore, il tempo del giudizio finale che sarà terribile per i peccatori e in particolare per Gerusalemme. Il castigo risparmierà solo i giusti, vale a dire coloro che appartengono a Dio, per la precisione quelli che portano il suo segno, il suo «nome». Ecco la visione descritta dal profeta: «La gloria del Dio di Israele, dal cherubino sul quale si posava, si alzò verso la soglia del tempio e chiamò l’uomo vestito di lino [un angelo] che aveva al fianco la borsa da scriba. Il Signore gli disse: ‘Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un taw [un segno a forma di + o di ×] sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono’». Poi il Signore ordinò agli altri sei «uomini» (angeli) di massacrare tutti gli abitanti, ad eccezione di quelli che portavano il segno: «Non toccate chi abbia il taw in fronte» (Ezechiele 9,3-6)1. La traduzione letterale permette di evidenziare il senso simbolico della taw che, per la ragione sopracitata, non può essere reso in greco. Questo perché la versione greca, detta dei Settanta, sostituisce la taw con la parola astratta semeion, «segno», che non esprime appieno il significato del simbolo ebraico. Infatti, occorre sottolinearlo, nel passo di Ezechiele appena citato, non si parla di un semplice segno convenzionale di identificazione, di riconoscimento, ma del nome stesso di Dio, portato da quelli che l’hanno ricevuto. Si tratta di un «sigillo», un segno che indica che essi appartengono a Dio e che, ancora più profondamente, partecipano dell’essere stesso di Dio: ne possiedono il carattere sacro. In senso più ampio, essi sono il popolo di Dio, un popolo consacrato. Si intuisce nel testo profetico un richiamo all’Esodo, al segno fatto col sangue sugli architravi e gli stipiti delle porte delle case abitate dagli ebrei in Egitto, segno che li risparmierà dal massacro (Esodo 12,21,30). In breve, questo è il segno di coloro che sono salvati. Tale è la portata del «segno» di Ezechiele e l’importanza profetica che esso rivestirà per i cristiani. LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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L’autore dell’Apocalisse si ispira chiaramente al capitolo 7, versetti 3 e 4, e al capitolo 14, versetto 1, del testo di Ezechiele. Inoltre, poiché conosce bene la simbologia ebraica, egli sostituirà la taw, l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, con l’ultima lettera di quello greco, l’omega, per designare Dio e il suo Messia: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine» (Apocalisse 1,8 e 21,6). In ebraico si direbbe: «Io sono l’aleph e la taw». Insomma, l’autore stabilisce un nesso logico tra il segno simbolico sulla fronte e la metafora del «sigillo» che imprime il segno di Dio sulla fronte degli eletti (Apocalisse 7,2). Secondo la tradizione giovannea, lo stesso Gesù si era servito di questo simbolo. In effetti, nel suo discorso sul pane della vita, egli dice del Figlio dell’uomo – un modo per alludere a se stesso –, che «su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo» (Giovanni 6,27), cioè che il Padre ha autorizzato la sua missione. A giudicare dal contesto, si tratta evidentemente dello Spirito che, dopo il suo battesimo nel Giordano, è disceso su di lui. È proprio in questo modo che Dio lo ha riconosciuto, per così dire «ufficialmente», come il Messia atteso. Ma il significato della metafora è ancora più profondo. Il Padre lo ha segnato col suo sigillo: egli porta il suo «nome», che si identifica col suo stesso essere. Mediante questa formula, l’evangelista vuole certamente indicare il carattere divino di Gesù, come scrive nella conclusione del suo Vangelo: «Questi [segni] sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo [Messia], il Figlio di Dio» (Giovanni 20,31). Infine, ciò va messo in relazione con la formula «Io sono», fatta pronunciare a Gesù, che evoca evidentemente il nome di Yahweh (Giovanni 8,28,58 e 13,19). Abbiamo dunque delineato il contesto culturale ebraico del segno sulla fronte, associato alla metafora del sigillo, che nel cristianesimo antico acquisì un’importanza considerevole. A ciò occorre aggiungere l’universalità dell’impiego del sigillo nelle civiltà dell’Antichità e, di conseguenza, il suo uso metaforico (in
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1. Croce greca, «segno del Signore», inscritta in un cerchio, sarcofago, cappella funeraria del complesso religioso del Seraya, Qanawat (Canatha), Siria. 2. Croce greca contornata da grappoli d’uva e iscrizione, architrave della porta occidentale della chiesa di S. Giorgio a Ezra (Zorava), Hauran, dedicata nel 515; si fa diretto riferimento al tempio pagano che sorgeva nell’area: «Da dimora dei demoni, è diventata la casa di Dio». 3. Pastore circondato da pecore, simboleggiante Cristo e i battezzati, affresco, III secolo, cimitero Maggiore, Roma. «Io sono il Buon Pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Giovanni 10,14).
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greco sphragis, in latino signum, sigillum, signaculum). Questo piccolo oggetto di pietra fine (di metallo, avorio, ecc.) recava il nome del suo proprietario o il suo emblema. Ogni cittadino di condizione agiata possedeva un proprio sigillo. La sua impronta serviva da firma in fondo ai documenti scritti. Con la parola sigillo si intende anche il marchio che si imprime su un animale per indicare il nome del suo proprietario. Questo termine, in latino signaculum, designa inoltre il marchio (sorta di tatuaggio sulla mano o sul braccio) che ogni soldato romano portava per attestare il giuramento (sacramentum) prestato al proprio generale. Bisogna aver presente questa complessa simbologia per comprendere a fondo il significato del rito battesimale del segno della croce sulla fronte, che verrà spesso chiamato «sigillo» e che, in maniera lievemente esoterica, comincerà a designare il battesimo stesso. Questo segno della croce sulla fronte si tracciava col pollice in forma di taw ebraica (+ o ×), come abbiamo spiegato in precedenza. Tale pratica risale probabilmente ai cristiani provenienti dal giudaismo, che interpretavano questo segno come il «nome» del Padre, vale a dire il Figlio, la parola di Dio incarnata2. Questo significato sfuggiva ai cristiani di lingua greca, che divennero in poco tempo i più numerosi; essi interpretavano dunque il + come il segno della croce (croce greca) e il × come l’iniziale di Cristov" (Cristo). In ambito greco e latino, questo segno poteva assumere la forma di una croce potenziata, rappresentata dalla lettera tau maiuscola (T). Ne dà testimonianza Tertulliano: «La lettera greca tau, che equivale alla nostra ‘T’, ha la forma di una croce. [Ezechiele] profetizzava che essa avrebbe segnato le nostre fronti nella Gerusalemme vera e cattolica, dove i fratelli di Cristo, i figli di Dio, avrebbero reso gloria a Dio»3. Abbiamo esposto in tutta la loro complessità questi aspetti della simbologia del sigillo, poiché spesso essa sfugge ai nostri contemporanei, mentre per i cristiani della Chiesa antica, era dotata del potere di evocare il loro nuovo stato di battezzati, di salvati da Gesù Cristo. Tra le molteplici attestazioni letterarie, riportiamo, a titolo d’esempio, le citazioni che seguono. «Finché l’uomo non porta il nome del Figlio di Dio, è morto; ma ricevendone il sigillo, si spoglia della morte per vestire la vita. Ora, il sigillo è l’acqua [il battesimo]» (Erma, Il Pastore, similitudine IX,16); l’epitaffio di Abercio, vescovo di Hieropolis, evoca «il popolo che porta un fulgido sigillo»; Tertulliano parla del «sigillo del battesimo»; Cipriano, del «sigilllo del Signore»; Teodoro di Mopsuestia spiega al neo-battezzato, cui ha praticato il segno della croce rituale: «È il segno che sei stato ormai marchiato come pecora di Cristo». L’immagine del sigillo permetteva così di riallacciarsi al simbolo LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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del pastore, così caro ai cristiani dei primi secoli. È noto che nell’iconografia paleocristiana le pecore rappresentano i battezzati. Un sermone anonimo del V secolo esprime ciò con efficacia: attraverso il battesimo «l’uomo è posto sulle spalle di Cristo». Il gesto del segno della croce non compare esplicitamente nelle rappresentazioni del battesimo, che hanno sempre un identico assetto: fanno in particolar modo ricorso all’imposizione della mano destra sulla testa del battezzato. Si può ipotizzare che, di fronte a questa scena, il cristiano associasse al gesto dell’imposizione della mano quello del segno della croce, poiché nella catechesi e nella predicazione il battesimo era detto «il sigillo del Signore». 1
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1. Imposizione della mano destra sulla testa del battezzato, Storie di Cristo, seconda metà del IV secolo, cappella cristiana del complesso ospedaliero di S. Giovanni, Roma.
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2. Busto di Cristo con l’alpha e l’omega, che indica la divinità di Cristo, VI secolo, catacomba di Commodilla, Roma. «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine» (Apocalisse 21,6).
Il profeta Isaia, campione del monoteismo ebraico, fa dire a Yahweh: «Io sono il primo e io l’ultimo; fuori di me non vi sono dèi» (Isaia 44,6). L’immagine esprimeva la totalità del tempo, dall’inizio della creazione alla sua fine. Tutto era dominato da lui. L’autore dell’Apocalisse cita testualmente Isaia e vi aggiunge, rivolgendosi ai fedeli di cultura greca, una formula equivalente tratta dal simbolismo delle lettere. Poiché l’alpha e l’omega sono la prima e l’ultiLETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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ma lettera dell’alfabeto, egli fa dire al «Signore Dio»: «Io sono l’Alfa e l’Omega (...) Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente» (Apocalisse 1,8). Poi, nel momento della visione di Dio che presiede alla nuova creazione sul suo trono di gloria, Giovanni lo sente dichiarare: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose (...) Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine» (Apocalisse 21,5-6). Infine, nel capitolo 22 che conclude l’Apocalisse, Cristo stesso assume i titoli riservati in precedenza a Dio: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine» (Apocalisse 22,13). L’alpha e l’omega divenivano emblema di Cristo. Tertulliano ne ha dato un’interpretazione degna di nota: «Il Signore» scrive, «ha elevato due lettere greche, la prima e l’ultima, a figure del principio e della fine che convergono in lui, allo scopo di mostrare che, così come da A a W vi è evoluzione, e, al contrario, da W ad A involuzione, in lui risiedono nel medesimo tempo evoluzione dal principio alla fine e involuzione dalla fine al principio, di modo che tutto il piano divino sulla creazione, che termina in colui da cui ha avuto inizio, intendo dire il Verbo di Dio che si è fatto carne, termina necessariamente com’è cominciato»4. Poiché A e W sono segni facilmente riproducibili, li si ritroverà come cornice del monogramma di Cristo, sotto i bracci della croce, o come cornice del volto di Cristo. In ognuna di queste collocazioni essi identificano il Verbo incarnato. È soprattutto dopo il concilio di Nicea che si diffonde l’aggiunta dell’alpha e dell’omega al chrismon, alla croce o alla figura di Cristo, espediente simbolico per affermare la divinità di Cristo contro l’eresia ariana che la negava.
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1. Croce, detta «monogrammatica», perché forma le iniziali del nome Christos, affiancata a sinistra e a destra dall’alpha e l’omega; in basso, soldati a guardia del sepolcro del Risorto, sarcofago dell’anastasis (frammento), marmo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 2. La lettera greca zeta (Z) sulla veste di Cristo, VI secolo, basilica di S. Vitale, Ravenna. Questa lettera equivale al numero sette, simbolo della pienezza: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (Giovanni 1,16). O anche, lettera iniziale di Zoe, «Vita», indicante che nel Verbo di Dio «era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Giovanni 1,4).
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La zeta (Z) È la settima lettera dell’alfabeto greco antico. Ha conservato il valore del sette: numero equivalente al posto che occupa nella sequenza delle lettere. Nell’iconografia cristiana si trova ad esempio la zeta tracciata sulla veste di Cristo, sintesi, per così dire, di tutta la simbologia cristiana connessa al numero sette, cioè alla compiutezza (→ Sette). In questo caso, si potrebbe quindi interpretarla come l’iniziale del greco zoe, «vita», che designa Cristo, il Verbo di Dio in cui «era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Giovanni 1,4). LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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La hypsilon (Á) La hypsilon, lettera greca che ha dato origine alla nostra «Y», è detta «lettera di Pitagora», perché, secondo la sua scuola, essa simboleggiava la metafora delle «due vie»: la via del bene e quella del male. In effetti, la hypsilon (Á) con la sua grafia a due bracci rappresenta una biforcazione, l’incrocio di due vie, simbolo della scelta che ogni essere umano è chiamato a fare. Da un lato, il braccio di sinistra, talvolta tracciato con un tratto più largo, rappresenta la via del piacere, gioiosa, facile, in fondo alla quale l’uomo precipita nel baratro della perdizione; dall’altro, il braccio di destra simboleggia la via del dovere, dell’ascesi, ardua e faticosa, in cima alla quale l’uomo raggiunge il luogo dell’eterno riposo. Molti secoli dopo, san Girolamo (morto intorno al 420) testimonia la continuità e la popolarità di questo simbolo: «La lettera di Pitagora» scrive, «ti apre innanzi le due vie»5. L’importanza del simbolismo è indiscutibile. Si è riscontrata la presenza della hypsilon pitagorica su monumenti funerari antichi. Nel cristianesimo primitivo, si fece ampio ricorso alla metafora delle «due vie», come spiegheremo più avanti (→ Le due vie, p. 137). IL SIMBOLISMO DEI NUMERI La simbologia dei numeri gioca un ruolo non trascurabile nella cultura antica. L’influenza di Pitagora (VI secolo a.C.) e della sua scuola, che ne hanno formulato la teoria, fu considerevole. Secondo il loro pensiero, i numeri sono la chiave delle leggi dell’armonia cosmica e, di conseguenza, i simboli di un ordine divino universale. L’universo è un «cosmo», vale a dire un mondo armonioso. «Tutto è numero» e dunque traducibile in numeri. Nell’Antico Testamento, il libro della Sapienza esprime la stessa idea rivolgendosi a Dio: «Hai tutto disposto con misura, calcolo e peso» (11,20). Nel Nuovo Testamento, è soprattutto l’Apocalisse a far uso di numeri simbolici. I Padri ricorreranno alla simbologia dei numeri, ma con una certa moderazione, per reazione alle elucubrazioni degli gnostici. Ireneo di Lione ne formula il principio ricordando che Dio ha creato tutto «con proporzione e armonia». Di conseguenza, «bisogna connettere gli stessi numeri, così come le cose che sono state fatte, alla dottrina fondamentale della verità. Infatti, non è la dottrina che deriva dai numeri, ma sono i numeri che traggono origine dalla dottrina»6. In generale, si privilegiano i numeri simbolici che si trovano nella Bibbia, che rimane il punto di riferimento fondamentale. «Nessuno è così sciocco e insensato» sottolinea Agostino, «da osare affermare che i numeri che figurano nella Scrittura vi si trovino senza motivo e non possiedano un significato mistico»7. L’uno Dio è «l’uno primordiale», il principio primo dal quale procedono tutte le cose. È evidentemente il numero del monoteismo (in greco monos, «unico»). La metafisica dell’uno, particolarmente sviluppata nel neoplatonismo, ha esercitato un’influenza non trascurabile sulla teologia patristica. I Padri l’hanno associata al Dio unico della Bibbia, trascendente, immutabile e non rappresentabile. Questo spiega perché non si trovino rappresentazioni di Dio nell’iconografia paleocristiana, ma soltanto evocazioni, come la mano divina che simboleggia la presenza attiva di Dio nella creazione (→ Mano). 60
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1. I tre visitatori di Abramo, simbolo tradizionale della Trinità, basilica di S. Vitale, Ravenna. «Il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre (...) Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui» (Genesi 18,1-2).
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Il due Il due è il numero che esprime la dualità, la tensione, l’opposizione, la divisione del bene e del male. L’opposizione duale, trasposta sul piano ontologico, sarà il fondamento di tutte le dottrine dualiste, come il manicheismo e le diverse forme di gnosticismo. La parola «diavolo», formata dalla preposizione greca dia che significa «divisione in due», indica colui che si oppone a Dio e simboleggia la divisione. Egli è «l’avversario», «il nemico». Nella dualità maschilefemminile, due è anche il numero della donna; ciò conferisce una connotazione femminile a tutti i numeri pari. Il tre (Trinità) Conformemente all’adagio latino «Omne trinum est perfectum» («Ogni complesso di tre è cosa perfetta»), il numero tre è nel cristianesimo un simbolo tri1
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1. San Vittore (al centro) coi simboli dei quattro Evangelisti (tetramorfo) nei pennacchi, mosaico dorato, III secolo, cupola di S. Vittore in Ciel d’Oro, Milano.
nitario. I cristiani dell’Antichità non hanno cercato di rappresentare la Trinità. Quando vogliono evocare la presenza attiva delle persone divine, utilizzano simboli convenzionali: «la mano divina» per il Padre, la colomba per lo Spirito Santo. Oppure, interpretano la presenza dei tre visitatori misteriosi di Abramo alle Querce di Mamre come una prefigurazione profetica delle tre persone divine. Ma, anche in questo caso, si tratta di simboli, non di rappresentazioni (→ Abramo). È lo stesso per la raffigurazione della creazione di Adamo ed Eva che si trova, ad esempio, su due sarcofagi, dove il Padre è rappresentato assiso su un trono tra il Figlio e lo Spirito Santo (si tratta del sarcofago «dogmatico» dei Musei Vaticani e del sarcofago «degli sposi» del museo di Arles). Questa raffigurazione della scena della creazione illustra l’interpretazione trinitaria del misterioso plurale della Genesi: «Facciamo l’uomo a nostra immagine». Simbolici della Trinità per Teofilo di Antiochia anche i tre giorni che precedono la creazione del sole e della luna: «I tre giorni che precedono gli astri sono tipi della Trinità, di Dio, del suo Verbo e della sua sapienza». È soprattutto nella liturgia battesimale che la simbologia trinitaria è più evidente, con la tripla immersione nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e la professione di fede trinitaria che la accompagna. Il quattro La «tetrade», insieme di quattro elementi, era per i pitagorici simbolo di compiutezza e perfezione. Il numero quattro simboleggia la terra rappresentata sotto forma di quadrato. Esso indica le quattro fasi della luna, i quattro elementi (aria, fuoco, terra, acqua), i quattro punti cardinali, le quattro stagioni, i quattro venti, i quattro fiumi del paradiso, le quattro età dell’uomo, i quattro grandi profeti, i quattro evangelisti (→ Tetramorfo), ecc. Per gli ebrei, il quattro indica soprattutto le quattro lettere, «tetragramma», del nome di Yahweh in ebraico (YHWH), in greco Kyrios, Signore, nome attribuito anche a Cristo. Il tre e il quattro sommati danno il sette; moltiplicati, fanno dodici, numeri di rilevante valore simbolico presso i cristiani. Per Agostino, il numero tre si presta a designare l’anima, mentre il quattro concerne il corpo. Dunque, se li si somma o li si moltiplica, indicano l’unione dell’anima e del corpo, sia che si tratti dell’uomo che della Chiesa. «Tetramorfo», parola di origine greca che significa «quadriforme», è il termine usato da Ireneo di Lione per definire il Vangelo, che si presenta sotto la forma oggettiva dei quattro libri canonici. In seguito, egli applica questa cifra simbolica ai quattro cherubini che circondano il carro di Yahweh nel libro di Ezechiele – nei quali vede «le attività del Figlio di Dio» (cf. Ezechiele 1,6,10 e Apocalisse 4,7) – e infine ai quattro Vangeli «che corrispondono dunque a questi viventi sui quali siede Cristo Gesù»8. Più avanti, passando dai quattro Vangeli ai quattro evangelisti, san Girolamo svilupperà la metafora, attribuendo loro la forma dei 62
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quattro viventi dell’Apocalisse: «Il primo vivente era simile a un leone (Marco), il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello (Luca), il terzo vivente aveva l’aspetto d’uomo (Matteo), il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola (Giovanni)». D’ora in avanti, il tetramorfo designerà questa rappresentazione simbolica dei quattro evangelisti. Pare che le più antiche raffigurazioni si trovino in un evangeliario datato al 420 e conservato nel duomo di Milano, e in un mosaico del V secolo che decora l’abside della chiesa romana di S. Pudenziana (→ Chiesa), o ancora ai quattro angoli del cielo stellato del mausoleo di Galla Placidia (→ Croce). Il tetramorfo divenne rapidamente una figura simbolica classica. Il sei
1. Tetramorfo (particolare), mosaico absidale (410-417), S. Pudenziana, Roma. 2. Fonte battesimale esagonale, Cimiez, Nizza. I sei lati, che ricordano i sei giorni della creazione, evocano il battesimo come «nuova creazione».
Il sei è un numero perfetto ed è somma e prodotto dei primi tre numeri (1 + 2 + 3; 1 × 2 × 3). L’esagramma, detto anche «stella di Davide», designa la stella a sei punte, divenuta uno dei simboli del giudaismo. Con la parola hexaemeron si indica la creazione in sei giorni secondo la Genesi (1). Basandosi su un’interpretazione simbolica, secondo la quale per Dio un giorno è come mille anni (Salmi 118,73; Giobbe 10,8), alcuni autori della Chiesa primitiva hanno immaginato che la durata del mondo fosse di seimila anni. Così l’Epistola di Barnaba: «Dio ha compiuto la sua opera in sei giorni; questo significa che in seimila anni Dio porterà tutte le cose alla loro fine»9. Le opere di misericordia che serviranno da criterio al momento del giudizio finale sono sei (Matteo 25,35-36). Alcune piscine battesimali sono di forma esagonale: i sei lati, che ricordano i sei giorni della creazione, evocano la nuova creazione operata nel battezzato che diviene una «creatura nuova» in Cristo. LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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Il sette Il sette è un numero sacro in molte culture antiche. È uno dei numeri più significativi delle tradizioni ebraica e cristiana. Dio terminò l’opera della creazione in sei giorni e il settimo giorno si riposò. «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò» (Genesi 2,3). Conformemente a questo modello divino, l’uomo deve lavorare per sei giorni e riposarsi il settimo, detto appunto shabbat, «giorno del riposo» (Esodo 20,9-10). La stessa simbologia è presente nell’anno sabbatico, che ricorre ogni sette anni, così come nell’anno giubilare, sette volte sette anni. Il mese lunare, che conta 28 giorni (4 settimane di 7 giorni), è probabilmente l’origine e il fondamento di questa simbologia. In ogni caso, sembra proprio che nella simbologia biblica il sette sia un numero perfetto e sacro. Tra i numerosi esempi si possono citare: le sette colonne della sapienza (Proverbi 9,1), la menorah del Tempio, che era un candelabro a sette bracci, i sette pianeti e i sette giorni della settimana (vedi qui di seguito). Per il giudaismo il cielo si componeva di numerosi piani: vi si contavano sette cieli. L’autore dell’Apocalisse, il cui ricco simbolismo affonda le sue radici nel giudaismo, predilige in particolar modo questo numero mistico, che compare in tutta l’opera: i sette 1
1. La menorah, candelabro a sette bracci del Tempio di Gerusalemme, affresco, III secolo, sinagoga di Dura Europos, Museo di Damasco. Ireneo vede nella menorah un simbolo della Chiesa che «predica ovunque la verità: essa è il candelabro a sette lampade che porta la luce di Cristo». 2. La zeta sulla veste di Pietro, in piedi presso il trono sormontato dalla croce gloriosa, V secolo, battistero degli Ariani, Ravenna. Il numero sette (lettera zeta), simbolo di pienezza, indica forse i poteri attribuiti da Gesù al capo degli apostoli.
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sigilli del libro, i sette spiriti di Dio, le sette Chiese, le sette corna della bestia, le sette coppe dell’ira, ecc. Di conseguenza, nel cristianesimo il numero sette servirà a ordinare i doni dello Spirito, le virtù, i sacramenti, ecc. La simbologia del sette compare nel Vangelo di Matteo in relazione al perdono cristiano che deve essere illimitato. «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: ‘Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?’. E Gesù gli rispose: ‘Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette’» (Matteo 18,21-22). In precedenza, abbiamo mostrato che la lettera greca Z (zeta), corrispondente al numero sette, viene talvolta associata a Cristo per esprimere la ricca simbologia cristiana del sette e, in particolare, per indicare la misericordia infinita del Salvatore del mondo, sempre pronto a perdonare (→ Zeta). La si trova anche sulla veste di Pietro, perché egli ha dato origine alla parola di Gesù sul perdono. Alla simbologia del sette si riallaccia la menorah, il candelabro a sette bracci recante sette lumi, che si trovava nel Tempio di Gerusalemmme. «Farai le sette lampade del candelabro e le collocherai sopra in modo da illuminare lo spazio davanti ad esso» (Esodo 25,37). Il re Erode fece fabbricare una grande menorah in oro all’epoca della ricostruzione del Tempio. Essa fu sottratta dai Romani durante la presa di Gerusalemme e il saccheggio del Tempio. È raffigurata sull’arco di trionfo di Tito a Roma. Ireneo vede nella menorah un simbolo della Chiesa: «La Chiesa predica ovunque la verità: essa è il candelabro a sette lampade che porta la luce di Cristo». L’otto (ogdoade)
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3-4-5-6. Piante di battisteri paleocristiani del III secolo: 3) battistero di S. Giovanni ad Fontes, Milano; 4) battistero di Nevers; 5) battistero di Fréjus; 6) battistero di Marsiglia.
Se il sette esprime una certa compiutezza, l’otto si spinge ancora più avanti. Si potrebbe definirlo numero escatologico. È la cifra cristiana per eccellenza, perché la sua simbologia trae origine e fondamento dal giorno della resurrezione di Cristo, «l’ottavo giorno». Per suo tramite si è compiuto il passaggio dall’antica alla nuova alleanza, i tempi messianici hanno avuto inizio. Il Cristo glorioso pone le basi del regno di Dio che troverà compimento nell’ultimo giorno. Le otto beatitudini definiscono lo spirito della nuova era. L’autore dell’Epistola di Barnaba, commentando le Scritture, fa dire a Dio: «‘Mettendo fine all’universo, darò inizio all’ottavo giorno, vale a dire a un altro mondo’. Per questo motivo celebriamo con gioia l’ottavo giorno, nel quale Gesù è risorto» (§ 16). Di conseguenza, la domenica, dies dominicus, «giorno del Signore», sarà detta «ottavo giorno», appellativo che si sostituirà a solis dies, «giorno del sole». La simbologia dell’otto è talvolta chiamata dai Padri «ogdoade», «gruppo di otto». Essa rappresenta il mondo nuovo, nato dalla resurrezione di Cristo, e la dimora celeste dei beati, detta talvolta appunto «l’ottavo cielo». È in questo senso che bisogna intendere Origene quando parla del «mistero dell’ogdoade» e analogamente, dopo di lui, Ilario di Poitiers (sacramentum ogdoadis): è attraverso il battesimo che si resuscita con Cristo e si diventa cittadini del regno di Dio. Conformemente alla simbologia dell’otto, i cristiani edificheranno talvolta battisteri a pianta ottagonale (a otto lati) e con otto colonne all’interno, come il battistero Lateranense (→ Ottagono). LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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Il dieci Il dieci corrisponde alle dieci dita della mano, base del sistema decimale. È il risultato della somma dei primi quattro numeri (1 + 2 + 3 + 4 = 10). Esso esprime il tutto e l’uno, in altre parole l’unità del molteplice. Vi sono dieci comandamenti (il decalogo). Secondo Metodio di Olimpo (IV secolo), il numero 60, che contiene 6 volte 10, simboleggia Cristo, mentre il 1.000, 10 volte 100, designa il Padre. Quanto allo Spirito Santo, ha diritto al 200, il doppio di 100.
Il dodici 2
1. Battistero a pianta ottagonale, battistero di S. Giovanni in Laterano, Roma. Il simbolo dell’otto evoca la resurrezione. Il battezzato che riemerge dalla piscina è assimilato al Cristo resuscitato. 2. I dodici apostoli attorno alla croce gloriosa di Cristo, disegno di una delle ampolle di Gerusalemme, VI-VII secolo, Museo della Cattedrale, Monza.
Per chi legge i Vangeli, l’espressione «i Dodici» indica il gruppo dei dodici apostoli che Gesù ha scelto tra i suoi discepoli più stretti e che incaricherà di missioni particolari (Marco 3,13ss. e paralleli). Il numero dodici non è stato fissato per caso. Secondo Matteo e Luca, lo stesso Gesù ne ha indicato il valore simbolico quando ha parlato del giudizio finale: «In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (Matteo 19,28; Luca 22,30). Nel nuovo Israele rigenerato da Gesù, i dodici apostoli corrispondono dunque ai dodici patriarchi, capi delle dodici tribù dell’antico Israele. Tuttavia, differenza non trascurabile, il nuovo popolo di Dio non è fondato su un’appartenenza tribale e razziale. I suoi capi avranno solo l’autorità che Gesù delega loro, ma formeranno la base e la struttura della Chiesa, il nuovo popolo che Dio si è scelto. Lo si nota particolarmente nella simbologia usata nell’Apocalisse. «La nuova Gerusalemme», che rappresenta la Chiesa, è circondata da un muro munito di dodici porte, sulle quali sono iscritti i nomi delle dodici tribù di Israele; questo muro poggia a sua volta su «dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (Apocalisse 21,12-14). Ecco un simbolo efficace, cui chiaramente faranno spesso ricorso i discepoli di Gesù. A questo simbolismo fondamentale, che può definirsi biblico, se ne sovrapporrà talvolta un altro, preso a prestito dal tardo giudaismo e dalla cultura collettiva, quello dei dodici segni dello zodiaco. Questa relazione, che può sembrarci insolita, merita una spiegazione. Lo zodiaco, che deriva da una visione geocentrica del mondo, prescientifica, si inscrive anche in una simbologia astrale più generale. Questa è presente ovunque, ivi compreso il giudaismo ellenistico. Lo scrittore ebreo Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù, se ne serve all’occorrenza nei suoi commenti allegorici della Bibbia. Molto letto dai cristiani, fa, in questa come in altre occasioni, da intermediario nella trasmissione di determinati simboli. Nella simbologia dei numeri, ad esempio, l’Alessandrino associa il numero dodici non soltanto ai dodici patriarchi, ma anche ai dodici segni dello zodiaco. Quando descrive le vesti del gran sacerdote, vede nella placca di metallo LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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ornata di dodici pietre che questi porta al collo e che gli ricade sul petto, un nesso coi dodici patriarchi, così come coi dodici segni dello zodiaco. Clemente Alessandrino, che conosceva bene gli scritti del suo compatriota ebreo, riprende la medesima interpretazione dell’ornamento del gran sacerdote, aggiungendo, dal canto suo, il riferimento agli apostoli10. Per i cristiani il numero dodici evoca immancabilmente gli apostoli. Pertanto, il sole veniva talvolta rappresentato con dodici raggi, che simboleggiavano al contempo le dodici ore del giorno e i dodici mesi dell’anno. Così come il sole era uno degli emblemi di Cristo, i suoi dodici raggi rappresentavano gli apostoli. Si legge pertanto nelle Omelie clementine: «Proprio come il Signore ebbe dodici apostoli, conformemente ai dodici mesi del sole, allo stesso modo anche Giovanni [Battista] ebbe trenta discepoli principali, che corrispondevano al computo mensile della luna». Del Salmo 118,24 esisteva anche un’interpretazione cristologica che avvalorava quest’allegoria: «Questo è il giorno fatto dal Signore». Giustino afferma che Cristo è «chiamato anche Sapienza, Giorno, Oriente»11. Se il «giorno» designa Cristo, gli apostoli sono le dodici ore del giorno. Speculando sulla simbologia dei numeri, Agostino offrirà una spiegazione del numero degli apostoli: «Vi sono dodici apostoli perché il Vangelo doveva essere predicato ai quattro angoli del mondo nel nome della Trinità. Ora, quattro volte tre fa dodici». Quando si vogliono rappresentare gli apostoli in gruppo, intenti, ad esempio, 70
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1. Gesù e i dodici apostoli, catacomba di Domitilla, Roma. «Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Marco 3,14-15). Nel regno di Dio, il nuovo Israele, inaugurato da Gesù, i «Dodici» corrispondono ai dodici patriarchi, precursori delle dodici tribù dell’antico Israele.
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2. Maestosa raffigurazione del collegio apostolico, affresco, archivolto del cubicolo A della catacomba di via Dino Compagni, Roma.
ad ascoltare l’insegnamento del Maestro, li si raffigura tutti e dodici, perché sono gli autentici depositari della tradizione e costituiscono un riferimento obbligato. Nella Chiesa, la tradizione è essenzialmente quella ricevuta dagli apostoli, la «tradizione apostolica». Origene ha mostrato che essa rappresentava il criterio di verità nell’esposizione della dottrina cristiana. Nel suo I principi, scrive: «È in vigore l’insegnamento della Chiesa tramandato dagli apostoli per ordine di successione e tuttora nelle chiese conservato: pertanto quella sola bisogna tenere per verità, che in nessun punto si discosti dalla tradizione ecclesiastica ed apostolica»12. Il simbolo apostolico – condensato della fede ortodossa – è noto, ma bisogna menzionare anche i numerosi testi patristici che espongono «la tradizione apostolica», senza dimenticare i Vangeli apocrifi che sono attribuiti all’uno o all’altro degli apostoli. In un’abside della cappella S. Aquilino, a Milano, un mosaico rappresenta il Maestro che insegna in mezzo ai Dodici. Egli tiene nella mano il rotolo dei Vangeli e sotto i piedi uno scrinium in cui custodirli. Dal momento che Gesù non ha scritto nulla di suo pugno, bisogna tener presente che questi rotoli rappresentano gli scritti della «tradizione apostolica», ivi compresi evidentemente i testi del Nuovo Testamento. Un passo della Vita di Costantino, composta da Eusebio, ci informa che l’imperatore aveva fatto erigere nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme dodici colonne che simboleggiavano gli apostoli. Ireneo non aveva visto forse negli apostoli le dodici colonne della Chiesa? LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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Il quaranta Quaranta è il numero della prova, del digiuno e della solitudine. Il diluvio durò quaranta giorni e quaranta notti. Mosè attese sul Sinai per un identico lasso di tempo che Yahweh gli rivelasse il decalogo. Gli ebrei peregrinarono quarant’anni nel deserto. I quaranta giorni di digiuno di Gesù nel deserto, dopo il battesimo nel Giordano, indicano che egli ripete simbolicamente l’esodo, senza soccombere alle tentazioni, come era accaduto invece agli ebrei. Per i cristiani, il digiuno praticato nell’ambito dei quaranta giorni che precedono la Pasqua, la «quaresima», è una ripresa mistica del digiuno di Gesù.
1-2. Ricostruzione (H. Brandenburg) ed esterno del mausoleo dell’imperatrice Elena, madre di Costantino, Roma. 3. Cristo assiso su un globo turchino che simboleggia il cielo, mosaico dell’arco trionfale, basilica di S. Lorenzo fuori le mura, Roma. 4-5. Pianta (H. Brandenburg) ed esterno del mausoleo di S. Costanza, Roma.
La ghematria La ghematria consiste nell’utilizzare il valore numerico delle lettere di una parola. In effetti, nell’Antichità le lettere dell’alfabeto occupavano il posto delle cifre, poiché ciascuna lettera della sequenza alfabetica corrispondeva a una determinata cifra. Ciò vale per ciascun alfabeto, ebraico, greco o latino. Si è giocato su questa proprietà per speculare su certi nomi come su alcuni numeri. Così, Adamo, scritto in lettere greche, equivale a quarantasei. L’esempio che si cita abitualmente si trova nell’Epistola di Barnaba (9,8). La Genesi narra che Abramo avesse 318 servitori. Perché – si domanda l’autore – questo numero singolarmente preciso? Molto semplicemente, risponde, perché il 318 equivale al valore numerico delle due iniziali di Gesù in greco (iota ed eta), e a quello della lettera tau che ha la forma di una croce. Difatti, la somma è questa: 10 (iota) + 8 (eta) + 300 (tau) = 318, cifra che rappresenta dunque la croce di Gesù. Si è anche speculato sulla misteriosa cifra della bestia, indicata nell’Apocalisse, e che corrisponde al suo nome cifrato: «Qui sta la sapienza» soggiunge l’autore, «Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei» (Apocalisse 13,18). «È 616», secondo alcune varianti del testo. Tra queste, due sono le interpretazioni privilegiate. La prima, basata sul valore numerico delle lettere ebraiche, decritta il 666 in «Cesare Nerone»; la seconda, partendo dal 616 e basandosi sul valore numerico delle lettere greche, vi vede il nome di «Cesare Dio», che è forse la giusta lettura. Esiste anche un’interpretazione escatologica della cifra seicentosessantasei, quella di Ireneo: «Sei centinaia, sei decine e sei unità, per ricapitolare tutta l’apostasia perpetrata nel corso di seimila anni. Perché, quanti giorni ha comportato la creazione del mondo, altrettanti millenni implicherà la sua durata complessiva (...) Infatti, se ‘davanti al Signore un giorno è come mille anni’ (2 Pietro 3,8) e se la creazione è stata portata a termine in sei giorni, è chiaro che la fine delle cose avrà luogo al compimento del sesto millennio»13 (→ Sei). Tuttavia, forse a causa delle speculazioni gnostiche sui numeri, la grande Chiesa diffiderà di questo tipo di elucubrazione che, bisogna riconoscerlo, non è di rilevante interesse. 72
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IL SIMBOLISMO DELLE FIGURE GEOMETRICHE Il cerchio Il cerchio è il simbolo geometrico più diffuso; la sua forma ricorda quella del sole e della luna piena. D’altra parte, poiché apparentemente le stelle compiono un percorso circolare attorno al polo celeste, il cerchio simboleggia il cielo, mentre il quadrato rappresenta la terra. Secondo la simbologia derivante dal pitagorismo, il cerchio rappresenta la forma perfetta per eccellenza. Pertanto, per esprimere l’appartenenza di qualcuno al mondo celeste, lo si rappresenta con un cerchio attorno alla testa, l’aureola. Dal momento che è anche un simbolo solare, sarà spesso dorata. La ruota, come la corona di forma circolare, è quindi un simbolo solare che rinvia al mondo celeste. In epoca romana, i mausolei imperiali sono spesso delle rotonde, vale a dire edifici di forma circolare, come ad esempio quello di Adriano a Roma (divenuto Castel S. Angelo) o quello di Diocleziano a Spalato. La rotonda del Santo Sepolcro a Gerusalemme, costruita sotto Costantino, si ispira all’architettura dei mausolei imperiali. È lo stesso per il mausoleo di Elena, madre di Costantino, e per quello di Costanza (detta anche Costantina), figlia di Costantino. Questo mausoleo, edificato a Roma, è diventato la chiesa di S. Costanza. Questi monumenti funerari, che con la loro forma circolare evocano il mondo celeste, sono in certo qual modo anticamere della vita beata (→ Edifici religiosi). Per numerosi edifici cristiani, in particolare alcuni battisteri, come quello di Milano al tempo di sant’Ambrogio, verrà adottata questa forma circolare. Come esempio di chiese circolari, si può citare S. Stefano Rotondo sul colle Celio a Roma. Il cerchio simboleggia anche il ritorno ciclico delle stagioni e, secondo la cosmologia imperante, il rinnovamento ciclico dell’universo stesso, il mito dell’eterno ritorno delle cose. Questa concezione si oppone radicalmente alla
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visione lineare del cristianesimo che, in linea col giudaismo, crede che il mondo sia stato creato da Dio, che abbia avuto un inizio e che avrà una fine. L’umanità segue un percorso storico, che può certo profilarsi negli avvenimenti del passato, essere preannunciato e anticipato, ma che non si ripete. Da ciò deriva l’opposizione dei pensatori cristiani a ogni concezione ciclica dell’universo e a ogni forma di metempsicosi per l’essere umano. Sant’Agostino lo afferma con 74
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1. Mausoleo di S. Costanza (divenuto chiesa), Roma. La forma circolare, che evoca la vita celeste, è quella consueta dei mausolei antichi, sia pagani che cristiani.
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2. Interno della chiesa circolare di S. Stefano, detta S. Stefano Rotondo, Roma.
chiarezza nella Città di Dio: «Ora la nostra disputa è rivolta contro i sostenitori di una concezione secondo la quale essi credono che le medesime cose necessariamente si ripetano sempre, ad intervalli di tempo (...) Ma tutto ciò è falso (...) Seguendo perciò la retta via, che per noi è Cristo, sotto la sua guida salvifica allontaniamo la nostra mente e il cammino della fede dai vuoti e stupidi cicli degli empi»14. LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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La sfera La sfera è la figura geometrica generata dalla rotazione di un cerchio attorno al suo diametro. Era considerata la figura perfetta nello spazio, come il cerchio lo era nel piano, secondo la geometria simbolica dei pitagorici. Si immaginava inoltre che il movimento circolare dei pianeti si producesse perché ciascuno di essi era fissato su una sfera che girava attorno alla terra. Partendo dall’idea che il mondo fosse un cosmo ben organizzato e armonioso, si riteneva che queste sfere ruotassero nel cielo emettendo una musica armoniosa, da cui la ben nota espressione «musica delle sfere», manifestazione dell’armonia celeste. Da questa cosmologia simbolica deriva l’immagine del globo, che per gli antichi non rappresenta la terra, non considerata sferica, ma il cosmo nella sua totalità, vale a dire l’universo. Il globo è dunque un simbolo di universalità. È questo il senso che, ad esempio, bisogna attribuire al globo che la personificazione di Roma tiene in mano in un mosaico africano. Esso simboleggia la pretesa dell’impero romano di dominare il mondo. I cristiani riprenderanno questa immagine. Esistono alcune rappresentazioni di Cristo che tiene in mano un globo. È il simbolo del Verbo che ha creato l’universo e ne assicura l’esistenza. Quando viene rappresentato assiso su un globo, il significato è evidentemente identico. 76
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1. Cristo assiso sul globo rappresentante l’universo, mosaico della volta, mausoleo di S. Costanza, Roma. L’immagine è una rappresentazione del Cristo cosmico: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo (...) lo ha costituito su tutte le cose» (Efesini 1,17,22).
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2. Cristo in maestà assiso sul globo rappresentante l’universo, mosaico absidale, ca. 600, chiesa di S. Teodoro, Roma. L’immagine è una rappresentazione del Cristo cosmico: «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Colossesi 1,16). 3. Quadrato «magico».
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Il quadrato
S A T OR A R E PO T ENET OP E RA ROTAS
Secondo la cosmologia geocentrica antica, il quadrato è una rappresentazione simbolica della terra, perché il sole ne fissa gli assi a partire dai punti estremi del suo corso, dividendola in quattro parti, ciascuna delle quali delimita una stagione e, nello stesso tempo, uno dei punti cardinali. In numerosi mosaici pavimentali romani raffiguranti le quattro stagioni, queste sono inscritte in un quadrato. Alcune chiese cristiane presentano una cupola, simbolo della volta celeste, costruita su una struttura quadrata che simboleggia la terra. In quest’ordine simbolico, si rileva anche che il cubo, trasposizione volumetrica del quadrato, è la forma della Gerusalemme celeste descritta nell’Apocalisse (21). Va notato che le antiche città romane erano a pianta quadrata, simbolo cosmico della terra. Le due vie principali, dette decumanus e cardo, si incrociavano al centro della città dividendola in quattro quarti, i «quartieri». A questo punto è inoltre opportuno accennare a uno dei quadrati detti «magici», ma che sarebbe più corretto definire simbolico o esoterico, come il celebre acrostico Ichthys. Si tratta di una figura di ispirazione cristiana attestata da Plinio sin dal II secolo (vedi illustrazione qui a sinistra).
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1. Veduta esterna della chiesa di S. Giorgio, VI secolo, Ezra (Zorava), Siria. Con la sua forma ottagonale inscritta in un quadrato simboleggia la presenza del celeste (ottagono) nel terrestre (quadrato).
Questo quadrato è composto da cinque parole di cinque lettere, parole che si possono leggere nello stesso ordine in tutti i sensi: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS. Pare che non sia di primaria importanza il senso della frase, del resto enigmatica, ma piuttosto la parola centrale TENET, che, formando una «croce greca» (un +), divide il quadrato in quattro parti uguali. Dal momento che il quadrato simboleggia la terra, lo si può interpretare come la croce cosmica della vittoria che tiene (tenet) la terra, cioè la domina, poiché, secondo Giustino, è «l’anima del mondo». I quattro bracci indicano i quattro punti cardinali, simbolo ben attestato presso gli scrittori della Chiesa antica. Un testo di Ireneo è particolarmente adatto a fornire un’interpretazione di questo famoso quadrato: «Dal momento che egli [Cristo] è il Verbo del Dio onnipotente, Verbo che, sul piano invisibile, condivide la stessa estensione dell’intera creazione e ne sostiene la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità – perché è dal Verbo di Dio che l’universo è retto – fu dunque crocifisso in queste quattro dimensioni, lui, il Figlio di Dio, che si trovava già impresso sotto forma di croce nell’universo»15 (→ Croce). L’ottagono L’ottagono, poligono a otto lati, è la figura intermedia tra il quadrato terrestre e il cerchio celeste. Esso simboleggia dunque la presenza del celeste nel terrestre, il che spiega la sua importanza nella simbologia cristiana, associata a quella del numero otto, il numero della resurrezione. Se ne trova un esempio rilevante nella chiesa di S. Giorgio d’Ezra, edificio del VI secolo a
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2. Pianta e veduta esterna del battistero di Fréjus, quadrato all’esterno, ottagonale all’interno, con fonte battesimale ottagonale. 3. Daniele nella fossa dei leoni inscritto in un ottagono, mosaico pavimentale, III secolo, mausoleo di Blossus, Tunisia.
pianta centrale, la cui forma ottagonale si inscrive in un quadrato. Gli esempi concreti più rappresentativi sono le piscine battesimali di forma ottagonale, così come i battisteri che le contengono. In generale, ogni forma ottagonale simboleggia la vita beata in cielo. Un’insolita pittura della catacomba di Domitilla presenta un riquadro di forma ottagonale, nel quale è inscritta la scena classica di Orfeo che incanta gli animali, con la funzione di simbolo paradisiaco della vita beata. Questo simbolo cristianizzato è potenziato dalla struttura ottagonale dell’insieme, che evoca la fede nella resurrezione. LETTERE, NUMERI E FIGURE GEOMETRICHE
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Il labirinto Un’attenzione particolare merita la figura del labirinto, rappresentato sia all’interno di un cerchio che di un quadrato. È costituito da un groviglio di percorsi che conducono a un centro. Nel mondo greco-romano, esso evoca il mito dell’uccisione per mano di Teseo del Minotauro, che si trovava al centro del labirinto costruito da Dedalo sull’isola di Creta. Compiuta l’impresa, per ritrovare la via del ritorno, Teseo dovette utilizzare, com’è noto, il filo di Arianna. Il labirinto, che è in genere una decorazione pavimentale, ha un significato essenzialmente simbolico, variabile a seconda dei casi. Il labirinto del mosaico di Orleansville (la moderna Cheliff) in Algeria è di ispirazione esplicitamente cristiana, come indica l’iscrizione di forma quadrata posta al centro e costituita dalle parole SANCTA ECCLESIA, che si può leggere in tutti i sensi. L’interpretazione di questa iscrizione sembra essere la seguente: per l’uomo, la vera via della salvezza è quella che conduce alla Chiesa. Tutte le altre sono vie di perdizione, come lo scisma donatista che lacerava la cristianità d’Africa a quel tempo, dal momento che il mosaico è datato al 324.
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1. Labirinto, mosaico, ca. 324, proveniente dalla basilica di Reparatus, Castellum Tingitanum (Orléansville), cattedrale del Sacré-Cœur, Algeri. Al centro del labirinto, l’iscrizione SANCTA ECCLESIA: il vero cammino di salvezza conduce alla Chiesa. 2. Due angeli portano il busto di Cristo, affresco proveniente da Bawit, Museo Copto del Cairo Vecchio.
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CAPITOLO TERZO
SIMBOLI TRATTI DALLA NATURA IL MONDO CELESTE Il cielo Secondo le antiche cosmologie, l’universo si divide, verticalmente, in tre parti: il cielo, la terra e il mondo sotterraneo; quest’ultimo è detto Sheol dagli ebrei, Hades (Ade) dai Greci, Amente dai Copti e Inferi dai Latini. La prima parte, il cielo, è la dimora degli dei, o del Dio unico per gli ebrei e i cristiani. Nella Bibbia, il Signore è «il Dio del cielo», dove ha sede il suo palazzo, il suo trono e la sua corte. Per rispettarne il nome, che non è consentito pronunciare, la parola cielo può designare Dio per metonimia. Il plurale «cieli» ha lo stesso significato, con l’implicita indicazione che nel cielo esistono numerosi livelli. Nel Nuovo Testamento «il regno dei cieli» è l’equivalente del «regno di Dio». Conformemente alla sua natura divina, Cristo ha la sua dimora in cielo, da cui è «disceso» per salvare gli uomini. Dopo la morte, vi ha fatto ritorno (ascensione) risorgendo. In tal modo, ha aperto la via del cielo ai credenti. «Con lui», afferma san Paolo, «ci ha anche risuscitati e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (Efesini 2,6). È la ragione per cui il Cristo glorioso è raffigurato sulle cupole delle chiese, che simboleggiano la volta celeste. Gli angeli Nella Bibbia sono presenti gli angeli, esseri misteriosi che formano la corte celeste di Dio; Egli li invia come suoi messaggeri presso gli uomini. Come par-
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lare di loro, se non facendo ricorso a simboli, segni convenzionali, comunemente riconosciuti, e dunque riconoscibili dai fedeli della comunità cristiana? In un primo tempo, si fece uso del tipo di rappresentazione che si trovava negli scritti biblici e patristici. Gli angeli hanno sembianze giovanili, portano di rado la barba e sono sempre privi di ali. È soltanto a partire dal IV secolo che vengono muniti di ali e spesso ricoperti da una lunga veste bianca, la testa circondata da un’aureola, segno distintivo degli esseri celesti. Le stelle Secondo la cosmologia biblica, le stelle sono annoverabili fra gli astri celesti assieme alla luna, creata per illuminare la notte (Genesi 1,14-18). In quanto simboli della luce divina, evocano la divinità. Nelle antiche culture mesopotamiche, gli dei venivano rappresentati con una stella, emblema della loro natura celeste. La profezia di Balaam, che del resto proveniva da questa regione, verrà interpretata dal giudaismo come un annuncio del Messia, inviato da Dio al suo popolo: «Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Numeri 24,17). Questo testo sulla «stella di Giacobbe» viene citato numerose volte con lo stesso significato nei manoscritti del Mar Morto, di ispirazione essenica1. Ancora più vicini all’interpretazione cristiana, due passi del Testamento dei dodici patriarchi, uno degli pseudoepigrafi veterotestamentari. 82
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1. Doni dei Magi, mosaico, VI secolo, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna. Due magi con le mani velate recano doni; alle loro spalle le palme della vittoria e la stella a otto punte, di fronte a loro i gigli della purezza. I nomi sono stati aggiunti successivamente così come la barba, elemento di origine orientale che permette di distinguere le tre età della vita.
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Nel Testamento di Giuda, si può leggere: «Sorgerà per voi una stella da Giacobbe, nella pace. E verrà un uomo della mia discendenza, come sole di giustizia, che camminerà con gli uomini in mansuetudine e giustizia e nessun peccato si troverà in lui. I cieli si apriranno sopra di lui a riversare lo spirito (...) Questo è il germoglio di Dio Altissimo»2. In modo analogo, i cristiani assoceranno la profezia di Balaam, «la stella di Giacobbe», a quella di Malachia, «il sole di giustizia» (3,20), per individuarne la realizzazione nella stella dei Magi. Ireneo di Lione ne è un eccellente testimone. Dopo aver citato la profezia di Balaam, aggiunge il seguente commento: «Essa indica chiaramente che l’economia di Cristo secondo la carne si realizzerà presso gli ebrei e che è nascendo da Giacobbe e dalla tribù di Giuda che, scendendo dal cielo, egli compirà quest’economia (...) Con l’appellativo di ‘capo’, è il re designato: egli è, in effetti, re di tutti coloro che sono salvati. Questa stella apparve davvero, nel momento in cui nacque Cristo, ai Magi che vivevano in Oriente, ed è per suo tramite che essi appresero della sua nascita. Vennero allora in Giudea, e fu ancora la stella che li guidò (...) finché non si fermò al di sopra della sua testa, indicando in tal modo ai Magi il Figlio di Dio, Cristo»3. Esiste una testimonianza ancora più antica, quella di Ignazio di Antiochia, (ca. 110130), che basandosi su un racconto leggendario della stella dei Magi, vede in essa una manifestazione del nuovo ordine cosmico, inaugurato dalla nascita del Salvatore. Questo il passo saliente della sua lettera agli Efesini:
2. Balaam mostra la stella a Maria col Bambino Gesù, catacomba di Priscilla, Roma.
«Si vide brillare nel cielo una stella che fece impallidire tutte le altre: il suo fulgore era inesprimibile, la sua novità causava stupore; tutti gli altri astri, assieme al sole e alla luna, le facevano da seguito, ma il suo splendore eclissava quello di tutti loro messi assieme; nel loro smarrimento essi si domandavano da dove venisse questa strana stella, così differente da loro. Quindi, ogni magia fu confusa, ogni legame d’iniquità spezzato, l’ignoranza distrutta, l’antica regalità rovesciata: Dio si manifestava in forma umana, per realizzare il ‘nuovo ordine’, cioè la ‘vita’ eterna; il piano stabilito nei dise-
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gni di Dio cominciava a compiersi. Da qui questo sconvolgimento universale: perché si preparava l’abolizione della morte»4.
Il segno della stella appare dunque nell’episodio dei Magi, non come semplice aneddoto biografico, ma come prima manifestazione, «epifania», di Gesù in qualità di Messia, re del mondo, già a partire dalla sua nascita (→ Adorazione dei Magi). Aggiungiamo infine che il tema della stella si riconnette a quello più generale della luce (→ Luce). È in questo senso che Gesù viene chiamato «stella del mattino». L’Apocalisse si chiude con questo proclama: «Io, Gesù, (...) sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Apocalisse 22,16; 2 Pietro 1,19). I pianeti Rispetto alle stelle fisse attorno al polo celeste, i pianeti sono, per gli antichi, astri «erranti»; da qui, l’appellativo greco planetes, «erranti». Nella cosmologia antica se ne contavano, con il sole e la luna, sette. Nel mondo greco-romano, alle origini del cristianesimo, ogni giorno della settimana portava il nome di un pianeta; il primo giorno era quello del sole. È noto che i pianeti giocavano un ruolo rilevante nell’astrologia, pratica che i cristiani hanno combattuto – del resto senza grande successo – perché essa si opponeva alla loro convinzione 84
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1. Il Bambino Gesù in trono e adorazione dei Magi con la stella in alto, arco trionfale (registro di sinistra), basilica di S. Maria Maggiore, Roma. Prima manifestazione (epifania) di Gesù come Messia-re del mondo. 2. Ara dedicata al «Sole Invitto», metà del II secolo d.C., giunta a Roma per mare, Museo Gregoriano Profano, Città del Vaticano.
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che l’uomo fosse stato creato da Dio libero, e che il suo destino non fosse scritto nelle stelle. Abbiamo visto in precedenza che i Padri interpretarono l’episodio dei Magi come una sconfitta dell’astrologia. Il sole Il sole è un simbolo comune a tutte le culture. In queste pagine ci limiteremo alla sfera culturale greco-romana in cui il cristianesimo si è inserito e sviluppato. L’avanzata dell’evangelizzazione nell’impero romano coincide con quella delle religioni orientali, in cui il culto solare occupa ampio spazio. L’Impero si orientalizza, gli imperatori si comportano come sovrani orientali divinizzati, cui va reso un culto. Negli ambienti intellettuali si sviluppa la concezione panteista del mondo, che serve da base ideologica alle pretese universaliste dell’Impero. Cresce il bisogno di una religione popolare unificatrice. Dal momento che la religione arcaica degli antichi Romani non è sufficiente, si sviluppa un culto solare sincretico, dalla forte connotazione orientale, soprattutto siriana. Il culto di Mitra, che è anche una religione solare, ha avuto larga diffusione a cominciare dall’esercito. L’emergere di questo culto solare trova la sua consacrazione al tempo dell’imperatore Aureliano, che instaura ufficialmente il culto del «Sole invitto» (Sol invictus), assurto in tal modo a protettore accreditato dell’imperatore e dello Stato. Nel 274, Aureliano gli consacra un magnifico tempio nel foro. 2
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È in questo contesto che il cristianesimo svilupperà la propria simbologia solare. Essa esisteva sin dalle origini, associata alla simbologia della luce. I cristiani vedranno nella profezia di Malachia un annuncio di Cristo: egli proclama che, nel giorno di Yahweh, «sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (Malachia 3,20). Non aveva Gesù proclamato di essere «la luce del mondo»? Per i cristiani, Cristo è il sole che illumina la nuova creazione. Attraverso il battesimo, egli fa del catecumeno una «nuova creatura», illuminata dalla luce della vita eterna. «Illuminato» diventa sinonimo di battezzato. Cristo, spiega Clemente Alessandrino, «il ‘sole di giustizia’ che cavalca l’universo visita allo stesso modo tutto il genere umano, imitando il Padre che ‘su tutti gli uomini fa sorgere il suo sole’ (...) Egli trasformò l’occidente in oriente e crocifisse la morte cambiandola in vita, avendo strappato l’uomo dalla rovina lo elevò al cielo, tramutando la corruzione in incorruttibilità, e trasportando la terra nei cieli»5. Ciò è comprensibile, se si pensa che nell’arte cristiana Cristo assume le sembianze di Helios, il Sole invitto sul suo carro, come si può constatare in un mosaico del III secolo, scoperto al di sotto della basilica di S. Pietro a Roma. Così come il sole è al centro dei dodici segni nelle rappresentazioni della ruota zodiacale, Cristo presiede il collegio dei dodici apostoli, che illumina della sua luce (→ Apostoli). Il primo giorno della settimana, detto «giorno del sole», diverrà il «giorno del Signore», la «domenica» (dominicus dies). Del resto, era sempre di domenica, il giorno del sole, che la Chiesa celebrava la festa di Pasqua, giorno della resurrezione del Signore, e non il 14 nisan, secondo la tradizione ebraica. La Pasqua è una festa solare, una festa della luce, come l’Epifania e, soprattutto, il Natale. È quest’ultima festa, celebrazione della 86
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1. Testa di Helios-Sol, pannello in opus sectile, III secolo d.C., tarsie di marmi colorati provenienti dal Mitreo di S. Prisca sul Colle Aventino, Museo Nazionale Romano, Roma.
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nascita di Gesù, che esprime al meglio la simbologia solare cristianizzata. Poiché si ignorava il giorno esatto della nascita di Gesù, fu scelta una data simbolica, il 25 dicembre, in corrispondenza del solstizio d’inverno, nel momento in cui i giorni cominciano ad allungarsi e il «Sole invitto» riprende il suo corso. Questa pratica è già attestata nel 336. L’anniversario di Mitra, così come «la nascita del Sole invitto» (Natalis Solis invicti), si celebravano il 25 dicembre. Il Natale cristiano li sostituisce: è la festa di Cristo, il Verbo incarnato, che illumina il mondo.
Rivolti a Oriente A questa simbologia solare va associato un gesto la cui pratica è antica. Si tratta dell’atteggiamento del fedele che, nell’atto di pregare, sta in piedi rivolto a Oriente, verso il luogo dove sorge il sole, simbolo di Cristo. «L’Oriente, è figura di Cristo», diceva Tertulliano. Era pratica comune per la preghiera privata, come per quella pubblica. Agostino, tra numerosi altri, ne dà testimonianza: «Quando stiamo in piedi e preghiamo» afferma, «ci volgiamo a Oriente». L’importanza di questa pratica simbolica è tale, che essa modificherà l’architettura delle chiese. Dal momento che, nel corso delle celebrazioni, i fedeli pregano rivolti a Oriente, le chiese saranno edificate sull’asse ovest-est, così che l’abside si trovi sul lato del sole che sorge, e l’entrata principale a Ovest. Questa pratica si diffonde nel corso del IV-V secolo per divenire generale a partire dall’VIII. In origine, l’entrata principale si trovava a Est, come nei templi. L’inversione è
2. Il dio Helios-Sol (Cristo-Helios) sul carro celeste circondato da tralci di vite (mosaico della volta); scene della vita di Giona (registro inferiore), inizio IV secolo, mausoleo degli Iulii, necropoli vaticane, Città del Vaticano. Prime testimonianze iconografiche cristiane nella necropoli pagana.
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dunque giustificata da una ragione simbolica. Il simbolo solare e cristico si è imposto fin sulla pietra, a dimostrazione dell’importanza dei simboli nella Chiesa antica. Rappresentava anche un modo per distinguersi dalle sinagoghe, che erano orientate verso Gerusalemme. La luna Insieme al sole, la luna è l’astro simbolicamente più importante. Nella cultura ebraica essa è misura del tempo. I mesi, la struttura dell’anno e il calendario delle feste erano legati alle fasi lunari. Anche nel cristianesimo, la data della Pasqua è fissata in funzione del ciclo lunare, e dunque è variabile nel calendario solare. La proverbiale bellezza della luna ne faceva un modello. La sposa del Cantico dei cantici è «bella come la luna, fulgida come il sole» (6,10). Come in questa citazione, il sole e la luna sono spesso associati nelle rappresentazioni. Avviene lo stesso nella simbologia cristiana. Teofilo di Antiochia, nel II secolo, considerava i due astri «immagini del grande mistero: il sole è l’immagine di Dio e la luna quella dell’uomo»6, perché essa è illuminata dal sole come l’uomo lo è da Dio; inoltre, il sole è immutabile al pari di Dio, mentre la luna, come l’uomo, si riduce e cresce. Dal canto suo, Origene vedeva nella luna un simbolo della Chiesa, che trasmette agli uomini la luce che ha ricevuto da Cristo, il vero sole che illumina il mondo. Il paragone si ispira forse alla visione dell’Apocalisse: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle» (12,1). Questa donna è la personificazione della Chiesa, secondo l’interpretazione comune dei Padri7. 88
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1. Arte goto-cristiana: personificazioni del sole e della luna, simboli di Cristo e della Chiesa, arco trionfale, capitelli di destra e sinistra (particolari), S. Maria, Quintanilla de las viñas, Burgos.
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Il simbolo della luce Il simbolo della luce, affine, come abbiamo appena avuto modo di vedere, al simbolo solare e al mondo celeste in generale, merita una spiegazione, perché servirà a definire ciò che il cristiano è nel mondo, un «figlio della luce». Il tema trae la propria origine culturale dalla tradizione di un giudeocristianesimo influenzato dall’essenismo, a sua volta influenzato dal mazdeismo. Sotto la dominazione persiana, gli ebrei erano stati autorizzati a ritornare nel loro paese e a restaurare il Tempio e il culto. La cultura persiana ha lasciato la sua impronta sullo sviluppo del giudaismo. In particolare, alcune correnti del pensiero ebraico sono segnate da concezioni dualiste, come si può constatare negli scritti postesilici e soprattutto presso gli esseni. La scoperta dei manoscritti del Mar Morto ce ne dà conferma: vi si ritrova spesso uno schema dualista. Il mondo è diviso tra «figli delle tenebre», che seguono «l’angelo delle tenebre» e le sue vie di corruzione, e «figli della luce», che seguono «il principe della luce» lungo la via della giustizia e della verità. Tra le due parti il conflitto è permanente, ma la luce della verità finirà per trionfare. È più che evidente che gli esseni si schieravano coi figli della luce. In ambito cristiano, si constata che lo schema tenebre-luce si ritrova tanto nella tradizione paolina che nella tradizione giovannea. Alcune brevi citazioni consentiranno di illustrare questo aspetto: «E Dio che disse: ‘Rifulga la luce dalle tenebre’, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Corinzi 4,6); «È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Colossesi 1,13); «Voi tutti infatti» afferma Paolo, «siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre» (1 Tessalonicesi 5,5). È soprattutto la lettera agli Efesini che ci restituisce al meglio l’ambiente ecclesiale in cui questa prospettiva è stata vissuta e insegnata. Il passo sui «figli della luce» si inserisce verosimilmente in un insegnamento sul battesimo: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore» (Efesini 5,8). Il battesimo ha operato nei credenti questo cambiamento radicale che ha fatto di loro «figli carissimi [di Dio]», «figli della luce». Questi testi vanno accostati al prologo del IV Vangelo: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. (...) A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio». Per via di questo insegnamento, il battesimo cristiano verrà descritto come il sacramento della luce e denominato «illuminazione». Giustino è il primo autore conosciuto a farvi cenno alla metà del II secolo: «Questo bagno» scrive, «è detto illuminazione (photismos)»8. Il termine sarà di uso corrente presso i Padri, come quello di «illuminati» per i battezzati (→ Battesimo). IL MONDO TERRESTRE Poiché, secondo la cosmologia biblica, Dio ha creato sia il cielo che la terra, non esiste, tra le due parti dell’universo, l’opposizione radicale che si ritrova in certe cosmologie antiche. Dal momento che tutto l’universo è creato, anche il mondo terrestre canta la gloria di Dio e ne è testimonianza. Per difendere questa convinzione, i primi pensatori cristiani dovranno lottare contro le teorie dualiste e soprattutto gnostiche che svalutano la «materia». Di conseguenza, con la mediazione di una «foresta di simboli», agli occhi del poeta, del mistico o, più semplicemente, del credente, il mondo creato potrà testimoniare realtà ultraterrene. Questa convinzione fonda e giustifica SIMBOLI TRATTI DALLA NATURA
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tutti i simboli tratti dal mondo della natura terrestre. È il principio che sta alla base di tutti i simboli cristiani che abbiamo già trattato o che presenteremo in seguito. Raggruppiamo qui, per comodità di esposizione, qualche simbolo particolare. La montagna 1. Cristo vittorioso in piedi sul monte Sion stilizzato da cui sgorgano i quattro fiumi del paradiso, sarcofago di Probo (particolare), grotte Vaticane, Roma. «Poi guardai ed ecco l’Agnello ritto sul monte Sion» (Apocalisse 14,1). 2. Cristo in piedi su un monte tra Pietro e Paolo, piatto in vetro dorato proveniente dalla catacomba di S. Callisto, fine IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 3. Discorso della montagna, ipogeo degli Aurelii, Roma.
La montagna che si innalza verso il cielo, è considerata in molte religioni il legame tra la terra e il cielo. In generale, questo legame, unitamente all’edificazione di un tempio sulla cima, è il requisito di tutte le montagne sacre. Indipendentemente dalla sua collocazione geografica, il tempio è assimilato alla montagna, perché si compia il collegamento con il cielo. Una semplice collina, naturale o artificiale, può ricoprire lo stesso ruolo. L’antico popolo ebraico aveva propri «luoghi elevati», che alla fine saranno tutti sostituiti dal monte Sion a Gerusalemme, su cui Salomone farà edificare la «casa di Dio». Yahweh si manifesta a Mosè sul monte Sinai e gli consegna le tavole della Legge. Nella vita di Gesù la montagna conserva questo significato simbolico di prossimità SIMBOLI TRATTI DALLA NATURA
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con il cielo. Il suo famoso «discorso della montagna» rivela la nuova Legge del nuovo popolo di Dio (Matteo 5). Anche la scena della trasfigurazione, che rivela la sua natura divina, si svolge sopra un «monte alto» (Marco 9,2-8), identificato dalla tradizione cristiana con il monte Tabor. Gesù fu crocifisso sulla cima del Golgota. Infine, l’ascensione ebbe luogo sul monte degli Ulivi (Atti 1,12). Nell’iconografia paleocristiana, si vede talvolta Cristo su un monte stilizzato da cui scaturiscono i quattro fiumi dell’Apocalisse, fonte della vita divina comunicata ai credenti. La roccia (masso, pietra) Per via della loro solidità, le rocce e i blocchi di pietra sono simboli di ciò che è stabile, incrollabile. Nella Bibbia, Dio viene designato come la roccia a cui l’uomo può appoggiarsi e aggrapparsi nel pericolo (Salmi 18). La roccia di Oreb da cui Mosè fa scaturire una fonte d’acqua viva è, secondo san Paolo, la prefigurazione di Cristo (1 Corinzi 10,1-5). Gesù cambiò il nome del suo apostolo Simone in quello di Kephas, che in aramaico significa «pietra», tradotto in greco con Petros, da cui il latino Petrus e l’italiano Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Matteo 16,18). 92
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L’acqua
1. La roccia colpita dal bastone di Mosè da cui zampilla una sorgente, III secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. Il Giordano, che sta per sfociare nel Mar Morto, e la sua valle, «Mappa di Madaba» (particolare), mosaico pavimentale, chiesa nord di Madaba, Giordania. La carta, che nelle intenzioni del mosaicista doveva raffigurare la Terra Promessa vista da Mosè prima di morire sul Monte Nebo, è stata via via attualizzata alla realtà topografica fino al VI secolo.
Secondo le antiche rappresentazioni del mondo fisico, l’acqua è uno dei quattro «elementi» tradizionali, assieme alla terra, l’aria e il fuoco. In tutte le culture essa gode di un grande valore simbolico, fondato su due caratteristiche fondamentali: il fatto di essere sorgente di vita e mezzo di purificazione. Qui ci limitiamo alla cultura biblica, cioè ebraica e cristiana. L’acqua che serve a lavare, purificare gli oggetti e le dimore degli uomini diviene anche, nelle abluzioni e nei bagni rituali, il grande segno simbolico della purificazione dei «cuori» dai peccati e dalle lordure morali in genere. Instaurando il rito del battesimo, Giovanni Battista accetta questa tradizione introducendovi un elemento nuovo. È un rito unico, dunque non ricorrente, di purificazione, per preparare l’imminente avvento del regno di Dio. Il battesimo cristiano farà certamente propria questa idea di purificazione dai peccati, trasformandola, tuttavia, radicalmente. Dal momento che Gesù ha effettivamente inaugurato il regno di Dio, il battesimo «nel nome di Gesù» non è più un segno profetico, ma l’ingresso effettivo nel regno di Dio attraverso il dono dello Spirito. Il battesimo cristiano non è solo un battesimo nell’acqua, un rito di purificazione, ma un battesimo nello Spirito vivificante. All’acqua come simbolo di purificazione interiore si aggiunge il simbolo dell’acqua sorgente di vita (vedi, più avanti, «il battesimo»). SIMBOLI TRATTI DALLA NATURA
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1. Albero carico di frutti, decorazione della scala di accesso alla cripta della chiesa dedicata al santo profeta Elia e terminata nel 597, Madaba, Giordania. 2. Tralci di vite che incorniciano la porta centrale della facciata occidentale del complesso religioso del Seraya, Qanawat (Canatha), Siria.
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In effetti, l’acqua come sorgente di vita è il più importante tra i simboli legati a questo elemento, poiché essa è indispensabile per tutti gli esseri viventi. Dio è designato, metaforicamente, «sorgente di vita». E Gesù applicherà a se stesso questa metafora: «Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Giovanni 4,14) (vedi, più avanti, «l’acqua» nel paragrafo sugli alimenti simbolici). La piantagione Nel cristianesimo, la metafora della piantagione (phyteia) trae origine da una parola di Gesù: «Ogni pianta che non è stata piantata dal mio Padre celeste sarà sradicata» (Matteo 15,13). Era presente inoltre negli scritti ebraici contemporanei, come quelli di Qumran. Qualunque sia la fonte, rileviamo che nelle comunità paoline la metafora è servita a designare i neo-battezzati come «nuove piante», in greco neophytoi, «neofiti». Il termine appare nella prima lettera a Timoteo senza nessuna spiegazione, lasciando supporre che sia perfettamente noto al lettore. Già san Paolo, nella lettera ai Romani, si era servito della metafora per designare la nuova condizione del battezzato: «Siamo stati» scriveva, «completamente uniti (symphytoi) a lui [Cristo]» (Romani 6,5), cioè come uno stesso essere, una stessa pianta. Il termine «neofita» passerà nel lessico battesimale. Ma il suo uso non è frequente quanto si crede. In effetti, il termine più usato negli scritti patristici per designare il neo-battezzato è neophotistos, «neo-illuminato» o «recentemente illuminato», che i traduttori moderni traducono regolarmente con «neofita», travisandone il significato etimologico. Essi hanno indebitamente sostituito la metafora della luce, la più importante, con quella della piantagione. 94
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3. Tralci di vite, sarcofago di Castelnau-de-Guers (lato anteriore), proveniente da Hérault, attualmente al Musée du Louvre, Parigi.
Precisato ciò, bisogna aggiungere un’immagine attinente, dovuta ancora a san Paolo: quella dell’innesto. Egli paragona il cristiano proveniente dal paganesimo a un ramo di ulivo selvatico innestato sull’ulivo franco, che rappresenta il popolo d’Israele, efficace simbolo del ruolo del giudaismo nella storia della salvezza (Romani 11,17-24). Ireneo interpreta la metafora in senso spirituale, parlando dell’«innesto dello Spirito» sull’uomo, probabile allusione ai battezzati. Se non si oppongono a questo innesto, essi produrranno i frutti dello Spirito: «saranno spirituali, essendo stati come piantati nel giardino di Dio»9. Si ritrova lo stesso simbolismo nel lirismo delle Odi di Salomone: «Egli mi portò con sé nel suo paradiso (...) Vidi magnifici alberi carichi di frutti (...) E dissi: ‘Beati, o Signore, quelli che sono piantati nella tua terra, quelli che hanno un posto nel tuo paradiso. Essi crescono nella crescita dei tuoi alberi, hanno abbandonato la Tenebra per la Luce’»10. La metafora della piantagione ha beneficiato di una larga diffusione nel cristianesimo primitivo, dal momento che l’idea di pianta era generalmente associata a quella di pianta di vite, con la ricca simbologia della vigna che troviamo sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Al compilatore delle Costituzioni apostoliche viene naturale farne la sintesi nel saluto preliminare rivolto ai cristiani: «Chiesa cattolica, piantagione di Dio e sua vigna eletta, voi che avete aderito alla sua religione infallibile»11. La vigna del Signore Nella simbologia biblica, la vigna designa Israele, come nel poema di Isaia sulla vigna, «Canterò per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna» (Isaia 5,1), o nel salmo 80. Quest’immagine tradizionale era così popolare che, nel Tempio restaurato da Erode, era stata collocata nel vestibolo, secondo la descrizione di Giuseppe Flavio, una gigantesca vite in oro appesa a travi di cedro, come simbolo di Israele12. L’immagine è evidentemente connessa alle parole di Gesù sulla vite: «Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni 15,5). La metafora diventerà un tema ricorrente degli scritti patristici. Ad esempio, Il Pastore di Erma sviluppa la parabola della vigna-Chiesa. «La vigna» spiega il pastore, «è il popolo che Dio stesso ha piantato»13. Ciò costituirà un tema privilegiato dell’iconografia cristiana. Le rappresentazioni di foglie di vite o di tralci con uva sono innumerevoli, come quelle del cantaro da cui esce un ceppo di vite. Il vino prodotto dall’uva diventerà dunque uno dei simboli principali della Chiesa nascente (→ Vino). SIMBOLI TRATTI DALLA NATURA
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L’ulivo L’ulivo è un albero sacro in tutte le civiltà del bacino del Mediterraneo. Nel suo legno si intagliavano figure divine. A Olimpia, il bosco sacro era costituito da ulivi, utilizzati per realizzare le corone con cui venivano premiati i vincitori. A Roma, il ramoscello d’ulivo, attributo della dea Pax, era prima di tutto un simbolo di pace. Stessa cosa nella tradizione biblica col racconto paradigmatico dell’arca di Noè. La colomba, inviata dal patriarca, ritorna sull’arca portando nel becco un ramoscello d’ulivo, annunciando in tal modo la fine del Diluvio e il ritorno della pace con Dio (Genesi 8,8-12). L’episodio sarà spesso rappresentato nell’arte cristiana come simbolo della pace divina portata da Cristo agli uomini, con la connotazione di immagine salvifica (→ Colomba → Arca di Noè). 96
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1. Vaso a tralci, Museo di Apamea, Siria. 2. Noè e la colomba recante un ramoscello d’ulivo, fine III secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma.
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Palma, ramo di palma Nel mondo greco-romano, la dea della Vittoria (Victoria in latino, Nike in greco) è spesso rappresentata con un ramo di palma. Anche nella Bibbia il ramo di palma è il simbolo della vittoria. Dopo la presa della roccaforte di Gerusalemme da parte di Simone, etnarca degli ebrei, «fecero ingresso in quel
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1. Corteo delle Vergini con corona e palme, navata centrale, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna. 2. Corteo delle Vergini con corona e palme (particolare), navata centrale, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna.
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luogo (...) con canti di lode e con palme» (1 Maccabei 13,51). Stessa cosa al momento dell’entrata messianica di Gesù a Gerusalemme: la folla «prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: ‘Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele’» (Giovanni 12,13). Anche l’Apocalisse utilizza questo simbolo di vittoria per descrivere il trionfo dei santi nel cielo: «Apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: ‘La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello’» (7,9-10). Nell’iconografia paleocristiana, il ramo di palma e la corona sono gli emblemi dei martiri. La palma è anche un simbolo della vita celeste, raffigurato nelle rappresentazioni del paradiso.
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GLI ANIMALI SIMBOLICI Presentiamo, in ordine di importanza, i principali animali che compaiono nella simbologia cristiana. Il pesce Abbiamo spiegato in precedenza come e perché il pesce (ichthys in greco) – emblema alquanto esoterico, bisogna convenirne – fosse divenuto uno dei primi simboli di Cristo (→ Cristo Ichthys). Occorre precisare che, sul piano delle rappresentazioni simboliche, sia che si tratti di pitture, di lapidi funerarie 100
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1. Palme che incorniciano una raffigurazione di Cristo affiancato da Pietro e Paolo, mosaico della volta, IV secolo, abside orientale, mausoleo di S. Costanza, Roma. 2. Palme che incorniciano il Cristo Agnello sul monte Sion stilizzato da cui sgorgano i quattro fiumi del paradiso, sarcofago di Costanzo III, V secolo, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna. 3. Pesce, mosaico (particolare), 562, cappella di Teodoro, Madaba, Giordania.
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o di mosaici, il pesce designa in generale il battezzato. Ciò è particolarmente evidente nella decorazione dei battisteri. La «piscina» (piscina) battesimale, il cui nome deriva proprio dal latino piscis, «pesce», designa in un primo tempo semplicemente una vasca in cui vivono dei pesci. È per analogia che il nome è giunto a designare il fonte battesimale in cui rinasce il battezzato, piccolo pesce a immagine del Cristo Ichthys. Questo simbolo è particolarmente ben rappresentato nei mosaici che decorano un gran numero di piscine battesimali africane, le più belle giunte fino a noi (→ Battesimo). L’immagine del pesce va associata a quella del pescatore con la lenza delle pitture catacombali, immagine cristianizzata tratta dall’arte romana. Il pescatore simboleggia Cristo Salvatore, come spiega bene Clemente Alessandrino nel suo Inno a Cristo Salvatore: «Pescatore di uomini, di quelli che hai salvato dal mare del vizio; i pesci puri dall’onda avversa trai alla vita amabile»14. Il delfino Il delfino è un animale ben noto ai marinai del Mediterraneo. Poiché amava avvicinarsi alle barche, lo si considerava un amico degli uomini che veniva in soccorso dei naufraghi. Secondo alcune leggende, aveva anche salvato degli uomini, come Arione o Melicerte. È spesso rappresentato nell’arte antica del Mediterraneo. I cristiani ne fecero anche un simbolo di Cristo, come l’immagine classica del pesce (→ Cristo Ichthys → Pesce). Rappresentato attorno a un’ancora, come in un bel mosaico precristiano di Delo, esso costituisce una delle numerose immagini della salvezza, e simboleggia Cristo «nostra speranza» (→ Ancora). Lo si potrebbe associare a queste parole che l’autore della Lettera degli apostoli fa pronunciare a Gesù: «Io sono la speranza di coloro che sono senza speranza, l’aiuto di coloro che non hanno alcun aiuto»15.
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L’agnello, la pecora e l’ariete Per gli ebrei, in origine nomadi, il pastore che guida e protegge il suo gregge è simbolo di Yahweh che veglia con amore sul suo popolo. Gesù riprende il paragone nella parabola del Buon Pastore, e si presenta a sua volta nelle medesime vesti (→ Cristo Pastore). L’ariete, maschio adulto della pecora, che marcia alla testa del gregge, è stato anch’esso considerato dai cristiani simbolo di Cristo. Questa rappresentazione del Cristo Ariete è anche motivata dall’episodio del sacrificio di Abramo, poiché un ariete viene infine immolato al posto di suo figlio Isacco. Numerosi Padri della Chiesa, come Agostino, hanno visto in questo ariete una «figura di Cristo». Tuttavia, è l’agnello maschio, che si sacrificava in occasione della Pasqua, a divenire il simbolo prevalente di Cristo, immolato sulla croce proprio nel periodo in cui gli agnelli venivano sacrificati nel Tempio per la cena pasquale, secondo quanto riferito da san Giovanni (→ Cristo Agnello). Nella simbologia cristiana, la pecora designa l’anima cristiana salvata dal divino pastore, secondo l’interpretazione della parabola della pecorella smarrita. Generalmente, nelle scene in cui sono raffigurate numerose pecore, queste simboleggiano i fedeli; è la rappresentazione, nel contempo letterale e simbolica, della parola di Gesù a Pietro: «Pasci le mie pecore». Il serpente e il drago
1. Mosaico della calotta absidale (registro inferiore), basilica di S. Apollinare in Classe, Ravenna. 2. Dittico in avorio (quinta sezione), seconda metà del V secolo, Duomo di Milano. 3. L’Agnello sul monte del paradiso, sarcofago di Valentiniano III, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna.
Il serpente è un animale simbolico la cui ambiguità trae origine dal suo comportamento in natura. Poiché si nasconde negli anfratti del suolo, è messo in relazione con le forze sotterranee, gli esseri misteriosi che popolano l’Ade (Sheol in ebraico), vale a dire gli Inferi. Quando fa la muta, cambia pelle, ringiovanisce e sembra acquistare nuova vita. Per questo motivo diviene l’emblema del dio guaritore Asklepios (Esculapio), raffigurato con un bastone attorno al quale si attorciglia un serpente, per distinguerlo dal caduceo, bastone del dio Hermes (Mercurio), attorno al quale si attorcigliano due serpenti. Ma nello stesso tempo – da ciò l’ambiguità dell’animale – il suo morso velenoso può provocare la morte. È probabilmente questa doppia simbologia che bisogna scorgere nello strano episodio riportato nel libro dei Numeri. SIMBOLI TRATTI DALLA NATURA
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1. Adamo ed Eva, il volto costernato dopo aver peccato, ai lati dell’albero della conoscenza del bene e del male, III secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. San Simeone lo Stilita e il serpente, placca di reliquiario in argento dorato proveniente dalla Siria, VI secolo, Musée du Louvre, Parigi. L’eremita emerge da una vasca che forma il capitello di una colonna circondata da un enorme serpente, figura dello spirito tentatore. 3-4. Ciclo di Giona, chiusure di loculo, mosaico proveniente dalla catacomba di via Latina, seconda metà del IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano.
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Durante il loro passaggio nel deserto del Negheb, gli ebrei si lagnarono di Yahweh e di Mosè (Numeri 21,4-9). Per punizione, «serpenti ardenti» vennero a seminare morte tra gli ebrei. In seguito al loro pentimento, Yahweh dette a Mosè un ordine singolare: «‘Fatti un serpente [ardente] e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà, resterà in vita’. Mosè fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta». Dunque, un serpente che guarisce dopo avere ucciso. Strana anche la presenza nel Tempio di un serpente di bronzo identico a quello di Mosè, chiamato Necustan, che il re Ezechia fece distruggere, considerandolo un idolo. Tanto i cristiani che gli ebrei provarono grande disagio a causa di questo serpente di bronzo che, effettivamente, era troppo simile a un idolo. Si trassero d’impaccio facendo ricorso all’allegoria (Sapienza 16,5-7) o alla tipologia. L’evangelista Giovanni conserva dell’episodio solo l’idea di «segno», termine che veniva usato nella traduzione greca dei Settanta. A suo parere, Cristo innalzato sulla croce è l’unico segno di salvezza che bisogna contemplare nella 104
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fede per essere salvati (Giovanni 3,14). D’altra parte, l’autore dell’Epistola di Barnaba non esita a dire che Mosè, alla maniera dei profeti, aveva fatto in quel caso «una figura di Gesù, per mostrare che doveva soffrire e donare la vita»16. Altrettanto Giustino, il quale afferma che Mosè fece «una figura (typon, «tipo») della croce»17. Ad eccezione di quest’episodio, la tradizione biblica vede nel serpente una figura totalmente negativa. Il serpente umanizzato del paradiso, che tentò Eva con successo, vi si trova probabilmente non senza motivo (Genesi 3,114). Questo racconto immaginoso non dice che cosa rappresenta il serpente, indicato come «l’animale più astuto»; probabilmente si deve vedere in esso la tentazione personificata, poiché è dotato dell’uso della parola. È solo molto più tardi, a partire dal libro della Sapienza (2,24), che verrà identificato col Diavolo, interpretazione che resterà nella tradizione ebraica e poi in quella cristiana. Nell’iconografia paleocristiana, la scena drammatica del giardino dell’Eden segue generalmente questo schema tipo: Adamo ed Eva in piedi ai lati di un albero attorno al quale è attorcigliato un serpente. Il serpente raffigurato in altre scene simboleggia sempre il Diavolo, ad esempio quando il cervo e l’aquila vengono rappresentati nelle vesti di uccisori di serpenti. In questo caso essi simboleggiano Cristo che ha ridotto il Diavolo all’impotenza. Il passaggio dal serpente malefico al drago fantastico è più facile di quanto sembri, perché avviene sul piano simbolico. L’autore dell’Apocalisse, esperto nell’uso dei simboli, li ha identificati entrambi come figure dell’Avversario, del Nemico di Dio e del suo Messia, dell’«accusatore dei nostri fratelli». «Il grande drago» precisa l’autore, «il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra», è un solo essere (Apocalisse 12,9). Gli artisti cristiani antichi sono stati riluttanti nel riprodurre questa figura, fatta eccezione per il caso sopra citato di Adamo ed Eva alle prese col serpente, probabimente per evitare confusioni col serpente di Esculapio. Un caso a parte, invece, è quello del «mostro marino» della storia di Giona, nel quale i Padri, come Ireneo di Lione18, hanno visto il simbolo del drago, del Diavolo o ancora dell’Ade. Nell’iconografia, in effetti, assume la forma di un mitico drago dei mari. In generale, drago e serpente costituiscono nel cristianesimo un simbolo diabolico.
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Il cervo L’immagine simbolica del cervo trae origine dal primo versetto del Salmo 42: «Come il cervo [una ‘cerva’ nella versione greca] anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio». Per i cristiani l’acqua viva designava l’acqua del battesimo, dove il credente nasceva alla vita divina in Cristo. Il cervo del salmista diviene allora figura simbolica del catecumeno che aspira al battesimo, alla fonte della salvezza, come spiega san Girolamo nel suo commento al salmo. Il catecumeno, come il cervo, «desidera venire a Cristo nel quale si trova la fonte della luce, affinché, purificato dal battesimo, riceva il dono della remissione dei peccati»19. Non sorprende, pertanto, ritrovare spesso la rappresentazione del cervo nella decorazione dei battisteri. L’immagine frequente di due cervi (o di un cervo e di una cerva) che si abbeverano a un cantaro rinvia anche al simbolismo battesimale, poiché l’acqua del cantaro rappresenta l’acqua vivificante del battesimo. Il cervo è anche oggetto di un simbolismo per noi più sorprendente, perché fondato su un’idea antica secondo la quale il cervo sarebbe un uccisore di serpenti. È per questo che Ambrogio e, nella sua scia, Agostino vedranno nel cervo l’immagine di Cristo vincitore di Satana, il serpente tentatore del giardino dell’Eden. In un mosaico di S. Clemente a Roma, si vede, ai piedi della croce, un cervo che si china sulla testa del serpente per schiacciarlo.
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1. Cervi affrontati ai lati di una coppa sormontata da una croce, mosaico, VI-VII secolo, Museo di Sbeitla, Tunisia. I cervi simboleggiano i catecumeni che aspirano al battesimo: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te» (Salmi 42,2). 2. Cervi, mosaico, VI secolo, battistero di Madaba, Giordania. 3. Un cervo si china verso un grande serpente, mentre altri due cervi si abbeverano, mosaico absidale (particolare), basilica di S. Clemente, Roma. Secondo Maria Andaloro, quest’opera dell’inizio del XIV secolo prosegue, per certi versi, la grande tradizione paleocristiana.
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Il bue Il bue è l’emblema dell’evangelista Luca secondo la simbologia del tetramorfo (vedi a questa voce). Il bue, accompagnato dall’asino, figura nelle rappresentazioni della mangiatoia nella Natività, almeno a partire dalla metà del IV secolo. La loro presenza deriva dall’interpretazione cristologica di un testo di Isaia. La prima testimonianza letteraria dell’associazione alla mangiatoia risale alle Omelie su Luca di Origene, e in seguito verrà spesso ripresa. Lo Pseudo Matteo ne trarrà un meraviglioso racconto, aggiungendovi un riferimento ad Abacuc. «Tre giorni dopo la nascita del Signore nostro Gesù Cristo» scrive, «la beatissima Maria uscì dalla grotta e, entrata in una stalla, depose il fanciullo in una mangiatoia, e il bue e l’asino l’adorarono. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Isaia, con le parole: ‘Il bue riconobbe il suo padrone, e l’asino la mangiatoia del suo signore’. Gli stessi animali, il bue e l’asino, avendolo nel mezzo l’adoravano incessantemente. Si adempì quanto era stato detto dal profeta Abacuc, con le parole: ‘Ti farai conoscere in mezzo a due animali’»20. I Padri che parlano di questi due animali vedono il simbolo del popolo ebraico nel bue, e dei pagani nell’asino. In tal modo, con il complemento teologico apportato dall’adorazione dei Magi, è tutta l’umanità, assieme al mondo animale, che riconosce il Messia re nel bambino della mangiatoia. Il leone Simbolo di potenza dominatrice, il leone era l’emblema della tribù di Giuda (Genesi 49,9). L’Apocalisse ne fa uno degli appellativi del Signore vittorioso: «Ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide» (Apocalisse 5,5). Nella raffigurazione del tetramorfo, il leone alato è l’emblema dell’evange108
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1. Il bue e l’asino accanto a Gesù Bambino nella culla, sarcofago di Stilicone (particolare), IV secolo, basilica di S. Ambrogio, Milano. La scena qui rappresentata proviene dal Vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo: «Tre giorni dopo la nascita del Signore nostro Gesù Cristo, la beatissima Maria uscì dalla grotta e, entrata in una stalla, depose il fanciullo in una mangiatoia, e il bue e l’asino l’adorarono».
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lista Marco (→ Tetramorfo). Tuttavia, in quanto animale selvaggio e temibile, esso simboleggia anche il Diavolo che «come leone ruggente va in giro» (1 Pietro 5,8). Stessa interpretazione per l’episodio del leone ucciso da Davide, poiché questi è tipo di Cristo (→ Davide). Il lupo Il lupo, animale feroce e vorace, è considerato dai pastori il principale nemico delle greggi. Pertanto, esso simboleggia i pericoli del mondo ostile in cui il Maestro invia i suoi discepoli. «Ecco» avverte, «io vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (Matteo 10,16). Nell’immaginario cristiano, il lupo sarà il simbolo delle forze sataniche che minacciano il gregge dei fedeli, spesso presentati come pecore nell’iconografia. Nella catacomba di Pretestato, l’episodio della casta Susanna aggredita dai due lubrici vegliardi è rappresentato in una pittura murale per mezzo dell’immagine di una pecora che si trova di fronte due lupi. 3
2. Daniele nella fossa dei leoni, lastra incisa, IV secolo, catacomba di Priscilla, Roma. 3. Contadino che scaccia un lupo, mosaico pavimentale, chiesa dei Ss. Martiri Lot e Procopio, Khirbat al-Mukhayyat, Giordania.
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GLI UCCELLI Nella cultura antica, l’uccello in genere assume un valore simbolico in rapporto alle cosmologie antiche che collocano la dimora degli dei o di Dio nei cieli o nelle sfere celesti. L’uccello che vola tra cielo e terra è considerato un messaggero tra la terra e il cielo. Questo perché gli esseri celesti, come gli angeli, messaggeri di Dio, sono rappresentati con le ali. Nell’arte romana antica, Victoria, la dea della vittoria, ha le ali per correre dal cielo in soccorso dei generali in battaglia. Nella pittura egizia, un uccello dalla testa d’uomo rappresenta l’anima del defunto che dopo la morte si leva in volo. Secondo l’antropologia dualista del platonismo, l’anima nel corpo è come in una tomba. Quest’idea ha ispirato la rappresentazione di un uccello chiuso in gabbia. È il simbolo dell’anima che, liberatasi attraverso la morte, sta per ritornare al mondo astrale da cui è caduta. È probabile che la frequente raffigurazione di colombe nell’arte funeraria cristiana non rappresenti soltanto la speranza della pace
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1. Due vittorie alate che, secondo la tradizione romana, reggono il busto della personificazione di Costantinopoli divenuta capitale cristiana dell’Impero d’Oriente, dittico in avorio (parte superiore), VI secolo, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, Castello Sforzesco, Milano. 2. Battesimo di Gesù: il Battista gli impone la mano destra sulla testa; proprio al di sopra della mano, la colomba dello Spirito Santo; negli angoli in alto, personificazioni della luna e del sole, placca d’avorio, Musée des Beaux-Arts, Lione.
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celeste, ma anche il volo dell’anima verso il paradiso, nell’attesa della resurrezione del corpo. La colomba
3. Sei colombe ai due lati di un chrismon scolpite in bassorilievo sulla cornice principale di una tavola d’altare proveniente da Vaugines (Vaucluse), fregio in marmo, V-VI secolo.
Dopo aver ricevuto il battesimo nel Giordano, Gesù «vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba» (Marco 1,10). Pertanto, nella letteratura cristiana e nell’iconografia, la colomba, «uccello di dolcezza, d’innocenza e semplicità» (Origene), diviene il simbolo dello Spirito Santo. Presso i Padri, è spesso prefigurata nella colomba di Noè. «Infatti» scrive Cirillo di Gerusalemme, «come al tempo di Noè, per mezzo del legno e dell’acqua, gli uomini ricevettero la salvezza e diedero inizio a una nuova generazione, e come la colomba tornò da lui sul far della sera con un ramo d’ulivo, così lo Spirito Santo discese sull’autentico Noè [Cristo], autore della seconda generazione»21. È in
4. Epitaffio con colomba e ramoscello d’ulivo, catacomba di S. Callisto, Roma. 5. Colombe con ramoscello d’ulivo affrontate ai lati di un chrismon inscritto in un cerchio, placca funeraria (particolare), V secolo, Musée d’Aquitaine, Bordeaux. Rappresentazione simbolica della speranza di pace eterna con Cristo.
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questo senso che vanno intese le raffigurazioni di Noè nell’arca con la colomba, presente nei cicli pittorici delle catacombe che evocano la salvezza (→ Noè). Accanto a questa rappresentazione privilegiata, esiste anche quella della colomba come simbolo dell’anima del fedele, ad esempio nell’iconografia funeraria, nella decorazione di altari o, ancora, attorno al calice eucaristico. La colomba può inoltre simboleggiare la Chiesa, come per Isidoro di Pelusa, che vede in essa «la colomba perfetta» del Cantico dei cantici22. In effetti, all’origine di questa rappresentazione è il paragone tra la sposa e la colomba del li-
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1. Colombe attorno a un calice da cui escono due foglie di vite con grappoli d’uva, basilica di S. Vitale, Ravenna. 2. Due pavoni ai lati di un calice, mosaico pavimentale proveniente da una villa di campagna presso Ounaïssia, VI secolo, Museo del Bardo, Tunisi. 3. Due pavoni, uno di fronte a un cesto rovesciato da cui fuoriescono fiori, l’altro di fronte a un calice, arcosolio di una sepoltura, cubicolo F detto «di Sansone», catacomba di via Dino Compagni, Roma. 4. Due pavoni, emblemi di immortalità, ai lati di un chrismon racchiuso in una corona, pannello della porta lignea della basilica di S. Ambrogio, Museo della Basilica, Milano.
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bro dell’Antico Testamento: «Ma unica è la mia colomba la mia perfetta» (Cantico 6,9). Nel libro apocrifo delle Antichità bibliche, anche Israele veniva paragonato alla colomba (39,5).
Il pavone Talvolta, il pavone figura nei programmi iconografici funerari, come all’interno delle catacombe, perché simboleggia la resurrezione. La sua carne era consideSIMBOLI TRATTI DALLA NATURA
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rata incorruttibile. Sant’Agostino, che talvolta si dimostra piuttosto ingenuo, fa eco a quest’idea fantasiosa, considerando il pavone emblema d’immortalità23, o forse non fa che riprendere un simbolo noto a tutti. Più probabilmente, il fatto che le sue belle piume ricrescano in primavera veniva interpretato come simbolo della gloria della resurrezione. La fenice Analogamente, la fenice, uccello mitico – simile nell’aspetto a un airone cinerino – che si pensa rinasca dalle proprie ceneri, evoca la resurrezione di Cristo e, successivamente, quella dei fedeli. Clemente di Roma riporta questa leggenda orientale per concludere: «Troveremo dunque strano e sorprendente che il Creatore dell’universo faccia rivivere coloro che lo hanno servito con devozione e confidando in un fede perfetta, quando ci fa vedere in un uccello la magnificenza della sua promessa?»24. Pertanto non sorprende vedere la fenice nei programmi iconografici che evocano la resurrezione. 114
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1. Adamo troneggia tra gli animali con la fenice nimbata posta in risalto, mosaico proveniente da Huarte, V secolo, Museo di Apamea, Siria. 2. Fenice nimbata, simbolo della resurrezione, su un Golgota stilizzato, mosaico proveniente da Antiochia, V secolo, Musée du Louvre, Parigi.
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L’aquila Nella Bibbia, l’aquila, ammirata per il suo volo maestoso e veloce, è simbolo degli esseri celesti che figurano nella visione fantastica del carro di Yahweh in Ezechiele (1,10; 10,14); a questa si ispirerà l’autore dell’Apocalisse per descrivere i quattro «viventi» che circondano il trono di Dio, il quarto dei quali «era simile a un’aquila mentre vola» (Apocalisse 4,7). I cristiani ne faranno l’emblema del quarto evangelista nella ben nota rappresentazione del «tetramorfo» (vedi a questa voce). In un altro passo, l’autore afferma «vidi poi e udii un’aquila che volava nell’alto del cielo e gridava a gran voce: ‘Guai, guai, guai agli abitanti della terra’». Quest’aquila ha dunque la funzione di messaggero di Dio. Più avanti, per sottrarre al drago la donna che aveva partorito, le furono date «le due ali della grande aquila, per volare nel deserto» (Apocalisse 12,13-14). D’altra parte, il Deuteronomio paragona Yahweh a un’aquila (32,11). Il salmista lo implora con queste parole: «Proteggimi all’ombra delle tue ali» (Salmi 17,8; 36,8). Un altro salmo ispirato a una leggenda popolare, che fa pensare a quella della fenice, ricorda la bontà di Dio nei confronti dell’uomo: «Salva dalla fossa la tua vita (...) egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza» (Salmi 103,4-5). È, com’è noto, consuetudine dei primi cristiani cercare un’interpretazione cristologica nei testi veterotestamentari. Pertanto, si applicherà all’ascensione di Cristo il passo di un oracolo di Geremia che proclama: «Ecco, come l’aquila, egli sale e si libra, espande le ali su Bozra» (Geremia 49,22), cui si associa il versetto di un proverbio che enumera, tra quattro cose misteriose, «il sentiero dell’aquila nell’aria» (Proverbi 30,19). Lo Pseudo Melitone di Sardi spiega: Aquila Christus, «l’aquila è Cristo». Si può sorridere di questo tipo di interpretazione, ma esso consentiva di cristianizzare un simbolo utilizzato anche nel mondo romano, all’epoca molto influenzato dalle rappresentazioni neopitagoriche e stoiche, secondo le quali le anime dei morti salgono verso gli astri. In alcune rappresentazioni dell’apoteosi degli imperatori, si può vedere un’aquila che simboleggia il volo verso il cielo dell’anima del defunto «divinizzato». Un altro aspetto simbolico dell’aquila è connesso al fatto che essa uccide serpenti. Visto che il serpente costituisce una delle rappresentazioni di Satana, i cristiani vedranno nell’aquila l’immagine di Cristo, che ha ridotto all’impotenza il suo avversario, Satana. 116
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1. Aquile funerarie reggono il grande disco solare, cupola della cappella 25, necropoli di Bagawat, Oasi di Kharga, Egitto.
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CAPITOLO QUARTO
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I primi cristiani, con l’eccezione di qualche gruppo marginale di stampo settario, hanno fatto propri i valori della cultura greco-romana, nella misura in cui li giudicavano compatibili con la propria fede. Evidentemente, ciò è valido innanzitutto per i convertiti dal paganesimo, educati secondo questo modello culturale, ed è ugualmente valido per gli ebrei divenuti cristiani che, nella maggior parte dei casi, come san Paolo, erano stati educati nel giudaismo ellenistico, e spesso conoscevano la Bibbia solo nella versione greca, «la Settanta». È necessario dunque comprendere a fondo che i cristiani dei primi secoli, che siano di origine ebraica o pagana, sono immersi in una doppia cultura: quella biblica e quella greco-romana. Essi trarranno i propri simboli dall’una e dall’altra cultura, facilitati in questo dal fatto che certi simboli sono comuni alle due culture, come la metafora delle due vie, per citare un tipico esempio di modello pluriculturale. SIMBOLI VARI L’orante 2. Figura di orante, fine III secolo, cimitero Maggiore, Roma. Si tratta dell’atteggiamento consueto di chi prega. Nelle catacombe e sui sargofagi questa figura esprime la certezza della salvezza e la speranza della vita eterna. 3. Orante, sarcofago proveniente dalla necropoli di S. Sebastiano (fronte), fine IV secolo, Museo delle Sculture, complesso di S. Sebastiano, Roma.
L’immagine dell’orante è una delle rappresentazioni più frequenti delle catacombe cristiane, fin dall’inizio del III secolo. Si tratta in genere di una donna (più raramente un uomo) in piedi, le braccia levate nell’atto di pregare. È, nel mondo antico, il gesto abituale di coloro che pregano, come emerge anche dal Vangelo. Dice Gesù: «Quando vi alzate a pregare» (Marco 11,25). Da ciò, l’appellativo di orante (dal latino orare, «pregare»). I cristiani l’hanno adottato con maggior facilità dal momento che lo stesso gesto si ritrova nella Bibbia, ad esempio quando Mosè si raccoglie in preghiera, «le braccia levate», durante il
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combattimento degli ebrei contro gli Amaleciti (Esodo 17,11-12; vedi anche 1 Re 8,38). Per l’autore delle Costituzioni apostoliche, lo stare in piedi simboleggia il risorto che si è «rialzato» tra i morti: «Colui che è risorto [il battezzato] deve necessariamente stare in piedi per pregare, perché colui che è stato rialzato sta in piedi»1. È da notare anche la raccomandazione di san Paolo: «Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure» (1 Timoteo 2,8). Sul piano iconografico, i cristiani hanno anche potuto ispirarsi al tipo comune di rappresentazione della pietas romana, personificazione della pietà verso gli uomini e verso gli dei2, talvolta raffigurata sul rovescio di monete o medaglie imperiali. Nella cultura collettiva, i valori, al pari delle virtù o delle entità astratte, quali la vittoria o le stagioni, che portavano nomi femminili, venivano naturalmente rappresentati per mezzo di figure femminili. L’orante rappresenta anche la Chiesa in preghiera. Ciò spiega dunque perché si trovino più donne che uomini oranti. Numerosi personaggi biblici sono rappresentati in queste vesti: Noè, Daniele, i tre ebrei nella fornace, Susanna, ecc. In questi casi, si tratta della raffigurazione di una preghiera per la salvezza, immagine particolarmente appropriata in un contesto funerario (catacombe, sarcofagi). Tuttavia, questa simbologia evoca più della semplice preghiera di intercessione. Essendo spesso accompagnata dalla figura del pastore, il Salvatore, o da scene bibliche di salvezza, la figura della donna orante (o dell’uomo orante) esprime anche la certezza e la gioia di essere salvati, l’accesso promesso alla vita eterna. È sorprendente constatare che i cicli delle pitture catacombali e quelli dei rilievi dei sarcofagi sono improntati a un’atmosfera di serenità e di gioia. I primi cristiani sono degli ottimisti. Un passo delle Odi di Salomone potrebbe servire da didascalia a quest’immagine simbolica: «Ho levato le braccia in alto, col favore del Signore, perché mi ha liberato dalle mie catene e mi ha fatto salire verso la sua grazia e la sua salvezza». Dietro questa rappresentazione, vi è anche un’imitazione dell’atteggiamento di Gesù sulla croce: «Stese le mani nell’ora della sua passione», secondo la formula tradizionale. L’autore delle stesse Odi di Salomone lo lascia chiaramente intendere: «Ho steso le mie mani e ho santificato il mio
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1. Orante al centro di un sarcofago «ad alberi», ca. 375, Musée de l’Arles antique, Arles. 2. Scene di martìri con orante (particolare), fine IV secolo, oratorio al primo piano delle domus romane situate sotto la chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, Roma. 3. Figura femminile di orante, mosaico, fine VI secolo, Collezione Federico Zeri, Roma.
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Signore, perché nelle mie braccia distese è il suo segno e ciò su cui sono steso è la parte superiore della croce»3. La pensa allo stesso modo Tertulliano, che scrive: «Tendiamo le mani in ricordo della passione del Signore». Bisogna tenere presente che non vi sono rappresentazioni di Gesù crocifisso prima della metà del V secolo. SIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
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L’oro L’oro ha affascinato gli uomini dalla notte dei tempi in quanto metallo prezioso, inossidabile e splendente come il sole. In quasi tutte le culture, in effetti, viene associato al sole divinizzato e al mondo celeste. Gli antichi egizi consideravano l’oro la carne degli dei. Nel cristianesimo, l’oro mantiene il suo simbolismo solare e celeste, perché l’aureola che circonda la testa dei santi, e soprattutto di Cristo, è dorata. L’oro si addice in particolar modo al Cristo glorioso, definito «il sole di giustizia» che rischiara il mondo. È il modo migliore che gli artisti cristiani hanno trovato – specialmente utilizzando tessere d’oro nei mosaici – per esprimere la gloria del Pantokrator, del Signore del mondo (→ Cristo re del mondo). La corona della vittoria, la corona di gloria Nella Bibbia, come nelle civiltà antiche, la corona è un simbolo ben noto, il cui significato, tuttavia, varia a seconda dei casi. È opportuno innanzitutto distinguere due tipi: la corona in metallo prezioso, solitamente in oro e talvolta ornata di pietre preziose, e la corona di foglie. La corona d’oro è l’emblema della re120
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1. Aureola dorata su fondo d’oro, mosaico absidale di papa Teodoro I (san Primo), S. Stefano Rotondo, Roma. 2-3. Martiri recanti la corona della vittoria, battistero di S. Giovanni in Fonte, Napoli.
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galità. Il suo colore dorato, solare apparenta il sovrano al mondo divino. I sovrani orientali erano spesso considerati figli del dio nazionale o, per lo meno, suoi rappresentanti sulla terra. Qui ci limiteremo a precisare che, in Israele, la regalità non sfugge a questo tipo di rappresentazione comune. I primi cristiani l’applicheranno a Gesù, il Messia di stirpe davidica. Nell’Apocalisse, il Figlio d’uomo appare con una corona d’oro (14,14), emblema del messia reale. È noto che i soldati diedero a Gesù, dopo la condanna a morte, una corona di spine per farsi beffe della sua pretesa regalità (Marco 15,17). Nelle pitture e nei mosaici in cui Cristo troneggia in maestà come re dell’universo, la sua testa è circondata da un’aureola dorata, autentica corona di luce, che ha lo stesso significato della corona regale in oro. Il secondo tipo di corona, composto di foglie (alloro, edera, mirto, ulivo, salice, ecc.) o di fiori, è di uso più comune, in genere festivo. Lo si ritrova nella primitiva liturgia del battesimo. Non appena il battezzato usciva dalla piscina, lo si ricopriva con una veste bianca e gli si metteva una corona sul capo. Il simbolismo di quest’ultimo rito ha un doppio significato perché si fonda contemporaneamente sulle usanze greco-romane e sulla tradizione cultuale ebraica. È consueto il ricorso all’antica usanza di consegnare una corona ai vincitori di giochi sportivi. San Paolo si serve di questa metafora per illustrare il combattimento del cristiano e la sua personale battaglia: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2 Timoteo 4,7-8). «Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (1 Corinzi 9,25). L’autore della prima lettera di Pietro evocherà a sua volta «la corona della gloria che non appassisce» (1 Pietro 5,4), a differenza della corona di foglie. Sembra proprio che la metafora usata in questo caso si fondi sulla pratica dei giochi sportivi solo perché gli autori si rivolgono a cristiani provenienti dal paganesimo e all’oscuro dei costumi ebraici. In effetti, nel giudaismo l’uso di corone e rami di palme in occasione della processione della festa dei Tabernacoli (Sukkoth) aveva un significato messianico ed escatologico. È questa simbologia che, con la mediazione dei giudeocristiani, è passata nel cristianesimo antico e, infine, dà significato alla consegna di corone durante il battesimo. Poco tempo fa, Jean Daniélou lo ha brillantemente dimostrato. È questo significato che predomina nei testi neotestamentari. La corona è la ricompensa degli eletti e, in particolar modo, dei martiri. Ai testi citati in precedenza, si possono aggiungere quelli che seguono: «Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita» (Apocalisse 2,10); «Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano» (Giacomo 1,12). Per il suo alto valore simbolico, ci si può rammaricare del fatto che la consuetudine di consegnare una corona ai neo-battezzati sia scomparsa4. È noto che Tertulliano, in Africa, si opporrà a questa pratica a causa della confusione con pratiche pagane che essa ingenerava. Per la stessa ragione, Clemente Alessandrino non è molto favorevole all’uso di corone da parte dei cristiani5. Malgrado queste reazioni negative, l’usanza si conservò in ambito popolare, ad esempio in occasione della celebrazione di matrimoni. La consegna della corona agli sposi era accompagnata da una preghiera come questa: «Che questo servo di Dio, N., sia incoronato per la serva di Dio, N. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
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1. Monogrammi di Cristo racchiusi in corone, sarcofago del vescovo Teodoro, VI secolo, basilica di S. Apollinare in Classe, Ravenna. Il Cristo vittorioso sulla morte e glorioso è garante della speranza del defunto. 2. Cristo vittorioso, mosaico absidale dorato, basilica dei Ss. Cosma e Damiano, Roma.
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Che questa serva di Dio, N., sia incoronata per il servo di Dio, N. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Signore nostro Dio incoronateli di gloria e d’onore»6.
Quali che siano le pratiche rituali, la corona resta un simbolo figurativo molto diffuso. Ad esempio, nella chiesa di S. Vitale a Ravenna, si vede Cristo in maestà consegnare al martire la corona di gloria. Nell’arte paleocristiana, la corona è l’emblema dei martiri. Quella che tengono in mano è al tempo stesso «corona della vittoria», perché, seguendo Cristo, hanno trionfato sul male e sulla morte, e «corona di gloria», perché condividono anche la gloria di Dio in paradiso. Peraltro, la corona che circonda spesso il monogramma di Cristo o la croce dipende da questa doppia simbologia. Soprattutto a partire da Costantino, la corona è spesso corona della vittoria. Questo significato deriva dall’uso romano: il generale vittorioso, in occasione del suo trionfo, portava sulla testa una corona d’alloro, che era anche l’emblema di Giove e di Apollo. L’aureola L’aureola è quella fascia luminosa, quasi sempre circolare, che circonda la testa di un personaggio per evidenziare la sua natura celeste o divina. È un segno convenzionale, analogo a quello della stella che accompagnava la rappresentaSIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
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1. Processione di martiri vestiti di bianco, le teste circondate da un nimbo dorato e recanti la «corona di gloria», VI secolo, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna.
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zione degli dei nella cultura assirobabilonese. Nel mondo greco-romano l’aureola rappresentava la corona del dio Sole, circondava la testa degli dei e degli imperatori divinizzati. I cristiani si appropriarono di questo simbolo. Fin dal II secolo, l’aureola incorona il capo di Cristo, ad esempio nella catacomba romana di S. Callisto, e diviene un attributo comunemente usato nelle pitture e nei mosaici. In seguito la si attribuisce anche agli angeli, ai santi e ai martiri. Spesso è del colore dell’oro, simbolo del mondo solare e celeste. L’aureola crucifera è evidentemente riservata a Cristo. 124
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2. San Demetrio con un’aureola circolare tra i fondatori con un’aureola quadrata (Leonzio, che fece edificare la chiesa nel V secolo, e il vescovo che la fece ricostruire dopo l’incendio), pilastro mosaicato, VII secolo, chiesa di S. Demetrio, Salonicco. 3. Due angeli portano Cristo in trono con un’aureola crucifera, bassorilievo proveniente da Bawit, Museo Copto del Cairo Vecchio.
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La barba Comune attributo di virilità, la barba simboleggia la forza e il coraggio, ma il fatto di portarla o meno varia a seconda delle civiltà e dei costumi. A Roma, fino al regno di Adriano, si usava radersi la barba, pratica che fu ripresa sotto Costantino. Gli ebrei la portavano, considerandola ornamento virile. Il taglio della barba era considerato un disonore per chi lo subiva. Nell’iconografia paleocristiana, gli apostoli Pietro e Paolo sono sempre raffigurati con la barba, conformemente all’usanza ebraica. Anche Gesù avrà portato la barba. Sorprende, quindi, vederlo rappresentato come un giovane imberbe nelle prime raffigurazioni. Il contrasto è particolarmente forte nel sarcofago di Giunio
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1. Gesù adolescente imberbe, sarcofago di Giunio Basso, IV secolo, basilica di S. Pietro, Roma. L’immagine simboleggia la giovinezza del Vangelo in contrasto col paganesimo declinante. Gesù pone un piede sul vecchio dio del cielo in atteggiamento di dominio: «Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi» (Salmi 8,7, citato in Efesini 1,22). 2. Gesù adolescente imberbe, IV secolo, Museo delle Terme, Roma. 3. Busto di Cristo, mosaico absidale, basilica di S. Lorenzo, Roma. 4. Cristo con barba e lunghi capelli, vaso proveniente da Emesa (Siria), VI secolo, Musée du Louvre, Parigi.
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Basso, dove vediamo un Gesù adolescente e imberbe seduto tra due apostoli in piedi, di età matura e con la barba. Il simbolo prevale sulla realtà sociologica. Gesù è giovane e bello come Apollo. Si conoscono anche altri esempi. È probabile che questo tipo di raffigurazione tragga ispirirazione dalla cultura greco-romana classica e dal suo ideale di bellezza maschile. Ma, d’altro canto, si può pensare che la giovane età di Cristo rappresenti la giovinezza del nuovo movimento, il suo dinamismo e il suo ottimismo, in contrasto con un paganesimo che invecchia. In ogni caso, in breve tempo, Cristo verrà raffigurato con la barba, principalmente nelle scene in cui troneggia in maestà. Si ritorna, dunque, alla cultura ebraica, espressa senza equivoci dal redattore delle Costituzioni apostoliche: «Non si devono radere i peli della barba né modificare la forma umana in dispregio alla natura, perché la Legge dice: ‘Non vi depilerete la barba’. [D’essere imberbi] Dio il creatore ha fatto una regola per le donne, ma non lo ha giudicato appropriato per gli uomini. Ora, se tu ti depili per piacere, ti opponi alla Legge, e sarai esecrabile agli occhi di Dio, lui che ti ha creato a sua immagine»7. SIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
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La veste bianca Nelle pitture paleocristiane, un certo numero di personaggi porta abiti bianchi, spesso una lunga veste. È la rappresentazione tradizionale degli angeli e degli esseri celesti in genere. Gli artisti cristiani hanno tratto ispirazione dai testi della Scrittura. Il candore, come la luce, evoca il mondo celeste nell’Antico Testamento e nel tardo giudaismo. Gli autori del Nuovo Testamento faranno largo uso di questa simbologia. Quando gli evangelisti descrivono l’apparizione di angeli, li mostrano con le sembianze di uomini vestiti di bianco. Ciò è particolarmente evidente nel racconto della resurrezione di Cristo. Le tre donne che, secondo Marco, vengono per imbalsamare il corpo di Gesù, vedono nella tomba vuota «un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca» (Marco 16,5). La versione di Matteo, piuttosto differente, specifica che si tratta di un angelo: «Un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve» (Matteo 28,2-3). Nella versione lucana, la scena si svolge in maniera ancora diversa: «Ecco due uomini apparire vicino a loro [le donne venute al sepolcro] in vesti sfolgoranti», che esse identificano come angeli a causa del loro aspetto (Luca 24,4,23). La variante giovannea conserva i due messaggeri celesti «vestiti di bianco» e li chiama per l’appunto «angeli». Una costante di queste descrizioni è la veste bianca (o sfolgorante), caratteristica degli esseri celesti. Pertanto, non ci si meraviglierà che i sinottici presentino
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1. L’angelo dell’annunciazione, mosaico dell’arco trionfale (parte sinistra), basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Trasfigurazione di Cristo con veste bianca, mosaico absidale, VI secolo, chiesa principale (Katholikon) del monastero di S. Caterina del Sinai, Egitto. 3. L’Agnello sostenuto da angeli in vesti bianche, mosaico della volta, basilica di S. Vitale, Ravenna.
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la scena della trasfigurazione di Gesù ricorrendo a questa simbologia: «Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Marco 9,3); «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Matteo 17,2); «Il suo volto», riferisce Luca, «cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante». L’evangelista ne conclude che i tre apostoli testimoni della scena «videro la sua gloria» (Luca 9,29,32). Grazie a questa simbologia del candore celeste, i sinottici esprimono, per così dire, visivamente la natura divina di Gesù e il suo stato futuro di risorto. È soprattutto l’autore dell’Apocalisse che fa spesso ricorso a questa simbologia. I testi interessati possono suddividersi in due gruppi: il primo descrive gli esseri celesti; il secondo si riferisce agli eletti. Il cavaliere celeste (il Messia) monta un «cavallo bianco» ed è scortato dagli «eserciti del cielo» (gli angeli), che montano a loro volta «cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro» (Apocalisse 19,11,14). Anche i ventiquattro vegliardi che troneggiano in cielo sono «avvolti in candide vesti» (Apocalisse 4,4). È ugualmente «bianca» la «nube» sulla quale «uno stava seduto, simile a un Figlio d’uomo» (Apocalisse 14,14). D’altra parte, i sette angeli dai sette flagelli sono «vestiti di lino puro, splendente» (Apocalisse 15,6). Poi, alla fine dei tempi, la sposa dell’Agnello, la Chiesa, sarà vestita di «lino puro splendente» (Apocalisse 19,8). Quest’ultima citazione ci introduce al secondo gruppo. Poiché gli eletti parteciperanno alla vita e alla felicità celesti, la veste bianca ne sarà il segno e il simbolo. Si tratta in primo luogo dei martiri: «Venne data a ciascuno di essi una veste candida», segno della loro partecipazione alla vita divina. Segue poi la visione dell’immensa folla degli eletti che «stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide» (Apocalisse 6,11; 7,9). Di conseguenza, quando gli artisti cristiani vogliono dipingere gli angeli o 130
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1. Figure di martiri, ricostruzione del mosaico dell’arco trionfale (lato sinistro), basilica di S. Paolo fuori le mura, Roma. 2. Gesù moltiplica i pani col suo bastone, IV secolo, ipogeo degli Aurelii, Roma. Per l’artista, che si ispira probabilmente al bastone di Mosè, quello di Gesù è simbolo del suo potere miracoloso, mentre i Vangeli non ne fanno menzione. 3. Mosè colpisce la roccia col bastone, IV secolo, catacomba di S. Callisto, Roma. «Il Signore disse a Mosè: (...) Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e và! Ecco, io starò davanti a te sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà» (Esodo 17,5-6).
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i beati, li rappresentano vestiti di vesti bianche, segno evidente di riconoscimento per gli iniziati. Questa simbologia permette di comprendere il rito battesimale della consegna della veste bianca al neofita all’uscita dalla piscina battesimale. Questo rito si integra coerentemente nello svolgimento del battesimo antico, con la sua struttura bipolare che segna il passaggio da uno stato all’altro, dal mondo delle tenebre a quello della luce: è il simbolo che il battezzato è d’ora innanzi «illuminato» (→ Battesimo). Il bastone Negli eventi miracolosi di cui è protagonista Mosè, ricordati dai cristiani per il loro valore «profetico» (passaggio del Mar Rosso, acqua scaturita dalla roccia, ecc.), egli opera servendosi del suo bastone. Non si tratta di una bacchetta magica, dal momento che ebrei e cristiani si oppongono a ogni pratica magica, ma di uno strumento che simboleggia la potenza di Dio per il tramite del suo profeta. È probabilmente alla base dell’introduzione, nell’arte cristiana, di un bastone in alcune scene di guarigioni o di miracoli operati da Gesù, mentre nei racconti evangelici Gesù non utilizza mai questo strumento. Lo si constata, ad esempio, nella raffigurazione della moltiplicazione dei pani, del miracolo di Cana o della resurrezione di Lazzaro. Si trattava di una convenzione per rappresentare visivamente la potenza della parola di Cristo.
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La nave La nave era il mezzo di trasporto usuale di viaggiatori e merci per collegare tra loro le varie parti dell’impero romano che si trovavano attorno al Mediterraneo. Richiamava alla mente i viaggi lontani e i rischi della traversata. Assieme alle immagini del porto, del faro o dell’ancora, che gli vengono associate, il valore simbolico dell’imbarcazione, quale ne sia la forma, evoca presso gli antichi l’ultimo viaggio, il passaggio dalla morte alla vita nell’aldilà. Secondo alcune visioni mitiche, una barca scortava i morti verso le Isole dei Beati. Si tratta dunque, innanzitutto, di un simbolo funerario che i cristiani hanno ampiamente ripreso. Facendo un’allusione implicita all’Odissea, sant’Agostino scriveva: «La vita in questo mondo è come un mare in tempesta che è necessario attraversare per condurre in porto la nostra barca. Se riusciamo a resistere alle tentazioni delle sirene, essa ci condurrà alla vita eterna». Troviamo la stessa immagine nella preghiera di un martire, Severo, prete di Adrianopoli: «Tu [Dio] il porto tranquillo di chi è sballottato dalla tempesta; Tu che dai speranza a chi spera in Te»8. Questo simbolo assume anche un significato più propriamente cristiano, probabilmente in ricordo dei molti apostoli che erano pescatori del lago Tiberiade. La nave rappresenta la Chiesa di cui Cristo è la guida. Su un frammento di sarcofago è raffigurata una barca con tre rematori di cui vengono indicati i nomi: a prua, Gesù che guida e tre rematori, gli evangelisti Marco, Luca e Giovanni, ai quali doveva aggiungersi Matteo nel frammento mancante. Il significato è evidente: la Chiesa è guidata dall’insegnamento di Gesù, contenuto nei quattro Vangeli. Il paragone tra la Chiesa e la nave è presente ovunque nella letteratura ecclesiastica. Si possono citare, a titolo d’esempio, le Costituzioni apostoliche, che lo applicano alla Chiesa locale. Rivolgendosi al vescovo, l’autore gli fa la seguente raccomandazione: «Quando riunisci la Chiesa di Dio, esigi, come il capitano di una grande nave, che le riunioni si svolgano con grande disciplina, e ordina ai diaconi, come a dei marinai, di assegnare i loro posti ai fratelli, come a dei passeggeri, con grande responsabilità e dignità»9. Nell’architettura cristiana, la navata, come indica il nome stesso, simboleggia la naveChiesa (→ Chiesa). A volte si è ravvisata nell’albero della nave, attraversato dalla sua antenna, la forma di una croce. Ippolito di Roma, paragonando la Chiesa a una nave, scrive: «Essa ha al suo centro il trofeo [l’albero] che vince la morte, come se portasse la croce di Cristo con sé» (§ 29). In generale, la simbologia cristiana della nave va anche associata a quella dell’arca di Noè. 132
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1. Gesù in una barca che rema in compagnia degli evangelisti Marco, Luca, Giovanni (e probabilmente Matteo nella parte mancante), sarcofago (frammento), 325-350, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 2. Giona gettato da una nave con albero cruciforme, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 3. Giona gettato da una nave con albero cruciforme, affresco, cappella dell’Esodo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto.
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L’ancora L’ancora da imbarcazione era comunemente usata per la navigazione nel Mediterraneo. Essa assicurava stabilità e sicurezza alla barca. Divenne con facilità l’emblema della fede in Dio, tanto più che la lettera agli Ebrei utilizzava questa metafora: «[Nella] speranza che ci è posta davanti (...) noi abbiamo come un’ancora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell’interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore» (Ebrei 6,18-20). I cristiani ne fanno precocemente uno dei propri simboli di salvezza, tanto negli scritti (si veda, a titolo d’esempio, il paragrafo 67 degli Atti di Giovanni) che nell’iconografia. Clemente Alessandrino conosce questo simbolo e ammette che possa essere scolpito a intaglio sui sigilli. L’aspetto vagamente cruciforme dava ulteriore forza a questo simbolo di salvezza cristiana e spiega la sua presenza nell’arte funeraria paleocristiana, come sui sarcofagi, dove si trova accanto ai più comuni simboli cristiani. L’ancora è talvolta associata a un delfino o a un pesce, entrambi simboli di Cristo. Il porto e il faro Il porto è l’oasi di pace dopo la tempesta e la meta del viaggio. È un simbolo precristiano: la vita è come un viaggio che conduce al porto. Esso fu cristianizzato con facilità. In connessione con il simbolo della nave-Chiesa, il porto simboleggia la fine del viaggio terreno, l’approdo nel regno di Dio. Analogamente, il faro indica l’ingresso del porto, la sua luce rappresenta Cristo, «luce del mondo», che guida l’umanità verso il porto della salvezza, la città celeste.
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1. Ancora con pesci, mosaico proveniente da una villa tunisina, IV secolo, Museo del Bardo, Tunisi. Il Cristianesimo si è ormai affermato e l’amore per il mare si trasforma in allegoria in cui ancora e pesci trovano un nuovo significato simbolico. 2. Ancora cruciforme ai piedi di un’orante, sarcofago (particolare), chiesa di Saint-Sauveur, Brignoles. L’immagine è simbolo della speranza di salvezza apportata da Cristo.
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La falce e l’aratro La profezia messianica e universalistica di Isaia annuncia un’era di pace. «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo» (Isaia 2,4). Questo testo è spesso indicato dai cristiani come un annuncio della non-violenza insegnata da Gesù, «una nuova alleanza, conciliatrice di pace», come la definisce Ireneo di Lione, dopo aver ci-
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3. Imbarcazione e faro, epitaffio di Firma Victoria, Museo Lapidario Cristiano, Città del Vaticano. 4. Vendemmiatore che taglia un grappolo d’uva col falcetto, mosaico pavimentale (particolare), VI secolo, chiesa inferiore di Kaianos, ‘Uyun Musa, Monte Nebo.
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tato il profeta. «Se la legge di libertà, vale a dire la parola di Dio annunciata su tutta la terra dagli apostoli usciti da Gerusalemme, ha compiuto una tale trasformazione che le spade e le lance guerriere si sono mutate in aratri che il Signore stesso ha fabbricato, e in falci, che ha donato per mietere il frumento, ovvero in strumenti di pace – tanto che non si sa più combattere e, oltraggiati, si porge l’altra guancia – se è così, non è di un altro che hanno parlato i profeti, ma proprio di colui che ha fatto queste cose: è nostro Signore, e in lui si avvera la parola, perché è lui che ha fatto l’aratro e che ha portato la falce»10. Ireneo dà inoltre un’interpretazione cristologica dell’aratro, la cui antica struttura in legno evoca una croce: il timone ricorda l’asse verticale, mentre il vomere col manico, l’asse orizzontale. Almeno da Giustino in poi, l’aratro è divenuto uno dei simboli della croce, come altri oggetti in legno (→ Economia del legno). D’altra parte, l’aratro e la falce, così come il giogo, sono strumenti che lo stesso Gesù ha fabbricato a Nazaret. Giustino, che è nato in Palestina, riporta questa tradizione locale. Resta il fatto che questo simbolo, ben attestato nella letteratura cristiana, non è oggetto di rappresentazioni significative nell’arte antica. 1
Il giogo Anche il giogo, associato al timone dell’aratro, entrambi in legno, forma secondo Lattanzio il «segno della croce». Ma il simbolo più comune è quello che si ispira alla sua funzione: il giogo cui gli animali sono attaccati evoca la sottomissione e l’obbedienza al loro padrone. È la metafora utilizzata da alcuni autori dell’Antico Testamento per definire l’apprendistato della sapienza: «Sottoponete il collo al suo giogo, accogliete l’istruzione» (Siracide 51,26); «È bene per l’uomo portare il giogo fin dalla giovinezza» (Lamentazioni 3,27). Stesso parallelo per l’obbedienza a Yahweh secondo Sofonia (Sofonia 3,9). Pertanto, nulla di strano se Geremia, fustigando l’apostasia di Israele, lo accusa: «Hai infranto il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami e hai detto: ‘Non ti servirò!’» (Geremia 2,20). Nondimeno, Gesù rifiuta l’uso di considerare il rapporto con Dio in termini schiavistici (cf. Isaia 9,2). La legge d’amore richiede un altro genere di rapporti, basato sulla reciprocità e la libera accettazione della volontà di Dio. Con il suo gusto del paradosso, non privo di umorismo, rovescia la metafora. «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore (...). Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Matteo 11,28-30). In che modo un giogo potrebbe essere leggero? Un simile rovesciamento della metafora fino all’assurdo la annulla. Infatti è un attacco frontale di Gesù contro i farisei e gli scribi, che impongono «il giogo della Legge» e il fardello di molteplici prescrizioni, che gravano pesantemente sulle spalle dei poveri uomini (Matteo 23,4). L’hanno ben compreso i farisei e le autorità, che hanno visto in Gesù il perturbatore che bisognerà eliminare. 136
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1. Vignaiolo che taglia un grappolo d’uva col falcetto, mosaico pavimentale (particolare), VI secolo, chiesa dei Ss. Martiri Lot e Procopio, Khirbat al-Mukhayyat, Giordania.
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«Le due vie»
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2. Personaggio che entra da una porta (allegoria), cubicolo F detto «di Sansone», catacomba di via Dino Compagni, Roma.
«Dice il Signore: ‘Ecco, io vi metto davanti la via della vita e la via della morte’» (Geremia 21,8). A queste parole fanno eco quelle di Gesù, riferiteci dall’evangelista Matteo: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanto pochi sono quelli che la trovano» (Matteo 7,13-14). Questo testo, con la netta opposizione tra la via spaziosa e la via angusta, riflette la dottrina detta delle «due vie». La metafora, ben nota al giudaismo del tempo di Gesù, era già presente nelle culture antiche con le quali i saggi di Israele sono entrati in contatto nel corso della storia. Seguire un sentiero, un cammino, una strada, una via, è esperienza quotidiana dell’uomo. Su questo significato letterale si innesta in numerose lingue un senso figurato, che assume svariati significati metaforici. La simbologia della via appartiene agli archetipi fondamentali della cultura umana. Dalla metafora della via si passa facilmente a quella delle due vie, più precisamente a quella delle due direzioni che si presentano quando, ad esempio, si giunge a un incrocio, a una biforcazione. Il due è il numero della divisione. La ripartizione binaria è la più semplice e la più chiara. Poiché l’uomo ha due mani, la ripartizione dello spazio tra destra e sinistra è universale. L’applicazione morale della metafora indicherà naturalmente che vi è una scelta da compiere tra due comportamenti o, a un livello più profondo, tra due modi di vivere, secondo il bene o secondo il male. Dunque, la metafora delle due vie conduce facilmente a una sorta di dualismo morale. Talvolta, la metafora è filtrata fino al livello metafisico, esprimendo il dualismo ontologico del reale, luogo di scontro tra il bene e il male o, quantomeno, struttura binaria che influenza tutte le cose11. La simbologia delle due vie è stata utilizzata dalle antiche comunità cristiane, principalmente giudeocristiane. La Didache (Dottrina dei dodici apostoli) ce ne offre la testimonianza più tipica, già nel I secolo. È la metafora della scelta, sia morale che religiosa. Essa assume tutta la sua importanza quando si pensa che i cristiani l’hanno utilizzata in un contesto polemico, per opporsi a una concezione molto diffusa del fato: si pensava che l’uomo non fosse veramente libero, perché il suo destino era scritto negli astri o stabilito dagli dei. I cristiani hanno dunque ripreso la metafora per illustrare la libertà portata da Cristo, dato che egli è venuto a liberare l’uomo da tutte le sue alienazioni, quali che siano le loro forme (male, peccato, morte, demoni, ecc.). Perché ciò avvenga, l’uomo deve aderire liberamente alla via tracciata da Cristo: «Io sono la via». L’importanza del termine fa sì che il suo uso senza qualificativo, «la via», venga a designare non soltanto la «via di Cristo» ma, per estensione, la dottrina cristiana e la comunità di coloro che la seguono (vedi ad esempio Atti 2,9). Alla metafora della via si riallaccia quella della porta, perché la via conduce a una meta, dimora o città, e dunque alla porta che ne consente o meno l’accesso. Secondo la simbologia delle due vie, la via della salvezza conduce alla «porta SIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
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del cielo», mentre la via della perdizione conduce alla «porta degli Inferi». Per i cristiani, la porta del regno di Dio è Gesù, secondo la parola riportata dai quattro evangelisti: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo» (Giovanni 10,9). L’autore dell’Apocalisse riprende la metafora: «Così parla il Santo, il Verace [Cristo], Colui che ha la chiave di Davide [il regno di Dio]: quando egli apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre» (3,7). Quanto alle porte degli Inferi, dimora dei defunti, egli le infrangerà solamente per farne uscire i giusti che farà entrare nel suo regno (→ Discesa agli Inferi). I Padri riprenderanno spesso l’immagine della porta in relazione a Cristo. Sarà sufficiente citare Ignazio di Antiochia, che scrive: «[Cristo] è il sommo sacerdote, l’inviato del Santo dei Santi, la porta che conduce al Padre, attraverso cui entrano Abramo, Isacco, Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la Chiesa. Tutto questo [il Vangelo] ha un solo scopo: la nostra unione con Dio»12. Gesù affiderà le sue chiavi a Pietro, capo dei suoi apostoli: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Matteo 16,18-19). Ecco perché nell’arte cristiana la chiave è l’emblema di Pietro, raffigurato spesso alla destra di Cristo, mentre Paolo è alla sua sinistra.
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1. Consegna delle chiavi a Pietro da parte di Cristo, mosaico (particolare), mausoleo di S. Costanza, Roma.
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La metafora delle due vie si realizza in particolar modo, ed è anche concretamente attuata, nella struttura radicalmente binaria della liturgia battesimale. In effetti, così grande è la differenza tra la condizione dell’uomo prima del battesimo e quella che vi fa seguito, che si tratta di un’opposizione irriducibile. Prima, il catecumeno apparteneva a questo mondo dominato da Satana; dopo, appartiene al mondo nuovo del regno di Dio guidato da Cristo Salvatore. Prima, apparteneva al mondo delle tenebre e del peccato, essendo lui stesso peccatore e schiavo di Satana; dopo, è divenuto puro, senza peccato, figlio della luce, creatura di Dio liberata da Cristo. Prima, era esiliato dal paradiso; dopo, vi è nuovamente accolto. Prima era perduto; dopo è salvo. Prima era morto; dopo è vivo. Ritroviamo, anche sul piano lessicale, i termini opposti tipici delle due vie: morte-vita, tenebre-luce, Satana-Dio, o Cristo, mondo dei peccatori-mondo dei giusti, perdizione-salvezza, ecc. La struttura binaria che abbiamo appena evidenziato, rischia, tuttavia, di apparire troppo statica; occorre completarla con l’idea del progresso, dello sviluppo. Il catecumeno decide liberamente le azioni che lo collocano dinamicamente in un determinato orientamento morale e religioso. Una condizione non si sostituisce magicamente a un’altra. È qui che l’immagine della via si dimostra appropriata. «Avete intrapreso un giusto e assai nobile viaggio», dice Cirillo di Gerusalemme ai candidati al battesimo13. Prima del battesimo, il catecumeno, asservito al peccato del mondo, seguiva una via che lo allontanava da Dio e lo conduceva di conseguenza alla perdizione. Per cambiare via, per convertirsi, bisogna che accetti, attraverso una libera scelta, la grazia liberatrice di Cristo che, mediante il battesimo, lo instraderà sulla via del regno di Dio, la «via nuova e vivente che egli ha inaugurato» (Ebrei 10,20). «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Marco 16,16). Il rito battesimale segna il passaggio-frontiera, l’incrocio mistico che fa cambiare via. «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo (...) Salvatevi da questa generazione perversa» (discorso di Pietro durante la Pentecoste, Atti 2,38,40). L’idea di conversione, di libero impegno, corrisponde all’immagine dell’incrocio nel tema delle due vie. Questa simbologia è messa in scena nel rito battesimale detto «rinuncia a Satana», ma in realtà è solo il primo atto; il secondo, il più importante, consiste nel giuramento di fedeltà a Cristo, nel consenso a seguire la sua via, espresso nella professione di fede. Secondo il rito antico descritto da Giovanni Crisostomo, i catecumeni si volgevano dapprima verso Ponente, simbolo del mondo delle tenebre, e ciascuno, individualmente, pronunciava il giuramento: «Io rinuncio a te, Satana». Poi i catecumeni si volgevano verso il punto in cui sorge il sole, simbolo del mondo della luce, per pronunciare il giuramento di fedeltà a Cristo: «Io mi consacro a te, Cristo». Sul piano simbolico, il catecumeno ha fatto la scelta opposta a quella di Adamo ed Eva: ha scelto la via di Dio, la via della vita, non la via del Serpente e della morte. Questo paragone non è forzato, perché, a ben guardare, l’episodio del giardino dell’Eden è costruito su una struttura binaria per illustrare la condizione dell’uomo creato a immagine di Dio, vale a dire intelligente e libero, in possesso della capacità di compiere scelte fondamentali che orienteranno la sua vita: la scelta tra l’albero della vita e l’albero della morte. Nell’episodio del giardino dell’Eden della Genesi, non ci troviamo di fronte a un’esposizione filosofica, ma a una parabola che illustra la fondamentale libertà dell’uomo, creato a immagine di Dio14.
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L’imposizione della mano L’imposizione della mano, o delle mani, è un gesto simbolico ben attestato nella Bibbia come nei riti cristiani. È, fondamentalmente, un gesto di benedizione che rappresenta la grazia accordata da Dio, di cui il contesto letterario o rituale precisa la portata (guarigione, dono dello Spirito, trasmissione di un potere). Ricorderemo innanzitutto il simbolismo dell’imposizione della mano destra nel rito battesimale. Questo gesto è parso così caratteristico del battesimo agli occhi dei primi cristiani, che è sempre presente nelle rappresentazioni paleocristiane del rito, sia che si tratti del battesimo di Gesù, che di quello di un catecumeno (pitture catacombali e rilievi di sarcofagi). Lo schema figurativo è sempre il medesimo: una persona nuda e in piedi nell’acqua, il battezzato; accanto a lui un’altra persona, il battezzatore, che gli posa la mano destra sulla testa. Questo gesto è ben documentato negli scritti patristici e nelle catechesi battesimali. Esso accompagna sempre il rito dell’immersione, come indica la Tradizione apostolica: «Quando colui che viene battezzato sarà sceso in acqua, chi battezza gli dirà, imponendogli la mano: ‘Credi in Dio Padre onnipotente?’, il battezzato dirà a sua volta: ‘Credo’. E subito [chi battezza], tenendo la mano sulla sua testa, lo battezzerà»15. Il medesimo gesto verrà ripetuto altre due volte, secondo la professione di fede trinitaria. L’imposizione della mano è dunque tipica di una scena di battesimo. Non è un gesto accessorio e secondario, poiché contribuisce al vero significato del battesimo cristiano come nuova nascita e dono dello Spirito. «Se uno non nasce da acqua e da Spirito» dice Gesù a Nicodemo, «non può entrare nel regno di Dio» (Giovanni 3,5). Nella tipica raffigurazione del battesimo, l’imposizione della mano destra rappresenta la comunicazione dello Spirito. San Giovanni Crisostomo lo spiega con efficacia in una delle sue catechesi battesimali. «È a questo punto [quando il catecumeno è sceso nell’acqua] che, attraverso le parole del sacerdote e la sua mano, sopravviene la discesa dello Spirito Santo»16. Quando il vescovo descrive al catecumeno il battesimo che sta per ricevere, espone la scena tipica del rito, e il candidato dovrà osservarne i gesti «con gli occhi della fede», «affinché» dice, «quando vedrai la piscina e la mano del sacerdote posta sulla tua testa, non pensi che si tratti semplicemente dell’acqua sola, o che la sola mano del sommo sacerdote sia stesa al di sopra della tua testa, perché non è un uomo che esegue le cose che si compiono, è la grazia dello Spirito che santifica la natura delle acque e che viene imposta sulla tua testa con la mano del sacerdote»17. La scena centrale del battesimo rappresenta dunque, simbolicamente, i due elementi fondamentali del sacramento: l’acqua, che simboleggia la nuova nascita, e l’imposizione della mano, il dono dello Spirito. Nell’insieme, indica la nascita alla vita divina. È il significato che bisogna attribuire al modello iconografico antico, che raffigura il battezzato come un bambino, anche nel caso di Gesù, in un momento in cui prevalgono i battesimi di adulti. Non si tratta infatti di una rappresentazione aneddotica, ma simbolica, di valore dottrinale. Questa interpretazione viene espressa con chiarezza in questo passo della Didascalia degli apostoli (§ 9): «Durante il battesimo, attraverso l’imposizione della mano del vescovo, il Signore garantiva per ciascuno di voi e faceva udire la sua voce che diceva: ‘Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato’». L’imposizione di entrambe le mani è impiegata in modo più ampio; riguarda, tra l’altro, la preghiera per i malati o i riti di ordinazione. È ben attestata nel Nuovo come nel Vecchio Testamento. È innanzitutto un gesto di benedizione, applicato da Gesù in particolar modo ai malati che risana. È anche un gesto ri140
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1. Battesimo di Gesù, sarcofago, Museo delle Terme, Roma. 2. Scena nota come Mulier inclinata, pittura murale, prima metà del IV secolo, cubicolo 65 detto «di Nicerus», catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. Luca riporta l’episodio della donna curva da diciotto anni nel suo Vangelo (Luca 13,10-13). Cristo opera una tipica impositio manum per guarirla.
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tuale connesso al dono dello Spirito, utilizzato, con questo significato, dagli apostoli negli Atti per conferire, ad esempio, il diritto di esercitare le funzioni ecclesiali. È lo stesso significato – cioè il suo rapporto con il dono dello Spirito – che ritroviamo negli antichi testi liturgici. Tuttavia, a differenza dell’imposizione della sola mano destra che, ricordiamolo, è tipica delle rappresentazioni del battesimo, il gesto dell’imposizione di entrambe le mani non compare nell’iconografia antica. GLI ALIMENTI SIMBOLICI Gli alimenti comuni alle culture mediterranee serviranno da simboli delle realtà spirituali, a cominciare da quelli che gli antichi consideravano essenziali. Ben Sira ce ne fornirà l’elenco: «Le cose di prima necessità per la vita dell’uomo sono» scrive, «acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele, succo di uva, olio e vestito» (Siracide 39,26). Il lettore noterà che tutti gli alimenti di base enumerati dall’autore biblico, e che noi abbiamo evidenziato nella citazione, entreranno in un modo o nell’altro nei riti di iniziazione cristiana (battesimo ed eucaristia). Questi alimenti sono dunque, nel contempo, culturali e cultuali, dal momento che ogni culto realmente popolare può radicarsi solo nella cultura di un popolo. L’acqua
3. Mosè colpisce la roccia da cui sgorga la fonte che disseta gli Ebrei assetati durante la traversata del deserto, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma.
Assieme alla terra, l’aria e il fuoco, l’acqua è uno dei quattro «elementi» tradizionali. Essa è indispensabile per il sostentamento dell’uomo. Simbolo della vita, l’acqua è una benedizione di Dio. Geremia vedeva in Yahweh la «sorgente di acqua viva» (Geremia 2,13). Solitamente, si dà risalto soprattutto al potere fecondante dell’acqua e alla sua utilizzazione per lavare e purificare. Tuttavia l’acqua, in quanto bevanda vivificante, gioca anche un ruolo importante nella simbologia cristiana. Considereremo, innanzitutto, un singolare rito di iniziazione del cristianesimo antico, spesso ignorato a causa della sua scomparsa e dell’estrema rarità dei documenti sui riti liturgici primitivi. Si tratta del rito della «coppa d’acqua pura» fatta bere al neofita, descritto nella Tradizione apostolica di Ippolito. Ecco come si svolge la cerimonia. Al momento dell’oblazione, nella liturgia eucaristica che segue la somministrazione del battesimo la notte di Pasqua, i diaconi porgono al vescovo non solo il pane, ma anche tre coppe: una di vino mischiato all’acqua, una di latte e miele e una «coppa d’acqua pura». Al momento della comunione, tre sacerdoti, o diaconi, prendono le coppe per offrirle ai fedeli. «Si mantengano in ordine e con modestia, il primo con l’acqua, il secondo col latte, il terzo col vino. Coloro che ne ricevono ne prendano da ciascuno [di questi alimenti eucaristici]»18. Gli antichi avevano una cultura del simbolo che noi abbiamo in gran parte perduto. Dunque, qual è il significato di questa «coppa d’acqua pura»? Si tratta della trasposizione in rito dell’invito di Gesù nel famoso dialogo con la Samaritana al pozzo di Giacobbe: «Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Giovanni 4,14). I primi cristiani ne vedevano anche la prefigurazione nella roccia di Oreb, da cui Mosè, colpendola, fece scaturire una sorgente per abbeverare gli ebrei assetati durante l’esodo nel deserto (Esodo 17,1-6). Si insegnava inoltre ai neofiti il commento tipologico elaborato da san
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Paolo che illustrava i riti di iniziazione: «I nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale [la manna], tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (1 Corinzi 10,1-4). La tradizione paolina si riallaccia a quella giovannea, la quale insegna che Gesù è la sorgente d’acqua viva. Del resto, questo dono dell’acqua viva è associato a quello dello Spirito: «‘Chi ha sete’» dice Gesù, «‘venga a me e beva chi crede in me’ (...) riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (Giovanni 142
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1. Gesù e la Samaritana, metà del IV secolo, nuova catacomba di via Latina, Roma. «Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Giovanni 4,14).
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7,37-39). Questo insegnamento è solennemente ripreso nell’Apocalisse con valenza escatologica: «A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita» (21,6). L’autore mistico delle Odi di Salomone vi ha fatto eco in uno dei suoi poemi simbolici: «Acque parlanti toccarono le mie labbra, in abbondanza, dalla fonte del Signore, e così io bevvi e m’inebriai delle acque viventi che non muoiono»19. Queste citazioni permettono di comprendere il significato simbolico e mistico del rito della «coppa d’acqua pura». Poiché simboleggia, assieme alle altre due coppe, la vita divina donata da Cristo, ha la sua giusta collocazione tra le coppe di vino e di latte. Questo rito sta a significare che i neofiti sono entrati nell’era messianica, in cui dovevano scorrere il latte e il miele come nella Terra promessa. A sostegno di questa interpretazione, la visione dell’Apocalisse appena menzionata, che evocava l’annuncio di quest’era paradisiaca da parte del profeta Gioele: «In quel giorno le montagne stilleranno vino nuovo e latte scorrerà per le colline (...) Una fonte zampillerà dalla casa del Signore» (Gioele 4,18). Si noterà in questo testo la menzione di tre alimenti – vino, latte e acqua – corrispondenti alle tre coppe del rituale descritto da Ippolito di Roma. Moltiplicando queste citazioni, ho voluto mostrare quanto la simbologia biblica impregni la cultura religiosa dei primi cristiani. Si comprende così, per limitarsi al simbolo dell’acqua come bevanda spirituale, perché i primi artisti cristiani abbiamo spesso rappresentato la scena della Samaritana al pozzo, i quattro fiumi del paradiso e soprattutto la roccia di Oreb da cui scaturisce l’acqua salvatrice. Di quest’ultima scena, François Tristan ha contato circa duecento rappresentazioni solo nelle catacombe romane. Non si trattava, ancora una volta, di riportare semplici episodi storici, ma di illustrare il significato mistico dell’acqua viva. Il pane Il pane era l’alimento essenziale in Palestina come nei paesi di cultura mediterranea. Non veniva tagliato col coltello ma spezzato con le mani, da cui l’espressione ebraica «frazione del pane», che indica l’inizio di un pasto consumato assieme. «Mangiare pane con qualcuno» cominciò a significare «condividere un pasto». Nel Nuovo Testamento il pane è soprattuto utilizzato per simboleggiare il nutrimento, tanto intellettuale che spirituale. È così che Gesù presenta se stesso come «il pane della vita» (Giovanni 6,35,51), vale a dire un nutrimento indispensabile affinché l’umanità giunga alla vita eterna. Questa sarà simbolicamente descritta come il mangiare «pane nel regno di Dio» (Luca 14,15). È l’insieme di questa ricca simbologia che viene utilizzato nell’ultima cena. È noto che Gesù attribuiva un valore particolare al rito della «frazione del pane». È da questo gesto familiare che i discepoli di Emmaus lo riconobbero. Tutti i racconti dell’istituzione dell’eucaristia indicano che «Gesù prese il pane e lo spezzò». È così che l’espressione «frazione del pane» è divenuta per i cristiani il termine appropriato per designare la celebrazione dell’eucaristia. Il miracolo della moltiplicaSIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
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zione dei pani sarà interpretato come un annuncio profetico del «pane della vita» (→ Moltiplicazione dei pani). Nello stesso modo, il banchetto eucaristico acquista una dimensione escatologica come annuncio e prefigurazione del banchetto celeste (→ Banchetto → Eucaristia). Con lo spiccato senso per la schematizzazione simbolica che li contraddistingue, gli artisti paleocristiani assoceranno il pane e il pesce, il Cristo Ichthys che si dona in nutrimento sotto forma di pane, come si può constatare nel cimitero di Callisto dove è raffigurato un grosso pesce che sostiene una cesta di pane. Il vino Il vino è una bevanda di cui gli ebrei, come gli abitanti del bacino del Mediterraneo, fanno largo uso. Si noterà l’espressione metaforica «sangue dell’uva» (Genesi 49,11) per designare il vino, dovuta al colore rosso del tipo più comune di vino. Com’è noto, quest’immagine verrà ripresa da Cristo nell’ultima cena. L’origine culturale di ciò va rintacciata nell’uso cultuale del vino nel Tempio. Esso non era offerto come bevanda, ma sotto forma di libagioni che accompagnavano determinati sacrifici di animali (agnello, ariete, toro). Dal momento che questo aspetto della liturgia del Tempio è poco noto ai nostri contemporanei, citeremo qui la descrizione di Ben Sira del rito compiuto dal sommo sacerdote Simone: «Egli stendeva la mano sulla coppa e versava succo di uva, lo spargeva alle basi dell’altare come profumo soave dell’Altissimo, re di tutte le cose» (Siracide 50,15). Questo sobrio uso cultuale contrasta con le pratiche delle religioni pagane dell’epoca, di cui sono ben noti gli eccessi legati al culto di Dioniso (per i latini Bacco), il dio del vino, venerato in ogni parte del mondo greco-romano. Facciamo notare a questo proposito che, nell’accostarsi alla simbologia del vino, i cristiani dovranno di continuo prendere le distanze dalla simbologia dionisiaca del vino. Per meglio comprendere le radici culturali del simbolo cristianizzato del vino, occorre anche ricordare qualche dato biblico. Il grano e il vino rappresentavano la fertilità della Terra promessa. Come alimenti di base, erano atti a designare il nutrimento spirituale procurato dalla sapienza personificata: «Venite» essa 144
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1. Pesce che porta un cesto di pani, ricostruzione. 2. Nozze di Cana: l’acqua versata negli otri si trasforma in vino, battistero di S. Giovanni in Fonte, Napoli. 3. Scene di vendemmia in una cornice idealizzata di vita rurale, mosaico, soffitto di una delle arcate del deambulatorio, mausoleo di S. Costanza, Roma.
dice, «mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Proverbi 9,5). Ben Sira paragona la sapienza alla vite: «Io come una vite ho prodotto germogli graziosi (...) Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti» (Siracide 24,17-18). È tuttavia il valore escatologico attribuito dai profeti al simbolo del vino che eserciterà la massima influenza sul cristianesimo. «Dai monti» annuncia Amos, «stillerà il vino nuovo e colerà giù per le colline» (Amos 9,13). Secondo Isaia, il vino sarà la bevanda del grande banchetto escatologico: «Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande, per tutti i popoli, un banchetto di vini eccellenti» (25,6). Gesù farà completamente propria la simbologia biblica della vite e del vino, portandola al suo massimo grado sacramentale nell’istituzione dell’eucaristia. Paragonando se stesso alla vite, «Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni 15,5), Gesù vuole affermare senza equivoci di essere la vera vite del Signore, il vero SIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
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Israele, i suoi discepoli uniti a lui per sempre come i tralci alla vite. Il simbolo cristico del vino ne costituisce l’esito logico. Nel contesto drammatico dell’ultima cena, il vino, «sangue della vite», anticipa il suo sangue versato: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti» (Marco 14,24). Questo testo fondamentale per i cristiani va confrontato col discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao, secondo la tradizione giovannea: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Giovanni 6,53). Alla luce del realismo sacramentale che questi testi rivelano, la comunione col vino eucaristico rappresenta la stretta unione dei discepoli con Cristo, come nella parabola della vera vite. A ciò è strettamente connessa la dimensione escatologica, chiaramente espressa da Gesù: «Io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Marco 14,25). La condivisione della coppa di vino annuncia il banchetto escatologico, a cui i credenti già partecipano bevendo il vino eucaristico. Dunque, secondo quest’ottica, la simbologia è duplice: il sangue della vite evoca contemporaneamente la morte di Gesù e l’inizio dei tempi messianici. Nell’arte cristiana primitiva, il vino eucaristico è rappresentato simbolicamente da un cantaro da cui spunta un ceppo di vite con rami carichi d’uva. Spesso il cantaro è affiancato da due colombe, due cervi o due pavoni, a simboleggiare i fedeli che si comunicano col vino eucaristico (→ Cervo → Colomba → Pavone). Il cantaro era un recipiente usato per bere, munito di un piede e di due grandi anse. Era un attributo dionisiaco, presente ovunque nell’arte antica. Cristianizzandolo, i discepoli di Gesù ne hanno completamente modificato il significato. L’olio Anche l’olio, quello d’oliva, è un alimento fondamentale presso i greci. Dietro loro impulso, si sviluppò tutto attorno al Mediterraneo la coltivazione dell’ulivo, originario dell’Asia Minore. L’olio si prestava anche a molti altri usi. Costituiva il principale combustibile per l’illuminazione. Mescolato a sostanze aro146
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1. Pavoni di fronte a un calice da cui fuoriescono due ceppi di vite con uccelli, cervo e lepre tra le foglie, mosaico, IV secolo, Museo di Cherchell, Algeria. 2. Scene di lotta con giudici, mosaico rinvenuto in una casa della pianura di Talah, IV secolo, Museo di Safra, Tunisia. 3. Lampada a olio in ceramica ingobbiata, ornata da un chrismon patente alle estremità, rinvenuta a Générac (Gard), IV secolo, Musée archéologique, Nîmes.
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matiche, costituiva la base di diversi unguenti, di cui ci si serviva per la cura del corpo e per i massaggi. I lottatori si ungevano d’olio per i combattimenti nello stadio. Gli si riconoscevano virtù curative. Il colore dorato ne faceva un simbolo solare, divino. Il suo uso nei riti religiosi è ben attestato. A ciò si aggiunge la fama dell’ulivo che può vivere numerosi secoli. È un albero sacro dall’alto valore simbolico (→ Ulivo). Per quanto riguarda la dimensione simbolica, ricorderemo in queste pagine le unzioni rituali con l’olio, limitandoci alla sfera biblica e alla liturgia cristiana. «L’olio di salvezza» 3
I cristiani hanno introdotto nella liturgia battesimale il rito dell’unzione, ignorato nel battesimo di Giovanni Battista e mai praticato dallo stesso Gesù. Questo rito è mutuato dall’Antico Testamento per il suo alto valore simbolico. Non potendo approfondire il tema in queste pagine, elenchiamo comunque i tre casi tipici del rito. L’unzione regale, tanto importante da far sì che il sovrano consacrato in tal modo si definisse «l’Unto del Signore», in ebraico grecizzato «Messia», il cui equivalente greco è Christos, «Cristo». Nel tardo giudaismo, designerà il Salvatore annunciato per i tempi a venire. Questo messianismo sarà particolarmente influente all’epoca di Gesù. Il secondo rito di unzione è riservato al sommo sacerdote e, successivamente, a tutti i sacerdoti. Quest’unzione sacerdotale acquisterà importanza soprattutto dopo la scomparsa della monarchia. La terza unzione riguarda i profeti, ma soltanto metaforicamente – con l’unica eccezione di Eliseo, unto da Elia – perché hanno ricevuto lo Spirito di Yahweh e la missione di annunciare la sua parola. È solo questa unzione metaforica ad essere considerata da Gesù, che l’attribuisce a se stesso nella sinagoga di Nazaret all’inizio del suo ministero. Questo è il racconto dell’episodio fatto da Luca. Gesù ha appena letto questo passo di Isaia: «Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri» (Isaia 61,1). Quindi dichiara: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i SIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
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vostri orecchi» (Luca 4,21). È sempre un’unzione metaforica quella cui accenna Pietro presso Cornelio: «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret» (Atti 10,38). I discepoli di Gesù saranno talmente convinti che egli abbia ricevuto la pienezza dello Spirito di Dio, che per loro sarà il Messia, il Cristo promesso per la venuta del regno di Dio. E nel titolo di Messia essi includeranno non solo il Messia profeta, ma anche il Messia re e il Messia sommo sacerdote. In seguito, dal momento che il battezzato si identifica con Cristo e partecipa dunque della sua dignità regale, profetica e sacerdotale, verrà introdotto il rito dell’unzione nella liturgia del battesimo per esprimere questa trasformazione mistica. La metafora dell’unzione si concretizza dunque per mezzo di un’unzione con olio consacrato. In aggiunta al significato altamente simbolico di «olio di salvezza», questo rito ha anche lo scopo di evidenziare la peculiarità del battesimo «nel nome di Gesù», rispetto al battesimo di Giovanni Battista. Quello cristiano non è solo un battesimo nell’acqua purificatrice, ma un battesimo nello Spirito. È il rito dell’ingresso nei tempi messianici. Le catechesi battesimali dei Padri abbondano di commenti su questa unzione. Sarà sufficiente citare Cirillo di Gerusalemme: «Avete ricevuto l’unzione, il segno con cui fu unto Cristo. Ora, questa unzione è lo Spirito Santo (...) Mentre il corpo è cosparso da un balsamo visibile, l’anima è santificata dallo Spirito santo e vivificatore (...) Dio vi ha modellati sul corpo glorioso di Cristo. Ormai dunque associati a Cristo, è normale che vi si chiami ‘Cristi’»20. In sintesi, il simbolo dell’unzione va a completare il simbolo dell’acqua nella liturgia del battesimo, per conferire a quest’ultimo il suo pieno significato mistico (→ Battesimo).
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1. Ampolla con raffigurazione di san Mena (arte paleocristiano-copta), monastero dei Siriaci, Wadi el-Natrun, Egitto. Spesso le ampolle contenevano olio benedetto da trasportare.
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Il miele Oggigiorno facciamo fatica a comprendere l’importanza del miele nell’Antichità e, di conseguenza, la sua funzione simbolica. Era un alimento essenziale, la cui funzione corrispondeva a quella che per noi ha lo zucchero. La sua proverbiale dolcezza ne faceva un classico termine di paragone: «dolce come il miele», si diceva. Considerandolo di origine celeste per il suo colore dorato, solare, i greci vi vedevano un simbolo di immortalità celeste, come si evince dall’orfismo. L’ambrosia, a base di miele, era una bevanda che donava l’immortalità a dei ed eroi. Il miele è spesso associato al latte nella simbologia come nei riti, tanto nelle religioni antiche che nella religione ebraica. I cristiani faranno propria questa doppia eredità culturale e cultuale, come dimostreremo a proposito del latte. Il latte
2. Buon Pastore che porta un secchio di latte, inizio III secolo, catacomba di S. Callisto, Roma.
Nel Pedagogo, Clemente Alessandrino ha dedicato un’intera dissertazione al latte. Prima di affrontare il tema, ricorda che «con varie allegorie il Logos viene detto ‘cibo’, ‘carne’, ‘alimento’, ‘pane’, ‘sangue’, ‘latte’»21. Più avanti, parla anche del miele e del vino, che associa al latte. Qui accenniamo al latte come alimento simbolico, tanto più volentieri dal momento che se ne è spesso taciuto. Il latte è il primo nutrimento per l’uomo come per tutti i mammiferi. Per i popoli che praticano l’allevamento, pastori nomadi o allevatori stanziali, il latte di pecora, di capra o di mucca costituisce un alimento essenziale sia in SIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
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forma liquida che solida (burro, formaggio). La sua importanza ne fa un segno di abbondanza e prosperità. Per gli ebrei, che vivono da nomadi nel deserto durante l’esodo, la ricchezza di Canaan è simboleggiata dalla produzione di latte e miele (Esodo 3,8). La Terra promessa che Dio riserva al suo popolo sarà dunque caratterizzata dalla ben nota frase: «Il paese dove scorrono il latte e il miele». L’immagine si ritroverà logicamente negli annunci profetici dei tempi messianici e della nuova Terra. «In quel giorno (...) latte scorrerà per le colline», annunciano Gioele e il Secondo Isaia (Gioele 4,18; Isaia 55,1). Isaia annuncia che l’Emmanuele che verrà, il Messia, «mangerà panna e miele» (7,14-15). I cristiani, che credono che Gesù abbia inaugurato i tempi messianici, riprenderanno in modo naturale il simbolo. Lo integreranno in particolar modo nei riti di iniziazione. Ho precedentemente segnalato la presenza di una «coppa di latte misto a miele» accanto ad altre due coppe nella liturgia pasquale descritta da Ippolito. Questi indica in tal modo la benedizione che deve fare il vescovo e il significato del rito: «[Che il vescovo renda grazie] per il latte e il miele mescolati per [indicare] il compimento della promessa fatta a [noi] padri, che parlava della terra dove scorrono il latte e il miele, e di Cristo che ha donato la propria carne di cui i credenti si nutrono come bambini, lui che con la dolcezza della sua parola, rende dolce l’amarezza del cuore». L’insegnamento di questo testo è duplice. Esso indica chiaramente che il neo-battezzato è entrato nei tempi messianici della salvezza. In secondo luogo, dal momento che il battezzato è «ri-nato», si appresta a nutrirsi del «latte della parola di Dio». È un altro aspetto della simbologia del latte, già attestato nella prima lettera di Pietro: «Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza» (2,2). Il rito della coppa di latte e di miele è ben documentato anche a Roma all’inizio del VI secolo (Odi di Salomone, Tertulliano, Ambrogio, Girolamo, ecc.). Si è sottolineato che questo rito aveva degli equivalenti nel paganesimo, come nei culti di Attis, di Mitra o nella celebrazione dei misteri di Eleusi. In effetti, esso dipende da una simbologia comune alla cultura antica. Gli ali150
SIMBOLI TRATTI DALL’AMBIENTE CULTURALE
1. Scene pastorali, sarcofago proveniente dalla catacomba di Priscilla, fine III secolo, basilica di S. Silvestro, Roma. Le scene di pastori e greggi suggeriscono una felicità bucolica ultraterrena, simboleggiata dai gesti quotidiani dei pastori quali la mungitura. 2. Dall’antico sistema alchemico, i segni filosofici del sale (al centro, in nero) e dei suoi componenti (in grigio): lo zolfo, a sinistra, e il mercurio, a destra.
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menti fondamentali non sono solo naturali, ma culturali e spesso cultuali, ma, nel caso del culto cristiano, la prima fonte è incontestabilmente biblica. L’iconografia paleocristiana rende, nella sua maniera allusiva, il simbolo del latte attraverso la raffigurazione di un pastore che sta mungendo o portando un secchio di latte. «Il sacramento del sale» Il sale non è soltanto un importante condimento per insaporire il cibo ma, nell’Antichità, serviva anche a conservare gli alimenti, come il pesce e la carne. Diventa allora un simbolo di incorruttibilità, di durevolezza. Nella condivisione del pane e del sale, vi è anche un simbolo di convivialità, d’ospitalità, di fratellanza. Ecco perché la Bibbia ne fa il simbolo dell’alleanza indefettibile tra Dio e il suo popolo, chiamandola «alleanza di sale» (Numeri 18,19; 2 Cronache 13,5)22. È forse la ragione per cui il sale faceva parte delle offerte a Dio, come prescrive il libro del Levitico: «Dovrai salare ogni tua offerta di oblazione: nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio» (2,13). Gesù utilizza la metafora del sale unendo i due significati, sapore e conservazione, quando dice ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra» (Matteo 5,13). In altre parole, se essi applicheranno il Vangelo daranno sapore al mondo e lo preserveranno dalla corruzione. È in questo stesso senso che bisogna intendere il consiglio di Gesù: «Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri» (Marco 9,50). La menzione della pace rinvia implicitamente al «sale dell’alleanza» che rappresentava la pace e la concordia tra le parti in disaccordo. Con queste premesse culturali e bibliche, si comprende facilmente come la Chiesa abbia introdotto il rito del sale nella liturgia prebattesimale e, più precisamente, nel percorso catecumenale. Esso si effettuava proprio dopo l’imposizione del segno della croce sulla fronte. In merito a ciò, si possiede la preziosa testimonianza di sant’Agostino che definisce questo rito «sacramento del sale». Questo l’insegnamento che egli dà nella sua Catechesi ai principianti: «Occorrerà innanzitutto spiegargli [al candidato al battesimo] che i simboli delle realtà divine sono certo visibili, ma che in essi si onorano realtà invisibili e che, pertanto, il sale, santificato dalla benedizione, non deve più essere considerato come è nell’uso quotidiano. Bisognerà poi dirgli qual è il significato delle formule rituali che ha ascoltato e quale condimento esse possiedano di cui il sale è il simbolo»23.
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CAPITOLO QUINTO
EPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO E LORO SIGNIFICATO TIPOLOGICO Alcune scene bibliche tratte dall’Antico come dal Nuovo Testamento vengono spesso citate tanto dagli scrittori che dagli artisti cristiani, che si ispirano ad esse per il loro valore simbolico, «tipologico», perché sono considerate simboli di salvezza. Tutti questi simboli si articolano attorno alla figura centrale del Salvatore, Cristo, cui corrisponde l’altra figura, anch’essa centrale, quella del salvato, il fedele. La storia della salvezza sarà illustrata attraverso i personaggi e gli episodi dell’Antico Testamento, che prefigurano e preparano l’opera di Cristo, continuata nella Chiesa, il cui compimento e coronamento si realizzeranno nel regno di Dio. Tutti i repertori figurativi e simbolici, come le esposizioni dottrinali, s’inscriveranno all’interno di questo insieme. Ogni simbolo, che merita evidentemente uno studio specifico, non deve essere isolato, ma connesso alla prospettiva globale. Spesso, d’altronde, numerose figure simboliche ricorrono in un programma pittorico o in un ciclo di rappresentazioni che illustrano la salvezza, la liberazione, come si può constatare nelle pitture catacombali o nei rilievi dei sarcofagi: l’arca di Noè, il sacrificio di Isacco, Giona gettato in mare, Daniele nella fossa dei leoni, i tre ebrei nella fornace, Susanna, ecc. Occorre fare la stessa osservazione a proposito dei commenti patristici e del caso particolare delle preghiere per la salvezza. Ne danno eloquentemente testimonianza le preghiere dei martiri, come quella di Severo, martirizzato ad Adrianopoli, in Tracia, sotto Diocleziano, che si rivolge a Dio con queste parole: Tu che hai preservato Noè, liberato Isacco (...) Tu hai soccorso i tre giovani nella fornace. Tu hai chiuso la bocca dei leoni, salvato e nutrito Daniele. Tu non hai voluto che Giona annegasse nel mare (...) Tu hai liberato Susanna dai giudici iniqui (...) Tu ci hai guidati dalle tenebre alla luce eterna (...) Donami una parte della corona dei martiri (...) Che goda con essi del riposo, avendo confessato con essi il tuo nome glorioso.
Questo tipo di preghiere per la salvezza, costituisce anche il modello delle preghiere per coloro che sono in agonia1. ADAMO ED EVA
1. Adamo ed Eva con al centro il serpente volto verso Eva che lo ascolta, affresco, cappella della Pace, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto.
Nell’arte paleocristiana ritroviamo spesso la raffigurazione standardizzata di Adamo ed Eva ai lati dell’albero proibito, attorno al quale si attorciglia il Serpente tentatore. Spesso fa parte di un programma iconografico che si può definire «ciclo di salvezza», e che comprende l’arca di Noè, il sacrificio di Isacco, Giona gettato in mare, Daniele nella fossa dei leoni, i tre ebrei nella fornace, Susanna e i lubrici vegliardi e, immancabilmente, il Salvatore nei panni del Buon Pastore. Il cristiano di oggi non comprende bene la presenza della scena di Adamo ed Eva, che giudica insolita all’interno di una serie di immagini di salvezza. La considera essenzialmente negativa: essa rappresenta il peccato primordiale, il «peccato originale», la «caduta» che ha determinato la condanna dell’umanità dopo di loro. In poche parole, il contrario di un’immagine di salEPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO
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vezza. Ma i primi cristiani avevano ancora una visione più complessa e meno negativa dei «nostri progenitori». Sulla scorta di san Paolo, avevano la convinzione che il loro credo fondamentale consistesse nell’affermare che Cristo «è morto per tutti» (2 Corinzi 5,15), e dunque che la salvezza universale rifluisse fino ad Adamo ed Eva. Dio non li aveva abbandonati, aveva perdonato la loro colpa. Così, i neo-battezzati, a cui Dio aveva appena perdonato i peccati, potevano vedere in Adamo ed Eva, come in Noè, Daniele, Giona o Susanna, l’immagine dei salvati, come vedevano nel Buon Pastore l’immagine del Salvatore andato alla ricerca della pecorella smarrita. D’altronde, quest’immagine è spesso applicata ad Adamo, «la pecorella smarrita» che Cristo è andato a cercare nelle profondità dell’Ade. In breve, si tratta di simboli di speranza. Questa interpretazione si fonda su una tradizione biblica che trae origine dal racconto stesso della Genesi, che veniva letto e commentato ai neo-convertiti. A ben guardare, in effetti, constatiamo che Adamo ed Eva non sono maledetti da Dio dopo il loro peccato. Solo il Serpente incorre nella maledizione di Dio (Genesi 3,14). Al contrario, il primo uomo e la sua compagna sono oggetto della sua misericordia. Non muoiono subito dopo il loro errore, e sopravviveranno nella loro discendenza. Dunque, l’avventura umana non viene interrotta. La sollecitudine del Creatore si manifesta simbolicamente attraverso la consegna di vesti di pelli. Di maggiore importanza, l’annuncio, fatto loro da Dio, che, alla fine, gli uomini vinceranno il Serpente maledetto (Genesi 3,15). In altre parole, non sarà il male originale, ma l’amore misericordioso di Dio, ad avere l’ultima parola. Un barlume di speranza lascia intravedere la salvezza. Molto appropriatamente, questo annuncio è stato definito protovangelo, cioè primo annuncio della buona novella di salvezza. Si può accostare questo punto di vista ottimistico a una curiosa tradizione ebraica, che appare inizialmente negli scritti sapienziali e che si svilupperà soprattutto negli scritti apocrifi, non canonici, che evocano un Adamo salvato e glorioso. Il libro della Sapienza traccia un quadro della personificazione della sapienza, che opera nella storia della salvezza a cominciare da Adamo: «Essa protesse il padre del mondo, formato per primo da Dio (...) poi lo liberò dalla sua caduta e gli diede la forza per dominare su tutte le cose» (Sapienza 10,1-2; vedi anche Siracide 49,16). Il Testamento di Abramo presenta un Adamo glorioso, «assiso su un trono d’oro, testimone del giudizio». È soprattutto nella Vita 154
EPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO
1. Adamo ed Eva ai lati dell’albero: Eva tende il frutto ad Adamo, affresco, III secolo, camera del Buon Pastore, cimitero Maggiore, Roma. La presenza piuttosto frequente di questa scena accanto ad altre figure di «salvati» (Noè, Daniele, Giona...) indica che il suo significato verte più sul perdono, e dunque sulla misericordia del Dio Salvatore, che sulla colpa. La presenza di queste figure nelle catacombe ha lo scopo di stimolare la speranza della salvezza e della vita eterna. 2. Adamo in trono, Museo di Hama, Siria. La figura trae ispirazione da una tradizione ebraica che si trova negli scritti apocrifi, ad esempio nella Vita greca di Adamo ed Eva, in cui si legge che Dio è venuto ad annunciare ad Adamo il suo perdono e il ritorno alla sua gloria originaria: «Dopo averti ripristinato nella condizione delle origini, ti farò sedere sul trono di colui che ti ha ingannato».
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di Adamo ed Eva che la salvezza finale di Adamo dopo la morte viene sviluppata. Si attua in due tappe. All’inizio, avendo Dio accordato il suo perdono, un carro celeste viene a cercare l’anima di Adamo per condurla a Dio, che affida Adamo all’arcangelo Michele, dicendogli: «Portalo su nel paradiso (...) e lasciavelo fino a quel giorno grande e terribile che riservo al mondo». Poi Dio discende presso il corpo di Adamo; certo, gli rimprovera la sua disobbedienza, ma gli annuncia anche il suo perdono e il ritorno alla sua gloria originaria: «Dopo averti ripristinato nella condizione delle origini, ti farò sedere sul trono di colui che ti ha ingannato»2. Questi scritti apocrifi hanno esercitato un’influenza non trascurabile sui primi cristiani, il che spiega perché si trovino rappresentazioni di Adamo nel paradiso celeste o assiso su un trono. Tutto ciò permette di comprendere meglio perché Adamo ed Eva fossero inclusi tra le figure di salvati e suscitassero la speranza dei battezzati. Questa convinzione è lungi dall’essere marginale. Ireneo di Lione ne è diventato il sostenitore nella sua teologia della ricapitolazione. Attraverso l’incarnazione, Cristo riassume in sé Adamo e l’umanità intera. Salva in se stesso ciò che era morto nel primo uomo. «Se dunque l’uomo è salvato, bisogna che sia salvato l’uomo che è stato plasmato per primo». È per questo che il vescovo di Lione si oppone con forza a Taziano e a quelli che negano la salvezza di Adamo. Se Adamo non è salvato, insiste, «tutto il genere umano è ancora sotto il potere della perdizione». È un’esigenza della fede ortodossa che deriva dall’autenticità e dall’efficacia della salvezza portata da Cristo a tutta l’umanità3. Questa convinzione è illustrata in modo particolare dal tema della discesa di Cristo agli Inferi, di cui tratteremo più avanti4. Per il momento sarà sufficiente citare uno dei testimoni di questa tradizione, il grande Origene: «Il suo Figlio unigenito è disceso, per la salvezza del mondo, fino agli inferi, e di là ha richiamato il primo creato»5. Anche sant’Agostino, sebbene poco incline a tenere questa posizione, a causa della sua teoria del peccato originale che mal vi si accorda, è obbligato a riconoscere questa tradizione: «Quanto al primo uomo» scrive a Evodio, «quasi tutta la Chiesa è d’accordo nell’affermare che Gesù Cristo lo ha liberato dagli Inferi, e questa convinzione non è priva di fondamento, quand’anche non si basasse sull’autorità espressa dalle Scritture canoniche»6 (→ Discesa agli Inferi).
1. Arca di Noé con colomba che porta nel becco un ramoscello d’ulivo, affresco, cappella dell’Esodo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 2. Noè e la sua famiglia sull’arca, affresco, cappella della Pace, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto.
L’ARCA DI NOÈ La definizione tradizionale «arca di Noè» ha perduto il significato etimologico della parola «arca», portando a rappresentazioni inadeguate. «Arca» viene dal latino arca, che significa «cassa». Questo termine era la traduzione letterale della parola ebraica e della parola greca corrispondente, che designava l’imbarcazione costruita da Noè. Essa era dunque, curiosamente, a forma di cassa. È per questo che nelle pitture antiche si vede spesso Noè in piedi in una cassa, cosa che sorprende sempre lo spettatore contemporaneo, non informato della cosa 156
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(Genesi 6,9; 9,17). Ma l’importante è, evidentemente, la simbologia inclusa in quest’episodio. Noè è la figura del giusto, salvato dopo la scomparsa della primigenia umanità corrotta. In certo qual modo, egli appare come il nuovo Adamo, all’origine della nuova umanità con cui Dio ha stabilito un’alleanza. L’«alleanza noachica», universale poiché riguarda tutta l’umanità, prefigura, al di là dell’alleanza con Israele, la nuova alleanza conclusa in Gesù Cristo. Noè è dunque per i Padri, una delle più importanti figure di Cristo. Per di più, sia l’acqua salvatrice che trasporta l’arca che la colomba che torna con un ramoscello d’ulivo nel becco, evocano il battesimo di Gesù nel Giordano, così come il battesimo cristiano. Analogamente, il «legno» dell’arca, come il legno in generale nella simbologia cristiana, evoca il legno della croce salvatrice. La prima lettera di Pietro può dunque concludere a proposito dell’episodio di Noè: «Figura, questa, del battesimo, che ora salva noi» (1 Pietro 3,21). Giustino lo spiega con il suo spiccato senso dei simboli: «Al tempo del diluvio si manifestò il mistero della salvezza degli uomini. In occasione del diluvio, infatti, il giusto Noè con gli altri uomini, cioè la moglie, i loro tre figli e le mogli dei figli, essendo in numero EPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO
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di otto costituivano il simbolo dell’ottavo giorno, nel quale il nostro Cristo apparve risorto dai morti»7. Infine, l’arca simboleggia la Chiesa, l’arca della salvezza, al di fuori della quale nessun uomo può essere salvato. Come afferma Agostino col suo gusto della sintesi: «Il sacramento dell’arca, simbolo del legno, mediante il quale i giusti sono stati salvati, era figura profetica della Chiesa futura, che Gesù Cristo, suo re e suo Dio, attraverso il mistero della croce ha salvato dal naufragio di questo mondo»8. Quindi, si comprende facilmente perché la raffigurazione dell’arca di Noè rientri nel ciclo delle rappresentazioni della salvezza (→ Acqua → Legno → Colomba → Battesimo). IL CICLO DI ABRAMO Nel cristianesimo antico Abramo rappresenta una figura tipologica particolarmente ricca, in virtù delle interpretazioni cristologiche di numerosi episodi della sua vita. Abramo e i tre visitatori L’apparizione di Yahweh ad Abramo alle Querce di Mamre, per annunciargli la nascita di un figlio, è tra le più singolari (Genesi 18,1-19). È una scena tipica di annunciazione. Il racconto comincia col dire che Yahweh apparve, ma non spiega come, a meno di intendere che egli si presenti con le sembianze dei tre «uomini» misteriosi, che sono suoi messaggeri. Abramo stesso è sconcertato, perché passa dal singolare al plurale nel rivolgersi ai visitatori, che accoglie come ospiti di riguardo. La versione finale del passo denota una certa confusione: i tre visitatori sono detti talvolta «uomini», tal’altra «angeli» (messaggeri); poco dopo la menzione dell’allontamento di Yahweh (Genesi 18,33), vi sono solo
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1. Abramo e i tre visitatori, simbolo tradizionale della Trinità, catacomba di via Latina, Roma. 2. L’Arca di Noé, rilievo, sarcofago paleocristiano, Treviri.
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3. Abramo e i tre visitatori, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 4. Il sacrificio di Melchisedek che offre una cesta di pani e un calice di vino, mosaico della navata centrale, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. Re e sacerdote, Melchisedek è figura profetica di Cristo. La sua offerta di vino e di pane è considerata prefigurazione dell’eucaristia.
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due angeli che si recano a Sodoma, come se Yahweh fosse stato uno dei tre. Questa stranezza ha dato luogo a interpretazioni allegoriche nello stesso giudaismo. Facciamo menzione della sola interpretazione di Filone, a causa della sua influenza sui pensatori cristiani. Per il filosofo ed esegeta di Alessandria, si tratta di una visione di Dio circondato dalle sue due potenze, Theos (Dio) e Kyrios (Signore). Seguendo la stessa interpretazione allegorica, i cristiani vi vedranno una prefigurazione della Trinità, dal momento che in questo caso la simbologia del numero tre risulta prevalente. Più vicini al testo letterale e all’interpretazione rabbinica, i cristiani riterranno che questi tre «uomini» siano angeli, basandosi sulla constatazione che nella Bibbia gli angeli appaiono ogni volta con le sembianze di uomini. Di fatto, nelle raffigurazioni artistiche della scena, i tre ospiti di Abramo sono presentati talvolta con un’aureola, emblema degli angeli e degli esseri celesti. Come nel racconto biblico, si tratta di una teofania, vale a dire di una manifestazione visibile della divinità: la scena è evidentemente un simbolo trinitario. Il sacrificio di Melchisedek La Genesi riporta che Abramo ricevette la benedizione di Melchisedek, «re di Salem». Questi era «sacerdote del Dio altissimo (El Elyon)» e «offrì pane e vino». Il testo non specifica se si tratti di un’offerta rituale, vale a dire di un «sacrificio», o di un pasto offerto al suo ospite (Genesi 14,17-20). La tipologia cristiana si impossessò di questo breve episodio tanto più facilmente in quanto il salmo 110 presenta Melchisedek come una figura di Messia re e allo stesEPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO
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so tempo di sacerdote. Nelle parole del salmista il Signore proclama, rivolgendosi all’Unto del Signore: «Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek» (Salmi 110,4). Quest’idea è stata sviluppata dalla lettera agli Ebrei che assimila il Messia al Figlio di Dio (7,2-3). Attenendosi alla stessa linea di interpretazione, la tradizione patristica vedrà nel «sacerdote dell’Altissimo» la figura di Cristo, e nel pane e il vino portati ad Abramo, un sacrificio, annuncio profetico dell’eucaristia. L’iconografia cristiana ha accolto quest’interpretazione, come si vede in un mosaico di Ravenna dove Melchisedek figura tra Abele e Abramo. Il sacrificio di Isacco L’episodio della Genesi relativo al sacrificio di Isacco è uno dei più conosciuti dai neo-battezzati, poiché fa parte dei principali testi «profetici» che annunciano e prefigurano il mistero di Cristo nella liturgia battesimale e nelle catechesi (Genesi 22,1-18; Ebrei 11,17). È una delle scene privilegiate nella decorazione delle catacombe romane o dei rilievi di sarcofagi. La simbologia della scena opera su più registri. Si tratta in primo luogo di un simbolo di liberazione. Nel giudaismo, la liberazione di Isacco è figura di tutte le liberazioni di Israele da 160
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1. Il sacrificio di Melchisedek, mosaico, basilica di S. Vitale, Ravenna. 2. Il sacrificio di Isacco, catacomba di via Latina, Roma.
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parte di Dio. Per il cristianesimo, il battezzato è salvato dalla morte eterna attraverso il sacrificio dell’«unico Figlio» sulla croce, come Isacco è stato risparmiato da Dio e sostituito con un ariete sull’altare sacrificale. Ma Gesù, novello Isacco, è stato davvero sacrificato per la salvezza del mondo. L’episodio indica anche che il sacrificio di figli, praticato nei culti cananei (Levitico 18,21), era proibito da Dio che, per contro, autorizzava i sacrifici di animali, essendo stato sostituito un ariete a Isacco. La morte di Cristo è il sacrificio della nuova alleanza che abolisce tutti i sacrifici. Il nuovo culto non ha bisogno dei sacrifici del Tempio, ormai superati dalla venuta del Messia, come Gesù dice alla Samaritana: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità» (Giovanni 4,24). Quando Costantino prese il potere, motivato dalla fede cristiana, fece abolire i sacrifici nei culti romani. D’altra parte, sulla scorta di san Paolo, Abramo diviene figura tipo dell’uomo di fede, del credente che accorda a Dio un credito assoluto, culminante nella fede nella resurrezione. La lettera agli Ebrei dà questa interpretazione: «Per fede Abramo (...) offrì il suo unico figlio (...) Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (11,17-19), il simbolo di Cristo crocifisso e resuscitato. Alla molteplicità delle immagini fanno riscontro i numerosi testi patristici. «Abramo, il grande patriarca» dice Gregorio di Nazianzo, «fu giustificato dalla sua fede e offrì un sacrificio insolito, figura del grande sacrificio [quello di Cristo]»9. Secondo l’«economia del legno», cara a Ireneo come agli scrittori cristiani dei primi secoli, il legno del sacrificio che Isacco porta sulle spalle evocava la croce di Cristo. Anche il legno di rovi in cui era tenuto l’ariete, evocava il legno della croce. È quindi il sacrificio dell’ariete da parte di Abramo che, allo stesso modo del sacrificio dell’agnello pasquale, simboleggia il sacrificio di Gesù, che avviene nello stesso momento in cui, secondo Giovanni, nel Tempio si immolavano gli agnelli per la Pasqua. Clemente Alessandrino esprime bene l’interpretazione cristiana della scena biblica: «Isacco (...) è figura del Signore. Fanciullo perché figlio (era figlio di Abramo, come il Cristo è figlio di Dio), vittima come il Signore. Ma non fu sacrificato come il Signore; Isacco portò soltanto la legna del sacrificio, come il Signore il legno della croce. (...) ma col non essere stato immolato egli indica anche la divinità del Signore. Gesù infatti risuscitò dopo la sepoltura (...) come Isacco fu liberato dal sacrificio»10. Spiegheremo più avanti, nella trattazione dei simboli escatologici, il senso della fantasiosa espressione «seno di Abramo».
1. Il sacrificio di Isacco, sarcofago proveniente dalla necropoli Saint-Victor (particolare), V secolo, Musée historique de Marseille. 2. Vocazione di Mosè; Mosè e il roveto ardente; Mosè e il suo gregge, pannello del portale ligneo, basilica di S. Sabina, Roma.
IL CICLO DI MOSÈ Mosè è la figura centrale della tradizione ebraica per ragioni ben precise. È lui che ha guidato la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto, forgiato la coscienza del popolo in quel crogiolo che fu la peregrinazione nel deserto per quarant’anni, e che lo ha condotto alla «Terra promessa» senza entrarvi. È lui 162
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che ha ricevuto da Dio il dono della Torah, la Legge che doveva portare il suo nome e che ha messo per iscritto (gli si attribuiva anche la redazione di tutto il Pentateuco). È lui che ha stretto l’alleanza con Dio. Per i tempi a venire, che avrebbero visto la restaurazione di Israele, si attendeva un secondo Mosè, in base alla promessa fatta allo stesso Mosè da Yahweh: «Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò» (Deuteronomio 18,18). Persuasi che tutto l’Antico Testamento fosse l’annuncio, la preparazione e la prefigurazione del Nuovo, i cristiani videro in Mosè il tipo profetico di Cristo. Trovavano conferma di ciò nella presenza di Mosè accanto a Gesù nel momento della sua «trasfigurazione» sulla montagna (Matteo 17,3). Egli non è solo l’eroe dell’esodo, ma anche di avvenimenti determinanti che acquisiranno valore di simboli di realtà cristiane nella catechesi, nella predicazione, nei commenti esegetici e nella loro raffigurazione artistica. Il campo d’indagine è immenso. Pertanto, ci soffermeremo solo sugli elementi più significativi. Il passaggio del Mar Rosso 3. Passaggio del Mar Rosso, metà del IV secolo, cubicolo C, catacomba di via Dino Compagni, Roma.
Il miracoloso passaggio del Mar Rosso da parte degli ebrei in fuga dalla schiavitù, e la trappola mortale delle acque che si richiudono sui loro inseguitori, rappresentano per ebrei e cristiani il tipo stesso della salvezza, determinata dalla EPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO
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potenza di Dio. Si limitavano a seguire il testo biblico, che precisava: «Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce» (Esodo 13,21). Sembra che san Paolo sia il primo a considerare il passaggio del Mar Rosso come immagine del battesimo cristiano. La sua esposizione è di grande profondità: «I nostri padri» scrive, «furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare» (1 Corinzi 10,1-2). È necessario fornire qualche chiarimento per ravvisare in queste parole la simbologia battesimale. Mosè è tipo di Cristo, in cui il cristiano viene battezzato. L’acqua del mare rappresenta l’acqua del battesimo, nella quale il fedele viene immerso e da cui riemerge per una nuova vita. Quanto alla nuvola, rappresenta lo Spirito Santo. Bisogna infatti ricordare che la peculiarità del battesimo di Gesù, rispetto a quello di Giovanni Battista, è di essere non solo un battesimo nell’acqua, ma anche un battesimo nello Spirito. Tutti questi elementi, presenti nella scena, prefiguravano dunque il sacramento dell’acqua e dello Spirito, il primo sacramento di salvezza, di liberazione dalla schiavitù del peccato. Il passaggio del Mar Rosso sarà un tema ricorrente della catechesi battesimale, come si constata in Agostino nella sua Catechesi ai principianti: «Così come il Diluvio purificò la terra dall’iniquità dei peccatori che perirono in questa inondazione universale, mentre i giusti furono salvati dal legno dell’arca, il popolo di Dio, uscendo dall’Egitto, trovò un passaggio attraverso le acque in cui perirono i suoi nemici. In quest’occasione, il legno fu ancora una figura profetica, perché Mosè colpì col suo bastone le acque per compiere il prodigio. Questi due esempi sono figura del santo battesimo che fa passare i fedeli a una nuova vita, cancellando e facendo perire i loro nemici, come i loro peccati nelle
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acque»11. Le interpretazioni tipologiche dell’arca di Noè e del passaggio del Mar Rosso avranno naturalmente corrispondenza, nell’arte paleocristiana, nei cicli figurativi della salvezza (→ Noè). In generale – lo abbiamo appena visto – i lettori ed esegeti cristiani ravvisano spesso una prefigurazione del battesimo nei passi della Bibbia in cui vi è una menzione significativa dell’acqua. Ciò avviene anche nel caso dell’acqua che scaturisce dalla roccia colpita dal bastone di Mosè (→ Bastone → Roccia). GIOSUÈ E L’ATTRAVERSAMENTO DEL GIORDANO
1. Passaggio del Mar Rosso, mosaico, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Passaggio del Mar Rosso, sarcofago di Les Alyscamps, Musée de l’Arles antique, Arles. 3. Attraversamento del Giordano, mosaico della parete sinistra, V secolo, basilica di S. Maria Maggiore, Roma.
L’importanza di Giosuè nell’interpretazione simbolica della Bibbia si fonda in primo luogo sul nome che Mosè gli ha dato, identico a quello di Gesù (in ebraico Yehoshua, trascritto in greco con Iesous) (Numeri 13,16). Giustino, nel Dialogo con Trifone, afferma a proposito di Giosuè: «Non solo gli è stato cambiato il nome, ma è divenuto anche il successore di Mosè e, unico tra quelli della sua generazione che erano usciti dall’Egitto, ha introdotto ciò che era rimasto del popolo nella terra santa. E così (...) anche Gesù Cristo invertirà la diaspora del popolo e distribuirà a ciascuno la buona terra, ma non più allo stesso modo. Il primo [Giosuè] infatti ha dato loro un’eredità temporanea, poiché non era il Cristo Dio né il Figlio di Dio, il secondo invece dopo la santa resurrezione ci darà il possesso eterno»12. EPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO
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1. Ascensione di Elia, pittura murale, IV secolo, catacomba di via Latina, Roma. Il profeta Elia ha beneficiato di un privilegio unico nell’Antico Testamento: è passato dalla terra al cielo in un carro di fuoco, prefigurazione profetica del passaggio dalla vita terrestre alla vita celeste (simbolo di resurrezione). 2. Ascensione di Elia, sarcofago detto «di Stilicone», basilica di S. Ambrogio, Milano.
L’ASCENSIONE DEL PROFETA ELIA La storia del profeta Elia, narrata nel secondo libro dei Re, occupa un posto non trascurabile nella letteratura patristica. È in particolare la sua misteriosa ascensione al cielo su un carro di fuoco ad assumere valore simbolico. «Mentre [Elia ed Eliseo] camminavano conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo» (2 Re 2,11). Più che una prefigurazione dell’ascensione di Cristo, questa scena è un simbolo del passaggio alla vita celeste col corpo, cioè un simbolo della resurrezione promessa ai battezzati. È l’interpretazione diffusa tra i Padri, ad esempio Ireneo, che vi vede «il segno profetico dell’accoglimento presso Dio degli uomini spirituali»13. È il motivo per cui questa scena si trova nei cicli figurativi che illustrano la speranza di salvezza, come si vede in un arcosolio delle catacombe della Via Latina a Roma.
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IL CICLO DI DAVIDE Per i cristiani Davide non è solo tipo di Cristo, come altre grandi figure bibliche (Isacco, Mosè, Giosuè, ecc.), ma ne è il precursore. È noto che il Nuovo Testamento insiste sull’ascendenza davidica di Gesù, considerata una conferma della sua missione di Messia. «Figlio di Davide» è uno dei suoi titoli. Di conseguenza, alcuni episodi della vita di Davide sono stati presi in considerazione in quanto prefigurazioni dell’opera di Cristo. Si tratta in particolar modo dei combattimenti di Davide contro gli animali feroci e contro il gigante Golia. Per giustificare la pretesa di combattere il Filisteo, Davide dice a Saul che, grazie all’aiuto di Dio, ha ucciso il leone e l’orso quando questi attaccavano le pecore di suo padre (1 Samuele 17,32-37). Nelle vesti di pastore coraggioso che rischia la propria vita per il suo gregge e uccide i predatori, il giovane Davide evocava evidentemente la figura del Buon Pastore. Ma è soprattutto la sua lotta vittoriosa contro il leone e l’orso che è oggetto di numerosi commenti. Queste bestie feroci simboleggiano il Diavolo, come si può osservare in un’omelia di Cesario di Arles: «Essi erano entrambi tipi del Diavolo, il leone e l’orso che sono stati soffocati dalla forza di Davide per aver osato attaccare una delle sue pecore. Tutto ciò (...), leggiamo che fu allora prefigurato in Davide e compiuto in Nostro Signore Gesù Cristo. Perché è allora che strangolò il leone e l’orso quando, scendendo nell’Ade, ha sottratto tutti i santi alle loro fauci»14. La menzione della lotta vittoriosa del giovane Davide contro le bestie feroci serve da preambolo all’epico combattimento tra il pastore, armato soltanto del suo bastone e della sua fionda, e il gigante Golia, dotato di elmo, corazza e numerose armi. Se la vittoria spetta, paradossalmente, al più debole, si deve al fatto che egli ha combattuto nel nome di Dio: «Perché il Signore è arbitro della lotta» (1 Samuele 17,47). Questa era la morale del racconto biblico e la lezione profetica che i Padri ne traevano, applicandola a Cristo. Agostino offre un’efficace testimonianza di questa tradizione, quando dichiara che «Davide era figura di Cristo come Golia era figura del Diavolo. E Davide che ha abbattuto Golia è Cri168
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1. Davide uccide il leone, piatto d’argento appartenente al tesoro di Cipro, inizio VII secolo. 2. Daniele in atteggiamento da orante col berretto frigio, Museo di Hama, Siria.
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sto che ha ucciso il Diavolo»15. Analogamente, secondo «l’economia del legno», il bastone del giovane pastore simboleggia la croce vittoriosa di Cristo. Bisogna infine aggiungere che queste due scene di lotta impari, dalle quali Davide esce indenne e vittorioso grazie alla forza di Dio, sono considerate dai cristiani simboli della liberazione attuata da Cristo.
IL CICLO DI DANIELE Tra i libri dell’Antico Testamento, quello di Daniele occupa per i cristiani un posto privilegiato. Tre episodi hanno particolarmente catturato l’attenzione in virtù del loro alto valore simbolico: Daniele nella fossa dei leoni, i tre giovani ebrei nella fornace e la storia di Susanna. Le testimonianze sono molteplici, tanto nella letteratura (liturgia, omelie, commenti, ecc.) che nell’iconografia, soprattutto funeraria. Daniele nella fossa dei leoni L’episodio più celebre è incontestabilmente quello di Daniele nella fossa dei leoni (Daniele 6). In pieno periodo di persecuzioni, esso evocava i martiri condannati alle bestie per essersi rifiutati di sacrificare agli idoli. Tuttavia, la figura di Daniele va oltre quella del credente, fedele alla sua fede nel Dio unico, per-
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1. Daniele tra i leoni, sarcofago (particolare), prima metà del IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano.
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2. Daniele tra i leoni, affresco, IV secolo, catacomba anonima di via Anapo, Roma. 3. Daniele nella fossa dei leoni, cappella dell’Esodo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 4. I tre ebrei nella fornace, cappella dell’Esodo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto.
ché egli è anche simbolo del Risorto. La «fossa» dove viene gettato e da cui risale vivo, rappresenta – per il significato stesso della parola, sinonimo di Sheol (l’Ade, gli Inferi) – la risalita dalla dimora dei defunti, maniera immaginifica di indicare la resurrezione (→ Discesa agli Inferi). Daniele diventa tipo di Cristo, interpretazione largamente condivisa, come attesta chiaramente, tra gli altri, Afraate: «Daniele» scrive, «fu gettato nella fossa dei leoni, ma fu salvato e ne uscì indenne; Gesù fu fatto scendere nella fossa della dimora dei defunti, ma ne uscì, e la Morte non ebbe potere su di lui»16. Nell’iconografia, Daniele è spesso rappresentato in preghiera, vale a dire con le braccia aperte, gesto che non evo-
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ca soltanto la supplica rivolta a Dio, ma, per i cristiani, la posizione di Gesù con le braccia aperte sulla croce. Daniele diviene dunque tipo stesso del fedele salvato dalla croce di Cristo e destinato alla resurrezione. Questa interpretazione spiega la frequenza della scena nelle catacombe e sui sarcofagi. I tre giovani ebrei nella fornace L’episodio dei tre giovani ebrei gettati nella fornace a Babilonia (Daniele 3) è spesso citato e riprodotto assieme all’episodio precedente, perché i cristiani gli attribuiscono lo stesso valore simbolico di salvezza e di speranza nella vita eterna. EPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO
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Susanna e i vegliardi La storia di Susanna, condannata a morte sulla base di false testimonianze, evocava il processo di Gesù. L’intervento miracoloso di Dio per il tramite del giovane Daniele, la salva in extremis (Daniele 13). Modello dell’orante la cui supplica viene esaudita e tipo di Cristo, l’innocente condannato, ella diviene il paradigma della salvezza, come Daniele e i tre ebrei. I tre episodi erano entrati a far parte della sequenza tradizionale di esempi biblici di salvezza, che si apriva col tipo stesso della salvezza, la liberazione dalla schiavitù in Egitto. In uno dei suoi sermoni, Agostino ne fornisce l’enumerazione, ben nota ai suoi uditori: «Sappiamo che Dio ha liberato molti dei nostri padri che riponevano in lui la speranza. Ha liberato il popolo d’Israele dalla terra d’Egitto; ha liberato i tre 2
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1. I tre fanciulli nella fornace, mosaico, catacomba di Domitilla, Roma. 2. Susanna in atteggiamento da orante tra i due vegliardi minacciosi, III secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 3. Giona gettato in mare e rigettato sulla riva, disegno di sarcofago, Musei Vaticani, Città del Vaticano. 4. Susanna legge il Libro della Legge mentre i vegliardi la osservano, sarcofago (particolare), Musée de l’Arles antique, Arles.
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ebrei dalla fornace infuocata; ha liberato Daniele dalla fossa dei leoni; ha liberato Susanna dalla calunnia. Tutti lo hanno invocato e sono stati liberati». Era una rievocazione degli esempi che occupavano un posto privilegiato nella catechesi. In più Susanna, che non ha ceduto alla tentazione, è talvolta considerata come l’anti-tipo di Eva o, ancora, come tutte le oranti, figura della Chiesa. IL SEGNO DI GIONA La straordinaria vicenda di Giona ha ottenuto un considerevole successo fin dalle origini della Chiesa, a giudicare dal gran numero di rappresentazioni sia nelle pitture catacombali che sui sarcofagi. Ciò non è dovuto al taglio popolare del racconto. La sua fama derivava dal fatto che tutti i battezzati ne venivano a conoscenza al momento della loro formazione di catecumeni. La vicenda leggendaria era meno importante del significato che gli si attribuiva, e che è facile ritrovare nelle omelie e nei commenti patristici. I Padri ne danno essenzialmente una lettura tipologica, presentando Giona come «tipo» di Cristo. Si limitano, d’altronde, a riprendere il parallelo che Gesù aveva fatto tra sé e la figura di Giona, nella quale vedeva la profezia del proprio destino. In risposta ai suoi avversari, che gli chiedevano dei prodigi per avvalorare la sua missione, egli replicò prontamente con questa sorprendente dichiarazione: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Matteo 12,39-40; vedi Giona 2,1). Di conseguenza, non si poteva non vedere in Giona la figura di Cristo risorto. Agostino lo spiega molto chiaramenEPISODI DELL’ANTICO TESTAMENTO
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1-2. Giona gettato in mare e inghiottito dal mostro (1); Giona rigettato sulla riva (2), mosaico, Aquileia.
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te: «Perché mai egli fu inghiottito nel ventre di un animale e uscì fuori il terzo giorno, se non per significare Cristo, che sarebbe ritornato al terzo giorno dalle profondità dell’inferno?»17. Ireneo scrive: «Dio ha voluto che l’uomo, ricevendo da lui una salvezza insperata, resusciti dai morti, glorifichi Dio e pronunci la parola profetica di Giona: ‘Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce’» (III, 20,1). Questa interpretazione simbolica è stata oggetto di una delle rappresentazioni più frequenti nelle pitture catacombali. Secondo Mons. Martimort, essa sarebbe la più diffusa dopo quella del Buon Pastore. La si trova quasi ovunque, sui sarcofagi, nei mosaici, ecc. 174
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CAPITOLO SESTO
EPISODI DELLA VITA DI GESÙ E LORO IMPORTANZA TEOLOGICA LA NATIVITÀ Le circostanze della nascita di Gesù a Betlemme sono riportate solo nei cosiddetti «vangeli dell’infanzia». Questi sono stati sostituiti e ampliati dai numerosi Vangeli detti «apocrifi», cioè non ammessi tra gli scritti canonici, ma che hanno, di fatto, esercitato una profonda influenza sul piano delle rappresentazioni, come testimonia, ad esempio, la presenza del bue e dell’asino accanto alla mangiatoia (→ Bue). Tutti gli elementi che compongono il racconto della Natività sono stati oggetto di rappresentazioni simboliche e allegoriche. Tratteremo più avanti del segno della stella e dell’adorazione dei Magi. Qui ci soffermiamo sul significato della nascita di Gesù a Betlemme. Il luogo stesso non è privo di significato, dal momento che era la città di Davide. Citando la profezia di Michea, che aveva annunciato che da Betlemme sarebbe venuto «colui che deve essere il dominatore in Israele» (Michea 5,1), Matteo ne vede il compimento in Gesù. La sua nascita è la nascita del Messia atteso, cosa che ne definisce l’importanza e spiega tutti gli straordinari segni che accompagnano l’evento. L’ADORAZIONE DEI MAGI 1. L’imperatrice Teodora e il suo seguito, mosaico, VI secolo, basilica di S. Vitale, Ravenna. Sulla veste dell’imperatrice, in basso, sono ricamati i Magi in cammino. 2. I Magi in cammino indicano la stella in alto a sinistra sopra la Natività, sarcofago gallo-romano detto «della Natività», Musée de l’Arles antique, Arles.
Benché Matteo sia l’unico dei quattro evangelisti a raccontare l’episodio della venuta dei Magi a Betlemme per rendere omaggio al bambino Gesù, il suo racconto ha beneficiato di una grande popolarità nella Chiesa antica (Matteo 2,112). Fin dal II secolo è commentato dai Padri; nel III secolo è presente nelle pitture catacombali; a partire dal IV, è rappresentato sui sarcofagi. Ancora una volta, non è tanto l’aneddoto pittoresco a essere ricordato, quanto il significato che gli si attribuisce. Poiché i «Magi» vengono «da Oriente» (Persia o Mesopota-
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mia), si tratta di pagani, cioè, per gli ebrei e i cristiani, di idolatri, sottomessi, in quanto tali, alla tirannia di Satana. I Magi saranno dunque considerati i primi pagani ad avere abbandonato gli idoli per seguire il Cristo Salvatore. Più precisamente, dato che l’appellativo di «magi» li designa come maghi e astrologi, i cristiani vedono nell’adorazione dei Magi l’abbandono delle pratiche magiche e astrologiche, considerate sataniche. Di fronte al mondo antico, avvezzo a queste pratiche, il giovane cristianesimo ostenta la sua aperta opposizione, affermando la libertà dell’uomo e ricusando l’idea di un destino fatale falsamente scritto nelle stelle. Ciò è dunque parte della novità del cristianesimo. Cristo ha trionfato sulle potenze demoniache. Come afferma Origene, con la nascita di Gesù, il Verbo incarnato, «i demoni persero forza e vigore, la loro magia fu smarrita e il loro potere cessò»1. Ilario di Poitiers sviluppa la stessa idea: «I Magi adorano il bambino in fasce. Essi, che un tempo si compiacevano dei loro riti arcani, della loro vana scienza [l’astrologia], si inginocchiano davanti a questo piccolo adagiato nella mangiatoia». Il mistero si cela sotto umili apparenze. «Sì» aggiunge Ilario, «una cosa è ciò che si comprende, altro ciò che si vede! Una cosa è ciò che percepisce l’occhio, altro ciò che contempla lo spirito»2. In sintesi, l’episodio dei Magi rappresenta la salvezza, vista come vittoria di Cristo sul male e le potenze demoniache. 178
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È per questo motivo che l’episodio accompagna altre scene di salvezza nelle pitture catacombali e nei rilievi dei sarcofagi. Coi Magi è tutto il mondo pagano che viene chiamato alla salvezza e alla vita eterna. Da qui l’importanza di questa scena alle origini del cristianesimo, rappresentativa del fatto che si contano già numerosi fedeli provenienti dal paganesimo. IL BATTESIMO DI GESÙ
1. Adorazione dei Magi, sarcofago detto «degli Sposi» (particolare), IV secolo, Musée de l’Arles antique, Arles. 2. Battesimo di Cristo e apostoli, mosaico della cupola, VI secolo, battistero degli Ariani, Ravenna.
Il battesimo di Gesù nel Giordano ad opera di Giovanni Battista è un evento capitale, non solo perché dà inizio alla sua missione di Messia, ma anche perché viene considerato come la manifestazione, «epifania», dell’incarnazione del Figlio di Dio, e come una «teofania», manifestazione di Dio Trinità, col Padre che fa sentire la sua voce, lo Spirito Santo che discende sotto forma di colomba e il Figlio incarnato in Gesù. Fin dagli albori della Chiesa, il battesimo di Gesù diverrà tipo del battesimo, che segna l’ingresso del cristiano nella Chiesa, il regno di Dio in formazione. È per questo che, nell’arte cristiana primitiva, la raffigurazione del battesimo rappresenta – e non è sempre facile distinguerli – il battesimo di Gesù o il battesimo di un catecumeno (→ Battesimo). EPISODI DELLA VITA DI GESÙ
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I MIRACOLI DI GESÙ «I miracoli compiuti da Gesù» scrive Origene, «si sono verficati per divenire simboli di alcune verità e per attirare in tal modo molti uomini verso il mirabile insegnamento delle Scritture»3. È l’opinione diffusa tra i Padri. Ci guiderà nel corso dell’esposizione dei miracoli più significativi. Le nozze di Cana Il miracolo di Cana è «il primo dei segni» compiuti da Gesù secondo il Vangelo di Giovanni (2,1-11). In quanto segno inaugurale della sua missione, è di primaria importanza. In questo episodio tutto è segno: le nozze, l’acqua mutata in vino, ecc. La scena è incentrata sul banchetto che segue la celebrazione del matrimonio. La partecipazione di Gesù alla festa, durante la quale manifesta per la prima volta il suo potere di Messia, rappresenta per i Padri l’inizio dei tempi messianici, tempi di gioia, come mostra l’immagine del banchetto. «Il pranzo di nozze», secondo Severo di Antiochia, «significa e mostra che è nella gioia di un pranzo di nozze che Gesù è venuto nel suo avvento nella carne tra coloro che sono sulla terra. Poiché non è venuto per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato da lui e perché lui prenda in sposa la Chiesa come una vergine pu180
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1. Cristo e la Madonna davanti agli otri durante le nozze di Cana, arcosolio della tomba di Primenius e Severo, catacomba di S. Sebastiano, Roma. 2. Miracoli di Gesù: la guarigione del cieco, la moltiplicazione dei pani, le nozze di Cana, pannello del portale ligneo, basilica di S. Sabina, Roma. 3
ra»4. Le nozze di Cana sono la festa della salvezza messianica. Il vino, «che allieta il cuore dell’uomo» (Salmi 104,15), è presente in ogni banchetto. L’acqua miracolosamente mutata in vino manifesta la potenza creatrice del Logos. È ciò che pensa, tra gli altri, Ireneo: «Era già buono quel vino che era stato prodotto da Dio nella vigna attraverso la creazione e che fu bevuto per primo (...) Ma migliore fu il vino che, tramite il Verbo, con poche parole e semplicemente, fu fatto dall’acqua (...) Si mostrava in tal modo che il Dio che ha fatto la terra e le ha ordinato di dare frutti (...), questo stesso Dio concede anche al genere umano, alla fine dei tempi, per il tramite del Figlio, la benedizione del cibo e la grazia del bere, lui, l’Incomprensibile, per mezzo di Colui che può essere compreso, lui, l’Invisibile, per mezzo di Colui che può essere visto»5. Questa trasformazione dell’acqua in vino sarà anche la prefigurazione della transustanziazione eucaristica. È il motivo per cui questo episodio è spesso citato parallelamente a quello della moltiplicazione dei pani. La moltiplicazione dei pani 3. Moltiplicazione dei pani, mosaico, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna. 4. Moltiplicazione dei pani, arcosolio della tomba di Primenius e Severo, catacomba di S. Sebastiano, Roma.
La moltiplicazione dei pani fa parte dei miracoli di Gesù a forte valenza simbolica. A differenza di quello di Cana, che solo Giovanni riporta, l’episodio è riferito in ciascuno dei quattro Vangeli (Matteo 14,13-21 e paralleli). Matteo e Marco riferiscono anche di una seconda moltiplicazione in un altro momento, ma si
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tratta probabilmente di doppioni. In ogni caso, nella catechesi e nella predicazione si ricerca più la valenza spirituale dell’episodio che la sua ricostruzione storica. Per via del simbolo del pane eucaristico, l’interpretazione porrà l’accento sulla moltiplicazione dei pani, mentre nell’episodio si verifica anche una moltiplicazione dei pesci. Per le civiltà mediterranee il pane è l’alimento fondamentale (→ Pane). Nel Vangelo il pane simboleggia il nutrimento dell’intelletto e dello spirito. «Io sono il pane della vita», dichiara Gesù, «chi viene a me non avrà più fame» (Giovanni 6,35). Il Verbo apporta il pane della parola di Dio. È il primo significato della moltiplicazione dei pani, come spiega Ambrogio: «Il pane spezzato da Gesù è la parola di Dio e il discorso su Cristo in forma di mistero: distribuito, aumenta, perché, con le parole, egli ha fornito a tutte le genti un alimento sovrabbondante; ha donato le parole come i pani e, mentre li gustiamo, si moltiplicano nella nostra bocca»6. Dal pane della parola si passa con facilità al pane eucaristico, poiché entrambi sono fondamentalmente Cristo, «pane di vita». È evidente che il pasto offerto da Gesù alla folla di Galilea era per i cristiani evocatore del pasto eucaristico e, in definitiva, del banchetto celeste nel regno di Dio.
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1. Miracolo di Cana, vetro colorato, IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 2. Moltiplicazione dei pani e dei pesci: cesto di pani accanto a due pesci, mosaico, Tabgha, Palestina. 3. Gesù si rivolge all’emorroissa che lo ha toccato, lipsanoteca in avorio (particolare), Civici Musei d’Arte e di Storia, Brescia. 4. Miracolo dell’emorroissa, lunetta dell’arcosolio, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 5. Guarigione del paralitico proveniente da Dura Europos, III secolo, Yale University Museum, New Haven.
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Le guarigioni Abbiamo mostrato in precedenza come ai primi cristiani fosse gradita l’immagine di un Gesù «medico» dei corpi e delle anime, in virtù delle numerose guarigioni che aveva compiuto (→ Cristo medico). Le molteplici raffigurazioni dell’arte primitiva sottolineano l’importanza di queste immagini di salvezza. Si può ricordare, a titolo d’esempio, la guarigione del paralitico e la guarigione dell’emorroissa. Trattiamo a parte, qui di seguito, la guarigione del cieco nato, per via della sua maggiore rilevanza simbolica. La guarigione del cieco nato
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I Vangeli riportano sei guarigioni di ciechi. Giovanni descrive quella del cieco nato per via del suo valore di «segno», in rapporto privilegiato con uno dei suoi temi favoriti, quello della luce. Poco prima di compiere il miracolo, Gesù dichiara: «Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Giovanni 9,5). È per questo motivo che quest’azione miracolosa è considerata dai Padri come una parabola dell’azione battesimale che essi spesso chiamano proprio «illuminazione». Perché, in realtà, il grande miracolo, come dichiara Cirillo di GerusaEPISODI DELLA VITA DI GESÙ
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lemme, è «il trionfo della croce che ha condotto alla luce quelli che l’ignoranza accecava. Cristo ha affrancato dal peccato tutti coloro che ne erano trattenuti, e ha redento tutta l’umanità»7. La guarigione del cieco nato è prefigurazione dell’illuminazione battesimale e, per la medesima ragione, anche della resurrezione. Per il redattore delle Costituzioni apostoliche, le diverse guarigioni compiute da Cristo, «demiurgo di tutti gli uomini», palesano il suo potere di resuscitare. Al termine della sua enumerazione, egli conclude: «Sarà proprio quegli, che con la terra e la saliva ha restituito l’organo mancante al cieco nato, a rialzarci (...) Sarà proprio quegli, che a sua volta è risorto dai morti, a resuscitare tutti i defunti»8. La resurrezione di Lazzaro Secondo il racconto della resurrezione di Lazzaro, riportato soltanto dal quarto Vangelo (Giovanni 11), l’episodio ha avuto luogo poco prima dell’arresto di Gesù. Conoscendo la predilezione di Giovanni per i segni simbolici, sembra proprio che l’episodio prefiguri la resurrezione di Cristo. Occorre ricordare che quest’evangelista non usa mai la parola miracolo ma «segno»? La parola di Gesù a Marta: «Io sono la risurrezione» (Giovanni 11,25), fa comprendere il signi184
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1. Guarigione del cieco, pisside in avorio (particolare), VI secolo, Musée de Cluny, Parigi. 2. Gesù guarisce il cieco ponendogli la saliva sugli occhi, dittico (particolare), metà del VI secolo.
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3. Resurrezione di Lazzaro, pisside ovale in avorio (particolare), fine V secolo, Museo Civico Archeologico, Bologna. 4. Resurrezione di Lazzaro, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma.
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ficato di questo segno. In effetti, per i primi cristiani, la resurrezione di Lazzaro è il segno profetico della resurrezione dei morti alla fine dei tempi. «Il Signore prefigurava le cose eterne attraverso quelle temporali» insegna Ireneo, «e mostrava di essere colui che ha il potere di donare all’opera da lui modellata [l’uomo] la guarigione e la vita, affinché si credesse anche nella sua parola relativa alla resurrezione. Nello stesso modo, pertanto, alla fine [dei tempi], alla voce del Signore i morti resusciteranno»9. Quindi, non sorprende che quest’episodio occupi una posizione di rilievo tra le pitture funerarie delle catacombe e sui sarcofagi. Peraltro, se pensiamo che il battesimo, da san Paolo in poi, è presentato misticamente come sepoltura con Cristo e resurrezione con lui, si comprende facilmente perché la resurrezione di Lazzaro sia stata interpretata dai Padri come simbolo del battesimo. La nuova creatura, «ri-nata», che emerge dalla piscina battesimale, è già «un figlio della resurrezione». È lo stesso significato che i Padri attribuiscono ad altri due racconti di resurrezione, spesso citati assieme a quello di Lazzaro: la resurrezione della figlia di Giairo (Matteo 9,18-26) e quella del figlio della vedova di Nain (Luca 7,11-17). Nel caso della figlia di Giairo, la parola di Gesù, «La fanciulla non è morta, ma dorme», sorprende, perché poco prima se ne è annunciata la morte. Sia che questa parola appartenga a Gesù stesso o sia stata riformulata dalla tradizione,
1. Resurrezione di Lazzaro, affresco, cappella «Cristiana», complesso ospedaliero di S. Giovanni, Roma. 2. Resurrezione di Lazzaro, vetro dorato, IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano.
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3. Resurrezione della figlia di Giairo, sarcofago (particolare), inizio V secolo, Musée de l’Arles antique, Arles.
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non è certo per attenuare la portata del miracolo; sembra piuttosto che la frase rinvii all’idea che la morte sia un «sonno», cioè una parvenza di morte o una morte provvisoria, dal momento che l’essere umano è destinato alla resurrezione alla fine dei tempi. Notiamo anche che il termine «resuscitare» significa letteralmente «rialzarsi», come ci si rialza dopo aver dormito. Il gesto di Gesù che prende la fanciulla per mano per farla rialzare, fa pensare anche alla rappresentazione di Gesù al momento della sua discesa agli Inferi (nella dimora dei defunti), quando prende Adamo per mano per farlo rialzare e lo porta con sé alla dimora dei vivi nel paradiso di Dio. «Dio non è il Dio dei morti ma dei vivi», diceva Gesù. La mano di Cristo è la mano creatrice di Dio che, nello stesso modo in cui ha donato la vita, può riaccenderla. La fede nella resurrezione è una delle affermazioni principali del cristianesimo, come testimonia il simbolo apostolico: «Credo nella resurrezione della carne e nella vita eterna». La rappresentazione nell’arte cristiana di ognuna delle tre resurrezioni compiute da Gesù illustra la fede dei primi credenti nella resurrezione dei loro morti. EPISODI DELLA VITA DI GESÙ
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LA TRASFIGURAZIONE La trasfigurazione di Gesù, come in precedenza il suo battesimo, è una teofania. Essa non rappresenta solo la conferma della sua missione messianica, ma anche la manifestazione della sua natura celeste, divina. Inoltre, risultando sconvolgente per i suoi apostoli, dopo l’annuncio della passione, essa prefigura, anticipandola, la gloria della sua resurrezione. DALLA PASSIONE ALL’ASCENSIONE DI CRISTO La passione e la morte di Cristo sulla croce costituiscono il fulcro della fede cristiana: «crocifisso sotto Ponzio Pilato», come afferma il Credo. La maggior parte dei Vangeli è loro consacrata. Ma esse hanno senso solo perché Cristo è risorto. È per questo motivo che gli avvenimenti successivi, verificatisi dall’arresto di Gesù alla sua crocifissione, non vengono rappresentati nell’arte primitiva se non tardivamente, ad esempio sulla porta della chiesa di S. Sabina a Roma nel V secolo o, a partire dal IV secolo, su alcuni sarcofagi contenenti la scena del giudizio al 188
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1. Trasfigurazione, mosaico absidale, Katholikon del monastero di S. Caterina del Sinai, Egitto.
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2-3. Pilato si lava le mani (2); Crocifissione (forse la più antica raffigurazione di Cristo in croce) (3), formelle del portale ligneo, V secolo, basilica di S. Sabina, Roma. 4. La croce vittoriosa, sarcofago detto «dell’anastasis» (resurrezione), Musée de l’Arles antique, Arles.
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cospetto di Pilato, con quest’ultimo che si lava le mani e i soldati che trascinano via il condannato. Ma in questo caso, la scena è sempre controbilanciata da una rappresentazione della croce gloriosa e vittoriosa, relegando nell’ombra la croce ignominiosa. La croce ha senso solo in quanto emblema del trionfo sulla morte, il «trofeo» della vittoria sulle forze del male (→ Trofeo). È per questo che la resurrezione di Gesù è rappresentata solo dai simboli della vittoria o dalle sue implicazioni: l’ascensione di Gesù e la sua signoria universale, rappresentata dal Cristo in maestà assiso sul trono di re del mondo (→ Trono).
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1. Le tre donne al sepolcro e l’ascensione di Gesù, pannello in avorio proveniente da Roma, V secolo, Bayerisches Nationalmuseum, Monaco. 2. Ascensione, pannello del portale ligneo (particolare), V secolo, basilica di S. Sabina, Roma. 3. Cristo vincitore sul monte apocalittico dei quattro fiumi, affiancato da Pietro e Paolo, reca la croce gemmata, sarcofago, IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano.
A questo punto, è opportuno spiegare un aspetto insolito del mistero pasquale, illustrato dal tema della «discesa di Cristo agli Inferi», tema tradizionale che abbiamo già incontrato in più occasioni, e che viene introdotto intorno all’anno 400 nel simbolo apostolico: «Egli è disceso agli Inferi». La menzione si inserisce tra il riferimento alla morte e al seppellimento di Gesù e quello alla resurrezione e all’ascensione in cielo. Essa deve dunque essere considerata come parte di questo insieme. Questo tipo di rappresentazione, generalmente non compreso dai nostri contemporanei, deve essere collocato nel suo contesto culturale, cosmologico e antropologico. Questo contesto è in primo luogo, e soprattutto, ebraico. «Discendere agli Inferi» è la traduzione di «discendere nello Sheol» o nella «fossa», cioè nella dimora dei defunti. Secondo un primo significato, l’espressione non ha niente a che vedere con la mitologia: è una semplice metafora che indica la morte di un uomo. Corrisponde alla nostra espressione «morto e sepolto». Quando i primi cristiani, nati dal giudaismo, affermano che Gesù è disceso nello Sheol (o nell’Ade, quando si esprimono in greco), intendono semplicemente dire che egli è veramente morto, avendo subito l’esito finale della condizione umana, da lui accettata fino in fondo. La sua morte non è stata apparenza, non più della sua umanità, contrariamente a quello che pretendevano certi eretici. L’espressione in sé appare dunque come un doppione dell’affermazione che la precede nel simbolo di fede: «morto e sepolto». Ciò spiega perché, anche in certi simboli più sviluppati e teologici, come quelli di Nicea o di Atanasio, questa metafora sia stata eliminata in quanto semplice doppione. Tuttavia, la questione è più complessa. Perché la si è conservata nel simbolo apostolico, nei testi liturgici e patristici? Sarebbe troppo semplice individuare la ragione di ciò nel rispetto per una formula tradizionale riconosciuta da tutti. Questa metafora, come tutte le espressioni simboliche, possiede un contenuto significante più ricco dei concetti astratti e realistici di «morto e sepolto». Innanzitutto la metafora ha una duplice valenza, poiché è collegata alla nozione di resurrezione. Se è vero che Gesù è disceso nello Sheol, ne è anche risalito, «si è rialzato dai morti». In secondo luogo, l’espressione tradizionale rimanda a tutto un insieme di rappresentazioni che ha lo scopo di dare conto del mistero pasquale, mistero di salvezza che riguarda tutta l’umanità. Abbiamo ricordato questo punto nodale a proposito della salvezza di Adamo. È necessario delinearlo dall’inizio, tornando al retroterra culturale. A partire da questa espressione metaforica, l’immaginario cristiano ha elaborato una trama articolata, utilizzando gli elementi mistici che accompagnavano la concezione greca dell’Ade. Il regno dei morti, situato nelle profondità della terra, era governato dal dio Ade, da cui prendeva il nome. La letteratura riportava racconti straordinari di eroi che erano discesi nell’Ade: Eracle, Orfeo, Teseo, Ulisse. È in questo contesto culturale che ha preso forma il racconto della discesa di Cristo nell’Ade e della sua vittoria sulle potenze infernali. L’elaborazione del primo testo risale probabilmente al II secolo e si trova nell’apocrifo intitolato Vangelo di Bartolomeo. Si presenta come una rivelazione di Gesù stesso al suo apostolo: «‘Discesi nell’Infero a liberare Adamo e tutti i patriarchi’ (...) Si spezzarono allora le porte di bronzo e le spranghe di ferro. Entrò il Signore, lo afferrò [Ade], lo colpì, ordinò che fosse bastonato, lo legò con catene insolubiEPISODI DELLA VITA DI GESÙ
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li e liberò tutti i patriarchi»10. È un tema ricorrente in tutti i testi antichi. Il più rappresentativo si trova nelle Memorie (o Vangelo) di Nicodemo, un apocrifo del V secolo, che riprende le diverse tradizioni e le rielabora in un racconto pittoresco che otterrà un successo considerevole, arricchendo l’immaginario cristiano per i secoli a venire11. In sintesi, il racconto illustra gli avvenimenti fondamentali: la morte di Gesù, il suo seppellimento, la sua resurrezione e la sua ascensione. Suo scopo dottrinale è mettere in rilievo l’universalità della salvezza. Nessuno lo ha spiegato meglio del vescovo di Lione Ireneo: «Cristo non è venuto solo per coloro che, dai tempi dell’imperatore Tiberio, hanno creduto in lui; e il Padre non ha esercitato la sua provvidenza solo a favore degli uomini del presente ma, senza eccezione, a favore di tutti gli uomini che, dal principio, secondo le loro capacità e nel loro tempo, hanno desiderato vedere Cristo e ascoltare la sua voce»12. Pertanto, ci si può meravigliare che un tema così ben attestato nei testi antichi, perfino nella liturgia eucaristica (sin dalla Tradizione apostolica di Ippolito, § 4), non si trovi illustrato nell’arte paleocristiana. La più antica rappresentazione conosciuta si trova in un affresco (VII-VIII secolo) di S. Maria Antiqua, nel foro romano. Bisogna dire che la crisi iconoclasta in Oriente ha causato la distruzione della maggior parte delle immagini antropomorfiche. È in Oriente, infatti, che l’immagine della discesa di Cristo nell’Ade avrebbe assunto un’importanza considerevole, in quanto immagine della resurrezione, in greco anastasis. In effetti, l’icona dell’anastasis rappresenta la risalita di Cristo vittorioso dall’Ade, mentre tiene Adamo per mano per entrare con lui in paradiso. È dunque anche l’illustrazione del significato mistico della resurrezione: la salvezza di tutta l’umanità. 1
1. Ricostruzione dell’affresco che rappresenta la risalita di Gesù dagli Inferi, S. Maria Antiqua, Roma. Questo tipo di rappresentazione sarà detto in seguito anastasis (resurrezione) poiché diverrà l’icona classica della resurrezione. 2. La Vergine Maria in atteggiamento da orante, placca in marmo del pluteo, basilica di Saint-Maximin, V-VI secolo, Var, Francia. 3. Maria orante tra Pietro e Paolo, rilievo, vetro dorato, Musei Vaticani, Città del Vaticano. 4. Maria orante con colomba, affresco, cupola della cappella della Pace, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto.
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CAPITOLO SETTIMO
LE FIGURE DELLA CHIESA E IL SIMBOLISMO DEI RITI LITURGICI E DEGLI EDIFICI DI CULTO LE FIGURE DELLA CHIESA Nell’Antichità era consuetudine personificare fiumi, stagioni, paesi, o entità come l’abbondanza, la giustizia, la pace, la pietà, la vittoria, ecc. A seconda del genere del nome che le designava, maschile o femminile, le si rappresentava con le sembianze di un uomo o di una donna. Come tutte le entità che portano nomi femminili, la Chiesa è rappresentata con le sembianze di una donna. Nelle «visioni» del Pastore di Erma, la Chiesa appare nelle vesti di una «donna anziana»: è tale, spiega l’autore, perché è stata «creata per prima, prima di ogni cosa: è per essa che il mondo è stato creato» (Visione 2,4). Nell’iconografia, la Chiesa è rappresentata con le sembianze di una donna, talvolta nei panni di un’orante. La Vergine Maria, in modo particolare quando è raffigurata come orante, simboleggia quindi la Chiesa in preghiera. «Una sola Vergine diventa madre, e mi piace chiamarla Chiesa» diceva Clemente Alessandrino1. Un simbolo costante della Chiesa – sembrerebbe a partire da 2
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Tertulliano – sarà quello della Madre (Mater Ecclesia), poiché in essa sono generati, attraverso il battesimo che amministra, i figli di Dio. «Chi non ha la Chiesa per Madre non può avere Dio per Padre», secondo la celebre frase di Tertulliano. L’iconografia cristiana antica ha conservato due singolari pannelli, in cui sono raffigurate due donne, personificazioni della Chiesa, collocate simmetricamente. Si trovano nelle chiese romane di S. Sabina e di S. Pudenziana. Questo tipo di raffigurazione merita un commento. Nel secondo pannello, le due donne stanno in piedi dietro gli apostoli, seduti ai lati di Cristo dottore assiso sul trono; ciascuna di esse tiene in mano la corona della vittoria. Nel primo pannello, un’iscrizione spiega che cosa rappresentano le due donne: una simboleggia la «Chiesa della circoncisione» e reca nella mano sinistra il codex aperto dell’Antico Testamento, che indica con la mano destra, mentre l’altra donna, la «Chiesa dei gentili», tiene aperto nello stesso modo il codex del Nuovo Testamento, che addita con la mano destra. Dunque, due figure parallele e complementari. Notiamo che, per i primi cristiani, sia l’Antico che il Nuovo Testamento costi194
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1-2. Personificazioni delle due Chiese che presentano il libro delle Sacre Scritture: a sinistra, la «Chiesa della circoncisione», costituita da ebrei che credono in Cristo; a destra, la «Chiesa dei gentili», cioè dei cristiani provenienti dal paganesimo, mosaico con iscrizione dedicatoria, V secolo, basilica di S. Sabina, Roma.
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3-4. Personificazioni delle due Chiese, la Chiesa della circoncisione e la Chiesa dei gentili; ciascuna tende una corona al di sopra degli apostoli, mosaico absidale, chiesa di S. Pudenziana, Roma. Si tratta di uno dei più antichi mosaici absidali paleocristiani.
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tuiscono le «Sacre Scritture». A proposito di queste due raffigurazioni, aggiungerei un’osservazione che mi sembra significativa, dal momento che si è spesso tratti in inganno in merito alla loro interpretazione. Queste personificazioni della Chiesa non si contrappongono; esse non sono solo simmetriche, ma poste in posizione di parità. In effetti, quella di sinistra, la «Chiesa della circoncisione», non presenta alcun tratto negativo, svalutante. Nel mosaico di S. Pudenziana, essa si trova dietro gli apostoli esattamente come, dall’altro lato, la «Chiesa dei gentili»: sono entrambe Chiese apostoliche. La prima è costituita da ebrei che hanno aderito a Cristo e che ancora conservano pratiche ebraiche, come la circoncisione: è per questo motivo che li si definisce «giudeocristiani»; l’altra è composta da «gentili», vale a dire da non-ebrei, uomini e donne aderenti a culti pagani, poi convertitisi al cristianesimo, che non praticano usanze ebraiche. Queste due comunità formano l’unica Chiesa di Cristo. I due pannelli riflettono la situazione della loro epoca: la diversità delle comunità che non si oppongono all’unità della Chiesa, che rappresenta una «comunione» tra diverse Chiese. Vedere nella «Chiesa della circoncisione» la Sinagoga, vale a FIGURE DELLA CHIESA
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dire il giudaismo che si oppone al cristianesimo, perché non riconosce in Gesù il Messia atteso, è un anacronismo. Questa raffigurazione negativa farà la sua comparsa solo in epoca posteriore a quella dei due pannelli che abbiamo appena analizzato. I tipi biblici della Chiesa Molte figure femminili della Bibbia saranno considerate tipi della Chiesa. Per Tertulliano la prima donna, Eva, tratta dal fianco di Adamo, rappresenta la nascita della Chiesa, tratta dal costato di Cristo morente sulla croce. Analogamente, l’unione di Adamo ed Eva, che formano una sola carne, diviene il simbolo nuziale dell’unione di Cristo con la sua Chiesa2. Più singolare la figura di Raab, la prostituta di Gerico che accolse e nascose presso di sé le spie ebree, e la cui casa fu risparmiata al momento della presa della città grazie a un segno di riconoscimento convenuto, una corda scarlatta appesa alla finestra. Molti Padri hanno visto in questa corda il tipo del sangue salvifico di Cristo. Il primo a farlo è Clemente di Roma (morto intorno all’anno 100) che, a proposito di questa corda di colore rosso, scrive: «Significava dichiarare che il sangue del Signore doveva riscattare tutti coloro che credono e sperano in Dio». E conclude: «Lo vedete, miei diletti: in questa donna non vi era soltanto la fede ma anche il dono della profezia»3. Alcuni Padri hanno anche visto nella casa di Raab il tipo della Chiesa, all’interno della quale si trova la salvezza. Riguardo alla tipologia ecclesiale dell’episodio, Ireneo si spinge ancora più oltre. Prima di spiegare che l’azione della prostituta pagana di Gerico era profetica, accenna al matrimonio del profeta Osea con una prostituta, e a quello di Mosè con un’etiope, una pagana. In questi ma-
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1. Raab assiste alla presa di Gerico; in basso, il trasporto dell’arca, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Giacobbe protesta con Labano per la sostituzione di Rachele con Lia; le due sorelle affiancano Labano. In basso, matrimonio di Giacobbe e Rachele, mosaico, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 3. Sara osserva Abramo che porta il cibo ai tre ospiti misteriosi, mosaico, basilica di S. Vitale, Ravenna.
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trimoni fuori dalle regole è rivelata, scrive, la «Chiesa nata dai gentili», vale a dire dal paganesimo, e la Chiesa che accoglie i peccatori nel suo seno per offrirgli la salvezza. «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» diceva Gesù. Inoltre, analogamente ad alcuni Padri che hanno visto nei tre visitatori di Abramo alle Querce di Mamre una figura della Trinità, Ireneo non esita a dire: «La prostituta Raab, che confessava di essere una pagana colpevole di tutti i peccati, accolse le tre (sic) spie e nascose presso di sé il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo»4. E conclude la sua interpretazione citando Gesù stesso: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Questa tipologia ecclesiale è probabilmente tradizionale, dal momento che alcuni includono nell’elenco anche Maria di Magdala e la peccatrice che unse Gesù a Betania. Anche quest’ultima è per Girolamo «figura Ecclesiae de peccatoribus congregatae», «figura della Chiesa riunita partendo dai peccatori». Sulla scorta dell’allegoria di san Paolo, che vede nelle due donne di Abramo le due alleanze – l’antica con Agar e la nuova con Sara, e dunque in quest’ultima la figura della «Gerusalemme di lassù» (Galati 4,21-31) – i Padri hanno visto anche nelle due donne di Giacobbe il tipo della Sinagoga (Lia) e il tipo della Chiesa (Rachele); lo stesso vale per Anna, la madre di Samuele, un altro tipo della Chiesa. Come sacramento di salvezza, la Chiesa è simboleggiata dall’arca di Noè. Nella lettera 74 Cipriano scrive: «Chi non si trovava nell’arca non è stato salvato dall’acqua. Analogamente, non può essere salvato dal battesimo chi non si trova nella Chiesa, l’unica fondata dal Signore, secondo la figura (sacramentum) dell’unica arca» (→ Arca di Noè). La Chiesa è anche simboleggiata dalla colomba (→ Colomba) o paragonata a una «piantagione», a una vigna (→ Piantagione), a una nave (→ Nave) o ancora a una torre, a una città.
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La torre-Chiesa e la città di Dio L’opera di Erma conosciuta col titolo di Pastore, la cui influenza fu considerevole, è la compilazione di due testi del II secolo. Come l’Apocalisse, questo libro fa abbondantemente ricorso a visioni e simboli. Il simbolo più frequente è quello della torre, che rappresenta la Chiesa. La torre è costruita con pietre di ogni sorta, alcune prive di difetti, altre scheggiate. Le diverse pietre chiamate a far parte della costruzione rappresentano la diversa condizione degli uomini chiamati a far parte della Chiesa per essere salvati. La Chiesa non accoglie solo santi, ma anche peccatori, a condizione che questi si pentano e si convertano. Anche i battezzati che hanno peccato dopo il battesimo, possono essere perdonati e rientrare nella Chiesa, purché facciano penitenza, perché una volta completata la torre sarà troppo tardi. Questo simbolo della Chiesa è analogo a quello della nave, più usato negli scritti patristici. Esso rappresenta la metafora della massima «Fuori dalla Chiesa, nessuna salvezza». Alla stregua di altri monumenti simbolici, la torre svetta verso il cielo (menhir, piramidi, obelischi, torre di Babele, ecc.). In quanto legame tra cielo e terra, rappresenta l’asse del mondo. Entrare nella torre-Chiesa di Erma è il solo modo – su questa terra e nel corso della storia che avrà un termine – per accedere alla vita celeste. La Chiesa viene anche paragonata a una città: la «città di Dio». L’immagine non si riferisce solo alla città (urbs, in latino) secondo la nostra accezione. La civitas, la città antica, non consiste soltanto nella città, ma comprende anche il territorio che ne dipende, con i suoi villaggi e la relativa popolazione. Il concetto e l’immagine di «città di Dio» designano dunque il «popolo di Dio» come realtà sociologica, la Chiesa in quanto comunità riunita su questa terra e in cammino verso il regno celeste di Dio. 198
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1. Gerusalemme, la «città santa», mosaico della mappa di Madaba, Giordania. La Gerusalemme terrestre, la «città santa», è simbolo della «Gerusalemme di lassù» (Galati 4,26). «San Paolo diede questo nome alla dimora del cielo in cui, attraverso la resurrezione dai morti, noi nasceremo e diventeremo immortali ed eterni, quando godremo veramente della libertà in una gioia perfetta» (Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche, VII,9). 2. Gerusalemme, mosaico dell’arco trionfale, basilica di S. Vitale, Ravenna.
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IL SIMBOLISMO DEI RITI LITURGICI I sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo ed eucaristia Il battesimo Nella liturgia cristiana, l’antica liturgia battesimale è quella che concentra il maggior numero di simboli primitivi. Poiché li abbiamo analizzati in un nostro precedente studio, qui sarà sufficiente ricordarli brevemente5. Il battesimo è il sacramento della salvezza. L’immergersi nell’acqua e il riemergerne rappresentano la partecipazione del battezzato alla morte, alla sepoltura e alla resurrezione di Gesù. Il «sacramento dell’acqua» realizza la «nuova nascita» alla vita spirituale dei figli di Dio. «Piccoli pesci», nati nell’acqua della piscina battesimale vivificata dallo Spirito, essi diventano discepoli del grande Ichthys che li conduce alla vita eterna. Attraverso l’imposizione della mano e l’olio dell’unzione, entrano nel regno messianico di Cristo con la dignità e la missione dei re, dei sacerdoti e dei profeti che hanno ricevuto lo Spirito. Portando in fronte il segno di Cristo, il «sigillo», essi appartengono al gregge del Buon Pastore. Avendo rinunciato al male e aderito a Cristo, procedono con sicurezza lungo la «via» da
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lui tracciata, guidati dalla nuova Legge che egli ha donato loro. Sono «illuminati», perché ricevono la luce di Cristo che rischiara il mondo dissipando le tenebre dell’errore e del male. Vestiti della veste bianca degli eletti, vivono nella speranza della vita beata accanto a Dio. Possono allora comunicarsi col pane della vita, che li alimenta durante il loro pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste. Tanta ricchezza di simboli battesimali soggiace alla concisa raffigurazione di scene di battesimo nell’arte paleocristiana. Come abbiamo visto in precedenza, le scene bibliche e i temi simbolici in cui è presente l’acqua sono in rapporto col battesimo: Noè, la sorgente di Mosè, la Samaritana, la guarigione del paralitico della piscina probatica o quella del cieco nato, il pescatore e il pesce, i cervi e le colombe che bevono alla fonte, per tacere del battesimo di Gesù, chiaramente paradigmatico, e dei battesimi riportati nel Nuovo Testamento. Non menzioniamo la confermazione, o crismazione, che non si è ancora distaccata dai riti battesimali nel periodo qui esaminato. L’eucaristia
1. Battesimo, III secolo, cripta dei Sacramenti, catacomba di S. Callisto, Roma. «Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Giovanni 3,5). 2. Banchetto eucaristico, III secolo, cappella dei sacramenti, catacomba di S. Callisto, Roma.
Nel sacramento dell’eucaristia operano quei simboli fondamentali che sono il pane e il vino (→ Pane → Vino). Abbiamo esaminato in precedenza alcuni episodi della vita di Gesù particolarmente evocatori del mistero eucaristico per i cristiani: la trasformazione dell’acqua in vino in occasione delle nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani. Anche in quest’ambito è necessario ricordare la rilettura cristiana dell’Antico Testamento e, in particolare, del significato profetico della «manna», nutrimenFIGURE DELLA CHIESA
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to degli ebrei durante la marcia nel deserto al tempo dell’esodo. Ricordiamo brevemente i fatti, che non necessitano di commenti. Poiché la fame tormentava il popolo che non aveva più niente da mangiare, Dio disse a Mosè: «Io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno». In effetti, il giorno seguente fu trovato del cibo misterioso che suscitò la domanda: «Che cos’è?» – man hu in ebraico, da cui la parola «manna». Secondo il quarto Vangelo, ha luogo una discussione tra Gesù e le persone che erano partite alla sua ricerca dopo l’episodio della moltiplicazione dei pani. Gesù rimprovera loro di non aver compreso questo «segno». Avevano visto solo «il cibo che perisce», mentre si trattava del segno del cibo «che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà». Essi gli domandano allora di dar loro un segno per credere in lui, ricordandogli il segno che Dio aveva dato ai loro avi durante l’esodo, la manna, il pane venuto dal cielo. Gesù replica che la manna era un segno transitorio, non il pane che dà la vita eterna. «Non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo (...) Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame» (Giovanni 6,22-35). La via era dunque tracciata perché si vedesse nella manna il simbolo del vero pane della vita, l’eucaristia, il cibo mistico che alimenta i cristiani nel loro cammino verso il cielo, la vera Terra promessa. Come la manna aveva cessato di cadere nell’entrare in Canaan, il sacramento dell’eucaristia non avrà più ragione d’essere nel regno celeste, dal momento che il segno cede il posto alla realtà ultima, la comunione con Dio stesso. L’eucaristia è rappresentata nell’arte paleocristiana sotto forma di banchetto eucaristico, figura dunque del banchetto celeste. Segnaliamo infine la frase incisa su uno stampo del V secolo, conservato nel museo del Bardo a Tunisi, che serviva a confezionare il pane eucaristico, perché riassume bene il significato che l’eucaristia aveva per i cristiani: «Io sono il pane della vita sceso dal cielo».
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1. Banchetto funerario, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. Il banchetto funerario, detto in latino convivium (banchetto) o refrigerium (refrigerio, riposo), è simbolo della vita eterna, spesso rappresentata come partecipazione a un banchetto. 2. Banchetto eucaristico, III secolo, catacomba di Priscilla, Roma. 3. Banchetto conviviale, simbolo del banchetto celeste, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. «Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Matteo 8,11).
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LA SIMBOLOGIA ARCHITETTONICA DEGLI EDIFICI CRISTIANI: CHIESE E BATTISTERI
Per ascoltare la parola di Dio e celebrare i loro riti, i primi cristiani si riunivano in case private. Le ragioni di ciò sono evidenti: il loro esiguo numero e la discrezione e prudenza necessarie in tempo di persecuzioni. All’inizio, il luogo privato è puramente funzionale e occasionale. Si tratta semplicemente di riunire la piccola comunità che già adesso si chiama «chiesa», vale a dire, per l’appunto, «assemblea» (dal greco ekklesia, in latino ecclesia). Quando le circostanze lo consentono, viene attrezzata una sala più grande nella proprietà di un cristiano facoltoso. In periodo di tolleranza – perché non bisogna pensare che la persecuzione sia stata continua – sembra proprio che in alcune città esistesse una casa appositamente attrezzata per le riunioni della comunità locale. Secondo quanto afferma Tertulliano, ve ne era una a Cartagine che, dato significativo, egli chiama ecclesia, «chiesa». Pertanto, la casa in cui si riunisce la comunità, domus ecclesiae, «casa della chiesa», ne porta anche il nome. L’edificio non si limita ad essere semplicemente funzionale: esso stesso diviene il segno e il simbolo della Chiesa di Cristo. È difficile fare una stima precisa della diffusione di queste domus ecclesiae prima dell’editto di Milano (313), poiché questo genere di edifici, che fa parte dell’abitato urbano di superficie, ne ha subito le vicissitudini (trasformazioni, distruzioni, ecc.). Gli archeologi ne hanno rinvenuta solo una, in circostanze eccezionali su cui non ci soffermeremo. Essa è stata scoperta accanto a una sinagoga nel corso degli scavi di Dura Europos, nell’attuale Siria, presso quella che era la frontiera dell’Impero, sull’Eufrate. L’importante ritrovamento rivela che questa casa cristiana era anche un luogo di culto, perché era dotata di una sala contenente una vasca battesimale; essa era decorata da pitture murali che fanno pensare a quelle delle catacombe. Nulla ci vieta di trarre la conclusione che esistessero domus ecclesiae simili nei centri che contavano comunità cristiane ben strutturate. Con l’editto di Milano del 313 e il regno di Costantino, che favorisce la costruzione di edifici di culto, la situazione muterà radicalmente. Poiché è ancora il ruolo funzionale dell’edificio a prevalere, le autorità ecclesiastiche opteranno per il genere di costruzione già esistente che consente di riunire il maggior numero di persone. Si tratta dell’edificio detto basilica, che consiste in un’aula rettangolare, divisa in più navate da file di colonne, dotata talvolta di un’abside ad una delle estremità. Sotto Costantino si iniziarono a costruire grandi chiese a struttura basilicale, come la basilica a cinque navate in prossimità della rotonda del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Questa scelta si discosta deliberatamente dall’architettura dei templi romani e greci, ancora una volta per motivi funzionali. In effetti, il popolo non entrava nel tempio, il naos, la «casa del dio», che era riservato ai soli sacerdoti, ma rimaneva all’esterno del santuario propriamente detto. Lo stesso avveniva per il Tempio di Gerusalemme. «Il velo del tempio [che] si squarciò in due, dall’alto in basso» (Marco 15,38) 204
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1. Disegno ricostruttivo (da R. Krautheimer) della domus ecclesiae di Dura Europos. 2a-g. Ricostruzione delle diverse tipologie di spazio liturgico nelle prime chiese cristiane (da Y. Bouyer): a-b) basiliche romane con entrata a est (verso il sole nascente) e coro a ovest; c-d-e) chiese d’Occidente con coro a est (verso il sole nascente) ed entrata a ovest (verso il tramonto del sole); f) chiesa siriana orientale; g) basilica bizantina.
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ALTARE PRESBITERIO
VESCOVO ALTARE ALTARE
SEGGI
SEGGI
ALTARE
AMBONI
AMBONI
SCHOLA
SCHOLA
CORO CON STALLI
CORO CON STALLI
CORO CON STALLI
JUBÉ
ALTARE
VESCOVO O CHI PRESIEDE
EST
CATTEDRA
LEGGII PER I LETTORI
SEGGI
SEGGI
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c
d
e 2
EST ALTARE ALTARE
LEGGII PER I LETTORI ARCA
BEMA
ARCA CANCELLO
CANCELLO CORO
AMBONI
CORO
BEMA SEGGI SEGGI
g SEGGI
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3. Ricostruzione della basilica di S. Pietro; nel transetto in tratteggio la presunta tomba di Pietro (elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg).
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1. Basilica di S. Sabina, V secolo, Roma.
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2. Ricostruzione della basilica di S. Sabina nel V secolo (elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg). 3-4. La rotonda costantiniana e la cappella del Santo Sepolcro a Gerusalemme; in evidenza, la rotonda con al centro la tomba vuota di Cristo.
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alla morte di Gesù, è il segno della fine di un sistema cultuale. I cristiani non cercheranno di imitare l’architettura del Tempio. L’edificio di culto cristiano non è solo la casa di Dio, ma anche la casa del popolo di Dio. È per questo che continuerà a chiamarsi chiesa, perché è là che la Chiesa si riunisce. Non aveva forse ragione Clemente Alessandrino quando diceva «Il vero tempio siete voi, l’assemblea dei fedeli»? Questo simbolo è ben evidenziato in un mosaico del IV secolo conservato al museo del Bardo a Tunisi. Esso rappresenta una basilica che reca l’iscrizione ECCLESIA MATER, «la Madre Chiesa». Non si passa dal tempio alla basilica, non c’è continuità architettonica ma radicale rottura, conseguenza di un cambiamento cultuale e culturale senza precedenti. I romani tradizionalisti, che si opporranno sempre alla nuova religione, lo hanno perfettamente compreso. I vecchi templi sono condannati a morte, come è morto il dio Pan. Anche in questo caso, la simbologia cristiana si inscrive nella pietra e si impone ormai alla luce del sole. Tuttavia, nella nuova architettura si integreranno molto rapidamente degli elementi simbolici, cosmici in particolare, che si trovavano nei templi pagani. Si tratta spesso di una riproduzione simbolica del cosmo, una imago mundi, un’«immagine del mondo». Come indica l’etimologia, ciò che è «religioso» «lega»6: esso collega al divino, in qualsiasi modo venga rappresentato; unisce quindi al cosmo, dove il divino si manifesta. Lo si potrebbe illustrare attraverso numerosi esempi, a cominciare dall’iscrizione del tempio edificato da Ramsete II, tredici secoli prima di Cristo: «Il tempio è come il cielo in tutte le sue manifestazioni». Si può dire altrettanto del Tempio di Gerusalemme, se ci si attiene alle interpretazioni di due ebrei ellenizzati, Filone e Giuseppe, vissuti all’epoca dell’esordio del cristianesimo, di cui hanno esposto la dimensione cosmica. Questa si fonda sull’idea che «il tempio supremo e autentico di Dio è il cosmo nel suo insieme» (Filone). Il Tempio di Gerusalemme ne è come una replica in miniatura, un microcosmo cultuale.
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Questa concezione si ritroverà nelle chiese cristiane. L’esempio più celebre ne è la basilica di S. Sofia a Costantinopoli, edificata da Giustiniano nel VI secolo, la cui influenza sull’architettura religiosa posteriore sarà considerevole. La sua struttura architettonica simboleggia il mondo, secondo le rappresentazioni dell’epoca: un cubo sormontato da una cupola. Il cubo rappresenta la terra; la cupola, la volta celeste. Alla simbologia cosmica si aggiunge la dimensione cristica: al centro della cupola troneggia il Cristo in gloria, il Pantokrator, che illustra l’insegnamento del Nuovo Testamento: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui».
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1. Immagine di basilica con l’iscrizione ECCLESIA MATER, «la Madre Chiesa», dal mosaico di una tomba cristiana di Tabarka, Tunisia. 2. Disegno ricostruttivo della basilica di S. Sofia a Costantinopoli. 3. Ricostruzione dell’interno paleocristiano di S. Sofia: a) porta imperiale; b) ambone; c) cancellata; d) altare e ciborio; e) synthronon.
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4. Cristo Pantokrator, mosaico della cupola, secolo, S. Sofia, Kiev. Il Cristo Pantokrator di S. Sofia di Costantinopoli è andato perduto, mentre quello di Kiev, che si riproponeva di ripetere il modello paleocristiano, è giunto fino a noi. XI
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1. Ricostruzione della chiesa di S. Stefano Rotondo a Roma, senza copertura (elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg).
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Altro simbolo contenuto nell’architettura è la disposizione ovest-est dell’edificio, «orientato» in modo che l’abside, o il capocroce, si trovi di fronte al sole che sorge, analogamente al modo in cui pregavano i fedeli: in piedi, le mani levate e «rivolti a Oriente». Abbiamo precedentemente chiarito il significato simbolico di questo «orientamento»: è contemporaneamente cristologico e cosmico, essendo il sole che sorge simbolo di Cristo che illumina il mondo di luce divina (→ Sole). Va notato anche che la navata, o «nave», dell’edificio evocava la Chiesa. Questo simbolo deve guidare gli architetti, secondo le direttive contenute nelle Costituzioni apostoliche. In esse leggiamo: «La casa [di Dio] avrà la forma di un quadrilatero rivolto a Oriente, con sacrestie da ciascun lato rivolte a Oriente; essa somiglierà a una nave»7 (→ Nave). Si fa ricorso anche ad altri modelli architettonici, quelli a pianta centrale, come le rotonde a pianta circolare, ispirate ai grandi mausolei imperiali. Poiché il cerchio è una forma perfetta, celeste, questo tipo di chiesa simboleggia il mondo celeste e la speranza nella vita eterna (→ Cerchio). Le chiese cruciformi sono più tarde. Si può citare la splendida chiesa di S. Simeone, in Siria, che risale alla fine del V secolo. Questo modello eminentemente cristologico era anch’esso destinato a sviluppi futuri di rilievo. 210
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2. Disegno ricostruttivo dell’esterno della chiesa di S. Stefano Rotondo a Roma. 3. Ricostruzione della chiesa monumentale (martyrion) dedicata a san Simeone, Qalat Siman, Siria.
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4. Ruderi dell’ottagono centrale della chiesa di S. Simeone in Siria, al centro del quale si trova ciò che resta della colonna di san Simeone Stilita.
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Un altro edificio tipicamente cristiano è il battistero. La sua struttura architettonica esterna e interna non è pensata esclusivamente in funzione della celebrazione dei riti battesimali, ma anche perché esprima visivamente diversi simboli del battesimo. È generalmente una costruzione autonoma, adiacente alla chiesa. La ragione di ciò è dottrinale: solo i battezzati appartengono a pieno titolo alla Chiesa. Al momento della grande cerimonia battesimale, che si svolge durante la notte di Pasqua, i catecumeni si riuniscono all’interno del battistero. Dopo il battesimo, essi vengono introdotti in processione solenne in chiesa, dove partecipano all’eucaristia: fanno ormai parte del popolo di Dio. L’architettura, separando il battistero dalla chiesa, simboleggia il confine tra non battezzati e battezzati, membri di diritto della Chiesa. La piscina battesimale nella quale il battezzato è stato immerso, è altamente simbolica. È realizzata sotto il livello del suolo, come una tomba; prima di esservi immerso tre volte, il candidato vi discende per mezzo di gradini, per poi risalire dal lato opposto. Il discendere nell’acqua e il riemergerne rappresentano la morte e la resurrezione con Cristo. Il rito esprime ciò che diceva san Paolo: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simi212
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1. Ricostruzione del fonte battesimale rettangolare della domus ecclesiae di Dura Europos, Università di Yale. 2. Piscina battesimale circolare, IV secolo, Tipasa, Algeria. 3. Battistero ottagonale, VI secolo, Aix-en-Provence. 4. Battistero ottagonale, Fréjus. 5. Ruderi del battistero con piscina cruciforme della grande basilica del quartiere cristiano di Hippo Regius (Ippona), Algeria.
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1. Piscina battesimale cruciforme, VI secolo, battistero del santuario di Mosè, Monte Nebo, Giordania. 2. Ruderi del battistero con vasca, chiesa orientale di Apollonia, Libia. 3. Pianta della chiesa orientale e battistero di Apollonia in Libia.
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le alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione» (Romani 6,4-5). Questa simbologia della sepoltura con Cristo è espressa anche attraverso la realizzazione di battisteri a pianta circolare, su modello dei mausolei imperiali. Anche le forme scelte per le piscine sono significative, benché siano di tipo diverso. Esistono piscine rettangolari, quadrate, rotonde, esagonali, ottagonali e cruciformi. La forma a croce significa che il battezzato partecipa misticamente alla morte di Cristo sulla croce; quella rotonda, che il battezzato riceve un’anticipazione della vita celeste; quella esagonale, associata ai sei giorni della creazione, che il battezzato diviene una «creatura nuova». Quanto alla forma ottagonale, è quella simbolicamente più significativa in relazione al battesimo, perché evoca l’«ottavo giorno», quello della resurrezione, dal momento che il battezzato viene assimilato al Cristo resuscitato.
Entrata
Atrio
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CAPITOLO OTTAVO
I SIMBOLI ESCATOLOGICI LA VITA ETERNA La tensione escatologica costituisce il fulcro del cristianesimo, perché il cristiano è in cammino verso la sua realizzazione finale nella vita eterna in Dio con Cristo. L’aspettativa dei beni futuri, che evidentemente vanno al di là di ciò che conosciamo nella vita terrena, si esprimerà in maniera privilegiata attraverso una simbologia diversificata, per dare conto delle verità della fede: la resurrezione dei morti, l’immortalità dell’anima, la vita eterna in Dio dei beati. I SIMBOLI DELLA RESURREZIONE
1-2. Conchiglia, fronte decorato di un’abside (1); nicchia (2), Museo del Cairo Vecchio, Egitto. Nel mondo antico, la conchiglia, simbolo di vita e di fecondità, diventa per i primi cristiani emblema di resurrezione. A partire dal V secolo è ampiamente diffusa nel mondo egiziano.
La fede nella resurrezione dei morti alla fine dei tempi rappresenta uno dei tratti specifici del cristianesimo. Essa si fonda sulla resurrezione di Gesù. Pertanto, tutto ciò che è in relazione con essa, rappresenterà un segno della resurrezione attesa dai fedeli. Dal momento che i cristiani credevano che Gesù fosse morto e risorto «conformemente alle Scritture», ne hanno cercato le figure nella Bibbia: Enoch, Elia, Giona, Daniele, i tre giovani ebrei nella fornace, ecc. Analogamente, le resurrezioni compiute da Gesù nel corso della sua vita erano prefigurazioni della propria resurrezione: Lazzaro, la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Nain. Allo stesso modo, i cristiani vedevano nei «segni» i simboli della loro futura resurrezione. Nelle pagine precedenti abbiamo mostrato i diversi simboli che rappresentano la resurrezione. Sarà ora sufficiente enumerarne qualcuno: la croce gloriosa, l’ottavo giorno, la forma ottagonale dei battisteri, la veste bianca dei battezzati, il sole che sorge, le figure del pavone e della fenice, ecc. Occorre ricordare che ogni ciclo pittorico delle catacombe, che sono cimiteri, è organizzato attorno al tema centrale della fede nella resurrezione. La fede nella resurrezione non è unanimemente condivisa nella tradizione ebraica all’epoca di Gesù. Se ne può trovare un primo sicuro riferimento nel libro di Daniele (12,1-3). Per i primi cristiani rappresenta un dato essenziale, fondato sull’insegnamento di Gesù e soprattutto sulla sua resurrezione. L’idea della resurrezione ha fatto talvolta considerare la morte come un sonno. Si pensi alla parola di Gesù a proposito della figlia di Giairo che egli è sul punto di resuscitare: «La fanciulla non è morta, ma dorme». La frase rinvia all’idea che il sonno sia un’apparenza di morte. Nella mitologia greca Hypnos (Sonno) e Thanatos (Morte) sono fratelli gemelli. In alcuni scritti ebraici, la morte è designata dalla metafora dell’addormentamento. Così nel Libro dei Giubilei a proposito della morte di Abramo: «Si addormentò nel sonno eterno e si unì coi suoi padri»1. Sottolineiamo che il termine «resuscitare» significa letteralmente «rialzarsi», come ci si rialza dopo aver dormito. La metafora passerà nel vocabolario cristiano. Tertulliano designa la morte «dormizione», poiché dormitio significa «sonno», «addormentamento»2. I cristiani ricorreranno a quest’immagine, che implica la speranza nella resurrezione, per designare il luogo in cui seppelliscono i propri morti, il cimitero, coemeterium, trasposizione latina del I SIMBOLI ESCATOLOGICI
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greco koimeterion (dal verbo koimaomai, che significa addormentarsi). Il termine designa dunque, letteralmente, il luogo in cui riposano coloro che si sono addormentati, sottintendendo «nel Signore». Ogni cosa è un simbolo. A Roma, i luoghi di sepoltura cristiani collocati in gallerie sotterranee, che molto più tardi verranno detti «catacombe», erano designati dal termine «cimitero», proprio come le sepolture in superficie. All’immagine del sonno si può associare quella del riposo, quies o requies in latino, in uso anche nelle rappresentazioni romane dell’aldilà. I cristiani la riprenderanno. A questo riguardo possediamo un testo molto rappresentativo, anche nel vocabolario, che ritroveremo nella liturgia romana. Si tratta del Quinto libro di Esdra, testo apocrifo dell’inizio del III secolo, tenuto in grande considerazione dalla tradizione latina. Investito da Dio di una missione sul monte Oreb, Esdra dichiara: «A voi che ascoltate e capite, dico: Aspettate il vostro pastore! Vi concederà il riposo della vostra eternità; vicina è, infatti, la fine del mondo e la diminuzione degli uomini. Siate pronti per le ricompense del regno. Brillerà per voi una luce eterna; è preparato per voi un tempo eterno»3. L’idea cristiana del «riposo» dopo la morte va integrata con l’idea del riposo dello shabbat, il riposo di Dio dopo la creazione. Questo «riposo» non è dunque la semplice tranquillità, ma la partecipazione attiva alla gioiosa beatitudine presso Dio, rappresentata come un banchetto nello shabbat eterno di Dio. Occorre infine precisare che la fede nella resurrezione si accompagna, presso i cristiani permeati di cultura ellenistica, alla fede nell’immortalità dell’anima; le due concezioni, che dipendono da antropologie differenti, hanno fatto talvolta fatica ad armonizzarsi. Ciò spiega le differenze nella rappresentazione della dimora dei beati nell’aldilà. «IL SENO DI ABRAMO» L’espressione «seno di Abramo» si trova nella parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro, riportata da san Luca: «Il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo» (Luca 16,22). L’espressione, nota al giudaismo rabbinico, corrisponde alla formula biblica che designa la sorte dei giusti dopo la morte: «essere riunito ai propri padri», cioè ai patriarchi, di cui Abramo è tipo; significa giungere alla dimora dei beati. Un’altra parola di Gesù avvalora quest’interpretazione: «Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Matteo 8,11). Il banchetto escatologico fa anch’esso parte delle immagini che solitamente evocano la beatitudine celeste dei giusti (→ Banchetto celeste). Tra i Padri si nota una certa esitazione riguardo al significato da attribuire all’espressione. Tertulliano, che si oppone agli gnostici, i quali disprezzano il corpo e minimizzano la fede nella resurrezione, pensa che il «seno di Abramo», in relazione alle antiche rappresentazioni dell’aldilà, designi il luogo intermedio in cui i giusti riceveranno il riposo ristoratore (refrigerium, «refrigerio»), in attesa 218
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1. Veduta d’insieme della catacomba di via Dino Compagni a Roma.
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della resurrezione alla fine dei tempi. Per Origene, invece, l’espressione indica il cielo, come luogo della beatitudine finale. Anche sant’Ambrogio vede nel «seno di Abramo» il «rifugio della pace eterna», secondo l’immagine classica che rappresentava la dimora celeste come un luogo di riposo e di pace. È questa l’interpretazione che prevarrà. È noto che le parole pax, «pace», e quies, «riposo», ricorrono spesso negli epitaffi. In questo senso vanno intesi quelli che menzionano il «seno di Abramo», come il seguente: «Ricordati o Dio della tua serva Criside e concedile il celeste soggiorno, luogo di refrigerio nel seno di Abramo, Isacco e Giacobbe»4. Notiamo infine che l’immagine del «seno di Abramo», piuttosto insolita per i nuovi convertiti dal paganesimo, non sembra aver ispirato gli artisti. È infatti assente dall’iconografia paleocristiana. La più antica rappresentazione, datata al VI secolo, si trova nel manoscritto greco 500 di Gregorio di Nazianzo, conservato nella Biblioteca Nazionale di Francia. IL PARADISO È la definizione più comune per designare la dimora dei beati. Si conosce la parola che Gesù rivolge al «buon ladrone», secondo san Luca: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Luca 23,43). Si tratta del paradiso celeste, di cui quello terrestre era figura. Il giardino dell’Eden era stato tradotto in greco con paradeisos, che designava un vasto e ameno giardino o, più esattamente, un giardino ornamentale con magnifici alberi e fiori. La sua trasposizione in paradiso celeste si è compiuta nel tardo giudaismo, come si può constatare negli Scritti intertestamentari. Sotto l’effetto delle trasformazioni antropologiche e cosmologiche che abbiamo segnalato, «la dimora dei beati» è stata collocata in cielo. Una valida testimonianza di questo mutamento si trova nello scritto apocrifo detto Libro dei segreti di Enoch o Secondo libro di Enoch, che narra l’ascesa al cielo del patriarca: «Salii nel paradiso dei giusti» racconta, «e là vidi un luogo benedetto e ogni creatura è benedetta, tutti vivono in gioia e in letizia e in una luce senza misura e nella vita eterna»5. Nel paradiso celeste non si ritrovano solo gli alberi, tra cui l’albero di vita, ma anche i quattro fiumi, simboli anch’essi della vita divina trasmessa agli eletti: «Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi» (Genesi 2,10). La riattualizzazione celeste dell’Eden è ben illustrata nell’Apocalisse: «Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello (...) da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita» (22,1-2). Nei «quattro fiumi» si è visto anche il simbolo dei quattro Vangeli, dato che essi rappresentano la rivelazione della vita divina trasmessa ai credenti. Questa visione del paradiso come un giardino in cui regna la felicità, si ricollega a quella del mondo romano che rappresenta la felicitas, la «felicità», con scene agresti e pastorali in cui uomini e animali vivono in armonia con la natura. A 220
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ciò si riallaccia anche la figura di Orfeo che incanta gli animali. I Campi Elisi o le Isole Fortunate, o dei Beati, rientrano evidentemente in questo tipo di rappresentazione. Bisogna aggiungervi l’immagine del banchetto celeste come tipo stesso della felicità condivisa. Nell’iconografia paleocristiana, il paradiso celeste è rappresentato come un giardino dalla vegetazione arborea costituita principalmente da palme. Nel mosaico absidale della chiesa romana dei SS. Cosma e Damiano (VI secolo) figurano due palme, su una delle quali si trova una fenice rifulgente, simbolo della resurrezione, mentre nella parte inferiore della scena si nota l’Agnello cristico su un monte da cui scaturiscono i quattro fiumi. 1. Scena omerica con Ulisse a Itaca (parte inferiore); scena bucolica pastorale, anticipazione simbolica del paradiso (parte superiore), lunetta, ipogeo degli Aurelii di via Manzoni, Roma. «Aspettate il vostro pastore! Vi concederà il riposo della vostra eternità (...) Siate pronti per le ricompense del regno. Brillerà per voi una luce eterna; è preparato per voi un tempo eterno» (V Libro di Esdra, 2,34-35).
DALLA GERUSALEMME TERRESTRE ALLA GERUSALEMME CELESTE Accanto all’immagine del giardino, anche quella di una città celeste ha la funzione di rappresentare la dimora dei beati. Così come è stato trasposto il paradiso terrestre, la Gerusalemme terrestre è stata trasposta nella «Gerusalemme celeste». Per gli ebrei, Gerusalemme era la città santa, poiché essa era la «città I SIMBOLI ESCATOLOGICI
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di Dio», la città in cui egli aveva la sua «casa», il Tempio (Salmi 87,3; 122,1). L’idea di una Gerusalemme celeste è illustrata dall’Apocalisse (21-22). Essa era già stata suggerita da san Paolo («La Gerusalemme di lassù»; Galati 4,26). Nelle sue Omelie, Teodoro di Mopsuestia ha ripreso e spiegato questa immagine ai suoi catecumeni: «San Paolo ha detto: ‘La Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre’. Egli diede il nome di ‘Gerusalemme di lassù’ alla dimora del cielo in cui, attraverso la resurrezione dai morti, noi nasceremo e diventeremo immortali ed eterni, quando godremo veramente della libertà in una gioia perfetta (...) Aspettiamo di godere di questi beni di cui Cristo Nostro Signore fu il preludio (...), e che donò anche a noi la speranza di essere uniti a lui. Occorreva dunque che le Sacre Scritture ci insegnassero non soltanto che egli è resuscitato dai morti, ma anche che è salito nei cieli, così che sperassimo lo stesso anche per noi»6.
Un’ultima osservazione a proposito di questi segni escatologici. Questo ambito, che trascende la storia, è dominato da un mondo di «rappresentazioni» simboliche di realtà ultime. Sarebbe rischioso interpretare ingenuamente queste rappresentazioni come descrizioni, come sostituti di un reale invisibile: in quanto rappresentazioni, esse hanno senso solo nel loro ruolo di vettore puntato verso un reale indicibile. Di fronte ai tentativi di localizzare il paradiso, ad esempio, Agostino avrà in definitiva la saggezza di affermare che è Dio stesso ad essere il «luogo» in cui riposeranno le nostre anime7. Ma parlare di «luogo» a proposito di Dio non è ancora un’immagine inadeguata? Tuttavia, la vocazione dell’uomo alla vita eterna implica necessariamente una partecipazione alla vita divina, alla «divinizzazione» (theosis), come amano dire i Padri greci. In breve, tutte le rappresentazioni cristiane dell’aldilà non sono che variazioni sull’unico tema «essere-con»: essere con Cristo, con Dio. La parola decisiva su questo tema è quella di Gesù al buon ladrone: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Luca 23,43). La speranza cristiana è riassunta da queste parole di san Paolo ai Tessalonicesi: «Saremo sempre con il Signore» (I,4,17). IL SIMBOLISMO DEI RITI FUNERARI La fede cristiana nella resurrezione e nella vita eterna si esprimerà attraverso i riti funerari. L’incinerazione era in uso presso i Romani assieme all’inumazione. Queste pratiche molto diverse tra loro non sono prive di significato, poiché implicano una certa concezione dell’uomo e dell’aldilà. Nella cultura greco-romana dei primi secoli cristiani, la crescente influenza del neopitagorismo e del neoplatonismo negli ambienti intellettuali introduceva una visione dualista dell’uomo, considerando il corpo «prigione» o «tomba» dell’anima. Pertanto, la morte è vista come liberazione dell’anima immortale che ritorna alla sua origine astrale, celeste. Secondo questa concezione, l’incinerazione del cadavere 222
I SIMBOLI ESCATOLOGICI
1. Gerusalemme, mosaico, base sinistra dell’arco trionfale, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Stele funeraria con mensa (tavola adibita ai banchetti funerari) su cui sono rappresentati utensili, piatti, cucchiai e vassoi colmi di cibo, Museo di Timgad, Algeria.
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assume un valore simbolico: liberata, l’anima del defunto spicca il volo verso il mondo celeste. Si racconta che al momento della cremazione dell’imperatore Augusto, un vecchio pretore avesse visto la sua anima elevarsi verso il cielo in mezzo al fumo. Quale che sia la veridicità di questo aneddoto, si farà particolarmente ricorso alla simbologia del volo dell’anima nell’apoteosi degli imperatori del II-III secolo. Se ne trova un esempio significativo nell’apoteosi di Antonino Pio e di Faustina. I Padri della Chiesa dovettero lottare contro questa concezione dualista. La beatitudine finale dell’uomo non è legata alla liberazione dal corpo, ma alla sua metamorfosi al momento della resurrezione finale. L’inumazione che, come nella tradizione ebraica, costituisce la regola, diviene per i cristiani il segno della fede nella resurrezione. Ogni cristiano lo ha professato solennemente al momento del battesimo: «Credo nella resurrezione della carne e nella vita eterna». La morte del cristiano appare come un secondo battesimo, un dies natalis, il «giorno della sua nascita» alla vita celeste. Ignazio di Antiochia, in viaggio verso Roma dove si aspetta di essere dato in pasto alle bestie, scrive ai Romani: «Ecco il momento in cui sto per essere dato alla luce»8. È il motivo per cui i cristiani celebravano l’anniversario della morte dei martiri e quello dei loro defunti. Tertulliano afferma esplicitamente che i cristiani hanno rimpiazzato la celebrazione pagana dell’anniversario della nascita con la commemorazione del giorno della morte, occasione nella quale celebravano la messa9. La speranza nella resurrezione è espressa in svariati modi nelle diverse scene bibliche che ornano catacombe e sarcofagi. Queste scene non hanno valore aneddotico: sono simboli della salvezza operata da Dio e, pertanto, simboli della fede e della speranza nella vita eterna. La resurrezione non è rappresentata in modo diretto, ma simboleggiata da queste scene di salvezza. Tra queste, le più frequenti sono quelle di Giona, di Daniele nella fossa dei leoni, di Susanna, dei tre giovani ebrei nella fornace, di Noè nell’arca e, naturalmente, della resurrezione di Lazzaro da parte di Gesù. Occorre infine ricordare i banchetti funerari, che fanno parte di questa simbologia della morte e della resurrezione.
I BANCHETTI FUNERARI Refrigerium, «refrigerio», indica il senso di ristoro che si prova parlando di acqua e ombra. Presso i cristiani di lingua latina, assume il senso figurato di «riposo», di consolazione e, infine, il significato specifico di pranzo funerario legato alla morte o all’anniversario di morte di un defunto10. Questo pranzo funerario cominciò a simboleggiare la speranza nella beatitudine eterna presso Dio e il suo Messia in paradiso, beatitudine vista come partecipazione a un banchetto. È il motivo per cui è anche chiamato convivium, «banchetto». Il pranzo è a base di pane, pesce, talvolta latte e bevande, acqua e soprattutto viI SIMBOLI ESCATOLOGICI
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no, di cui a volte si abusa. Per praticare questo rito, si costruirono dei piccoli edifici (cellae) all’interno dei cimiteri o presso gli ipogei dei martiri. Preso in prestito dal mondo pagano, questo rito è ben attestato soprattutto nella provincia d’Africa. In Algeria, a Tipasa, si possono ancora vedere delle mensae (tavole per banchetti funerari) presso cappelle di martiri. La mensa della grande basilica di Tipasa è particolarmente degna di nota per il chrismon, i pesci e l’iscrizione: «In Dio, che il nostro banchetto si svolga nella pace e nella concordia». A causa degli eccessi che talvolta questo pranzo provocava, le Costituzioni apostoliche rivolgono la seguente raccomandazione a presbiteri e diaconi: «Quando siete invitati a commemorazioni di defunti, mangiate con moderazione e timor di Dio, affinché possiate davvero intercedere per i defunti»11. Sant’Agostino racconta nelle sue Confessioni che sua madre, abituata a questi riti funerari, avrebbe voluto praticarli al suo arrivo a Milano, ma che dovette rinunciarvi, perché Ambrogio aveva proibito questa pratica che gli sembrava troppo vicina ad usanze pagane12. L’immagine del banchetto celeste è un simbolo di beatitudine molto diffuso. Del resto, Gesù aveva detto: «Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Matteo 8,11; vedi Marco 14,25 e Isaia 25,6). Questo rito funerario è ben rappresentato nell’iconografia paleocristiana.
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1. Scena di banchetto, lunetta dell’arcosolio, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma.
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2. Rivestimento musivo di mensa (tavola per banchetti funerari); decorazione con pesci e iscrizione latina: «In Dio, che il vostro banchetto si svolga nella pace e nella concordia», grande basilica di Tipasa, Museo archeologico di Tipasa, Algeria.
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EPILOGO Nella genesi culturale dell’Europa, il cristianesimo dei primi secoli ha operato una mutazione rispetto alle culture antiche, ma al contempo, nella logica stessa dell’incarnazione, ha progressivamente assunto i valori intellettuali e artistici della civiltà greco-romana in cui si è deliberatamente inserito, «inculturato» e sviluppato, spinto dalla sua visione universalistica. Studiando questo periodo cruciale dei primi sei secoli, si avverte, come in gestazione, la creazione di un mondo nuovo. La simbologia che il cristianesimo ha messo in opera per esprimere alla luce del sole la propria fede e la propria visione del mondo, plasma ancora il nostro immaginario e dà forma alle nostre rappresentazioni dell’uomo e di Dio. Questo patrimonio deve essere preservato e trasmesso come patrimonio universale e, al pari delle grandi culture dell’Antichità, dovrebbe quindi entrare a far parte dei programmi educativi. Mentre portavo a termine questo studio, ho provato il desiderio di dire al lettore: «Considera le tue origini, e saprai chi sei». L’uomo civilizzato non si inoltra senza memoria nel cammino verso il domani. È in qualità di erede che l’uomo moderno costruisce l’avvenire dell’umanità. Possa questo studio, umilmente, apportarvi il suo contributo.
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EPILOGO
1. Busto di Cristo con aureola crociata proveniente da Bawit, Museo del Cairo Vecchio, Egitto. «Saremo sempre con il Signore» (1 Tessalonicesi 4,17).
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NOTE Introduzione 1 Ireneo di Lione, Contro le eresie, I,25,6. 2 Origene, I principi, IV,3,15; trad. it. a cura di M. Simonetti, Utet, Torino 1968, p. 539. 3 Cirillo di Alessandria, Contro Giuliano, I. 4 Origene, Omelie su Isaia, 6,3. 5 J.-P. Manigne, Le Maître des signes, Cerf, Paris 1987; trad. it. Il padrone dei segni, Borla, Roma 1990.
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CAPITOLO PRIMO. I simboli di Cristo Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche, VII,1. 2 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, XIII,1. 3 Il simbolo si trova già in Giustino di Nablusa, 1 Apologia, 55,3,6; in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, X,4,20; X,9,1. 4 Ireneo di Lione, Esposizione della predicazione apostolica, 34. 5 Giustino di Nablusa, 1 Apologia, 60,1 e 5. 6 Vedi Platone, Timeo, 36BC. 7 Ireneo di Lione, Contro le eresie, V,17,4. 8 Giustino di Nablusa, Dialogo con Trifone, 126,1; trad. it. a cura di G. Visonà, Edizioni Paoline, Milano 1988, pp. 355-356. 9 Giustino di Nablusa, 1 Apologia, 10,1. 10 Ireneo di Lione, Esposizione della predicazione apostolica, 25; Giustino di Nablusa, Dialogo con Trifone, 40,1; trad. it. cit., p. 172. 11 Agostino di Ippona, La città di Dio, XVIII,23,1; trad. it. a cura di L. Alici, Bompiani, Milano 2001, p. 886. Il testo della Sibilla di Cuma si trova in Oracoli sibillini, VIII,217-250. 12 Clemente Alessandrino, Il pedagogo, I,2,6,2; trad. it. in M.G. Bianco (a cura di), Il protrettico. Il pedagogo, Utet, Torino 1971, p. 199. 13 Tertulliano, Contro Marcione, 4,9,8. 14 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, X,13. 15 Ireneo di Lione, Esposizione della predicazione apostolica, 56. 16 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, X,5. 17 Ireneo di Lione, Contro le eresie, IV, prefazione, 4. L’immagine ricorre spesso nella sua opera.
CAPITOLO TERZO.
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CAPITOLO SECONDO.
Il simbolismo delle lettere, dei numeri e delle figure geometriche 1 Ndt: nel passo citato, la versione ufficiale della CEI riporta tau; si è preferito lasciare taw come nel testo francese per favorire la comprensione di ciò che segue. 2 Vedi B. Bagatti, L’Église de la circoncision, PP. Franciscains, Jérusalem 1965, pp. 115-117. 3 Tertulliano, Contro Marcione, III,22,6. 4 Tertulliano, Le uniche nozze, V,2. 5 Girolamo, Lettere, 107 a Laeta. 6 Ireneo di Lione, Contro le eresie, II,25,1.
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NOTE
Agostino di Ippona, Quaestiones in Hexaemeron, I,152. Ireneo di Lione, Contro le eresie, III,11,9. Epistola di Barnaba, 15. Clemente Alessandrino, Stromati, V,6,38. Giustino di Nablusa, Dialogo con Trifone, 100,4; trad. it. cit., p. 300. Origene, I principi, I, prefazione, 2; trad. it. cit., p. 120. Ireneo di Lione, Contro le eresie, V,27-28. Agostino di Ippona, La città di Dio, XII,20-21,3; trad. it. cit., p. 528. Ireneo di Lione, Esposizione della predicazione apostolica, 34.
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Simboli tratti dalla natura
Scritto di Damasco, vii,18-21; Regolamento della guerra, XI,6; Testimonia, 12. 2 Testamento di Giuda, XXIV,1-4; trad. it. in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, 5 voll., Utet, Torino 1981, vol. I, pp. 826827. Vedi anche Testamento di Levi, XVIII; trad. it. ibid., vol. I, pp. 806808. 3 Ireneo di Lione, Esposizione della predicazione apostolica, 58. 4 Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, 19. 5 Clemente Alessandrino, Il protrettico, XI,114,3-4; trad. it. cit., p. 181. 6 Teofilo di Antiochia, Ad Autolico, 2,15. 7 Vedi Metodio di Olimpo, Il banchetto delle dieci vergini, VIII,7-8. 8 Giustino di Nablusa, 1 Apologia, 61,12. 9 Ireneo di Lione, Contro le eresie, V,10,2. 10 Odi di Salomone, 11. 11 Costituzioni apostoliche, I, prologo. 12 Vedi G.-H. Baudry, art. «Vigne», in Catholicisme, Letouzey et Ane, Paris 2000, vol. XV, pp. 1124-1127. 13 Erma, Il Pastore, V,5. 14 Clemente Alessandrino, Il pedagogo, III,12,101,3; trad. it. cit., pp. 460-461. 15 Lettera degli apostoli, 21,3; trad. it. in L. Firpo, L. Moraldi (a cura di), Apocrifi del Nuovo Testamento, 2 voll., Utet, Torino 1971, vol. II, p. 1686. 16 Epistola di Barnaba, 13. 17 Giustino di Nablusa, 1 Apologia, 60,3. 18 Ireneo di Lione, Contro le eresie, III,20,1. 19 Girolamo, Breviarium in psalmos, XLI. 20 Vangelo dello Pseudo Matteo, 14,1; trad. it. in Apocrifi del Nuovo Testamento..., cit., vol. I, p. 217; le allusioni bibliche si riferiscono a Isaia 1,3 e Abacuc 3,2. 21 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, XVII,10. Vedi anche Tertulliano, Il battesimo, VIII,3-4. 22 Tertulliano chiama la Chiesa «casa della nostra colomba» (Contro i Valentiniani, 2,4). 23 Agostino di Ippona, La città di Dio, XXI,4,1; trad. it. cit., pp. 10651066. 24 Clemente di Roma, Lettera ai Corinzi, 25-26; vedi anche Tertullia-
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no, La resurrezione dei morti, 13; Lattanzio, La fenice; Costituzioni apostoliche, V,15.
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CAPITOLO QUARTO.
Simboli tratti dall’ambiente culturale 1 Costituzioni apostoliche, VII,45,1. 2 «Rendere agli dei ciò che loro è dovuto: questa è pietas» («est pietas justicia adversum deos»), Cicerone. 3 Odi di Salomone, 22 e 27. 4 Ne danno testimonianza le Odi di Salomone, 1; 17; 20, o Il Pastore di Erma, VIII,2. 5 Tertulliano, La corona. Clemente Alessandrino, Il pedagogo, II,8,7273; trad. it. cit., pp. 339-340. 6 Benedizione citata da F. Cabrol, Le Livre de la prière antique, Maison Alfred Mame et fils, Tours 1929, p. 447. 7 Costituzioni apostoliche, III,3,10. 8 Cabrol, Le Livre..., cit., p. 177. 9 Costituzioni apostoliche, II,57,4 e 12. 10 Ireneo di Lione, Contro le eresie, IV,34,4. 11 Vedi il saggio di M. Eliade: «Remarques sur le dualisme religieux: dyades et polarités», in Id., La Nostalgie des origines, Gallimard, Paris 1971, pp. 249-338. 12 Ignazio di Antiochia, Lettera ai Filadelfi, 9. 13 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, I,1. 14 Sul tema delle due vie vedi G.-H. Baudry, La Voie de la vie, Beauchesne, Paris 1999. 15 Ippolito di Roma, Tradizione apostolica, 21. 16 Giovanni Crisostomo, Otto catechesi battesimali, II,25 (Huit Catéchèses baptismales inedits, SC 50bis, Cerf, Paris 1970, p. 147). 17 Ibidem, II,10. 18 Ippolito di Roma, Tradizione apostolica, 21. 19 Odi di Salomone, 11. 20 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, XXI,1-5. 21 Clemente Alessandrino, Il pedagogo, I,6,47,2; trad. it. cit., p. 234. 22 Ndt: La versione ufficiale della CEI traduce l’espressione «alleanza inviolabile», forse per renderla più comprensibile. 23 Agostino di Ippona, Catechesi ai principianti, 26,50. Episodi dell’Antico Testamento e loro significato tipologico 1 Citato in Cabrol, Le Livre..., cit., pp. 177, 426. 2 Apocalisse di Mosè e Vita di Adamo ed Eva, 37 e 39; trad. it. in Apocrifi dell’Antico Testamento..., cit., vol. II, pp. 441, 442. 3 Ireneo di Lione, Contro le eresie, III. 4 Per maggiori dettagli, vedi il nostro studio «Le retour d’Adam au Paradis, symbole du salut de l’Humanité», in Id., G.-H. Baudry, Le Péché dit originel, Beauchesne, Paris 2000, pp. 301-333. 5 Origene, Omelie sulla Genesi, XV,5; trad. it. a cura di M.G. Danieli, Città Nuova, Roma 1978. p. 230. 6 Agostino di Ippona, Lettere, 164,3,6. 7 Giustino di Nablusa, Dialogo con Trifone, 138,1; trad. it. cit., p. 377. 8 Agostino di Ippona, Catechesi ai principianti, 32. 9 Gregorio di Nazianzo, Discorsi, 23,18. 10 Clemente Alessandrino, Il pedagogo, I,5,23,1-2; trad. it. cit., p. 215. 11 Agostino di Ippona, Catechesi ai principianti, 34. 12 Giustino di Nablusa, Dialogo con Trifone, 113,3-4; trad. it. cit., p. 327.
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Vedi ad esempio Ireneo di Lione, Contro le eresie, V,5,1. Cesario di Arles, Sermoni, 121,4. Agostino di Ippona, Esposizioni sui Salmi, 33,1,4. Afraate, Dimostrazioni, 21,18. Agostino di Ippona, La città di Dio, XVIII,30,2; trad. it. cit., p. 894. CAPITOLO SESTO.
Episodi della vita di Gesù e loro importanza teologica 1 Origene, Contro Celso, 1,50. 2 Ilario di Poitiers, La Trinità, II,27. 3 Origene, Contro Celso, 2,48. 4 Severo di Antiochia, Omelie, 119. 5 Ireneo di Lione, Contro le eresie, III,11,5. 6 Ambrogio di Milano, Esposizione del vangelo secondo Luca, 6,86. 7 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, XIII,1. 8 Costituzioni apostoliche, V,7,25. 9 Ireneo di Lione, Contro le eresie, V,13,1. 10 Vangelo di Bartolomeo, I,5 e 12; trad. it. in Apocrifi del Nuovo Testamento..., cit., vol. I, pp. 770-771. 11 Memorie di Nicodemo; trad. it. in Apocrifi del Nuovo Testamento..., cit., vol. I, pp. 539-653. 12 Ireneo di Lione, Contro le eresie, IV,22,1-2. CAPITOLO SETTIMO. Le figure della Chiesa e il simbolismo dei riti liturgici e degli edifici di culto 1 Clemente Alessandrino, Il pedagogo, I,6,42,1; trad. it. cit., pp. 230231. 2 Tertulliano, L’anima, 43,10; Esortazione alla castità, V,3-4. 3 Clemente di Roma, Lettera ai Corinzi, 12. 4 Ireneo di Lione, Contro le eresie, IV,20,12. 5 Per un’analisi più approfondita, vedi G.-H. Baudry, I simboli del battesimo, Jaca Book, Milano 2007. 6 Ndt: L’autore accosta religieux, «religioso», a relier, «congiungere, unire». 7 Costituzioni apostoliche, II,57,3.
CAPITOLO QUINTO.
CAPITOLO OTTAVO.
I simboli escatologici Libro dei Giubilei, XXIII,1; trad. it. in Apocrifi dell’Antico Testamento..., cit., vol. I, p. 317. 2 Tertulliano, Le uniche nozze, X,4. 3 Apocalisse di Esdra, 2,34-35; trad. it. in Apocrifi del Nuovo Testamento..., cit., vol. II, p. 1928. 4 S.L. Agnello, Silloge di iscrizioni paleocristiane della Sicilia, L’Erma di Bretschneider, Roma 1953, p. 63. 5 Libro dei segreti di Enoch, 42,3; trad. it. in Apocrifi dell’Antico Testamento..., cit., vol. II, p. 557. 6 Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche, VII,9. 7 Agostino di Ippona, Esposizioni sui Salmi, 30,3,8. 8 Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, 6. 9 Tertulliano, La corona, III,3; Esortazione alla castità, XI,1. 10 Vedi Tertulliano, Le uniche nozze, X,4. 11 Costituzioni apostoliche, VIII,44,1. 12 Agostino di Ippona, Le confessioni, VI,2; trad. it. a cura di C. Vitali, Rizzoli, Milano 1958, pp. 156-157. 1
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1. Catacomba anonima di via Anapo, Roma. 1. Due magi offrono doni al Bambino Gesù, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. Mosè riceve la Legge, catacomba di via Dino Compagni, Roma. 1. Catacomba anonima di via Anapo, Roma. 2. Catacomba di via Dino Compagni, Roma. 1. Cubicolo «di Leone», catacomba di Commodilla, Roma. 2. L’Agnello, mosaico, oratorio di S. Giovanni Evangelista, complesso del battistero di S. Giovanni, Roma. 1. Mosaico absidale, basilica dei Ss. Cosma e Damiano, Roma. 2. Mosaico absidale, basilica Lateranense, Roma. 1. Cristo con la Chiesa dei Pagani e quella degli Ebrei, mosaico, S. Pudenziana (403-417), Roma. 2. Pietro riceve la Legge da Cristo, mosaico, mausoleo di S. Costanza, Roma. 1. Mosaico dell’arco trionfale, S. Maria Maggiore, Roma. 1. Decorazione con foglie di acanto, mosaico, vestibolo del battistero Lateranense, Roma. 2. Ercole e l’Idra, catacomba di via Latina, Roma. 1. Mosaico pavimentale, basilica di Aquileia. 1. Entrata della chiesa di S. Stefano, Umm al-Rasas (Kastron Mefa), Giordania. 2a-b-c. Monogramma di Cristo, sarcofago di san Drusino dalla chiesa di Notre-Dame de Soissons (Aisne), fine VI-inizio VII secolo, Musée du Louvre, Parigi. 1. Monogramma di Cristo ai lati della Madonna, prima metà del IV secolo, cimitero Maggiore, Roma. 2-3. Monogramma di Cristo inscritto nella corona della vittoria e sormontante una croce: 2. Sarcofago da S. Paolo fuori le mura, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 3. Sarcofago dalla catacomba di Domitilla, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 4. Sarcofago «dell’arcivescovo Teodoro», basilica di S. Apollinare in Classe, Ravenna. 5. Croce monogrammatica, mosaico del battistero, cappella di Jucundus, Sufetula (Sbeitla), Museo del Bardo, Tunisi. 6. Croce monogrammatica di Cristo, mosaico, battistero di S. Giovanni in Fonte, Napoli. 7. Due Vittorie mostrano il monogramma di Cristo, sarcofago di Sariguzel, detto «del Principe», Museo archeologico di Istanbul. 1. Croce greca tra due monogrammi di Cristo, bassorilievo, ruderi della chiesa dedicata nel 512 ai Ss. Martiri Sergio, Bacco e Leonzio, Bostra, Giordania. 2. Statua del tempio di Ammone recante l’ankh, XVIII dinastia, Karnak, Egitto. 3. Personificazione della pace recante l’ankh, cupola della cappella della Pace, V secolo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga (Egitto). 4. Disegno in silhouette della figura della pace con l’ankh. 5. Croce ansata, bassorilievo, stele egiziana, V secolo, Museo Copto del Cairo Vecchio. 1. La croce «albero della vita» da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci, basilica di S. Giovanni in Laterano, Roma. 2. Cristo imberbe tiene nella mano destra la croce gemmata, sarcofago detto «del Cristo degli adoranti», fine IV secolo, Musée de l’Arles antique, Arles.
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3. Trofeo in bronzo in memoria della vittoria di Giulio Cesare a Tapso, Museo di Ippona, Annaba, Algeria. 4. Medaglione di Valentiniano II recante il labarum costantiniano con il chrismon, Bibliothèque Nationale de France. 5. Croce gemmata, mosaico absidale, VII secolo, chiesa di S. Stefano Rotondo, Roma. 1. La croce dorata della vittoria tra le stelle e simboli dei quattro evangelisti, V secolo, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna. 2. Mosè durante il passaggio del Mar Rosso, catacomba di via Latina, Roma. 3. Gesù Buon Pastore, seconda metà del III secolo, Musei Capitolini, Roma. 4. Orfeo Buon Pastore, pittura murale, IV secolo, catacomba di Domitilla, Roma. 1. Pastore crioforo, III secolo, catacomba di Priscilla, Roma. 2. Cristo Buon Pastore; mosaico, V secolo, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna. 3. Orfeo che incanta gli animali, pisside d’avorio, fine V-inizio VI secolo, Museo del Bargello, Firenze. 4. Orfeo Buon Pastore, pittura murale, IV secolo, catacomba di Domitilla, Roma. 1. Orfeo Buon Pastore, mosaico pavimentale, Aquileia. 2. L’Agnello cristico sul monte Sion, IV secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 3. L’Agnello benedice sette ceste di pane, IV secolo, catacomba di Commodilla, Roma. 4. Mosaico con pesci, piscina battesimale, Cuicul (Djemila), Algeria. 1. L’«Ichthys dei viventi», Museo delle Terme, Roma. 2. Il Cristo «filosofo», sarcofago di Concordio, Musée de l’Arles antique, Arles. 3. Il Cristo «didascalo» tra gli apostoli, V secolo, cappella di S. Aquilino, basilica di S. Lorenzo Maggiore, Milano. 4. Il Cristo «filosofo», sarcofago, Museo delle Terme, Roma. 1. Cristo consegna a Pietro il rotolo della nuova Legge, sarcofago, ca. 400, basilica di S. Ambrogio, Milano. 2. Cristo sulla montagna da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci, sarcofago detto «del Cristo dottore che consegna la Legge a Pietro», ca. 400, Musée de l’Arles Antique, Arles. 3. Guarigione del paralitico di Cafarnao, mosaico, VI secolo, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna. 4. Guarigione del cieco e resurrezione di Lazzaro, lipsanoteca, IV secolo, Museo Civico Cristiano, Brescia. 1. Guarigione dell’emorroissa, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. Ricostruzione di un’abside di Bawit, cappella XVII. 3. Affresco proveniente da Saqqara, cella 709, Museo Copto del Cairo Vecchio. 4. Affresco, cappella VI, monastero di S. Apollo a Bawit, Museo Copto del Cairo Vecchio. 1. Cristo in maestà, IV secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. Cristo in trono tra Pietro e Paolo, dittico di Berlino, VI secolo, Staatliche Museen, Berlino. 3. «Etimasia», cappella di S. Prisca, S. Maria Capua Vetere. 4. «Etimasia, mosaico, dell’arco trionfale, S. Maria Maggiore, Roma.
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1. Trasfigurazione simbolica, VI secolo, basilica di S. Apollinare in Classe, Ravenna. 2. Mano divina recante la corona di gloria per la martire sant’Agnese, mosaico absidale, VII secolo, basilica di S. Agnese fuori le mura, Roma. 1. Ascensione, Vangelo detto «di Rabula», fine VI secolo, Biblioteca Laurenziana, Firenze. 2. Le due forme scritte della lettera ebraica taw (+ o ?). 1. Croce greca inscritta in un cerchio, sarcofago, cappella funeraria del Seraya, Qanawat (Canatha), Siria. 2. Croce greca contornata da grappoli d’uva e iscrizione, architrave della porta occidentale della chiesa di S. Giorgio a Ezra (Zorava), Hauran, dedicata nel 515. 3. Pastore circondato da pecore, affresco, III secolo, cimitero Maggiore, Roma. 1. Imposizione della mano, Storie di Cristo, seconda metà del IV secolo, cappella cristiana del complesso ospedaliero di S. Giovanni, Roma. 2. Busto di Cristo con l’alpha e l’omega, VI secolo, catacomba di Commodilla, Roma. 1. Croce «monogrammatica» con l’alpha e l’omega e soldati a guardia del sepolcro del Risorto, sarcofago dell’anastasis, marmo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 2. La lettera greca zeta (Z) sulla veste di Cristo, VI secolo, basilica di S. Vitale, Ravenna. 1. I tre visitatori di Abramo, basilica di S. Vitale, Ravenna. 1. San Vittore coi simboli dei quattro Evangelisti, mosaico dorato, III secolo, cupola di S. Vittore in Ciel d’Oro, Milano. 1. Tetramorfo, mosaico absidale (410-417), S. Pudenziana, Roma. 2. Fonte battesimale esagonale, Cimiez, Nizza. 1. La menorah, affresco, III secolo, sinagoga di Dura Europos, Museo di Damasco. 2. La zeta sulla veste di Pietro, V secolo, battistero degli Ariani, Ravenna. 3. Pianta del battistero di S. Giovanni ad Fontes, III secolo, Milano. 4. Pianta del battistero di Nevers, III secolo. 5. Pianta del battistero di Fréjus, III secolo. 6. Pianta del battistero di Marsiglia, III secolo. 1. Battistero, S. Giovanni in Laterano, Roma. 2. I dodici apostoli attorno alla croce gloriosa di Cristo, disegno di una delle ampolle di Gerusalemme, VI-VII secolo, Museo della Cattedrale, Monza. 1. Gesù e i dodici apostoli, catacomba di Domitilla, Roma. 2. Il Collegio apostolico, affresco, archivolto del cubicolo A della catacomba di via Dino Compagni, Roma. 1-2. Ricostruzione (H. Brandenburg) ed esterno del mausoleo dell’imperatrice Elena, Roma. 3. Cristo assiso sul globo, mosaico dell’arco trionfale, basilica di S. Lorenzo fuori le mura, Roma. 4-5. Pianta (H. Brandenburg) ed esterno del mausoleo di S. Costanza, Roma. 1. Mausoleo di S. Costanza, Roma. 2. Interno di S. Stefano Rotondo, Roma. 1. Cristo assiso sul globo, mosaico della volta, mausoleo di S. Costanza, Roma. 2. Cristo in maestà assiso sul globo, mosaico absidale, ca. 600, chiesa di S. Teodoro, Roma. 3. Quadrato «magico». 1. Veduta esterna della chiesa di S. Giorgio, VI secolo, Ezra (Zorava), Siria. 2. Pianta e veduta esterna del battistero di Fréjus. 3. Daniele nella fossa dei leoni, mosaico pavimentale, III secolo, mausoleo di Blossus, Tunisia. 1. Labirinto, mosaico, ca. 324, dalla basilica di Reparatus, Castellum Tingitanum (Orléansville), cattedrale del Sacré-Cœur, Algeri.
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2. Due angeli portano il busto di Cristo, affresco da Bawit, Museo Copto del Cairo Vecchio. 1. Doni dei Magi, mosaico, VI secolo, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna. 2. Balaam mostra la stella a Maria col Bambino Gesù, catacomba di Priscilla, Roma. 1. Bambino Gesù in trono e adorazione dei Magi con la stella in alto, arco trionfale, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Ara dedicata al «Sole Invitto», metà del II secolo d.C., Museo Gregoriano Profano, Città del Vaticano. 1. Testa di Helios-Sol, pannello in opus sectile, III secolo d.C., tarsie dal Mitreo di S. Prisca sul Colle Aventino, Museo Nazionale Romano, Roma. 2. Il dio Helios-Sol sul carro celeste e scene della vita di Giona, inizio IV secolo, mausoleo degli Iulii, necropoli vaticane, Città del Vaticano. 1. Personificazioni del sole e della luna, arco trionfale, S. Maria, Quintanilla de las viñas, Burgos. 1. Cristo vittorioso sul monte Sion da cui sgorgano i quattro fiumi del paradiso, sarcofago di Probo, grotte Vaticane, Roma. 2. Cristo in piedi tra Pietro e Paolo, piatto in vetro dorato dalla catacomba di S. Callisto, fine IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 3. Discorso della montagna, ipogeo degli Aurelii, Roma. 1. La roccia colpita dal bastone di Mosè da cui zampilla una sorgente, III secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. Il Giordano e la sua valle, «Mappa di Madaba», mosaico pavimentale, chiesa nord di Madaba, Giordania. 1. Albero carico di frutti, decorazione della scala di accesso alla cripta della chiesa dedicata al santo profeta Elia, terminata nel 597, Madaba, Giordania. 2. Tralci di vite, che incorniciano la porta centrale della facciata occidentale del complesso religioso del Seraya, Qanawat (Canatha), Siria. 3. Tralci di vite, sarcofago di Castelnau-de-Guers, Musée du Louvre, Parigi. 1. Vaso a tralci, Museo di Apamea, Siria. 2. Noè e la colomba, fine III secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 1. Corteo delle Vergini con corona e palme, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna. 2. Perticolare dell’immagine precedente. 1. Palme che incorniciano una raffigurazione di Cristo, mosaico della volta, IV secolo, abside orientale, mausoleo di S. Costanza, Roma. 2. Palme che incorniciano il Cristo-Agnello sul monte Sion, sarcofago di Costanzo III, V secolo, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna. 3. Pesce, mosaico, 562, cappella di Teodoro, Madaba, Giordania. 1. Mosaico absidale, basilica di S. Apollinare in Classe, Ravenna. 2. Dittico in avorio, seconda metà del V secolo, Duomo di Milano. 3. L’Agnello sul monte del paradiso, sarcofago di Valentiniano III, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna. 1. Adamo ed Eva, III secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. San Simeone lo Stilita e il serpente, placca di reliquiario proveniente dalla Siria, VI secolo, Musée du Louvre, Parigi. 3. Ciclo di Giona, chiusura di loculo, mosaico dalla catacomba di via Latina, seconda metà del IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 1. Cervi affrontati ai lati di una coppa sormontata da una croce, mosaico, VI-VII secolo, Museo di Sbeitla, Tunisia. 2. Cervi, mosaico, VI secolo, battistero di Madaba, Giordania. 3. Un cervo si china verso un grande serpente, mentre altri due cervi si abbeverano, mosaico absidale, basilica di S. Clemente, Roma.
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108/109 1. Il bue e l’asino accanto a Gesù Bambino, sarcofago di Stilicone, IV secolo, basilica di S. Ambrogio, Milano. 2. Daniele nella fossa dei leoni, lastra incisa, IV secolo, catacomba di Priscilla, Roma. 3. Contadino che scaccia un lupo, mosaico pavimentale, chiesa dei Ss. Martiri Lot e Procopio, Khirbat al-Mukhayyat, Giordania. 110/111 1. Due vittorie alate che reggono il busto della personificazione di Costantinopoli, VI secolo, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, Castello Sforzesco, Milano. 2. Battesimo di Gesù con personificazioni della luna e del sole, placca d’avorio, Musée des Beaux-Arts, Lione. 3. Sei colombe ai due lati di un chrismon, fregio in marmo di unatavola d’altare da Vaugines (Vaucluse), V-VI secolo. 4. Epitaffio con colomba e ramoscello d’ulivo, catacomba di S. Callisto, Roma. 5. Colombe con ramoscello d’ulivo ai lati di un chrismon, placca funeraria, V secolo, Musée d’Aquitaine, Bordeaux. 112/113 1. Colombe attorno a un calice, basilica di S. Vitale, Ravenna. 2. Due pavoni ai lati di un calice, mosaico pavimentale da una villa di campagna presso Ounaïssia, VI secolo, Museo del Bardo, Tunisi. 3. Due pavoni, arcosolio, cubicolo F detto «di Sansone», catacomba di via Dino Compagni, Roma. 4. Due pavoni ai lati di un chrismon, pannello della porta lignea della basilica di S. Ambrogio, Museo della Basilica, Milano. 114/115 1. Adamo troneggia tra gli animali con la fenice nimbata posta in risalto, mosaico da Huarte, V secolo, Museo di Apamea, Siria. 2. Fenice nimbata, su un Golgota stilizzato, mosaico da Antiochia, V secolo, Musée du Louvre, Parigi. 116/117 1. Aquile funerarie reggono il grande disco solare, cupola della cappella 25, necropoli di Bagawat, Oasi di Kharga, Egitto. 2. Figura di orante, fine III secolo, cimitero Maggiore, Roma. 3. Orante, sarcofago dalla necropoli di S. Sebastiano, fine IV secolo, Museo delle Sculture, complesso di S. Sebastiano, Roma. 118/119 1. Orante al centro di un sarcofago «ad alberi», ca. 375, Musée de l’Arles antique, Arles. 2. Scene di martìri con orante, fine IV secolo, oratorio delle domus romane sotto la chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, Roma. 3. Figura femminile di orante, mosaico, fine VI secolo, Collezione Federico Zeri, Roma. 120/121 1. Aureola dorata su fondo d’oro, mosaico absidale di papa Teodoro I (san Primo), S. Stefano Rotondo, Roma. 2-3. Martiri recanti la corona della vittoria, battistero di S. Giovanni in Fonte, Napoli. 122/123 1. Monogrammi di Cristo racchiusi in corone, sarcofago del vescovo Teodoro, VI secolo, basilica di S. Apollinare in Classe, Ravenna. 2. Cristo vittorioso, mosaico absidale, basilica dei Ss. Cosma e Damiano, Roma. 124/125 1. Processione di martiri, VI secolo, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna. 2. San Demetrio con un’aureola circolare tra i fondatori con un’aureola quadrata, pilastro mosaicato, VII secolo, chiesa di S. Demetrio, Salonicco. 3. Due angeli portano Cristo in trono con un’aureola crucifera, bassorilievo da Bawit, Museo Copto del Cairo Vecchio. 126/127 1. Gesù adolescente imberbe, sarcofago di Giunio Basso, IV secolo, basilica di S. Pietro, Roma. 2. Gesù adolescente imberbe, IV secolo, Museo delle Terme, Roma. 3. Busto di Cristo, mosaico absidale, basilica di S. Lorenzo, Roma. 4. Cristo con barba e lunghi capelli, vaso da Emesa (Siria), VI secolo, Musée du Louvre, Parigi. 128/129 1. L’angelo dell’annunciazione, mosaico dell’arco trionfale, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Trasfigurazione di Cristo con veste bianca, mosaico absidale, VI
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secolo, chiesa principale del monastero di S. Caterina del Sinai, Egitto. 3. L’Agnello sostenuto da angeli in vesti bianche, mosaico della volta, basilica di S. Vitale, Ravenna. 1. Figure di martiri, ricostruzione del mosaico dell’arco trionfale, basilica di S. Paolo fuori le mura, Roma. 2. Gesù moltiplica i pani col suo bastone, IV secolo, ipogeo degli Aurelii, Roma. 3. Mosè colpisce la roccia col bastone, IV secolo, catacomba di S. Callisto, Roma. 1. Gesù su una barca in compagnia degli evangelisti Marco, Luca, Giovanni, sarcofago, 325-350, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 2. Giona gettato da una nave con albero cruciforme, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 3. Giona gettato da una nave con albero cruciforme, affresco, cappella dell’Esodo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 1. Ancora con pesci, mosaico, IV secolo, Museo del Bardo, Tunisi. 2. Ancora cruciforme ai piedi di un’orante, sarcofago, chiesa di Saint-Sauveur, Brignoles. 3. Imbarcazione e faro, epitaffio di Firma Victoria, Museo Lapidario Cristiano, Città del Vaticano. 4. Vendemmiatore che taglia un grappolo d’uva, mosaico pavimentale, VI secolo, chiesa inferiore di Kaianos,‘Uyun Musa, Monte Nebo. 1. Vignaiolo che taglia un grappolo d’uva, mosaico pavimentale, VI secolo, chiesa dei Ss. Martiri Lot e Procopio, Khirbat al-Mukhayyat, Giordania. 2. Personaggio che entra da una porta (allegoria), cubicolo F detto «di Sansone», catacomba di via Dino Compagni, Roma. 1. Consegna delle chiavi a Pietro da parte di Cristo, mosaico, mausoleo di S. Costanza, Roma. 1. Battesimo di Gesù, sarcofago, Museo delle Terme, Roma. 2. Scena nota come Mulier inclinata, pittura murale, prima metà del IV secolo, cubicolo 65 detto «di Nicerus», catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 3. Mosè colpisce la roccia, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 1. Gesù e la Samaritana, metà del IV secolo, nuova catacomba di via Latina, Roma. 1. Pesce che porta un cesto di pani, ricostruzione. 2. Nozze di Cana, l’acqua trasformata in vino, battistero di S. Giovanni in Fonte, Napoli. 3. Scene di vendemmia, mosaico del deambulatorio, mausoleo di S. Costanza, Roma. 1. Pavoni di fronte a un calice, mosaico, IV secolo, Museo di Cherchell, Algeria. 2. Scene di lotta con giudici, mosaico da casa della pianura di Talah, IV secolo, Museo di Safra, Tunisia. 3. Lampada a olio in ceramica ingobbiata, con chrismon, da Générac (Gard), IV secolo, Musée archéologique, Nîmes. 1. Ampolla con raffigurazione di san Mena, monastero dei Siriaci, Wadi el-Natrun, Egitto. 2. Buon Pastore che porta un secchio di latte, inizio III secolo, catacomba di S. Callisto, Roma. 1. Scene pastorali, sarcofago dalla catacomba di Priscilla, fine III secolo, basilica di S. Silvestro, Roma. 2. Dall’antico sistema alchemico, i Segni filosofici del sale e dei suoi componenti. 1. Adamo ed Eva con il serpente, affresco, cappella della Pace, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 1. Adamo ed Eva ai lati dell’albero, affresco, III secolo, camera del Buon Pastore, cimitero Maggiore, Roma. 2. Adamo in trono, Museo di Hama, Siria.
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156/157 1. Arca di Noé con colomba, affresco, cappella dell’Esodo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 2. Noè e la sua famiglia sull’arca, affresco, cappella della Pace, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 158/159 1. Abramo e i tre visitatori, catacomba di via Latina, Roma. 2. L’Arca di Noé, rilievo, sarcofago paleocristiano, Treviri. 3. Abramo e i tre visitatori, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 4. Il sacrificio di Melchisedek, mosaico della navata centrale, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 160/161 1. Il sacrificio di Melchisedek, mosaico, basilica di S. Vitale, Ravenna. 2. Il sacrificio di Isacco, catacomba di via Latina, Roma. 162/163 1. Il sacrificio di Isacco, sarcofago dalla necropoli Saint-Victor, V secolo, Musée historique de Marseille. 2. Vocazione di Mosè; Mosè e il roveto ardente; scene della vita di Mosè e il suo gregge, pannello del portale ligneo, basilica di S. Sabina, Roma. 3. Passaggio del Mar Rosso, metà del IV secolo, cubicolo C, catacomba di via Dino Compagni, Roma. 164/165 1. Passaggio del Mar Rosso, mosaico, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Passaggio del Mar Rosso, sarcofago di Les Alyscamps, Musée de l’Arles antique, Arles. 3. Attraversamento del Giordano, mosaico, V secolo, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 166/167 1. Ascensione di Elia, pittura murale, IV secolo, catacomba di via Latina, Roma. 2. Ascensione di Elia, sarcofago detto «di Stilicone», basilica di S. Ambrogio, Milano. 168/169 1. Davide uccide il leone, piatto d’argento appartenente al tesoro di Cipro, inizio VII secolo. 2. Daniele in atteggiamento da orante col berretto frigio, Museo di Hama, Siria. 170/171 1. Daniele tra i leoni, sarcofago, prima metà del IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 2. Daniele tra i leoni, affresco, IV secolo, catacomba anonima di via Anapo, Roma. 3. Daniele nella fossa dei leoni, cappella dell’Esodo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 4. I tre ebrei nella fornace, cappella dell’Esodo, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 172/173 1. I tre fanciulli nella fornace, mosaico, catacomba di Domitilla, Roma. 2. Susanna e i vegliardi, III secolo, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 3. Giona gettato in mare e rigettato sulla riva, disegno di sarcofago, Musei Vaticani, Città del Vaticano. 4. Susanna e i vegliardi, sarcofago, Musée de l’Arles antique, Arles. 174/175 1-2. Mosaici di Aquileia: 1) Giona gettato in mare e inghiottito dal mostro; 2) Giona rigettato sulla riva. 176/177 1. L’imperatrice Teodora e il suo seguito, mosaico, VI secolo, basilica di S. Vitale, Ravenna. 2. I Magi indicano la stella, sarcofago detto «della Natività», Musée de l’Arles antique, Arles. 178/179 1. Adorazione dei Magi, sarcofago detto «degli Sposi», IV secolo, Musée de l’Arles antique, Arles. 2. Battesimo di Cristo e apostoli, mosaico della cupola, VI secolo, battistero degli Ariani, Ravenna. 180/181 1. Cristo e la Madonna alle Nozze di Cana, arcosolio della tomba di Primenius e Severo, catacomba di S. Sebastiano, Roma. 2. Miracoli di Gesù: la guarigione del cieco, la moltiplicazione dei pani, le nozze di Cana, pannello del portale ligneo, basilica di S. Sabina, Roma. 3. Moltiplicazione dei pani, mosaico, basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna.
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4. Moltiplicazione dei pani, arcosolio della tomba di Primenius e Severo, catacomba di S. Sebastiano, Roma. 1. Miracolo di Cana, vetro colorato, IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 2. Moltiplicazione dei pani e dei pesci, mosaico, Tabgha, Palestina. 3. Gesù e l’emorroissa, lipsanoteca in avorio, Civici Musei d’Arte e di Storia, Brescia. 4. Miracolo dell’emorroissa, lunetta dell’arcosolio, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 5. Guarigione del paralitico da Dura Europos, III secolo, Yale University Museum, New Haven. 1. Guarigione del cieco, pisside in avorio, VI secolo, Musée de Cluny, Parigi. 2. Gesù guarisce il cieco, dittico, metà del VI secolo. 3. Resurrezione di Lazzaro, pisside in avorio, fine V secolo, Museo Civico Archeologico, Bologna. 4. Resurrezione di Lazzaro, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 1. Resurrezione di Lazzaro, affresco, cappella «Cristiana», complesso ospedaliero di S. Giovanni, Roma. 2. Resurrezione di Lazzaro, vetro dorato, IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 3. Resurrezione della figlia di Giairo, sarcofago, inizio V secolo, Musée de l’Arles antique, Arles. 1. Trasfigurazione, mosaico absidale, Katholikon del monastero di S. Caterina del Sinai, Egitto. 2-3. Formelle del portale ligneo, V secolo, basilica di S. Sabina, Roma: 2) Pilato si lava le mani; 3) Crocifissione. 4. La croce vittoriosa, sarcofago detto «dell’anastasis», Musée de l’Arles antique, Arles. 1. Le tre donne al sepolcro e l’ascensione di Gesù, pannello in avorio da Roma, V secolo, Bayerisches Nationalmuseum, Monaco. 2. Ascensione, pannello del portale ligneo, V secolo, basilica di S. Sabina, Roma. 3. Cristo vincitore sul monte apocalittico dei quattro fiumi, affiancato da Pietro e Paolo, sarcofago, IV secolo, Museo Pio Cristiano, Città del Vaticano. 1. Ricostruzione dell’affresco che rappresenta la risalita di Gesù dagli Inferi, S. Maria Antiqua, Roma. 2. La Vergine Maria in atteggiamento da orante, placca in marmo, basilica di Saint-Maximin, V-VI secolo, Var, Francia. 3. Maria orante tra Pietro e Paolo, rilievo, vetro dorato, Musei Vaticani, Città del Vaticano. 4. Maria orante con colomba, affresco, cappella della Pace, necropoli di Bagawat, oasi di Kharga, Egitto. 1-2. Personificazioni delle due Chiese, mosaico, V secolo, basilica di S. Sabina, Roma. 3-4. Personificazioni delle due Chiese, mosaico absidale, chiesa di S. Pudenziana, Roma. 1. Raab assiste alla presa di Gerico; in basso, il trasporto dell’arca, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Giacobbe protesta con Labano per la sostituzione di Rachele con Lia; le due sorelle affiancano Labano; matrimonio di Giacobbe e Rachele, mosaico, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 3. Sara osserva Abramo che porta il cibo ai tre ospiti misteriosi, mosaico, basilica di S. Vitale, Ravenna. 1. Gerusalemme, la «città santa», mosaico della mappa di Madaba, Giordania. 2. Gerusalemme, mosaico dell’arco trionfale, basilica di S. Vitale, Ravenna. 1. Battesimo, III secolo, cripta dei Sacramenti, catacomba di S. Callisto, Roma. 2. Banchetto eucaristico, III secolo, cappella dei sacramenti, catacomba di S. Callisto, Roma.
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202/203 1. Banchetto funerario, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. Banchetto eucaristico, III secolo, catacomba di Priscilla, Roma. 3. Banchetto conviviale, simbolo del banchetto celeste, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 204/205 1. Disegno ricostruttivo (da R. Krautheimer) della domus ecclesiae di Dura Europos. 2a-g. Ricostruzione delle diverse tipologie di spazio liturgico nelle prime chiese cristiane (da Y. Bouyer): a-b) basiliche romane con entrata a est e coro a ovest; c-d-e) chiese d’Occidente con coro a est e entrata a ovest; f) chiesa siriana orientale; g) basilica bizantina. 3. Ricostruzione della basilica di S. Pietro (elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg). 206/207 1. Basilica di S. Sabina, V secolo, Roma. 2. Ricostruzione della basilica di S. Sabina nel V secolo (elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg). 3-4. La rotonda costantiniana e la cappella del Santo Sepolcro a Gerusalemme. 208/209 1. Basilica con l’iscrizione ECCLESIA MATER, dal mosaico di una tomba cristiana di Tabarka, Tunisia. 2. Disegno ricostruttivo della basilica di S. Sofia a Costantinopoli. 3. Ricostruzione dell’interno paleocristiano di S. Sofia: a) porta imperiale; b) ambone; c) cancellata; d) altare e ciborio; e) synthronon. 4. Cristo Pantokrator, mosaico della cupola, XI secolo, S. Sofia, Kiev. 210/211 1. Ricostruzione della chiesa di S. Stefano Rotondo a Roma, senza copertura (elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg). 2. Disegno ricostruttivo dell’esterno della chiesa di S. Stefano Rotondo a Roma. 3. Ricostruzione della chiesa monumentale (martyrion) dedicata a san Simeone, Qalat Siman, Siria.
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4. Battistero ottagonale, Fréjus. 5. Ruderi dell’ottagono centrale della chiesa di S. Simeone in Siria. 1. Ricostruzione del fonte battesimale rettangolare della domus ecclesiae di Dura Europos, Università di Yale. 2. Piscina battesimale circolare, IV secolo, Tipasa, Algeria. 3. Battistero ottagonale, VI secolo, Aix-en-Provence. 4. Battistero ottagonale, Fréjus. 5. Ruderi del battistero con piscina cruciforme della grande basilica del quartiere cristiano di Hippo Regius (Ippona), Algeria. 1. Piscina battesimale cruciforme, VI secolo, battistero del santuario di Mosè, Monte Nebo, Giordania. 2. Ruderi del battistero con vasca, chiesa orientale di Apollonia, Libia. 3. Pianta della chiesa orientale e battistero di Apollonia in Libia. 1. Conchiglia, fronte di abside, Museo del Cairo Vecchio, Egitto. 2. Conchiglia, nicchia, Museo del Cairo Vecchio, Egitto. 1. Veduta d’insieme della catacomba di via Dino Compagni a Roma. 1. Scena omerica con Ulisse a Itaca (parte inferiore); scena bucolica pastorale, anticipazione simbolica del paradiso (parte superiore), lunetta, ipogeo degli Aurelii di via Manzoni, Roma. 1. Gerusalemme, mosaico dell’arco trionfale, basilica di S. Maria Maggiore, Roma. 2. Stele funeraria con mensa su cui sono rappresentati utensili, piatti, cucchiai e vassoi colmi di cibo, Museo di Timgad, Algeria. 1. Scena di banchetto, lunetta dell’arcosolio, catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino, Roma. 2. Rivestimento musivo di mensa; decorazione con pesci e iscrizione latina, grande basilica di Tipasa, Museo archeologico di Tipasa, Algeria. 1. Busto di Cristo con aureola crociata da Bawit, Museo del Cairo Vecchio, Egitto.
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INDICE DEI SIMBOLI Abramo 21, 158-159, 218-219 Acqua 24, 41, 92-94, 106, 140, 141-143, 157, 165 Adamo 62, 104-105, 153-136, 196 Ade 81, 105, 170, 191-192 Adorazione dei Magi, v. Magi Agnello 16, 37, 40-41, 100, 103, 129, 221 Albero 33, 34, 36, 94, 95, 104-105 Albero (di nave) 36, 132 Alloro 122 Alpha (A) 31, 52, 54, 57-58 Ancora 101, 132, 133 Angelo 81-82, 128 Ankh 32 Apostoli 69-71 Aquila 65, 105, 116 Aratro 36 Arca di Noè 36, 96, 156-158, 197 Architettura 87, 132, 204 Ariete 103, 162 Ascensione (Elia, Gesù) 21, 116, 167 Asino 108 Aureola 73, 82, 120, 123-125 Banchetto 180, 202, 218, 221, 223-224; v. anche Eucaristia Barba 82, 126-127 Basilica 204-209 Bastone 36, 103, 131, 165, 169 Battesimo 46, 55-56, 67, 89, 93, 106, 131, 139, 140, 148, 164, 179, 186, 200-201, 212 Battistero 212-215 Bue 108, 177 Calice/cantaro 95, 106, 112, 146 Candelabro (menorah) 66-67 Cerchio 73, 210 Cervo 105, 106-107, 146 Chiave 33, 138, 139 Chiesa 20, 52, 67, 88, 95, 112, 132, 193-199 Chrismon 29, 30, 31, 33, 35, 41, 58, 224 Cieco nato 45-46 Cielo 81 Cimitero 217-218 Colomba 62, 96, 110-113, 146, 157, 197 Colonna 71 Corona 31, 48, 50, 100, 120-123 Cristo Agnello, v. Agnello Cristogramma 29, 30, 31, 33, 35, 58 Cristo Ichthys, v. Pesce
Cristo Medico, v. Medico Cristo Orfeo, v. Orfeo Cristo Pastore, v. Pastore Cristo Re, v. Re Croce 32-36, 47, 48, 50, 69, 78, 79, 118-119, 162, 169, 217 Cubo 77, 209 Cupola 77, 81, 209 Daniele 109, 118, 153, 169-173, 217, 223 Davide 39, 109, 168-169 Delfino 101, 103, 134, Dieci 69 Discesa agli Inferi 138, 156, 170, 187, 191192 Dodici 48, 69-71 Drago 103-105; v. anche Serpente Due 61, 137-139 Ebrei (tre giovani), v. Tre giovani ebrei Economia del legno, v. Legno Eden 34, 139, 220-222 Edifici religiosi 73, 204-215, 224 Elia 21, 50, 167, 217 Enoch 217 Esagramma 65 Etimasia 48-49 Eucaristia 41, 182, 201-203 Eva 62, 104-105, 153-156, 196 Falce 135-136 Faro 132, 134-135 Fenice 114, 217, 221 Filosofo (Cristo) 42-43 Gerusalemme 41, 69, 100, 221-222 Ghematria 72, Giardino 220-222 Giogo 136, 173-175 Giona 37, 87, 105, 132, 153, 217, 223 Giorno 70 Giosuè 21, 165 Globo 72, 76-77 Golia 168-169 Guarigione 44-46, 183-184 Helios 14, 42, 86-87 Hermes 38 Hexaemeron 65 Hypsilon (Y) 60
Ichthys, v. Pesce Imbarcazione, v. Nave Imposizione della mano 56, 140-141; v. anche Mano Incinerazione 222-223 Inferi, v. Discesa agli Inferi Innesto 95 Inumazione 222-223 Isacco 153, 161-162 Labarum 30, 34 Labirinto 80 Lampada 41 Latte 141, 143, 149-151 Lazzaro 12, 131, 184-188, 217, 223 Legno 36, 136, 162 Leone 65, 108-109, 168 Lettere 53-60 Luce 24, 41, 89, 134, 183 Luna 82, 88-89 Lupo 109 Magi 12, 82, 177-179 Mano 50-52, 60, 62; v. anche Imposizione della mano Maria 12, 30, 83, 108, 192, 193 Mar Rosso (passaggio del) 21, 131, 163-165 Medico (Cristo) 44-46, 183 Melchisedek 159-160 Menorah 66-67 Miele 141, 143, 149, 150 Moltiplicazione dei pani 144, 181-182; v. anche Pane Monogramma di Cristo 29, 30, 31, 33, 35, 122 Montagna 44, 91-92 Mosè 12, 21, 36, 50, 92, 104-105, 131, 141, 162-165, Natale 12, 86-87, 177 Navata 133, 204, 210 Nave 132-133, 197, 210 Noè 96, 111, 118, 132, 156-158, 223 Nozze di Cana 180-181 Numeri 60 Nuvola 130, 164 Olio 141, 146-148 Ogdoade 67 Omega (Ω) 31, 52, 54, 57-58 Orante 117-119
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Orfeo 24, 36, 39-40, 79, 221 Oriente 70, 87, 210 Oro 120, 124 Ottagono 78-79 Ottavo giorno 67, 215, 217 Otto 67, 69 Palma 98-100, 221 Pane 41, 143-144, 181-182 Paradiso 220-222 Pasto 24, 143 Pastore 21, 24, 36-38, 54, 56, 103 Pavone 112-114, 146, 217 Pecora 36-38, 50, 55-56, 103 Pescatore 101 Pesce 41-42, 100-101, 134, 144 Pianeta 84-85 Piantagione 94-95, 197 Pietas 118 Pietra 92 Piscina battesimale 41-42, 65, 79, 101, 212 Porta 137 Porto 132, 134-135 Quadrato 62, 77, 78 Quaranta 72
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Quattro 62 Raab 196-197 Re (Cristo) 47, 84, 120, 122 Refrigerium 202, 218, 220, 223-224 Riposo 202, 218, 220, 223 Roccia 21, 92, 165 Sale 141, 151 Sangue 149, 196 Sei 53, 65 Seno di Abramo 21, 218-219 Serpente 103-107, 116, 153-154 Sette 58-59, 66-67 Sfera 76 Sheol 81, 170, 191-192 Sigillo 54-55 Simbolo di fede 16-18, 71 Sole 24, 70, 85-89, 120, 217 Sonno 217-218 Stella 65, 82-84 Susanna 109, 118, 153, 172-173 Tau (T) 32, 53-56 Taw 32, 53-56 Tempio 204-209, 222
Tenebre 89 Tetrade 62, 65 Tetragamma 62 Tetramorfo 62, 65 Torre 197-199 Trasfigurazione 50-52, 130, 188 Tre 61-62, 158-159 Tre giovani ebrei 153, 171, 217, 223 Trofeo 47, 189 Trono 48-49, 84, 189 Uccelli 110-116 Ulivo 95-96, 146 Uno 60 Unto (Messia) 47, 147-148, 160 Unzione 147-148 Veste bianca 122, 128-131 Vie (due) 60, 117, 137-139 Vigna 95 Vino 141, 143-146, 181 Vita 33, 42, 58-59, 100 Vittoria 98 (corona della) 121-123 Zeta (Z) 58-59, 66-67 Zodiaco (segni dello) 69
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CREDITI FOTOGRAFICI Il numero si riferisce alla pagina, quello tra parentesi alla didascalia. Le immagini non indicate sono dell’Archivio Jaca Book.
Archivio Fotografico della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra: 91, 203 (2). BAMS-foto Rodella: 59, 61, 160. Fabbrica di San Pietro in Vaticano: 90-91 (1). Fernando Lanzi: 108. Luca Mozzati: 31 (7). RMN, foto C. Jean / J. Schormans: 115. Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Ravenna (MiBAC) - AFS n. 38033 (foto Robino): 122-123 (1).
VOLUMI DA CUI SONO STATE TRATTE ALCUNE IMMAGINI M. Andaloro, L’ORIZZONTE TARDOANTICO E LE NUOVE IMMAGINI, 312-468, volume I del Corpus LA PITTURA MEDIEVALE A ROMA, Jaca Book 2006: 10, 12-17, 21, 22-23, 30 (1), 40 (1), 41 (3), 46, 48 (1), 49 (4), 56, 64, 71, 76, 92, 113 (3), 128 (1), 130, 131 (2), 137, 140 (2), 163, 164 (1), 165 (3), 170 (2), 172 (1), 180 (1), 181 (4), 186 (1), 195, 196, 197 (2), 212, 219, 222. S. Romano, RIFORMA E TRADIZIONE, 1050-1198, volume IV del Corpus LA PITTURA MEDIEVALE A ROMA, Jaca Book 2006: 107 (3). H. Brandenburg (fotografie di A. Vescovo), LE PRIME CHIESE DI ROMA, Jaca Book 2004: 18, 19, 24, 34 (1), 35 (5), 51 (2), 72-75, 84-85 (1), 87, 119 (2), 120, 123 (2), 127 (3), 159, 194, 204-205, 206, 210 (1). M. Zibawi, L’OASI EGIZIANA DI BAGAWAT, Jaca Book 2005: 33 (3, 4), 116, 133 (3), 152, 156-157, 158 (2), 170-171 (3, 4), 172-173 (3), 193. M. Zibawi, L’ARTE COPTA, Jaca Book 2003: 47, 216, 227.
Impaginazione dei testi Oldoni Grafica Editoriale Srl, Milano Selezione delle immagini Graphic Srl, Milano Printed in China by Media Landmark Printing Ltd Finito di stampare nel mese di agosto 2009
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16-02-2009
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