Coscienza Storica n.7

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Segretario di redazione: Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it. In copertina: Dante Alighieri, olio di Agnolo Bronzino (1532-1533), Firenze, Galleria degli Uffizi.

Coscienza Storica

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Coscienza Storica Nuova Serie

7 L’ordine politico-religioso I

Ragione, simbolo, tragedia

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I Ragione, simbolo e tragedia

La negazione dell’autorità religiosa porta con sé la negazione dell’autorità politica. (Donoso Cortès)

    

OrigeneContra Celsum VII 17, 23-26

1. Per la sapienza greca, il logos è la forma del mondo, l‟unità del molteplice, il principio uni-versale informatore del cosmo. E‟ il legame che costituisce e mantiene l‟unità del cosmo fisico. E‟ il principio della vita spirituale e come tale anche il principio normativo dell‟agire dell‟uomo. Il logos è, insomma, la grammatica dello spirito umano che si esprime con la parola, che è, “non meno del pensiero, la forma in cui si manifesta il logos”: quello interno (endiathetos) e quello della parla esternata dalla voce (prophorikos). 1La tecnica del parlare per ragionamenti è la dialettica, che Zenone divide nella parte che tratta dei termini significanti () e nella parte che tratta delle cose

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M. Pohlenz, La Stoa (1943), Milano, 2012, pag. 61.

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significate (), i cui termini sono solo formali e non hanno alcuna rilevanza reale.2 La relazione tra la denominazione delle cose e i loro significati non è congetturale e arbitraria ma riflette la natura dell‟oggetto nominato riconosciuta dal logos dei nomenclatori.3 “La ricerca del vero contenuto delle parole, la „etimologia‟, appare quindi agli Stoici indispensabile e da svolgersi con metodicità”.4 Per i greci il tempo scandiva il moto dei fenomeni molteplici e dunque dell‟essere imperfetto del mondo materiale, mentre non si applicava all‟essere che rimane eternamente uguale a se stesso.5 Per gli stoici, l‟unica esperienza che l‟uomo può vivere è la durata, che si interrompe quando l‟azione perviene a conclusione. Da qui l‟interesse non per ciò che è stato fatto, il senso storico, ma per ciò che resta da compiere, il senso del dovere.6 Il dato sensibile impressiona l‟anima che per mezzo del pneuma lo trasmette all‟organo centrale, l‟hegemonikon, che lo riflette come  Questa impressione esterna è un pathos, cioè un processo passivo, sul quale agisce l‟attività del logos che gli accorda il suo assenso (synkatathesis), ossia decide sulla sua realtà comune, se la condivide.8 L‟assenso del logos alla phantasia conferisce alla rappresentazione il suo giudizio di realtà (katalepsis = comprensione dell‟oggetto da parte del soggetto conoscente).9 Da qui l‟importanza della retta ragione () come criterio di verità.10 Infatti “se il logos per debolezza dà il suo assenso a una rappresentazione che non abbia in sé i requisiti necessari per la comprensione dell‟oggetto, abbiamo una doxa, una synkatathesis malata e debole, origine di tutti gli errori teoretici e pratici.

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Ivi, pag. 62. Ivi, pag. 68. Ivi, pag. 69. Ivi, pag. 79.

Ivi, pag. 80. Ivi, pag. 99.

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Ivi, pag. 100. Ivi, pag. 111. 10 Ivi, pag. 112. 9

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[…] Per gli Stoici però si può parlare di un vero sapere solo quando la katalepsis sia divenuta un possesso spirituale, che nulla può scuotere, che nessuna considerazione razionale può abolire”.11 Per Zenone la physis, per quanto forza materiale legata cioè alla materia, “è un principio spirituale che plasma conformemente a ragione la materia. La physis non è altro che il logos, il quale è pertinente all‟essere in modo necessario e in eterno quanto la materia”, e in questo senso esso è divino.12 Il sostrato originario della materia, la hyle, costituisce il principio monistico della forza naturale unitaria, sul quale agiva il modo di determinarsi dell‟anima, che così produceva la varietà del molteplice. Per Platone del Timeo, il cosmo è un tutto unico in sé conchiuso. “Per Zenone, pregiudizialmente, la pluralità delle cose non poteva essere opera del caso, ma soltanto del logos, che è unito ab aeterno con la materia e le dà forma: la hyle in sé è priva di qualità [ma] cela in sé la possibilità di tutte le qualificazioni [che] scaturiscono da lei soltanto sotto l‟azione dei principio informatore”.13 “Era alla base della concezione stoica il sentimento che il mondo intero formi un cosmo unitario, compenetrato e plasmato fino nelle più piccole parti da una forza che agisce razionalmente, la divinità”14 Risale a Crisippo la teoria del pneuma “che non solo percorre, in diverso grado, tutto il mondo, ma stabilisce l‟essenza qualitativa delle cose individuali. Anzi, le proprietà delle cose non sono altro che correnti di pneuma, staccatesi, grazie alla forza informatrice del logos, dalla hyle. […] Le qualità non sono incorporee, non sono qualcosa che esista isolatamente di per sé [ma] esse sono sempre legate a un sostrato, sono pneumata corporei”.15 Ciò che per Platone era una partecipazione alle idee, per gli stoici era una commistione di qualità materiali.”Il cosmo è eterno se per esso intendiamo la sostanza del mondo; è nato ed è perituro in quanto diaksmesis, e cioè dispiegamento della sostanza nell‟attuale varietà di forme [che] nel corso dei tempi si è ripetuta infinite volte e infinite volte

Ivi, pag. 116. Ivi, pag. 127. 13 Ivi, pag. 135. 11 12

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Ivi, pag. 137.

Ivi, pag. 141.

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si ripeterà”.16 La necessità di una istanza superiore nasce dalla difficoltà dell‟uomo comune a sviluppare da sé la possibilità di sviluppare una coscienza razionale del mondo e dei relativi doveri morali (), per cui il logos universale non agisce su tutti gli uomini allo stesso modo. Ai fini di una conformità universale, che riguardi anche l‟uomo comune, occorre una legge morale conforme a ciò che prescrive il nomos razionale. “Dalla fusione della fede in una potenza superiore a cui sono sottoposte le azioni umane con l‟esperienza greca della physis è nato il concetto filosofico di dovere [kathekon, officium], che Zanone scoprì a vantaggio di tutta la civiltà occidentale”.17 L‟abbinamento del dovere morale alla condizione naturale, stabilisce un contesto normativo immanente a tutta l‟umanità indipendentemente dall‟appartenenza etnica o politica, e ciò presuppone una fondamentale uguaglianza universale tra gli uomini non coincidente con la loro condizione contingente, la quale diventa irrilevante ai fini della considerazione morale del comportamento umano. Questa universale condizione naturale costituisce, rispetto al piano della necessità storica in cui opera l‟uomo sociale, il piano morale della libertà, che pertanto viene a perdere i suoi connotati politici ed economici per assumere un‟accezione tutta spirituale che supera la dimensione nazionalistica del modello antropologico greco,18 nel senso che ne invera l‟istanza razionalistica su un piano meta-politico parallelo a quello politico. In altri termini, le virtù eudemonistiche propugnate dal modello filosofico classico vengono astratte dal contesto politico, che per i Greci era intrascendibile, ma non proiettate in una realtà ideale iperuranea, bensì rese soggettivamente operative in ossequio alle libere disposizioni morali dell‟uomo coscienzioso. E proprio il carattere soggettivo del valore morale consentiva di superare il problema della socializzazione della coscienza filosofica attraverso il Potere politico, che aveva impegnato Platone nel tentativo di rendere conforme al modello ideale la concreta realtà sociale. L‟immanentizzazione dei valori morali sul piano della coscienza soggettiva, non solo supera la caratterizzazione politica delle

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Ivi, pag. 149. Ivi, pagg. 272-273. Ivi, pag. 275.

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virtù etiche, ma predispone in termini teoretici la comprensione, e dunque anche l‟accoglimento, della consegna evangelica di distinguere la sfera del Potere da quella del valore morale. Se la convivenza sociale derivava in conseguenza della imperfezione umana, la possibilità dell‟uomo di giungere alla perfezione seguendo le indicazioni del logos doveva rendere inutile ogni costituzione politica, saggio è infatti colui che non ha bisogno di governarsi con le leggi. Ma in virtù del suo sapere, egli ha il dovere di rendere migliori gli altri, riformando la società nel realizzare l‟idea morale per mezzo dello Stato da lui governato.19 L‟idealismo platonico consisteva nel concepire gli archetipi ideali come modelli normativi universali di valore oggettivo, indipendente cioè dalla conoscenza che ne avesse l‟uomo. Il governo filosofico della società si rivolgeva dunque a coloro che non sapevano, e pertanto non sapevano neppure gestirsi. Se era solo un problema di cognizione del bene, il potere del sapere era nel saper stesso, e non nella sua forza politica. Ma di fronte alla resistenza dei pregiudizi irrazionali, l‟operato del filosofo doveva fare appello alla forza per imporre le verità oggettive, facendosi interprete della verità eterna delle Idee. La loro cognizione restava appannaggio dei pochi sapienti, ma l‟efficacia della vita razionale poteva essere socializzata, fruibile universalmente. Ciò voleva dire che l‟universalità del valore delle Idee era teoretico per i filosofi, e pratico per gli uomini comuni. Rispetto a questa prospettiva idealistica, lo stoicismo rimuove il problema dell‟universalizzazione dei valori morali attraverso la politica, facendo della coscienza soggettiva il luogo della loro realtà. Ciò comportava che la differenza qualitativa tra gli uomini virtuosi e gli altri inconsapevoli, rimaneva indipendentemente da ogni commistione pratica, ritenendo la qualità della vita un rapporto esistenziale del saggio col mondo, e non di natura politica. In altri termini, se l‟intento del filosofo platonico era di convertire la politica in senso morale, informandola a criteri razionali, il fine dello stoico era di formare l‟uomo singolo all‟interno dello spazio politico e indipendentemente da esso. La posizione stoica, assegnando all‟uomo singolo la ricerca della virtù eudemonistica, la affermava indipendentemente dalla politica, ma proprio perciò considerava l‟impegno politico funzionale alla testimonianza morale, assumendolo

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M. Pohlenz, L’uomo greco (1947), Firenze, 1967, pag. 440.

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non già come il fine della filosofia ma come uno dei tanti possibili nella vita particolare dell‟uomo storico. Con tale spirito Marco Aurelio resse le sorti dell‟Impero concependo “la dignità imperiale come il pesante fardello impostogli dalla provvidenza”.20 La prospettiva platonica viene rovesciata dallo stoicismo: non è più la buona politica il fine del filosofo, ma è la filosofia il fine del buon politico. La comunità naturale dell‟uomo non è più la polis retta da uno stesso nomos ma l‟umanità pervasa dallo stesso logos. Il fine eudemonistico platonico viene conseguito tramite lo Stato, mercé il Governo dei saggi, e dunque all‟interno el contesto politico: è un fine sociale. Per lo stoico, invece, la saggezza è il massimo bene, che consiste nella stessa  dell‟uomo, il quale preferibilmente da sé e soprattutto per sé deve conseguire la meta della emancipazione spirituale: è un fine personale. Ne consegue che, per la visione politicistica, il particolarismo individualistico rappresenta l‟ostacolo da neutralizzare attraverso l‟integrazione nella comunità, laddove per la visione stoica è al contrario la realtà esterna l‟ostacolo maggiore moralmente patogeno alla libertà spirituale. Mentre per Platone extra civitatem nulla salus, per gli stoici “la sola reale difesa contro tutte le affezioni ci è fornita dalla ferma opinione che fuori della sfera morale non esiste alcun bene e alcun male”. (Pohlenz, La stoa, pag. 306) Alla polis ideale platonica, gli stoici opponevano l‟ideale del saggio. L‟uomo saggio non era l‟edonista isolato dal mondo e incurante delle sue sorti, ma la fonte di una umanità sensibilizzata ai problemi morali dalla filosofia, che è lo strumento propedeutico alla saggezza, che è il dominio del logos. Per Zenone, come già per Eraclito, lo spirituale coincide col logos, che “costituisce la specifica „natura‟ sia dell‟uomo sia del cosmo, di cui l‟uomo è parte”.21 Tale omologia fa sì che tutti gli uomini siano vincolati da una legge di natura che li lega a uno stesso destino universale, a prescindere da ogni connotazione nazionalitaria.22 Il principio universale per i Greci è il Logos, senza il quale non c‟è vera natura umana, l‟uomo come esponente del modello antropologico ideale. E uomo si diventa attraverso la presa di coscienza della propria umanità,

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M. Pohlenz, L’uomo greco, tr. it. cit., pag. 459. M. Pohlenz, La stoa, tr. it. cit., pag. 321. Ivi, pag. 332.

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grazie all‟educazione alla sua “vera forma, alla vera umanità”,23 che è l‟immagine universale della specie, che era poi la proiezione idealistica dell‟homo graecus, che fungeva da ideal-tipo antropologico universale. Questo tipo d‟uomo realizza la sua forma universale nel contesto sociale in cui si sviluppa la sua esistenza organica, per cui il modello greco di umanità riguarda essenzialmente l‟ideale di ”uomo politico”.24 “Politico” in senso ideale greco non vuol dire esponente o rappresentante di interessi di parte ma amministratore del bene comune, e cioè non già governante degli interessi collettivi, ma degli ideali socialitari che identificano la comunità, ai quali veniva educata la gioventù. In tal senso, lo stesso logos è un concetto identitario, che non riveste la sola forma razionale, ma si esprime come valore oggettivo in ogni manifestazione spirituale, che nella letteratura trova la sua rappresentazione epica, poetica e drammaturgica, e che in sede dialettica emerge alla coscienza critica come  regolamentabile. Esso attraverso la filosofia venne giustificato razionalmente come valore universale, depositario del quale erano appunto i Greci, la cui  venne considerata rappresentativa dell‟intero genere umano in idea. La educazione tende pertanto a formare lo spirito umano in riferimento a un tipo sociale coerente al suo modello ideale, designato come Bello e Buono ( ). La consapevolezza di questa formazione spirituale dell‟uomo universale superiore alla massa è espressa nel termine di , cioè “cultura” in senso aristocratico ed elitario di “perfezione umana” (). Infatti, “la cultura altro non è se non la fisonomia, progressivamente spiritualizzata, dell‟aristocrazia di una nazione”,25 di cui “l‟areté è il vero predicato della nobiltà”.26 “Spiritualizzata” significa portata a modello razionale, a forma ideale oggettivata e astratta dalle sue origini socio-culturali aristocratiche e resa universalmente accessibile attraverso un percorso educativo di formazione spirituale. Un prodotto storico di umanità, razionalizzato come modello culturale ideale, diventa paradigma antropologico

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W. Jaeger, Paideia (1934-1944), tr. it. Milano, 2011, pag. 15. Ivi, pag. 18. Ivi, pag. 29. Ivi, pag. 33.

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universale. “Col sublimarli ad universalità filosofica, si toglie ai vecchi concetti la limitatezza di casta, confermandone in compenso più sicuramente la verità permanente e l‟indistruttibile idealità”.27 L‟originario modello etico-politico socratico di uomo universale fu metodizzato da Platone come processo di razionalizzazione di ogni fondamentale attività umana, rappresentata logicamente nella sua forma ideale, che è la concettualizzazione della sua areté aristocratica. “Il fattore educativo della nobiltà sta nel destare il sentimento dell‟obbligo verso l‟ideale”, cioè l‟. Contravvenire a questo obbligo aristocratico era la premessa per la perdita dei privilegi nobiliari (), la cui posizione “non si mantiene se non con le virtù mercé le quali fu conseguita”.28 La natura eroica dell‟uomo aristocratico è dunque inscindibilmente connessa al suo carattere virtuoso, riflesso nel pubblico riconoscimento dell‟areté individuale, coltivata non solo per tradizione esemplare ma sempre più per educazione culturale. L‟educazione divenne cultura quando la formazione della personalità dell‟uomo s‟ispirò a un modello aristocratico fisso,29 eternato dall‟arte. Solo l‟arte infatti “possiede ad un tempo quella universalità e quell‟evidenza vitale immediata che sono le due condizioni più importanti dell‟efficacia educativa. Mercé l‟accoppiamento di queste due sorta d‟efficacia spirituale essa supera tanto la vita reale quanto la riflessione filosofica”.30 Soprattutto dall‟epica omerica. “La tendenza idealizzante dell‟epos, dipendente dalla sua derivazione dall‟antico canto eroico, lo distingue da altre forme letterarie e gli assegna il suo posto privilegiato nella storia della cultura greca”.31 Soprattutto la tragedia “così nello spirito come nel contenuto mitico, è pienamente erede dell‟epos”, a cui deve “la sua dignità etico-educativa”. Se poi consideriamo che “anche le grandi forme prosastiche che agiscono da fattori educativi, come la storiografia e la trattazione filosofica, sono sorte direttamente dallo studio dell‟epos, può

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Ivi, pag. 44. Ivi, pag. 36. Ivi, pag. 60. Ivi, pag. 89. Ivi, pag. 97.

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dirsi che l‟epos è addirittura la radice di tutta la cultura superiore greca”.32 “I supremi limiti etici sono per Omero, come per i Greci in generale, leggi dell‟essere, non convinzioni d‟un mero dover essere”,33 per cui “la considerazione psicologica e la considerazione metafisica d‟un medesimo avvenimento non si escludono affatto”, anzi “l‟epos ne riceve una singolare duplicità d‟aspetto”, nel senso che “ogni azione” va riguardata “ad un tempo sotto il rispetto umano e divino”.34 I rapporti umani sono pregni della naturale intemperanza e debolezza di carattere che li espone alla quanto ad , mentre l‟eterno ordine divino presiede ogni mutamento accidentale, rendendolo armonico. L‟armonia nel mito non è altro che la condizione in cui versa l‟uomo consapevole dei suoi limiti, contrassegnati da  e da . Quando il cosmo mitico assume una forma razionale in Esiodo, “il mito”, pur mantenendo come in Omero un “uso paradigmatico”, tuttavia “è trasfigurato secondo la nuova idea speculativa del poeta”, assumendo il carattere rappresentativo di un contenuto ideale, “di una nuova norma di vita”, di cui il poeta è “creatore” intellettuale.35 Il concetto del limite ( ) invalicabile all‟uomo espresso da Esiodo è quello del Diritto, ossia del principio della giustizia di cui sono garanti gli dèi, il cui “governo del mondo non sarebbe veramente divino se non finisse per procurare vittoria al diritto”.36.] Già presente in Omero, con Esiodo questo principio prende un significato universale nuovo, informatore di una condizione umana da esso rinnovata, identificandosi alla stessa volontà di Zeus tramite “la creazione della nuova figura divina della Dike”.37 Il poeta infatti non distingue l‟ordine morale dal naturale, per lui provenienti entrambi dalla stessa fonte divina, sicché “tutto quanto l‟uomo fa, nelle sue relazioni col prossimo e con gli dèi come nel suo lavoro, è un‟unità profonda”.38

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Ivi, pag. 98. Ivi, pag. 110. Ivi, pag. 113. Ivi, pag. 139. Ivi, pag. 143. Ivi, pag. 144 Ivi, pag. 150.

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Il concetto di areté si allarga dunque in Esiodo comprendendo, accanto alle virtù eroiche dell‟etica aristocratica e cavalleresca, anche quelle della giusta dedizione al lavoro, “quale è concepita dal popolo”. E l‟aretè, andando a costituire la base di un‟etica filosofica, diventa il fondamento della responsabilità per cui l‟uomo deve riconoscere da sé il valore che guida la sua scelta giusta, che comprende anche la capacità all‟occorrenza di “seguire un altro, il quale rettamente lo ammaestri”.39 Lo stesso Aristotele nell‟Etica nicomachea cita la massima di Esiodo come “giusto principio () dell‟ammaestramento etico”, al quale fanno seguito le singole massime.40 La forma didascalica della poesia epica promuoveva il poeta al ruolo di “maestro del suo popolo”. “Col raccogliere Esiodo l‟eredità di Omero, l‟essenza dell‟attività poetica creatrice fu trasferita decisamente, per tutte le età susseguenti e ben oltre i limiti della poesia meramente didascalica, nel suo significato modellatore, socialmente costruttivo”,41] che fa leva non sulla nobile discendenza o su una posizione politica, ma sul proprio carisma morale e intellettuale, e pertanto “con Esiodo incomincia la supremazia dello spirito, che dà al mondo greco la sua impronta”, facendo del poeta un analogo del profeta israelita, che, in base alla sua superiore consapevolezza della verità del mondo, “vuol guidare gli uomini dall‟errore sulla retta via”.42 Il nomos non indicava una legislazione scritta ma una tradizione orale vigente, di cui solo le rhetrai erano scritte.43] La rhetra, stabilendo il giusto ordine, “limitava i diritti del popolo guerriero di fronte al potere dei re e del Consiglio degli anziani”,44 la cui autorità giudicativa nobiliare era stata stabilita con un canone (themis) da Zeus in persona,45 mentre il nomos indicava l‟educazione comune e tradizionale della comunità unita sotto una normativa di valore assoluto fondato su una base religiosa, la

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Ivi, pag. 147. Ivi, pag. 148. Ivi, pag. 153. Ivi, pag. 154. Ivi, pag. 166. Ivi, pag. 188. Ivi, pag. 201.

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divinità delfica.46 La patria con Tirteo acquista valore di luogo esistenziale di esercizio della areté e dimensione reale dell‟ideale, che rende politico il concetto omerico di virtù eroica47 per cui “lo Stato diviene compendio di tutte le cose umane e divine”.48 In seguito, la legislazione scritta divenne la determinazione oggettiva del nomos, valevole per tutti, e realizzante l‟ideale razionale di giustizia (dikaiosyne) quale “aretè in senso assoluto”, consistente nell‟obbedienza alle leggi dello Stato.49 In questo modo, l‟antica virtù guerriera di matrice aristocratica diventa “rigoroso dovere civico cui tutti i cittadini sottostanno ugualmente”.50 Con la costituzione statale, proietta nella dimensione naturale e antropologica dell‟ uomo la condizione giuridica razionale, assumendola come realtà universale. Anassimandro nel VI sec. trasferisce l‟ideale di giustizia, cioè “il concetto della dike nella natura e spiega il nesso causale del divenire e del perire delle cose come una contesa giudiziaria”, stabilendo “l‟origine dell‟idea filosofica del cosmo”, con la cui parola si designava in origine “l‟ordinamento giuridico dello Stato e d‟ogni comunità”. Conseguenza fu che “non solo nella vita umana, ma anche nella natura dell‟Esistente debba essere principio dominante l‟isonomia e non la pleonexia”, ponendo la politica e la legge al “centro d‟ogni pensiero, fondamento dell‟esistenza e vera fonte della sua fede nel senso del mondo”, ponendo in forte connessione “il sorgere della consapevolezza filosofica con le origini dello Stato secondo legge. Loro radice comune è il concetto universale che indaga ed interpreta il mondo e la vita nella loro conformazione essenziale”.51 La nuova condizione politica dell‟uomo gli conferisce l‟appartenenza a un ordinamento cosmico parallelo a quello sociale originario e privato (), il , che stabilisce la condizione comune

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Ivi, pag. 169. Ivi, pag. 183. Ivi, pag. 186. Ivi, pag. 205. Ivi, pag. 206. Ivi, pag. 214.

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().52 “La novità portata dalla politizzazione generale dell‟uomo, che finì per imporsi, fu l‟esigere da ciascuno che intervenisse attivamente nello Stato e nella vita pubblica e acquistasse coscienza dei propri doveri di cittadino, diversi affatto da quelli della sua sfera professionale privata”, universalizzando la qualità civile propria dell‟aristocrazia nobiliare.53 La legislazione diventa dunque lo strumento col quale il Potere stabilisce la condizione umana in senso razionale, fondando così imperativamente una seconda natura, la “natura razionale”, che rispetto alla originaria, rimuoveva ogni discriminazione sociale e personale, uniformando tutti all‟imperio della legge dello Stato. L‟ordine normativo così razionalmente stabilito, diventava per l‟uomo greco il cosmo politico, nel quale vigeva il principio di ragione come fondamento umanistico di socialità, sostitutivo del principio religioso di origine teologica. La filosofia, come voce del Logos, sostituiva la sapienza tradizionale, stabilita immutabilmente dagli dèi. L‟orizzonte dello Stato prese il posto dello spazio divino, riponendo nella forma giuridica la misura dell‟esistenza buona originariamente stabilita dai responsi religiosi.  equivaleva a vivere, “ché l‟una cosa e l‟altra facevano tutt‟uno”, e così la vita era per i Greci la . 54 .La vita politica, quale condizione reale dell‟esistenza umana, rappresentava la figura razionale dell‟uomo come “pubblica”, destinando la dimensione privata alla sfera dell‟irrazionale, pensata come irreale in quanto impolitica. Ciò comportava logicamente che fosse la funzione pubblica a stabilirne la natura razionale, e non il contrario, per cui la tensione esistenziale dell‟uomo socializzato era tutta interna al campo politico, essendo la condizione politica qualificante quella pubblica. L‟identità del pubblico col politico destinò l‟areté a una qualità morale inafferente alla condizione politica, che si determinava in un agone pubblico ben diverso da quello privato delle scuole filosofiche. Essendo la posizione politica a qualificare la funzione, la cultura divenne un orpello privato come era divenuta la religione e la vita pubblica vieppiù l‟agone dei demagoghi e dei sofisti.

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Dopo Esiodo e Tirteo, fu Solone il cantore attico delle virtù pubbliche, riprendendo da Esiodo il valore della giustizia, convinto che “il diritto ha il suo posto incrollabile nell‟ordinamento divino del mondo”.55 Ma la punizione non ha i caratteri profetici e fatali della fede religiosa esiodea ma nasce dalla consapevolezza politica che essa “si compie sempre in modo immanente mediante lo sconvolgimento dell‟organismo sociale cagionato da ogni violazione del diritto”,56 per cui “il nesso causale tra l‟offesa al diritto e il perturbamento del corso della vita sociale è espresso per la prima volta quale principio oggettivo di validità generale”.57 L‟arcaica teodicea omerica lascia il posto in Solone alla responsabilità umana circa la ingiusta condotta conseguente, non all‟arbitrio divino, ma all‟infrazione delle leggi. Nel cosmo politico dunque “impera un rigoroso ordinamento di giustizia, e gran parte delle sorti che l‟uomo omerico accettava passivamente dalla mano degli dèi, Solone è costretto ad addebitarle agli uomini stessi. Gli dèi, in questo caso, non sono che esecutori dell‟ordine morale, che è considerato addirittura identico col loro volere”. 58Ciò che si evidenzia dall‟oggettivazione del principio di giustizia contenuto nell‟ordinamento legale è che esso non coincide con l‟ordinamento stesso ma lo trascende e lo ispira assegnandogli un crisma di superiore legittimità morale, cioè la sua “misura” insuperabile per ragione e inviolabile all‟uomo, che Solone chiama “gnomosyne”,59 che l‟uomo di Stato deve considerare come imperscrittibile e l‟uomo saggio riconoscere come il sale e la forza delle leggi politiche. La poesia (Mythos) riguarda l‟Essere nella sua unità indistinta particolare, ossia l‟essere indeterminato coesistente con gli altri esseri particolari nell‟unità dell‟Essere. La critica razionale al Mito rielabora i suoi elementi costitutivi fino a distinguerli secondo la loro propria natura, classificandoli e ponendoli in rapporto. Ogni eccesso dell‟uno verrà riportato dal tempo nell‟ordine giusto. L‟idea di Solone era che “la Dike non dipende dalla giurisprudenza umana, terrena; Né viene dall‟esterno

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Ivi, pag. 265. Ivi, pag. 266. Ivi, pag. 267. Ivi, pag. 271. Ivi, pag. 281.

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quale intervento isolato d‟una giustizia punitiva divina, come immaginava l‟antica religione esiodea; è invece una compensazione che si attua in maniera immanente nel corso stesso dei fatti, che quindi giunge senza fallo”.60 Con Anassimandro, l‟ordine metafisico immanente alla realtà umana diventa ontologico e universale, costitutivo dell‟essenza del mondo, regolato alla stregua del kosmos sociale degli uomini. Tale essenza cosmica “conserva il proprio significato nell‟incessante, inevitabile divenire e trapassare” della vita.61 La trasposizione dell‟ordine giuridico in quello fisico universale è il portato della razionalizzazione dell‟indagine teoretica, che universalizza il principio giuridico d‟imputazione colposa () nel senso della causalità fisica.62 Il principio d‟ordine cosmico adombrato da Anassimandro in senso temporale, diventa in Pitagora l‟aspetto strutturale della “armonia” della normalità cosmica, basata sul rapporto matematico di proporzione delle parti col tutto, di evidenza geometrica, che l‟uomo deve tenere in considerazione e non può violare impunemente.63 La ricerca di una norma universale caratterizza la cultura greca del VI secolo. Essa tendeva a commisurare la molteplice realtà fenomenica a un parametro oggettivo, uniforme, eterno e universale che potesse riportare a sistema le contraddizioni dell‟esperienza concreta. L‟ordine ricercato dal pensiero doveva essere oggettivo e sistematico, non occasionale e transeunte, ossia non una opinabile  umana ma un inderogabile  sapienziale, compendiata dalla delfica sophrosyne, la misura apollinea. La rappresentazione orfica di tale misura eterna opposta alla caducità dell‟elemento terreno è l‟anima quale incorruttibile essenza divina nell‟uomo. Senza “il concetto orfico dell‟anima […] l‟idea filosofica platonica ed aristotelica della divinità dello spirito e la distinzione dell‟uomo meramente sensibile dal suo vero Io, che è sua missione perfezionare, sarebbe impensabile”.64

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Ivi, pag. 300. Ivi, pag. 301. Ivi, pag. 302. Ivi, pag. 309. Ivi, pag. 315.

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L‟ordine infine non è altro che un principio di corrispondenza universale, tale da stabilire la leggibilità del mondo, e quindi la prevedibilità dei fenomeni, già attribuiti a potenze divine. La razionalizzazione dell‟ordine cosmico conduce a rilevare la posizione della coscienza ordinatrice, ravvisata con Senofane nell‟eunomìa dell‟uomo quale artifex mundi. “Il cosmo della filosofia naturale, ripercorrendo a ritroso il cammino dello spirito, diviene ora il modello dell‟eunomia nella comunità sociale, e in esso trova fondamento metafisico l‟etica della polis”.65 Non a caso l‟individualità spirituale che si riflette nella poesia e nella filosofia, in campo politica si esprime nella tirannide.66 Il fondamento del pensiero logico è la necessità che guida il suo processo concettuale, il suo ordine intrinseco. Questa scoperta si deve a Parmenide,67 il quale contesta la derivazione dell‟Essere dal non-Essere in quanto questo è inconoscibile. Infatti, contro i pensatori naturalisti che affidandosi ai sensi credono reali il divenire e il perire delle cose, egli sostiene che “alla vera conoscenza deve corrispondere un oggetto”, poiché “pensare ed essere sono la stessa cosa” 68 intendendo per Essere “il non-divenuto, quindi immortale, intero ed unico, incrollabile, eterno onnipresente, uno, continuo, indivisibile, uniforme, in sé illuminato e chiuso”.69 L‟Essere naturalistico di Parmenide diventa essenza spirituale in Eraclito. “Il Logos eracliteo è lo spirito quale organo di senso cosmico”, atto a individuare la legge analoga a quella che regna nella polis.70 La preoccupazione filosofica è di trovare all‟uomo un posto stabile nel cosmo divino, perché egli se ne senta coscientemente partecipe. Con l‟avvento dello Stato politico, l‟etica aristocratica di origine sociale viene soppiantata dall‟etica pubblica valevo erga omnes per virtù di ragione, e non di tradizione. Una norma razionale che valga per tutti eliminava in radice il problema della formazione morale per ceto, e inseriva per tutti i

65

66 67 68 69 70

Ivi, pag. 320. Ivi, pag. 410. Ivi, pag. 327. Ivi, pag. 328. Ivi, pag. 329. Ivi, pag. 337.

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cittadini l‟esigenza della conformità alla legge come criterio di giustizia. La normativa legale riduce a educazione di casta ciò che era stata sino ad allora la formazione morale per eccellenza dell‟uomo aristocratico come modello valoriale comune. Interviene in sede politica ciò che opera in sede teoretica, ossia la oggettivazione dei valori tradizionali in termini di rappresentazione storico-sociale. L‟adozione del criterio razionale di giudizio, riportando il valore dell‟etica sociale tradizionale al parametro universale, ne svaluta la portata estensiva, storicamente inconseguibile proprio in virtù della sua qualità minoritaria, opponendo alla sua concretezza l‟astratta considerazione del suo carattere elitario e appunto non universale, e pertanto ciò che costituiva titolo di merito elettivo, diventò motivo sociologico di limitatezza. Questa inversione del rapporto qualità/estensione a favore della estensibilità del modello educativo, provocò una ridefinizione antropologica delle gerarchie sociali a tutto discapita dei settori aristocratici, accusati dai suoi detrattori per il loro elitismo di parzialità e angustia intellettuale. La cognizione razionalista dei rapporti sociali distingue la qualità ideale delle virtù aristocratiche dai rapporti sociali, esaltando eventualmente la prima se fruibile universalmente, e stigmatizzando le condizioni reali che la resero storicamente possibile. Questo astratto criterio di valutazione sociologica, per il suo carattere meramente ideologico, ha finito per perdere il senso stesso della organicità morale della tradizione socioculturale, facendo dei processi intellettuali una fenomenologia separata dalle condizioni esistenziali dei protagonisti, e viceversa dei fenomeni sociali dei puri rapporti economici, legate a mere dinamiche di dominio. La perdita della visione d‟insieme dei processi storici provoca di riflesso l‟assolutizzazione propria della visione ideologica, che scambia il criterio di razionalità universale con lo stesso criterio di realtà, cioè di razionalità immanente ai processi storici stessi, i quali, a cospetto del criterio universale, diventano assurdi e contraddittori sol perché definiti per tempo e condizioni, ossia per essere fenomeni concreti. L‟istanza di una armonia universale, astratta dalle sue determinazioni storiche concrete, sposta i termini della legittimazione razionale necessariamente verso orizzonti sempre più ampi, che dall‟esperienza singolare dell‟uomo si allargano a quella sociale e politica e nazionale e mondiale, fino a quella celeste, secondo un moto concentrico progressivo che, inseguendo una mera coerenza di connessioni logiche, perde vieppiù di vista la stessa conoscenza dei dati reali. Tale istanza universalistica, non trovando

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rispondenza soddisfacente nei riscontri storici concreti, si proietta nei termini di una utopia socio-politica avveniristica, che pone a modello di realtà l‟armonia di una condizione ideale inesistente e condenda, a edificazione della quale chiama a raccolta gli animi migliori di chi sia in grado d‟intenderne il valore. L‟esito paradossale cui giunge l‟idealismo razionalistico è dunque, a partire da Platone, la riscoperta del Mito in funzione paradigmatica e didascalica delle rappresentazioni delle sue utopie sociologico-politiche. La natura del Mito della cultura tradizionale greca è religiosa, intrisa cioè di valori trascendenti, che trovano negli dèi olimpici la fonte di legittimazione dei valori patrii, vissuti però come valori immanenti. Il Mito idealistico invece è puramente razionalistico, proiettivo di un desideratum frutto di una esigenza precipuamente intellettuale, che capovolge i termini di realtà dalla fattualità storica alla plausibilità razionale. Nel senso che la perfezione del modello aristocratico è realmente storico, mentre quello razionalistico è un modello ideale condendo. Ciò traspone il sentimento dell‟armonia cosmica del pensiero mitico-aristocratico dal piano dell‟esperienza culturale a quello dell‟esperienza interiore, facendo di questa la fonte della coscienza collettiva. L‟importanza del fattore politico nella dimensione razionalistica consegue al bisogno di trasporre sul piano del collettivo la singolare ricerca dell‟armonia della coscienza intellettuale, assumendola non già come esprienza altra da quella comune ma bensì come la più avanzata del modello comune universale. Non a caso l‟etica aristocratica suppone una gerarchia antropologica, confermata dall‟esperienza storica di ogni forma di civiltà, mentre l‟etica razionalistica è antropologicamente egalitaria, sempre smentita dalla esperienza storica. Il travaglio della filosofia politica è dunque quello di costruire un cosmo razionale dove l‟individuo superi le differenze singolari legate alla sua libertà e varietà di coscienza, per assomigliare solo all‟esponente della specie virtuosa, secondo un principio di omologazione culturale al modello ideale simile a quello biologico delle altre specie viventi, dalla cui fisiologia era partita per analogia l‟analisi razionale dell‟uomo. Anche questo esito filosofico è paradossale, e come tale di per sé confutativo di ogni pretesa realistica di poter sostituire il Governo divino del mondo con il Potere politico della ragione, e sempre più la maturata coscienza morale dell‟uomo prenderà a considerare tale pretesa come una fabula che per tempo illuse e che lungamente segnò la civiltà umana fino agli esiti

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estremi dell‟inumano totalitarismo ideologico, che volendo liberare l‟uomo cercò di annientarlo. Se il poeta-vate riesce a rendere l‟armonia regnante al mondo delle sue fulgide rappresentazioni eroiche, il filosofo disegna sempre la tragedia dell‟esistenza umana, dimidiata da una coscienza non può armonica con l‟esperienza comune e in cerca di una riconquistata serenità. Cambia il sentimento di giustizia. Per il cantore eroico Pindaro il “fiore della giustizia” è “lodare l‟eletto”, (380) esempio vivente della virtù divina, non già l‟uomo nuovo del modello razionale vagheggiato dal filosofico “creatore d‟ideali”. La forza educativa delle odi pindariche nasce dalla “compenetrazione della realtà contemporanea con l‟elemento mitico [che] si dimostra dappertutto forza idealizzatrice e trasformatrice unica nel suo genere”. Infatti, “il poeta vive e si muove interamente in un mondo in cui il mito è più reale d‟ogni altra cosa”.71 La sua sophia è innata e superiore a quella dell‟uomo comune, e dunque esoterica e di natura immortale, sicché egli guida la coscienza comune e quella dei semplici indottrinati () verso un retto esito, qualunque sia il regime politico contingente.72 Ciò che infatti conta per il sapiente è la moderazione, ossia l‟uso del giusto mezzo negli affari umani, liberati dall‟anarchia dei facinorosi e dal sopruso della tirannide. Come ricorda Platone ai Siracusani, “la servitù e la libertà immoderate sono entrambe un gran male; moderate un gran bene. Moderata è la servitù al dio, immoderata la servitù agli uomini: e un dio è per gli uomini saggi la legge, per i dissennati il piacere”.73 Sapienza e moderazione sono i termini virtuosi coi quali comprendere la virtù della temperanza dei varii e distinti momenti spirituali entro la completezza dell‟unitaria esistenza umana. La rappresentazione di tale unità, dopo l‟esperienza epica, è propria della tragedia, la quale appunto “è la più alta manifestazione di un‟umanità per la quale arte, religione e filosofia costituiscono ancora un‟unità inscindibile”,74 che si rispecchia nella coscienza pubblica. “Mai, infatti, presso i contemporanei, né il

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W. Jaeger, Paideia, tr. it. cit., pag. 393. Ivi, pag. 396. Platone, Lett. VIII, 354e-355a. W. Jaeger, Paideia, tr. it. cit., pag. 432.

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carattere né l‟efficacia della tragedia furono sentiti come meramente artistici”, ma anzi ritenuta “responsabile dello spirito della collettività”, essendo l‟ufficio dei poeti non meno importante per la vita dello Stato di quello dei capi politici75. Ciò era legato al presupposto che l‟intuizione poetica che era al fondo della rappresentazione tragica inerisse la realtà dell‟Essere nella sua totalità, di cui la prosodia attica non era che la manifestazione intensamente simbolica. In essa l‟attenzione non era distratta dalla narrazione avvenimenziale, come nella rappresentazione epica, (“l‟epos aveva narrato la leggenda per se stessa”76 ma si concentrava su eventi simbolici grandemente suggestivi, nei quali si compendiava il senso, manifesto e recondito, della vita umana per gestas. Il senso essenziale della tragedia è costituito dal richiamo al significato simbolico delle gesta eroiche o divine, le quali non rimangono più, come in Omero, risolte nell‟immanenza del loro valore estetico, ma lo trascendono riportandosi al loro significato recondito, meta-sensibile ed emotivamente religioso, il cui travaglio catartico consegue alla empatia () e alla riprovazione () del sentimento verso il destino dei personaggi, agiti da potenze superne.77 In tal senso, “solo il dramma fa dell‟idea del destino umano e del suo corso, con la sua ascesa e il suo declino necessari, con peripezia e catastrofe, il proprio principio informatore, cui deve la propria salda struttura”.78 Il culmine di tale processo umanistico è rappresentato dall‟opera di Sofocle, i cui personaggi costituiscono la massima oggettivazione della formazione dell‟uomo universale greco, cioè dell‟uomo greco come idealmente universale.79 L‟equilibrio morale tra esistenza e mondo, sentimento e ragione, è dato dalla coscienza della “misura” (sophrosyne), la cui assenza è “radice di ogni male”, mentre la sua consapevole affermazione costituisce l‟armonia religiosa della vita.80 La ricerca della definizione ideale di una norma di vita armonica, che stabilisce i termini

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Ivi, pag. 433. Ivi, pag. 445. Ivi, pag. 447. Ivi, pag. 445. Ivi, pag. 476. Ivi, pag. 481.

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razionale di ciò che l‟uomo debba essere, inaugura l‟età della sofistica, con la sua istanza pedagogica di formare l‟uomo nel senso dell‟areté.81 Il centro dell‟uomo, e dunque di ogni virtù spirituale, è la psyché, dalla quale “irraggia ogni sua azione e contegno”. A essa presiede una armonia parallela a quella fisica del corpo scoperta dalla medicina e sviluppata dalla teoria cosmica della filosofia, che Platone chiamerà “conformazione dell‟anima” ()82e che prelude alla concezione della “umanità” quale “vero essere dell‟uomo”.83 Nella prospettiva umanistica in cui si pone la tragedia sofoclea, il singolo compendia ciò che in Eschilo si dipana tra personaggio umano e fatalità divina, assumendo sulla vicenda il valore simbolico attribuito prima al caso. Ciò consente ai protagonisti una maggiore attività e risolutezza, tale che il destino “è in qualche modo essenzialmente legato alla figura dell‟essere umano che soffre, non gli è soltanto imposto al di fuori”.84 Ora è il destino che gioca la parte infausta rispetto alla razionalità della visione umanistica, spostando l‟accento vitale dalla prevalenza delle ragioni cosmiche a quelle dei desideri umani, ossia delle ragioni soggettive. Avendo l‟uomo delle ragioni plausibili, gli è difficile piegarsi al volere divino o naturale, per cui è la stessa sua consapevolezza la radice del dolore tragico, sicché “soltanto nel dolore, anzi persino nell‟annientamento totale della sua felicità terrena, il personaggio tragico, in Sofocle, si eleva a vera grandezza umana”.85 La tragedia della vita consiste dunque nel contrasto, portato a coscienza, tra le ragioni del destino e quelle dell‟uomo, segnato dalla sua consapevole libertà di voler esserne al di fuori e ragione a se stesso. Ciò che era motivo individuale dell‟uomo aristocratico e teoretico, attraverso la rappresentazione ideale, divenne forma idealtipica da costituire universalmente attraverso l‟educazione (paideia) socio-politica e artistica, “avente per fine l‟uomo della polis”. L‟originaria coscienza

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Ivi, pag. 483. Ivi, pag. 484. Ivi, pag. 486. Ivi, pag. 487. Ivi, pag. 490.

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aristocratica diviene paradigma formativo “d‟ogni cittadino nato libero, di stirpe ateniese”, educato a diventare “un membro consapevole della comunità statale in grado di servire il bene comune”.86 Questo intento pedagogico-politico trasformava una condizione storica, pervenuta a immagine di sé nel corso dei secoli della civilizzazione aristocratica locale, in una condizione ideale, universalmente fruibile attraverso lo strumento educativo, ossia la formazione morale dell‟uomo. Ma tale possibilità era legata al presupposto di una natura umana comune, sulla quale avrebbe inciso una formazione originariamente destinata a pochi. Nondimeno, se “lo scopo prefisso era il superamento del privilegio educativo dell‟antica nobiltà, che riteneva l‟aretè accessibile a coloro soltanto che l‟hanno nel loro sangue divino”,87 ciò che veniva “superato” era il processo storico-culturale che l‟aveva consentito, sul quale l‟educazione politica andava a incidere in maniera dissacratoria ed eversiva nel momento stesso in cui se ne assumevano i prodotti valoriali. La contraddizione era palese. Ciò che aveva portato alla formazione dei valori da proporre universalmente, ossia l‟etica aristocratica, era ritenuto emendabile, mentre il loro prodotto storico veniva assunto nella sua oggettività ideale come paradigmatico. In questa dinamica ideologica viene compresa tutta l‟aporia dell‟idealismo greco, modello teoreticopolitico del razionalismo moderno, che rimuove la storia a favore dell‟ideale. il dramma del‟idealismo consiste nel dover combattere sia contro il processo storico passato che le spontanee determinazioni storiche del presente, cercando perciò di garantire con la sola forza politica il modello astratto propugnato come universale, ma la cui necessità era circoscritta alla sola consequezialità logica legata all‟affermazione, del tutto contingente e non necessaria, ossia volontaria, dei suoi presupposti. E pertanto, poiché la volontà umana veniva a prendere il posto dell‟antica fede religiosa nella necessità divina del corso delle cose umane, la stessa civiltà razionalistica greca veniva affermandosi come un immane atto di superbia (hybris) antropologica verso l‟eterno ordinamento fisico del cosmo. Ogni cittadino,al di fuori di ogni tradizione, poteva pervenire per via tecnica agli stessi risultati di civiltà ai quali la élite aristocratica era pervenuta storicamente in lunghe 86 87

Ivi, pag. 497. Ibidem.

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generazioni. Questa illusione idealistica mise in movimento una schiera di demagoghi intellettualoidi che si proponevano di ammaestrare a pagamento quanti volessero pervenire alla virtù per via dottrinaria: i sofisti. Questa “classe di educatori, la quale si offre pubblicamente d‟insegnare per danaro la virtù”,88] non poteva far sorgere in chi non ne fosse dotato “le doti capotali dell‟uomo di Sato”, ma almeno sviluppare la “parola pronta e persuasiva”,89 ossia l‟arte retorica () così preziosa in ogni democrazia. La sofistica fu la tecnica propria del linguaggio politicamente fruibile, cioè una economia del logos. Anche la lingua doveva perdere la sua libertà creativa per diventare strumento intellettuale di comoda comunicazione sociale. Le virtù dianoetiche () venivano astratte dal loro contesto privato moralmente aristocratico e socializzate, cioè oggettivate in forma razionale. Il formalismo è il tratto pedagogico più saliente del metodo sofistico, contrapposto all‟enciclopedismo dottrinale. La politica, svuotata di ogni contenuto etico, diventò al tempo di Pericle un agone di mediazione di interessi e di ambizioni pubbliche, per cui “la sistemazione razionale dell‟educazione politica non è che un caso particolare di quella della vita intera, più che mai orientata verso l‟efficienza e il successo”.90 Il “successo” non è che il conseguimento di scopi sociali razionalmente concepiti. Ma non scopi eudemonistici generali, bensì la proiezione di desideri personali, spesso privi di ogni lungimiranza e avvedutezza politica, come mostrerà appunto Socrate nel Gorgia. L‟idealismo platonico correggerà il formalismo sofistico nei termini di una sistematica corrispondenza tra logos individuale, soggetto ad errore in quanto circoscritto a scopi pratici,91 e Logos universale o teoretico, filosoficamente impersonale e comune a ogni retto pensiero non distratto da scopi contingenti. Il contrasto che sorse con Socrate fu tra la coscienza politica, tesa al solo scopo del proficuo inserimento sociale del singolo

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Ivi, pag. 502. Ivi, pag. 501. Ivi, pag. 503. Ivi, pag. 509.

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cittadino intraprendente, e la coscienza morale, che non perdeva di vista la condizione generale dell‟uomo universale. Mentre Socrate non superò la dimensione politica della ragione propugnando un‟etica razionale, Platone per conservare quella dimensione politica alla ragione universale dovette pensarla come afferente a uno Stato anch‟esso universale, ideale, fatto a misura non dell‟uomo storico ma del suo modello filosofico. A cospetto di tale modello ideale d‟uomo, la rappresentazione che ne diede la tragedia e l‟epica ancor prima non poteva non apparire irrealistico, non in quanto astratto e fantasioso, ma proprio in quanto concretamente esperibile nell‟universo sociale aristocratico, storicamente però non più attuale e consegnato irrimediabilmente a un passato lontano rispetto al profilo sociale della polis democratica, la cui esigenza primaria fu quella di rendere partecipi i cittadini della nuova realtà comune sancita dalla isonomia. Non a caso i sofisti si rifecero alla poesia parenetica ai loro fini pedagogici, presentando se stessi come i razionalizzatori di una missione educativa adombrata e non portata a perfezione efficace dai poeti. Lo stesso “pregio d‟ammaestramento eroico” ravvisato nei capolavori epici e tragici venne dai sofisti “inteso in maniera tangibilmente utilitaria”.92 Se vi è una “tecnica politica”, essa è quella sofistica. Nell‟Ippia Minore viene resa plasticamente l‟insofferenza provata dal sofista di fronte alla consequenzialità logica di Socrate, il cui ragionamento, passando dal piano della realtà empirica a quello precipuamente logico, abbandona il finalismo pratico per conseguirne uno tutto teoretico, dove la coerenza formale prevale sulla destinazione d‟uso della parola funzionale allo scopo occasionale, che è quello di portare il pubblico sulle proprie posizioni, retoricamente asserite come le più vere e le più giuste. A fronte della tecnica dei lavori manuali, quella politica inerente agli affari di Stato coinvolge il sapere dell‟uomo in quanto essere razionale e sociale, per cui l‟educazione culturale umanistica in senso pieno e pregnante ha per tema la vita dello Stato.93 La realtà statuale, in quanto ambito di manifestazione delle relazioni complessive umane, costituiva quel mondo artificiale in cui l‟opera umana fungeva da protagonista, e di cui la sistemazione razionale ne garantiva la sussistenza e il perfezionamento morale attraverso la consapevole attività politica. 92 93

Ivi, pag. 511. Ivi, pag. 517.

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Proprio l‟esigenza di dare armonia razionale, e dunque controllabile prevedibilità alle azioni umane, al cosmo politico, questo doveva essere garantito da forme istituzionali giuridicamente certe e di massima fruibilità comune, a esclusione dunque di ogni allotria e fortuita ingerenza che ne potesse minare l‟ordine stabilito. Da qui la necessaria presa di distanza dalla tradizione teologica e aristocratica arcaica a favore del nomos legale opera dell‟umano diritto, fondato sulla physis dell‟uomo. “L‟educazione, che ha sempre bisogno di muovere da una norma, ora che i contenuti normativi correnti sfuggono tra le dita agli uomini”, a seguito della crisi dei valori tradizionali, “si aggrappa alla forma dell‟uomo, si fa formale”.94 Il formalismo intellettualistico consente una pedagogia culturale dai contenuti dottrinali di natura pubblicistica, impartita però secondo le private esigenze dei suoi fruitori. “Al posto del sangue divino subentra ora il concetto generalmente inteso della natura dell‟uomo in tutta la sua accidentalità e molteplicità di significati individuali, ma col suo ambito di gran lunga più vasto”.95 Il concetto di “natura umana” viene trasferito dal mondo naturale a quello individuale, caratterizzando il complesso normativo della concreta realtà dell‟uomo quale “organismo corporeo” animato da una interna disposizione spirituale che va educata culturalmente per la sua benigna destinazione sociale.96 Infatti la comunità sociale è possibile sul presupposto della educabilità dei suoi membri, essendo “la virtù civile il fondamento degli Stati”.97 Se questi non se ne occupano, come invece avviene a Sparta, ecco che i sofisti si prestano a colmare la lacuna educativa, “offrendo in seguito ad accordi privati la propria opera educativa”.98 L‟educazione, che aveva il fine di socializzare al meglio il cittadino, doveva agire sulla sua natura per migliorarne le doti originarie e arginarne le devianze, ricercando in ogni uomo l‟armonia attraverso “l‟applicazione suprema della legge generale dell‟affinamento e miglioramento della natura mercé l‟attività

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Ivi, pag. 519. Ivi, pag. 525. Ivi, pag. 526. Ivi, pag. 529. Ivi, pag. 530.

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consapevole dello spirito umano”.99 La formazione spirituale dell‟uomo veniva costituendosi attraverso l‟uso sapiente della parola come grammatica, retorica e dialettica, la cui rispettiva techne era l‟espressione metodica della lingua, del discorso e del pensiero.100 L‟educazione intellettuale divenne una questione politica nei termini in cui smise di essere l‟occupazione rara di solitari pensatori privati per acquisire un valore civico funzionale alla formazione di ogni cittadino impegnato nella vita pubblica. Infatti, “le cose cambiarono nel momento in cui tale sapere accampò la pretesa d‟essere la cultura vera e „superiore‟ e di prendere il posto dell‟educazione usata sino allora o di sopravanzarla”.101 In gioco era, con l‟indirizzo educativo dei giovani, la concezione stessa della vita civile come ricerca teoretica ovvero come esperienza vissuta. Il problema non si sarebbe posto se ogni indirizzo pedagogico avesse conservato una sua tradizione sociale, anziché essere proposto come paradigma universale, sia pure circoscritto ai ceti dirigenti. Ma esattamente la trasversalità della formazione civile induceva una sovrapposizione tra criterio pedagogico della trasmissione metodica del sapere, e criterio tradizionale della formazione culturale radicata nell‟ambiente sociale di cui era espressione storica. Il razionalismo sofistica è appunto la trascrizione in termini formali di ciò che la cultura era per tradizione modello aristocratico. L‟universalizzazione di tale modello comportava, nondimeno, per la sua astratta fruizione, una sorta di scolarizzazione perenne dell‟apprendimento, non più circoscritto al periodo formativo del fanciullo, che alterava la concezione della vita aristocratica, dedita appunto alla guida politica e al senso pratico delle relazioni sociali. Una formazione intellettuale conforme e comune, avrebbe annullato ogni distinzione di ceto e di cultura, trasferendo allo Stato il compito educativo prima di appannaggio del proprio ambiente sociale. Era un modo surrettizio di esautorare la funzione dirigente della tradizionale aristocrazia, omologando la figura del cittadino uguale di fronte alla legge

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Ivi, pagg. 536-537. Ivi, pag. 538.

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Ivi, pag. 544.

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e nella società, assegnando allo Stato la funzione di educatore civile. 102Di conseguenza, anche il concetto di giustizia cambia in relazione all‟uniformità dell‟educazione formativa dell‟uomo, mirante alla sua omogenea costituzione civile, andando a significare non più la giusta differenza tra gli uomini ma bensì la giusta uguaglianza tra i cittadini. Non più la società, ma lo Stato diventa la casa comune e il luogo ideale di costituzione educativa dell‟essere umano. Il principio democratico presuppone l‟isonomia, cioè l‟eguaglianza giuridica, e l‟eguaglianza politica, ossia quella morale, di tutti i cittadini, e quindi una techne in grado di produrre tale eguagliamento innaturale a anti-storico, che era possibile realizzare solo attraverso la forza politica dello Stato. La democrazia non è altro che questa sostituzione dello Stato alla società, cioè della forza del Potere politico alla condizione reale prodotta dall‟esperienza storica dell‟umanità. Il principio del Potere politico è l‟eguaglianza formale di tutti i cittadini garantita dal loro stato civile, per cui essi sono uguali sotto il dominio della forza pubblica che stabilisce e garantisce l‟eguaglianza. Il principio del Governo della aristocrazia sociale si legittima sulla differenza tra gli uomini come dato originario dell‟essere umano in quanto essere spirituale, per cui il Governo si esercita in relazione al libero riconoscimento sociale della sua autorità morale tradizionale. Mentre la democrazia subisce l‟uguaglianza politica tra i cittadini creata artificialmente dallo Stato di diritto, il regime aristocratico è riconosciuto dalla comunità umana come il portato storico delle relazioni sociali. Il Potere è principio d‟ordine politico, che si impone con la forza, mentre il Governo sociale è fondamento d‟ordine morale, a cui si crede per convinzione. La ipotesi di una costituzione dello Stato come organismo di Potere morale è intrinsecamente contraddittoria, quanto la Ragione comune e la Giustizia individuale, poiché il Potere per vigere presuppone l‟uguaglianza dei sudditi, laddove l‟autorità morale è tale perché si esercita sul carattere singolare dell‟uomo. L‟universalità del Potere politico è la singolarità del Governo morale. Il Potere dello Stato, valevole erga omnes, era prevedibilmente uniforme e accertabile, mentre il Governo, per rivolgersi agli innumeri casi

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Ivi, pag. 548.

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imponderabili dell‟esperienza umana, restava misterioso e imprevedibile, e perciò ritenuto affare divino. Identificata la condizione divina con quella naturale, bastava applicare le leggi della natura alla vita umana per avere l‟armonia ricercata, facendo così del cosmo politico il riflesso di quello universale. Ma il proprio della natura umana è la sua irriducibilità alla dimensione naturalistica della specie, alla quale invece si appella ideologicamente la politica per definire il suo ordine giuridico egalitario. La “forza” della Natura è nella sua regolarità basata sul dominio fisico: il più forte domina sui deboli. La “forza” morale si basa invece su criteri spirituali, che presuppongono la rimozione degli elementi naturalistici. Se si potesse sostituire una aristocrazia storica semplicemente offrendo a elementi plebei lo stesso tenore di vita aristocratico, la differenza tra i ceti sociali sarebbe ridotta ai dati economici, per cui basterebbe che uno scribacchino avesse a disposizione risme di carta pregiata e penne d‟oro per farne un grande scrittore. E tale illusione colse gli ideologi razionalisti dello Stato ideale, costituito da cittadini trans-formati in modelli ideali da leggi razionali. Platone, come si evince dal Gorgia, intende contrapporre al principio aristocratico della forza sociale come dato naturale, il principio della forza morale del sapere come dato razionale, cercando di farli idealmente coincidere. Il tentativo risulterà vano perché logicamente impossibile assumere un valore positivo, cioè storico, come universale, e viceversa come storicamente reale un mero dato di ragione universale. Universale infatti è proprio ciò che non è storicamente reale, ossia determinato positivamente nell‟esperienza concreta, e pertanto solo negativamente si può asserire la esistenza di un valore universale. Di contro, ogni realtà positiva, ossia concreta e non meramente razionale, è determinata in termini storicamente reali, e dunque umanamente esclusivi e punto universali. Ciò che il concetto universale nega è la concretezza della differenza presente nella realtà effettuale, che viene esclusa dalla considerazione razionale come accidentale e contingente. Ciò che invece il giudizio storico nega dalla sua cognizione reale è l‟universalità del dato di ragione, ritenendolo astratto di ogni determinazione concretamente contingente. L‟ipotesi di far coincidere i contrari essenziali assumendoli come opposti logici, dialettizzando l‟universale e il singolare, si regge sulla asserita possibilità di definire l‟uomo come ente di natura, privandolo di ogni connotazione spirituale, ritenuta ideologica e non originaria. Ma tale definizione razionale, non essendo reale, si infrange contro l‟esperienza e la natura eterna dell‟uomo, provocando, se applicata

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con la forza politica nella vita sociale, la inevitabile rovina sia della società che dello Stato. L‟errore di Callicle, nel Gorgia platonico, è speculare a quello idealistico impersonato da Socrate. Questi infatti intende affermare la coincidenza razionalistica del vero (universale) con il giusto (sociale), mentre Callicle vuole identificare la superiorità sociale dell‟aristocrazia come legge naturale del più forte, non rendendosi conto che proprio l‟identificazione della supremazia sociale con la forza poteva alterare gli equilibri sociali a favore di una forza maggiore a quella aristocratica tradizionale. Senza la considerazione dell‟elemento morale ultroneo, riportare ogni differenza sociale al parametro della forza legittimava il potere democratico maggioritario su quello minoritario degli ottimati. E difatti il potere oligarchico assunto nel 403 dopo la sconfitta di Atene a opera di Sparta, non durò a lungo, allo stesso modo di come non dura un qualunque regime formalmente democratico, basato sul pregiudizio che una maggioranza di opinioni errate equivalga a una deliberazione veritiera. Ma l‟adozione della quantità a misura della qualità presuppone l‟equivalenza degli elementi contabili, ma l‟equazione razionale non è equivalenza reale. Socrate infatti non spiegava come potesse la verità trasformarsi in Potere, privo della cognizione cristiana della “impotenza della verità”. Non solo la legge giuridica, ma anche quella della ragione “è un limite artificiale, una convenzione dei deboli organizzati per incatenare i loro signori”.103 Ma è errato considerare questi signori come “naturali”, in quanto l‟ascendente signorile non è un elemento di natura ma di cultura. Infatti il signore sociale può essersi imposto con l‟uso delle armi, ma l‟uso appropriato stesso è un elemento culturale, e nessuna signoria durerebbe senza il riconoscimento sociale del suo valore. Come non basta la potenza delle armi a costituire un buon governo, non basta la preminenza dialettica a fare di un retore uno statista. Platone ricorre infine alla politica per affermare la verità dei filosofi, segno che la qualità non può convertirsi in quantità, cioè in forza sociale, senza che la verità (filosofica) si converta in (filosofia) politica. Ma esattamente questa metabasi consente ai sofisti la pretesa di fare la parte di maestri politici, e ai filosofi quella di consiglieri del principe, che secondo Schmitt

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Ivi, pag. 555

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affollavano “il corridoio della sua anima”, e di cui nessun potere ne è privo.104 L‟etica pubblica greca era identificata con lo spazio politico, per cui l‟unica morale era quella di Stato, ossia l‟etica che legittimava razionalmente la politica. Ma la legittimazione razionale della condotta politica e della statuizione normativa del diritto occupò il posto della morale religiosa tradizionale in quanto la coscienza richiese che i criteri della normazione fossero appunto razionali, cioè di valore universale. Adottando il criterio razionalistico, fu possibile allo Stato di asserirlo e di difenderlo in quanto universale, e come tale indicato come naturale e inerente al retto reggimento di ogni Stato e di ogni consorzio umano. Rispetto ad esso, pertanto, si commisurò la qualità della legislazione storica dello Stato, ossia la stessa legittimità del Potere.105 Sorse l‟idea egalitaria dell‟uomo naturale guidato da leggi universali, sovrapposto al particolare uomo storico, regolamentato da legislazioni locali. Solo la norma universale di natura può essere vera.106 Le antinomie, cioè i  in contrasto, sono per Protagora le “tragedia dello spirito”, diviso tra l‟esperienza materiale comune () e la conoscenza (), di cui si può dare dimostrazione. Solo quest‟ultima è universalmente valida (), in quanto di essa si può dare ragione, ossia dimostrazione logica, laddove la prima si basa solo su argomenti soggettivi, privi di universalità e meramente contingenti ed elementari ().107 Il mondo della physis è quello originario divino, e coincide con l‟. Per diventare un nomos assoluto, cioè un universale , occorre la mediazione di  (timore reverenziale, vergogna, e dunque riconoscimento del limite umano) e di (giustizia, equità) gli elementi coi quali l‟uomo può pervenire alla dimensione della socialità politica ( ), passando dunque dal piano inferiore della teologia naturalistica e della coscienza soggettiva, empirica e particolare, a quello superiore dell‟antropologia

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C. Schmitt, Dialogo sul Potere e sull’accesso al Potere (1954), tr. it. Milano, 2012, pag. 24. 105 W. Jaeger, Paideia, tr. it. cit., pag. 556. 106 107

Ivi, pag. 560. M. Untesteiner, I Sofisti (1949), Milano, 1996, pag. 84.

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razionalistica della coscienza universale. 108 In realtà questa conoscenza è solo quella condivisa dalla collettività, per cui la sua durata è legata alla possibilità di restare socialmente valida. Da questa condizione politica di validità muove la critica socratica alla etica pubblica come dòxa, prodotto della volontà, anziché della conformità al dato etico originario e dunque di necessità della .109 In tal senso la verità era un problema pratico, giudiziario e politico, “giacché sia nei discorsi giudiziari, sia in quelli deliberativi, era necessario, per vincere, sapere imporre il proprio punto di vista, la propria verità, la quale poteva anche coincidere con la verità in senso universale: non era, dunque, la sua retorica necessariamente immorale, ma perseguiva fini pratici, cosicché doveva rinunciare a un atteggiamento teoretico, su cui l‟eloquenza non poteva fondarsi”.110 Attribuire alla techne umana la possibilità di pervenire ai risultati desiderati, significa introdurre nel processo avvenimenziale il principio di progressività della volontà, per cui volere è potere, e dunque più si vuole più si può. Il progresso è la possibilità che si svolge da sé senza limiti esterni. Il Potere della forza che s‟impone senza limiti morali, senza coscienza del Bene, di ciò che non è possibile all‟uomo. La possibilità umana è la forza che si dispiega nel suo lavoro di addomesticare e trasformare la natura, il suo destino. Attribuire al lavoro umano un ruolo socialmente predominante, equivale a considerare la parte economica per il tutto della personalità morale. Questo distrugge in radice le gerarchie sociali tradizionali fondate sui ruoli e ne crea di nuove fondate sulle funzioni. La differenza tra le prime e le seconde dipende dal fatto che i ruoli sono predeterminati dal loro significato morale, le funzioni dal loro valore economico. Il valore dipende dal significato, come la ragione dalla morale e la parte dal tutto.111 Se si emancipa il valore variabile dal significato eterno,

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M. Untesteiner, I Sofisti, cit., pag. 91. Ivi, pag. 95. Ivi, pag. 100.

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“I valori autentici e puri del vero, del bello, del bene si producono nell‟attività di un essere umano mediante un solo e medesimo atto, una certa applicazione all‟oggetto dell‟attenzione nella sua interezza. L‟insegnamento dovrebbe avere

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intrinsecando il significato nel valore, la mutabilità del valore rende labili i rapporti morali, destabilizzando l‟ordine sociale, ritenendolo astratto rispetto all‟ordine funzionale del lavoro. Quando l‟ordine sociale diventa astratto rispetto al valore economico del lavoro, ritenuto l‟unico concreto, la condizione umana degrada verso il solo aspetto naturalistico della conservazione della specie, per la quale la produzione dei beni di consumo e il potere dei mezzi di sostentamento costituiscono l‟orizzonte finito di realtà rispetto alle possibilità di ogni sua rappresentazione spirituale. Il limite () è ciò che si oppone al parziale come Tutto, al male come Bene. Il limite è l‟intierezza del Bene che argina la parzialità del male. Pensare il male è separarlo dal Bene. Pensare il Bene è unire ciò che il pensiero del male separa, ossia l‟essere dal non-essere. L‟essere limitato dal non-essere limitante, che lo contiene ( ). Il Bene è armonia, pensiero unitario dei distinti. E‟ male ciò che è parziale, ossia si impone con la forza. La forza è il male. Ciò che si oppone alla forza è un‟altra forza. Ciò che limita la forza è il Tutto, cioè il Bene. Se la forza è il male, il limite alla forza è l‟amore, il Bene dell‟amore. Non esiste una forza che sia buona, come non esiste un valore che sia significativo. Esiste soltanto il Bene e il significato che limitano la forza e il valore. Il Bene non può abbinarsi o confondersi col male perché lo contiene in sé. Il Bene è il Tutto, e dunque contiene il molteplice. Se lo contiene, il molteplice non è il contrario del Tutto, così come il male non è il contrario del Bene. La loro incontrovertibilità ne segna il limite. Il limite dell‟umano è ciò che trascende la sua finitezza, il trascendente, Dio. Senza Dio, l‟uomo diventa la misura di tutte le cose. L‟uomo come  in senso di Protagora ( ) non è soltanto il criterio o la norma di giudizio, ma è il “verbo”, ossia il mediatore, che ordina le cose del mondo, le quali resterebbero meramente molteplici se non fossero ordinate dalla misura umana. Se l‟uomo resta prigioniero della sua finitezza, il suo ordine procederà solo nel senso della forza, dell‟ordinamento del Potere politico, senza limiti morali trascendenti. La tensione delle forze opposte genera sempre una tensione ulteriore

come unico fine quello di preparare la possibilità di un simile atto mediante l‟esercizio dell‟attenzione”: S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 132.

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entro il finito, senza limiti. Solo ciò che trascende la finitezza può limitarla. “L’impossibilità è l‟unica porta verso Dio”.112 Il Verbo ordinatore viene nel Timeo indicato in Dio, la cui incarnazione si manifesta nella bellezza del mondo. “La scienza e l‟arte hanno un solo e medesimo oggetto, provare la realtà del Verbo ordinatore. La scienza è rispetto al  ciò che l‟arte è rispetto a  orfico, ma  ed  sono uno”.113 Il lavoro per il lavoro, è finalizzato al solo valore dell‟opera umana, non finalizzata alla imitazione della creazione divina ma alla sua sostituzione. L‟opera umana senza fine trascendente è opera finita, destinata alla finitezza in sé. Questo ripiegamento del fine in se stesso equivale alla considerazione dell‟homo faber come mero produttore di beni, come homo oeconomicus. La differenza tra l‟opera d‟arte e l‟opera economica è nella ispirazione e destinazione trascendente della prima. L‟arte, come lavoro divinamente ispirato, è sempre opera di passione, di amore e di sofferenza, unità di contrari. 114 Si soffre in quanto si ama. Il lavoro sofferto che sia dedicato a un atto d‟amore, è un‟azione morale; dedicato a un atto d‟amore universale, è arte. L‟arte trascende la finitezza dell‟opera del lavoro umano e richiama l‟infinitezza dell‟opera di Dio, che è armonia. L‟armonia nasce dalla differenza. Le cose simili non hanno bisogno di essere armonizzate (Filolao), ma per le dissimili è necessario. La necessità dell‟armonia è l‟ordine morale del Bene. Il Potere che intenda affermare un ordine privo di Bene, tende ad eguagliare il dissimile per evitare il problema dell‟armonia morale tra gli uomini. Se l‟armonia non fosse una necessità ontologica, ma una condizione accidentale, lo stesso problema politico sarebbe risolvibile in radice accomunando l‟essere spirituale, individualmente diverso, a un essere di specie, fisiologicamente uguale. Il Potere, al pari del male, separa la parte animale dell‟uomo dal tutto della sua personalità, e la innalza a unica, realizzando così la sua unità di forza. Una unità senza armonia, astratta

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S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 109. S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pagg. 120-121. S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 150.

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dalla realtà concreta dell‟uomo vero. L‟armonia deriva dal senso del limite alla realtà finita, senza il quale “[non] possiamo dominare la materia illimitata”. 115 Il limite alla forza della natura è l‟amore soprannaturale. L‟unico sentimento “nonviolento”,116 la cui esistenza nell‟uomo prova la presenza di Dio in lui. L‟amore sostituisce la prova ontologica di Dio, spostando sul piano delle relazioni morali il senso della vita, che la cultura pagana attribuiva al polemos quale volontà di piegare con la forza la volontà altrui. Col Cristianesimo, la questione dell‟ordine politico diventa ricerca dell‟armonia spirituale. La chiesa non è la città dei preti, ma la comunità in cui non vige l‟ordine politico, che unifica i diversi rendendoli simili, ma l‟armonia spirituale, che conserva la differenza singolare mediandola attraverso il Verbo. Se l‟ordine del mondo è l‟oggetto della scienza, 117 non può esserlo l‟armonia, la cui relazione con la trascendenza non si può oggettivare, in quanto non dipendente da un processo umano calcolabile entro le sue condizioni di esistenza, ma lasciato alla libera e imponderabile determinazione della Provvidenza.118 La forza è l‟ordine di misura della vita politica, ma non della vita sociale in quanto tale. Il male del mondo è la società politica, informata alla misura della forza. “L‟uomo è un animale sociale”, ossia politico, “e il sociale è il male […] e ci è proibito accettarlo se non vogliamo perdere la nostra anima”. 119 Non si può rifiutare quanto è stabilito fuori di noi, ma neppure accettarlo come destino ineluttabile per noi. Occorre trovare un equilibrio tra (la forza de) il sociale e (la libertà de) il singolare, affermando come limite alla forza immanente la realtà del trascendente, l‟infinitamente piccolo individuale che trascende l‟infinitamente grande sociale. “Ciascuno

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S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 149. Ivi, pag. 153. S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 154.

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La Provvidenza non può essere “l‟oggetto proprio della scienza”, come vorrebbe S. Weil, in quanto la sua determinazione non è riferibile ad alcuna previsione normativa, ma solo alla sua registrazione storica ex post. In questo senso, la ricostruzione storiografica degli eventi umani non può essere scientifica alla stregua di ogni altra registrazione di accadimenti fenomenici. 119 S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 157.

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nella società è l‟infinitamente piccolo che rappresenta l‟ordine trascendente il sociale e l‟infinitamente più grande”. L‟equilibrio tra l‟infinitamente grande e l‟infinitamente piccolo può sussistere solo come “sottomissione” dell‟ordine sociale “a un altro ordine trascendente”. Infatti, “solamente l‟equilibrio annulla la forza” del sociale sulla libertà dell‟uomo singolo. L‟ideale sarebbe che il sociale si sottomettesse al singolare, attraverso un vincolo di obbedienza personale, del tipo feudale, il cui vincolo “da uomo a uomo diminuisce di molto la parte del grosso animale”, e “così un‟autentica monarchia sarebbe la città perfetta”. In essa l‟obbedienza al signore sarebbe all‟uomo, non alla funzione politica, e derivata dal giuramento, e non dalla sottomissione alla forza. 120 Il giuramento è l‟impegno che chi giura assume con la propria coscienza, od onore, ossia con l‟immagine della sua personalità singolare che egli intende offrire agli altri. La personalità è “l‟ordine del mondo” a misura del soggetto. “L‟ordine del mondo a misura di ciascuno”,121 è la differenza tra le diverse coscienze personali. La sconsiderazione moderna dell‟onore cavalleresco, quale modello etico di coscienza virile, deriva dalla rimozione della necessità dell‟armonia nella diversità a favore della omogeneità dell‟ordine politico. Man mano che si è venuto a perdere l‟acquisto umanistico più importante della civiltà cristiana, la spiritualizzazione della soggettività umana, l‟ordine legale del Potere ha sostituito l‟armonia della Giustizia, ponendo il comune cittadino despiritualizzato al posto dell‟uomo anima singolare. I vantaggi derivati dalla certezza del diritto universale sono stati ottenuti con la perdita del senso della Giustizia individuale. Ma ciò è la riprova indiretta che l‟onnipotenza dello Stato, che conosce l‟uomo per varietà tipologiche, non potrà mai competere con l‟onniscienza di Dio, che conosce ogni singolo destino umano. Lo Stato ordina, Dio guida. Se lo Stato non trova chi gli obbedisca, lo Stato non esiste, perché è condizione essenziale che l‟ordine venga eseguito; se l‟uomo non obbedisce a Dio, invece, non è perché Dio non esiste ma perché Egli gli ha concesso la libertà, cioè la possibilità di scegliere quella spontanea devozione che lo Stato non può non imporre. In tal senso, l‟ordine dello Stato è analogo a quello della necessità del destino, 120 121

S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pagg. 158-159. Ivi, pag. 218.

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mentre l‟armonia nata dal rapporto devoto al signore, è simile al rapporto d‟amore che l‟uomo ha con Dio. La politicizzazione dei rapporti sociali e la scristianizzazione della cultura procedono insieme. L‟infrazione all‟ordine politico genera la pena, la punizione afflittiva subita a prescindere da ogni consapevolezza soggettiva della sua necessità. Anzi, a segno della sua oggettività, se il reo potesse evitarla, lo farebbe. Il peccato, di contro, espiato volontariamente, per atto d‟amore, redime. “L‟amore è il medico del peccato originale”.122] La volontarietà dell‟atto di coscienza lo differenzia qualitativamente dall‟obbligatorietà dell‟azione socio-politica. L‟azione volitiva necessita di prudenza, l‟atto di coscienza è di libertà. La prima produce obbedienza, perché nasce dal dovere, la seconda consenso, poiché nasce dal desiderio. La obbedienza è legata alla forza, la devozione all‟amore. Non coinvolgendo la libertà, ossia il consenso spontaneo, l‟obbedienza può nascondere la vera volontà e manifestarsi nell‟apparenza. La devozione, invece, essendo atto spontaneo del desiderio, si fonda sulla realtà, ossia sulla coscienza della Verità, che, in quanto reale, è Bello e in quanto armonia è Amore. Verità, Bellezza e Amore sono le vie che conducono alla salvezza o Bene, le virtù in cui si manifesta la santità. Non c‟è armonia umana senza consenso, cioè senza libertà. E senza libertà non vi è “vera” umanità. Ma per comprendere il senso della verità umana, dobbiamo prima chiederci che cosa sia il Bene, e come mai a esso si pervenga attraverso le molteplici strade indicate. E‟ il tema del Filebo e del Teeteto platonici. Socrate infatti pone la questione se l‟uno sia i molti e se i molti siano uno,123 e soprattutto se l‟unità ideale possa considerarsi eterna e perfetta in sé e nei molti in divenire. 124 Il discorso che ne tratta è la dialettica, che è “un dono degli dèi agli uomini”, offerto da un Prometeo sotto forma di “luminosissimo fuoco”, la quale è un metodo di pensiero per mezzo del quale “tutte le cose che sono mai state scoperte nel campo di un‟arte sono venute alla luce”.125 Ciò fa di ogni arte “una realizzazione

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S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 236. Platone, Filebo, 13 c. Filebo, 15 b. Filebo, 16 c.

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speciale mediante una „imitazione‟ di una struttura normativa ideale universale”, che viene compresa solo dalla metafisica di Platone. 126 La verità, pertanto, è la consapevolezza di ciò che persiste da sempre come fondamento d‟essere delle cose, le quali, “poiché sono ordinate in questo modo, bisogna che noi poniamo e cerchiamo, ogni volta, sempre un‟unica Idea per ogni cosa”, che è insita in esse. 127 Ossia occorre ricercare di ogni realtà empirica il suo concetto universale, a petto della quale unità definita c‟è l‟illimitato ( ). Tra i due estremi ( ) si stendono “le cose che sono intermedie”, la cui individuazione e distinzione ci consente di procedere in modo dialettico, anziché in modo eristico, proprio dell‟argomentare di coloro che passano dall‟uno all‟illimitato senza mediazione,128 ossia senza distinguere ciò che è proprio di ogni cosa, e che la rende quella e non altra. Non si pensa dialetticamente se non procedendo per distinzioni, cioè mediando all‟interno di ogni unità ideale, la quale dunque è astratta senza tale distinzione. Trattando del Bene, Socrate ne afferma i caratteri formali: la compiutezza e la sufficienza. E dunque sia il piacere che il pensiero, se fossero Bene, non avrebbero bisogno di nient‟altro, mentre se abbisognano di qualcosa, non sono Bene.129 Orbene, afferma Socrate, se si potesse vivere di solo piacere, vuoti di ogni pensiero e senza conoscenza, non si potrebbe sapere della propria condizione piacevole, e parimenti, se si potesse vivere possedendo il pensiero e la scienza , senza però partecipare di alcun piacere, non sarebbe ugualmente accettabile, preferendo a quegli estremi una “mescolanza di entrambe”.130 Se consideriamo il Tutto degli enti suddiviso nel limite e nell‟illimite, e facendo della loro mescolanza un terzo genere unitario, a cui andrebbe aggiunto il quarto genere della causa della mescolanza, dovremmo riportare ciascuno ad unità, cercando d‟intendere come sia

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K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, Milano, 1991, pag. 83. Platone, Filebo, 16 d. Filebo, 17 a. Filebo, 20 e - 21 a Filebo, 21 c - 22 a.

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possibile sia la sua unità che la sua interna molteplicità. 131 L‟unità delle cose che non hanno limite è costituito da quelle che hanno una gradazione di più e meno ma non un termine quantitativo che ne provocherebbe la fine, in quanto la “quantità sta ferma e fa terminare il procedere”. Invece, l‟altra unità è costituite dalle cose che hanno un limite, come l‟uguale e l‟uguaglianza, o il doppio e il multiplo di una certa misura, e che è “uno per natura”.132 Oltre al genere misto, vi è quello della causa della generazione, cioè la natura di ciò che produce le cose prodotte. “E ciò che è prodotto e ciò che è generato, tranne che nel nome, non li troveremo per niente differenti”.133 Questa asserzione, per cui generato e generatore siano lo stesso, può valere per le cause naturali, ma non può interessare la condizione umana. Se l‟uomo infatti possiede un‟anima, da chi essa sarebbe generata se non dal corpo animato dell‟universo, da quella che dell‟ordinamento cosmico è l‟intelligenza che lo governa come causa di tutte le cose?134 Quando si sfalda l‟armonia, che appartiene al genere misto, si produce il dolore, e quando si ricostituisce, il piacere. E dunque nel tempo in cui non ci sia né generazione né corruzione, ogni essere vivente è necessario non goda né soffra, 135 al pari degli dèi. Questa è la condizione di chi sceglie la vita del pensiero, “la più divina di tutte le vite”.136 La “sensazione” è lo scuotimento provocato dall‟affezione che coinvolge sia l‟anima che il corpo, e la “memoria” ne è la sua conservazione. Quando invece è l‟anima a ricordarsi delle sensazioni provate insieme al corpo, allora c‟è “reminiscenza”. Il “desiderio” deriva dall‟anima, poiché l‟essere vivente tende a compensare l‟affezione negativa provata dal corpo, e che questo non può soddisfare.

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Filebo, 23 c-e. Filebo, 24 a-25 b; 27 d. Filebo, 27 a. Filebo, 30 a- e. Ivi, 31 d-e. Ivi, 33 b.

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Solo l‟anima può soddisfare il desiderio attraverso la memoria della soddisfazione, cioè dell‟affezione corporale contraria a quella presente, che ci spinge verso l‟oggetto desiderato che ci manca. Ciò dimostra che “ogni impulso e ogni desiderio, e il principio vitale di ogni vivente appartengono all‟anima”137 e non al corpo. Ciò vuol dire che esiste una dimensione diversa da quella corporea che può distinguersi da essa in determinate circostanze, la quale ci consente di conoscere le buone dalle false opinioni attraverso la cognizione di ciò che è la vera realtà. Infatti, “per chi in genere ha un‟opinione è sempre del tutto reale l‟azione dell‟opinare, ma, talvolta, a proposito di cose che non esistono, non sono esistite e neppure esisteranno”. 138 La moderazione impedisce sia ai piaceri che ai dolori di essere eccessivi, anche persone intemperanti, segno che i grandi difetti e i più grandi se ci sono dolori nascono da qualche difetto del corpo e dell‟anima e del corpo, ma non mai dalla virtù.139 La mescolanza di dolore e piacere interviene quando l‟anima è in discordanza col corpo,140 ma “sia il corpo senza l‟anima, sia l‟anima senza il corpo, sia tutt‟e due insieme, nelle loro affezioni sono pieni di piacere commisto a dolori”. 141Solo le cose ideali, che sono “belle in sé stesse, per natura”, producono “piaceri propri”, o “puri”, che sono accettabili. 142Come quelli relativi alla conoscenza, che non sono misti a dolori, che appartengono però “solo a pochissimi uomini”.143 Esistono “due generi di cose: l‟uno che è in sé e per sé; l‟altro che tende sempre ad altro”. L‟uno nobilissimo, l‟altro inferiore. Una è “la generazione di tutte le cose”, altra è “l‟essere di tutte le cose”. Si pone nel campo del Bene solo “ciò in vista di cui si genera qualcosa che si genera in vista di qualcosa. Il piacere, in quanto generazione in vista di qualche essere, non può annoverarsi nel campo del Bene ma in un altro. [c.] Infatti, coloro che soddisfano una mancanza non potrebbero desiderarla per il piacere di

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Filebo, 35 b-d. Ivi, 40 c. Ivi, 45 e. Ivi, 47 d. Ivi, 50 d. Ivi, 51 c. Ivi, 52 b.

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soddisfarla, e poiché “il corrompersi è il contrario del generarsi”, nessuno che scegliesse questo sceglierebbe il Bene insito nel “pensare nel modo più puro possibile”.144 Ma il Bene non può imporsi a ogni male, “perché è una necessità che ci sia sempre qualcosa di contrapposto al Bene” in questo mondo, per cui “bisogna anche sforzarsi di qui [per] rendersi simili a Dio secondo le proprie possibilità, ossia “diventare giusti e santi, e insieme sapienti”.145 Esistono infatti “due modelli di vita fissi nell‟ambito dell‟essere: uno divino, felicissimo, e uno senza Dio, infelicissimo”,146 ma “non ogni opinione di ogni uomo è vera”, per cui ognuno ha il suo modello di realtà. La stessa città si dà delle leggi per il proprio vantaggio, presente e futuro,e anche in questo caso, “il più sapiente è misura”, non già il profano.147 E non ogni opinione è dunque scienza, esistendo anche opinioni false,148 sicché “per ciascuna cosa non rimane niente altro se non conoscere o non conoscere”, anche se “chi opina il falso crede che le cose che conosce non siano queste, ma diverse da quelle che conosce [mentre] le cose che non conosce ritiene che siano certe altre da quelle che non conosce”. Ciò ci spinge dunque a spostarci dall‟ambito della conoscenza a quello dell‟essere e del non-essere.149 Infatti, chi opina il falso opina il diverso, e non già ciò che non-è, scambiando un ente con un altro nel pensiero.150 Ma l‟opinione vera, di cui ci persuadono i retori e gli avvocati, non è scienza, come non lo è quella fornita di spiegazione, ma scienza è solo la spiegazione basata sull‟Idea.151 Sull‟Idea di scienza Platone fa discutere Socrate con Cratilo nel dialogo omonimo, giungendo alla conclusione che “poiché i nomi sono in conflitto, e gli uni sostengono d‟essere simili alla verità, mentre anche gli altri sostengono lo stesso, […] si deve ricercare qualcos‟altro, al di fuori dei nomi, che ci manifesti, senza ricorrere a nomi, quali di questi

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Ivi, 54 c-55 a. Teeteto, 176 a-b. Ivi, 176 e. Ivi, 179 a-c. Ivi, 187 b. Teeteto, 188 a-d. Ivi, 189 c. Ivi, 200 d-203 e.

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siano veri, mostrando con chiarezza la verità delle cose”.152 Tale verità è ciò contrasta con il fluire dei significati, ossia delle cose che i nomi designano, e consista invece in ciò che le cose sono “in sé”, trovandosi sempre allo stesso modo rimanendo identiche “senza allontanarsi per nulla dalla propria Idea”, poiché “nessuna conoscenza coglie il suo oggetto, se questo non sta assolutamente fermo”. Ciò significa che la conoscenza stessa è tale se non muta col variare delle cose. “Se, invece, la forma stessa della conoscenza mutasse, si trasformerebbe, nello stesso tempo, in una forma diversa dalla conoscenza, e non vi sarebbe più conoscenza”. Questa, nondimeno, è una opinione, rigettata da quella opposta di Eraclito, per cui la preferenza tra esse va accordata per Socrate solo “in coloro che hanno stabilito i nomi”, ossia negli dèi.153 Porre al fondamento della conoscenza scientifica la fiducia negli dèi, equivale a sostenere un sistema razionale attraverso di argomento filosofico su una premessa fideistica che sembra riporre nella volontà di credere la sua unica giustificazione. Ma questo equivoco, che per comodità d‟intesa chiamiamo nietzscheiano, è del tutto fuorviante, poiché riporta sul piano delle determinazioni pratiche quanto invece va considerato sul piano noetico. La fondazione della conoscenza, invece, è sì un atto di fede, ma di un genere misto, comprensivo delle due forme di conoscenza relative ai due generi di cose ricordate da Platone: quello delle cose eterne che sono in sé e per sé, e quello delle cose fluenti, che portano sempre ad altro. L‟atto di un genere, dunque, capace di conoscere il rapporto tra le immagini eterne delle cose che fluiscono sempre e il divenire di queste cose stesse. Rispetto alla forma orale propria del logos e alla forma pratica che è della praxis, la conoscenza del fondamento di ogni scienza è muta, in quanto atto originario della coscienza, che precede ogni definizione e manifestazione storica, e pertanto indefinito ed eterno, e perciò divino. La ricerca di una conoscenza che fosse comprensiva di ciò che muta e di ciò che permane ha travagliato dai primordi lo spirito umano, anelante alla dimensione trascendente la finitezza dell‟esperienza, e nello stesso tempo che la chiarisse. Lo stesso Platone, il maggiore dei pensatori, è pervenuto alla consapevolezza che tale conoscenza originaria fosse intuitiva e non esprimibile a parole, ponendo perciò Dio a 152

153

Cratilo, 438 d. Ctatilo, 440 a-c.

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di tutte le cose e ritenendo dunque che con l‟intuizione l‟uomo pervenisse alla verità congiungendo la propria finitezza con la dimensione infinita abitata dagli immortali. Ma in che consiste tale conoscenza intuitiva? E‟ la stessa filosofia che sospinge verso tale cognizione in quanto essa presume di conoscere soltanto l‟Essere di ragione, distinguendolo dal non-essere contingente e transeunte, oggetto invece dell‟esperienza pratica. Una conoscenza che distingue ed esclude deve necessariamente essere parziale, tralasciando dell‟esperienza ciò che occupa l‟attenzione umana per il maggior tempo della sua vita. La stessa rappresentazione caricaturale che Platone fa nel Teeteto del filosofo puro, non diversa da quella di Aristofane ne Le nuvole, tradisce l‟idea di una conoscenza distante dalla vita concreta degli uomini e tendente a una dimensione incontaminata. D‟altro canto, per quanto pura ed esclusiva, la conoscenza filosofica per essere partecipata all‟uomo comune, ossia alla gran parte dell‟umanità, deve servirsi di strumenti pertinenti alla vita pratica, come la forza delle leggi e la volontà politica, segno manifesto della sua relatività, che proprio nel bisogno di completarsi praticamente induce a completarsi in un sapere più comprensivo e totale di quello razionale. Ecco il punto: la ragione stessa conduce alla intuizione del Tutto, suscitando la questione del come pervenire alla sua conoscenza. La difficoltà che la ragione ha di conoscere il Tutto deriva dalla impossibilità di rappresentarlo, ossia di oggettivarlo e definirlo nei termini del pensiero concettuale, per cui ogni tentativo di qualificazione sfugge alla sua determinazione, rimandando a una ulteriorità a sua volta non logicamente definibile. Ciò comporta che il senso logico del linguaggio intuitivo debba lasciare il posto a un senso analogico, così come la rappresentazione concettuale debba lasciarlo a una simbolica. Infatti, il linguaggio simbolico è l‟unico che, lasciando aperto ogni tentativo di definizione del suo oggetto di pensiero, lo rimanda ad ulteriori sue rappresentazioni oggettive, tale da creare un percorso di progressiva chiarificazione che nello stesso tempo comprende sia i termini teoretici della sua rappresentazione formale che i processi fenomenici del suo divenire concreto. Questa rappresentazione conprensiva e originaria è quella dalla quale il logos ha tratto le sue determinazioni razionali, così come l‟epos a sua volta e quindi la tragedia hanno tratto le loro narrazioni parenetiche e catartiche, mentre la poesia lirica ed elegiaca la verità del sentimento interiore “nel suo legame o

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distacco dal mondo”, anche se “concepito sempre in un nesso vivo con tutto il mondo circostante, con la natura come con la società umana, non già staccato ed isolato da essa”.154 Infatti, se il pensiero umano tende a fissare nelle leggi le sue regole d‟ordine esteriore, “si spinge ormai nella sfera dell‟interiorità umana, per serrare là dentro, in salde barriere, anche il caos delle passioni”, assegnando per prima alla poesia tale ricerca, e solo dopo alla filosofia, quale distinte declinazioni dell‟eros.155 Stiamo parlando del Mito, ossia della parola in-definita e simbolica che rimanda a quanto evocativamente la trascende, ossia a quell‟altrove superno dove figure divine ed essenze naturali si connettono al destino umano per guidarlo o corromperlo. E proprio nel rapporto naturale dell‟uomo col suo destino dalle trame divine si dipana ogni racconto mitico, le sue figure eroiche e le drammatiche cadute della debolezza umana. In questa atmosfera rarefatta, la parola mitica secerne i suoi prodotti simbolici, districandosi tra l‟infinito e l‟effimero, tra l‟eterno processo cosmico e l‟accidentale vissuto dell‟uomo, mai perdendo di vista la differenza, segnandone anzi il limite, e con esso il senso stesso della realtà; una realtà incentrata sull‟uomo ma non sui limiti della sua finitezza. E proprio con questa duplice istanza, a un tempo realistica e imaginifica, che il Mito proclama la sua forma mixta, anfibia, plurima e aperta, infinitamente poietica, cui torna come alla sua fonte originaria il pensiero consapevole dell‟esito “catastrofico” di ogni rappresentazione presuntuosamente eterna dell‟oggettivazione del mondo. Dalla poesia alla narrativa, dalla scienza alla storiografia, ogni forma di rappresentazione letteraria lascia l‟adito alla sua via di fuga mitica, quasi un appello estremo dello spirito lanciato perché il messaggio scritturale possa essere raccolto e perfezionato nel tempo attraverso gli spiragli della sua consapevole o inconscia trascrizione simbolica. Vi è immanente al Mito una sorta di rituale escatologico, che ha per esito una palingenesi del soggetto, collettivo (nelle tragedie) o individuale (nella filosofia), che al termine del processo soteriologico risulta mondato di ogni scoria superflua in vista della perfezione interiore o catharsis. Come un percorso catartico dalla caverna dei sensi alla luce sapienziale del logos va intesa la maieutica platonica, il cui estremo approdo è la 154 155

W. Jaeger, Paideia, tr. it. cit., pagg. 224-225. Ivi, pag. 241.

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intuizione mistica, da cui la “navigazione” dell‟anima era partita. Anche in Platone, non solo in Origene, “il pensiero oggettivo è la condizione di una possibile esperienza”, in quanto costituisce la premessa dogmatica di una originaria posizione ontologico-esistenziale da cui muovere per una successiva legittimazione razionale di una realtà assoluta.156 Proprio sull‟identità dell‟inizio con la fine ha insistito, con accenti neo-platonici, Origene, che nei Principii pone l‟eschaton non come evento assoluto ma come l‟apokatastasis di una condizione originaria di perfezione, ossia di completezza ontologica. Ciò comporta che la condizione finale della coscienza rigenerata sia appunto la sapienza di ciò che è dall‟inizio l‟unità del Tutto, che viene discoverto attraverso il discorso logico, consistente nella decifrazione della chiave allegorica del valore simbolico custodito dalle Scritture (). E proprio tale trascrizione allegorica della verità ripropone la dinamica maieutica della generazione teoretica del Logos dal Mythos propria della esegesi filosofica dei fenomeni storici, e la conseguente della secolarizzazione della cultura religiosa, che, per il suo allontanamento volontario dell‟uomo da Dio, la sua 157 “caduta”, rappresenta il paradigma speculativo del “libero arbitrio”. Ma il processo discorsivo del logos prelude, secondo quanto lo stesso Platone aveva adombrato, a una “seconda navigazione” della coscienza che, a partire dalle determinazioni molteplici della ragione, riconquisti intuitivamente l‟Unità originaria, la quale consiste in ciò che è e non

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Per il rapporto tra Mito e misticismo, relativamente a Un’analisi dell’oggettivazione e dell’interiorizzazione nel pensiero religioso, ved. il saggio omonimo di H. Jonas (1968), in Dalla fede antica all’uomo tecnologico (1974), tr. it. Bologna, 1991, pagg. 411-426. 157 L‟, il misconoscimento del fondamento mitico di verità trascendente, è dunque un portato teoretico del razionalismo greco, e segnatamente dell‟idealismo platonico, ripreso come modello ontologico dalla tradizione teologica alessandrina, che vede uno dei suoi vertici speculativi in Origene, il quale, sulla base del Vangelo di Giovanni, trascrive in termini logici la originaria nozione carismatica di Spirito cristiano. Per un succinto compendio della dottrina dei Principi di Origene, ved. H. Jonas, La metafisica del libero arbitrio, la caduta e la salvezza in Origene: una “Divina Commedia” dell’universo (1969-1970), tr. it. in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., pagg. 427-450.

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diviene nel tempo, e che costituisce il fondamento della legittimità di ogni ordinamento. La legittimità infatti, “dà come finalità alla vita sociale qualcosa che esiste e che è concepito come esistito da sempre e che sempre deve essere, obbligando gli uomini, in tutti gli atti della vita sociale, a volere esattamente ciò che è”. 158 Per il suo carattere permanente e non transeunte, essa non può consistere in qualcosa di materiale, ma neanche in un astratto valore ideale da conseguire, considerata la sua immanenza sugli atti della vita sociale. In tal senso, la legittimità rappresenta la concreta giustizia del Governo spirituale, il limite trascendente all‟esercizio del Potere politico, ciò che dà unità morale alla imperfetta molteplicità dei suoi atti.159 2. “La catastrofe”, scriveva Benjamin, “è che tutto continui come prima. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato”.160 Il “tutto” è l‟Essere, il continuum è il divenire, l‟evento 158

S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 270.

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Il limite morale del Governo rappresenta il discrimine tra Bene e Male non contemplato nella dicotomia filosofica di conoscenza e ignoranza, costituendo perciò l‟indirizzo che la volontà razionale deve prendere per conseguire il Bene, consistente nel radicamento della coscienza e quindi della esistenza umana nella dimensione dell‟eterno, stornandole dalla degradazione dello sradicamento, ossia alla mera progettualità contingente del benessere della vita materiale. Ved. S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 271. Rispetto alla volontà del Potere, la cui decisione empirica è sempre unitaria in quanto responsabile, e dunque imputabile, l‟auctoritas del Governo è espressione di una coscienza meta-empirica e carismatica collegiale, il cui prototipo storico è il Senato aristocratico romano. Essendo una autorità carismatica, legata al suo libero riconoscimento da parte del Potere, il Governo non è responsabile della sua amministrazione indiretta, e perciò non è imputabile delle decisioni del Potere. La funzione di Governo era tradizionalmente affidata alla Corona, rappresentante dell‟unità nazionale. L‟intenzione di processare l‟Imperatore del II Reich dopo la sconfitta della Germania nella seconda Guerra mondiale indica che il fardello di barbarie morale ereditato dalla Rivoluzione del 1789 pesava ancora sulla Francia repubblicana del 1918 quale dissacrazione democratica del Potere, la cui fonte viene indicata nel popolo, cioè nel Molteplice, anziché in Dio, cioè nell‟Uno, per la tipica inversione evolutiva moderna dell‟ordine teoretico, che fa discendere il superiore dall‟inferiore. La desacralizzazione della cultura europea ha comportato il predominio del divenire su ciò che resta, del Potere politico sul Governo spirituale, del popolo sulle aristocrazie morali. 160 W. Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, cit., pag. 141.

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temporale che di volta in volta è dato è l‟ente, e ciò che incombe sull‟Essere come non-Essere è la Possibilità. Ma cos‟è la “catastrofe” se non la determinazione una tantum della realtà come immagine definitiva dell‟Idea platonica? Ossia il contrario di quanto il pensiero greco ricercava attraverso l‟esperienza transeunte del divenire per scongiurare il caos? Se catastrofica è la ricerca umana della stabilità, ossia di un sistema di vita fondato sulla certezza dei suoi processi umanamente stabiliti e quindi consapevolmente accettati come esistenzialmente propri, anche la  della saggezza del filosofo, che stabilisce i valori del mondo sulla essenza di ciò che permane, diventa folle presunzione metafisica rispetto alla  che invece anima la sensibilità del poeta, che della vita colleziona lacerti mnemonici. E dunque non l‟Idea sarebbe la conquista vera cui tende il progresso della conoscenza umana, ma il “ricordo” (das Andenken) reliquiario della vita empirica in cui “si deposita la crescente auto estraneazione dell‟uomo, che cataloga il suo passato come un morto possesso. La reliquia deriva dal cadavere, il ricordo dall‟esperienza defunta, che si definisce, eufemisticamente, esperienza vissuta”.161 In realtà, le tracce della memoria, i ricordi appunto, non sono che evocazioni di eventi già attuali, di fenomeni temporali, riportati a presente attualità. E dunque sono ritorni di ciò che è stato, astratti dal loro divenire, dalla loro vita. E come reperti astratti dalla vita i ricordi esumano vita “defunta”, “esperienza vissuta”. Ma il collegamento simbolico, volontario e ancor più involontario, tra i ricordi manifesta l‟incongruità della considerazione teoretica della loro evenienza assoluta, in quanto comprova l‟insuperabile condizione ontologica della finitezza naturalistica dell‟Essere “dato” rispetto a ciò che su di esso “incombe” e lo trascende. E ciò che incombe e trascende l‟Essere attuale, non può essere il ricordo di ciò che è stato, il passato, poiché esso è solo una astratta proiezione dell‟attualità, per cui chi ha concepito la Storia come la dimensione trascendente l‟attualità solo in quanto processo diacronico, non ha compreso la vera natura simbolica dello stesso ricordo storico. Ciò che incombe e trascende l‟Essere e lo

161

W. Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, cit., pag. 140.

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determina nella sua ontologica possibilità temporale è la Morte, intesa appunto come confinium della possibilità. Orbene, il limite della possibilità delle determinazioni del Logos è costituito dal suo negativo dialettico, irrazionale rispetto alla ragionevolezza del suo essere. Ma a partire dalla scoperta platonica della realtà ontica del negativo altro da sé come diverso, viene a cadere l‟ipotesi che quel limite logico sia il confinium ontologico di cui parliamo, per cui trascendente rispetto all‟Essere non è la sua possibilità che lo costituisce, ma ciò che, a differenza della possibilità, non è dialettizzabile in termini temporali e astrattamente diacronici, e pertanto non appartiene alla dimensione della storicità. Trascendente rispetto alla Storia è ciò che non è determinabile temporalmente, e dunque non è oggettivabile come dato di un processo dialettico e dia-logico. Esso trascende l‟Essere in quanto trascende il Logos, per cui la ricerca di una determinazione logica che definisca l‟essenza della sua trascendenza non è conseguibile. Questa è la ragione del fallimento di ogni prospettiva storicistica filosoficamente orientata e la conseguente inevitabile determinazione scientifica di ogni suo dato di conoscenza. La conoscenza scientifica, però, che costituisce la rappresentazione razionale del contenuto reale dei fenomeni storici, non riguarda il contenuto della loro verità. anzi se ne distacca come l‟astrazione ideale dalla concretezza esistenziale. Solo nell‟opera d‟arte è possibile una coincidenza dei due momenti, reale e veritativo, e segnatamente in quella scritturale, in cui “il rapporto fra i due determina quella legge fondamentale della letteratura per cui, quanto più significativo è il contenuto di verità di un‟opera, e tanto più strettamente e invisibilmente esso è legato al suo contenuto reale. Se durevoli si rivelano perciò proprio quelle opere la cui verità è più profondamente calata nel loro reale, nel corso di questa durata gli elementi reali si impongono tanto più nettamente allo sguardo dell’osservatore quanto più si estinguono nel mondo”.162 Abbiamo rilevato l‟ultimo pensiero perché decisivo ai fini della comprensione del rapporto tra memoria storica, che ha per oggetto l‟esperienza vissuta (Erlebnis), e memoria simbolica, che ha per oggetto le correspondances dell‟esperienza allegorica (Erfahrung), a cui “è estranea ogni intimità con le cose: toccarle vuol dire per lei

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W. Benjamin, Le affinità elettive (1923), tr. it. in Angelus Novus, cit., pag. 163.

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violentarle, conoscerle vuol dire trapassarle con lo sguardo”.163 Se infatti, come è stato notato, gli Andenken del passato pagano e medievale rievocando la forma “di un mondo devitalizzato” ne presupponevano la realtà oggettivata e ascritta a una dimensione esperienziale razionalmente determinabile, mentre “l‟allegoria moderna”, che per Benjamin “ha sgomberato, nell‟Ottocento, il mondo esteriore, per stabilirsi in quello interno”, 164 “inerisce agli oggetti morti di un‟interiorità estraniata, avulsa dall‟esperienza vissuta” 165 della coscienza storica, è pur vero però che tale “interiorità” deve comunque far capo a una soggettività simbolicamente unitaria, rappresentata come un orizzonte di coscienza unitario. La differenza essenziale è che esso, anche se reificato dalla mercificazione capitalistica nel senso del lavoro, non è mediato sul piano dell‟esistenza concreta dal senso storico della coscienza razionale, e quindi non è assegnabile a una astratta temporalità empirica, né disponibile alla sua astratta reificazione, e in tal senso quell‟orizzonte di coscienza rimane aperto al trascendente, a quell‟ “aura” lirica che per il poeta costituisce la stessa dimensione simbolica del mondo. Infatti la storicità degli eventi empirici si determina dalla loro realtà effettuale di oggetti di pensiero, essa inerisce soltanto la loro realtà formale, ossia la loro pensabilità in un processo temporale di concatenazione dialettica, fuori della quale gli eventi non sono storicizzabili, e pertanto non sono (storicamente rilevanti). La rilevanza storica determinata con l‟univoca “comprensione intellettuale attraverso concetti”, costitutiva del “momento dogmatico” dell‟ermeneutica storicistica,166 elimina dunque dall‟essere, come già il processo del pensiero dialettico, ciò che non-è negando di esso la stessa effettualità non razionalizzabile, ossia pervenendo all‟assurdo di considerare reali soltanto gli eventi razionali, quelli soltanto, cioè, che la ragione pone come oggetto di giudizio, e quindi i fenomeni della ragione stessa. Una storia del mondo che si determini come storia del Logos universale è

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W. Benjamin, Das Passagen-Werk, tr. it. cit., pag. 434. W. Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, cit., pag. 140. R. Luperini, L’allegoria del moderno, Roma, 1990, pag. 89. H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pag. 108.

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esattamente l‟esito cui giunge lo storicismo filosofico hegeliano, che conchiude il pensiero della metafisica occidentale inaugurato da Platone. Sul piano etico-politico, l‟istanza unitaria della ragione si tramuta in esigenza d‟armonico equilibrio istituzionale delle contraddizioni sociali entro un sistema di Potere auto-referente che superiorem non recognosens e che perciò tende a neutralizzare le spinte eversive non inquadrabili negli schemi sussumenti del diritto. Sul piano economico, invece, va universalizzandosi col capitalismo quella “seconda natura” artificiale che per il Marx dei Grundrisse è la “malattia mortale” del mondo moderno, che omologa in senso massificante quella soggettività che per Hegel rappresenta il tratto saliente dell‟epoca.167 Viceversa, la “tendenza progressiva dell‟allegoria” è quella alla “eliminazione dell‟apparenza illusoria che emana da ogni ordine dato, sia esso quello dell‟arte o quello della vita, come apparenza della totalità o dell‟organico, destinata a trasfigurarlo al fine di farlo apparire sopportabile”. 168 La conseguenza di tale rifiuto a considerare la realtà dell‟apparenza come l‟espressione stessa della necessità dell‟Essere, ossia lo speculum temporale del mundus intelligibilis delle eterne essenze ideali, può orientarsi o verso la sua possibilità, ossia in direzione della rivolta libertaria contro l‟ordine costituito, ovvero nel senso del trascendimento meta-fisico del dato di realtà attuale. Entrambe le tendenze sono presenti nel platonismo, sia come determinazione idealistica della ragione delle cose, ispiratrice di un‟etica razionale posta a salvaguardia direttiva del sistema sociopolitico ideale, che come contemplazione meta-fisica dell‟anima attraverso lo sguardo auratico della coscienza impolitica. Il linguaggio, nel caso della tendenza concettuale unitaria e unitiva dei nessi di senso razionale, mira a una espressività tecnica, convenzionalmente protesa a un fine euristicamente fruibile a ulteriori e determinabili oggettivazioni. Nel caso invece della fruizione simbolica delle parole, il loro valore è riposto nella , ossia nella corrispondenza mnemonica che i nomi evocano delle cose per mezzo della immaginazione, la quale, per la sua intrinseca polisemicità, non si

167

168

R. Luperini, L’allegoria del moderno, cit., pagg. 99-100. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, tr. it. cit., pag. 427.

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presta a una destinazione che non sia a sua volta simbolica ed ermeneuticamente aperta e quindi per definizione non convenzionale. In un contesto di progressiva sistematizzazione razionalistica, l‟espressione poetica tende per proprio costituzione semantica a porsi come l‟irriducibilmente altro rispetto al sistema normativo razionalizzato, eversiva pertanto rispetto a qualunque “etica del discorso”. E proprio tale carattere eticamente eversivo della parola poetica insinua entro la mitologia platonica quella tensione simbolicamente trascendente il testo scritturale che sfugge a una completa rappresentazione allegorica fedele ai contenuti concettuali delle idee, tale che l‟immagine del mondo sia il riflesso speculare del suo senso razionale eterno. La difficoltà ermeneutica di circoscrivere in una struttura di senso compiuto i contenuti mobili delle correspondances evocabili a ogni analisi esegetica del testo, provoca non soltanto nel critico ma ancor più direttamente nel lettore comune quel sentimento di precarietà ontologica che Kierkegaard chiama “angoscia” e che consiste nella indeterminatezza propria della possibilità dell‟Essere che intuitivamente si confronta con ciò che soltanto può limitarla, sia pure senza svelarne l‟incognita e misteriosa modalità. Questo “totalmente altro” rispetto a ogni possibilità d‟essere, dal punto di vista dell‟orizzonte di senso immanentistico, è la Morte, intesa come eterna e definitiva negazione della vita naturale, che costituisce anche l‟estremo approdo de le voyage del flaneur di Baudelaire, che giunge “au fond de l‟inconnu pour trouver du nouveau”. Dal punto di vista aperto alla trascendenza, l‟altro assoluto è Dio, verso il Quale l‟Anfechtung luterano della fede si rapporta come “responsabilità” all‟ascolto della Sua parola, la cui incalcolabile attesa è generatrice di “malinconia”, il sentimento che accompagna il tono proprio della memoria lirica. “Il nostro tempo è tanto malinconico – scrive Kierkegaard - da sapere ch‟esiste qualcosa che si chiama responsabilità. Perciò, mentre tutti vogliono dominare, nessuno vuole assumere la responsabilità”.169 L‟istanza originaria del pòlemos, universalizzata col concetto, diventa atteggiamento legittimato erga omnes che se sul piano teoretico conserva ancora una connotazione 169

S. Kierkegaard, A-A, pag. 154.

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socio-culturale elitaria, sul piano dei rapporti pratici ha assunto viepiù una dimensione massificata che si richiama per intima coerenza sistemica dalla sfera politica a quella economica, divenendo il tòpos ermeneutico dell‟analisi storicistico-sociologica del moderno come epoca dei (progressivi ovvero degenerativi) processi democratici. In conseguenza della dislocazione del luogo della mediazione fenomenica da piano filologico concettuale al piano dell‟esistenza storica, anche il ruolo ermeneutico degli esegeti moderni cambia in favore di una prospettiva che ha di mira non più la sistematica dei rapporti ideali delle cose ma i nessi strutturali tra le forze strumentali e gli scopi immanenti dell‟agire individuale e collettivo. E così, come agli albori del moderno il posto che era stato del metafisico fu occupato dallo scienziato fisico, ora, dopo il 1789 e lo sviluppo del capitalismo, al posto del letterato troviamo l‟economista e a quello del poeta il politico. Il discrimine tra le due prospettive culturali passa attraverso la diversa considerazione dei reperti spirituali dell‟esperienza umana, rispettivamente volta a richiamare - “magicamente”, direbbe Adorno nel caso della poesia, gli Andenken come cifre mnestiche di un percorso non legato ad alcuna fatticità storicamente determinata secondo preordinate categorie euristiche ma lasciate alla libera rievocazione analogica della memoria simbolica, non sistematizzabile secondo razionali processi esclusivi di senso che invece sono determinanti nella definizione del continuum avvenimenziale da parte della memoria storicizzata degli Erlebnisse. Se pertanto la completa razionalizzazione del cosmo artificiale da parte del moderno homo oeconomicus ha potuto realizzarsi attraverso la progressiva corrosione della dimensione mitica dell‟esperienza umana, ormai sempre più privata di “eroi”, l‟estrema resistenza alla totale omologazione del modello merceologico e politologico imperante si arrocca nell‟estremo avamposto di una soggettività lirica che espone il flaneur, moderno  a fare di sé e suo malgrado l‟antimodello dell‟ “uomo senza qualità” sociali, il cui unico ed eroico merito anacronistico è di essere testimone del tempo inattuale, ossia della speranza. Rivoluzionaria, se rivolta al mondo storico, metafisica, se rivolta al dialogo trascendente col divino. L‟atteggiamento dello spiantato, dello “uomo senza qualità”, che vagheggia l‟essere che non-è, che cosa critica fondamentalmente? Che cosa lamenta il flaneur e il filosofo fondamentalmente del mondo

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storico? Entrambi denunciano, attraverso la propria vicenda esistenziale, la determinazione del destino umano nei termini di un processo naturalistico che non consente spazi alla realtà ontologica della libertà umana, sia questa intesa come grazia, come nous o come illuminazione poetica. Infatti, la struttura del mondo politico, antico e moderno, razionalizzata sistematicamente per accogliere e neutralizzare le spinte deflagranti del divenire e assicurare alla specie umana una fermezza esistenziale attraverso le forme di uno stabilizzato regime politico-culturale, cioè di un ordine “epocale”170 che infreni e trattenga la dissoluzione caotica della vita anomica, - ovvero, la concezione relativa alla necessità di regolamentare normativamente l‟esistenza umana, altrimenti iniqua e deleteria per l‟uomo singolo e per la intera umanità, - è possibile soltanto all‟interno di una antropologia naturalistica che non contempli nella costituzione dell‟essere umano la presenza risolutrice della Grazia divina, quale elemento spirituale compensativo della incompiutezza fisiologica della specie. In questa sistemazione razionalizzata della vita umana, i riferimenti interni all‟esperienza spirituale dell‟uomo o sono riconducibili in termini compatibili con quelli sistemici, ovvero vengono elusi e ignorati, quando non apertamente avversati, ma in ogni caso considerati irrilevanti ai fini della unica e unitaria Bildung socializzata. In un contesto di riferimenti socializzati, cioè predeterminati secondo sistema, la stessa memoria viene ricondotta ai parametri normativamente prescritti come validi, imbrigliata in entro categorie formali omologate dalla vigile sinossi del Potere, il quale governa il caos de-cidendo i criteri di ospitalità del socialmente rilevante, ed espungendo dal novero della rilevanza proprio quell‟Andenken che diventa così l‟oggetto magico della rammemorazione poetica. La polemica verso la  di una tale esclusiva statuizione è pertanto insita inevitabilmente nell‟atteggiamento refrattario del poeta, cantore lirico di un‟altra storia,

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“Epocale” qui è usato nel senso in cui “epoca” è intesa come “una lunga durata, tutti i momenti della quale possono però essere ricondotti ad un‟unità essenziale , i cui tratti fondamentali non mutano, i cui eventi nulla hanno di occasionale, ma rimandano sempre al significato dell‟intero”: M. Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano, 20132, pag. 27.

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la cui significatività è tutta interna alla  dell‟informale immaginazione simbolica, che non de-cide le immagini della realtà ma le rimanda ad altre, senza trattenerle e giudicarle, lasciando che ognuno che le evochi si approprii di quelle giuste. Se contro l‟anomia il Potere impone l‟ordine sistemico, inteso come appropriazione omologante dell‟altro nel suo Sé, facendo dell‟identico il modello ideale dell‟Uno, l‟immagine simbolica del poeta lirico trascende i possibili referenti normativi della memoria socializzata irrompendo catastroficamente nella sintassi politica con la parola evocativa, così come l‟evento messianico è intervenuto entro la necessità fatale della vita naturale. La poesia lirica, dunque, è la laica lieta novella profetica del mondo moderno desacralizzato. La parola irriducibile e insussumibile negli schemi formali del sistema della moderna pax politica. Una parola che, pur essendo oggettivamente eversiva della legge sistemica, non è di proposito rivoluzionaria, ma appartiene a un ordine spiritualmente alieno al sistema politico, il quale vuole è lui ad accusarla di incompatibilità col proprio orizzonte universale, laddove la parola poetica lo può, da parte sua, includere nel proprio mondo simbolico. La sfida è tra la pretesa capacità neutralizzante di ogni alterità ontica da parte del sistema moderno, e la resistente polimorficità della parola poetica e la sua vocazionale idoneità a offrire del mondo una rappresentazione non conforme a quella esclusiva canonizzata. E‟chiaro che il luogo prescelto dal Potere per neutralizzare lo spirito lirico è quello dei rapporti sociali, dove il poeta, moderno , stenta ad ambientarsi, laddove il luogo prediletto dal poeta è quello appunto della dimensione magica della virtualità onirica e della fantasia creativa del dis-adattato e anti-nomico flaneur. Rispetto ai parametri valoriali del  della realtà socializzata, che è quello dell‟economia, la dislocazione dell‟ “uomo senza qualità” sociali appare del tutto privo di razionalità funzionale, e quindi di fruibilità pubblica la sua intelligenza del mondo in-esistente, foss‟anche di una dimensione eterna. Ed è proprio questa incuranza verso l‟inattuale, in cui propriamente si dispiega la dimensione dell‟eterno, che evidenzia e rivela come la prospettiva del Potere moderno sia fondamentalmente dissacratoria e anti-spirituale. Ossia, nel quadro della storia dell‟Occidente cristiano, essenzialmente anti-cristiana.

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A questa conclusione giunge Kierkegaard, e da essa arte per una ricognizione culturale di seconda navigazione. L‟avversione sincera di Kierkegaard per Hegel può giustificarsi solo pensando alla potenza del valore katechontico del suo sistema di pensiero rispetto alla definitiva dissoluzione culturale della civiltà europea, che proprio nella rinnovata filosofia dialettica tenta una nuova sintesi epocale di segno germanico. La Riforma cristiana ha infranto l‟equilibrio teo-politico medievale, ma non ha rimosso dalla civiltà cristiana il germe della dissoluzione anomica, che la sta corrodendo precipitandola verso il suo inevitabile e profetizzato epilogo apocalittico. In questa prospettiva messianica, si evidenzia all‟interno della logica hegeliana la potenza destrutturante del Negativo, che agisce come processore poietico della vita spirituale, e rispetto al quale, ancora una volta come da Platone in poi, è il Lògos a fungere da katechon alla sua forza anomica, imprimendo al corso degli eventi il loro senso immanente. Vi è da dire che in Hegel agisce a proposito della funzione della mediazione metafisica del Logos lo stesso pregiudizio ontologico che animava la fede cristiana degli Alessandrini dei primi secoli, i quali ritenevano appunto che l‟incarnazione di Cristo fosse la realtà stessa mondana del Logos universale. E fu nel concepire Cristo come mediatore tra cielo e terra a determinare l‟idea della Chiesa come luogo storico della salvezza spirituale, dislocando dal laos giudaico veterotestamentale alla neo-testamentale ekklesìa cattolica la koiné topou all‟interno della quale sarebbe stata possibile la metanoia interiore. Hegel non fa che dislocare a sua volta il luogo topico della salvezza dalla Chiesa alla Storia indicandone il percorso fenomeno-logico dello Spirito, quale versione cristiana del Logos che si trans-forma restando sempre identico a sé. A ben riflettere, questa capacità mimetica del Logos è ciò che da Paolo viene indicata come il grande potere seduttivo dell‟Antikeimenos che è venerato come Dio e insediato nel Suo tempio (2 Ts, 2,5). E‟ esso il vero idolo che, come Anticristo, si è insediato nella rappresentazione del Figlio dell‟Uomo prendendo il posto del vero Cristo, che lo scaccerà alla fine dei tempi apocalittici e quindi della Sua parousìa. Ma in che modo il Logos trattiene () la dissoluzione caotica del Negativo, e quindi dell‟  e dell‟ sociale? Attraverso

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l‟universalizzazione del suo principio dialettico, ossia attraverso la esclusione () dall‟ordine normativo dell‟altro da sé, giudicandolo come il proprio  che si oppone alla sua affermazione uni-versale. Il logos esclude dal campo della realtà, teoretica e sociale, l‟altro, il nemico, l‟apostata per restare Uno. L‟unità del dominio logico è esclusiva di ogni opposizione dialettica e politica. Il Governo razionale del caos si costituisce attraverso l‟affermazione esclusiva della del proprio principio di realtà. La ratio del sistema normativizzato è il principio discettivo della separatezza (discessio) del Molteplice dall‟Uno. In questa modalità esclusiva, il Logos afferma la sua universalità. Donde nasce l‟istanza di emancipazione del logos dal mythos? Perché, in altri termini, la ragione sente il bisogno di distanziare la coscienza dalla rappresentazione fantastica? L‟atto primario dell‟Io che si fonda in se stesso, è da Jonas indicato nella volontà, sulla quale si costituisce la persona morale. Essa dunque costituisce, per la presenza a priori, “il fondamento ontologico della libertà”.171 La volizione della libertà, nondimeno, per quanto riflessa, non garantisce della sua bontà, per cui “il dominio della volontà in generale è anche quello dell‟illibertà”, e ciò induce a considerare che “deve esistere un modo della riflessione in cui l‟illibertà è generata”. Questa modalità “inevitabile” della volontà e “fondamentale per la possibilità di un‟autentica libertà” è “visuale, obiettivante” l‟universo dell‟altro, che fonteggia la soggettività dell‟Io affinché si crei uno “spazio” possibile di libertà.172 Si noti come la libertà venga da Jonas intesa come possibilità di opposizione del soggetto agli oggetti del mondo, come tensione antagonistica del soggetto volitivo, ovvero come “movimento di scelta nei confronti della realtà che lo circonda”.173 E‟ dunque con l‟oggettivazione che che la coscienza riflessa si scinde ed emerge dall‟unità originaria come volontà entro uno spazio di libertà che ha per confini l‟Io e l‟universo oggettivato, stando “per conto

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H. Jonas, L’abisso della volontà. Meditazioni filosofiche sul settimo capitolo della Lettera ai Romani di Paolo (1964), tr. it. in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., pag. 470. 172 173

Ibidem.. Ivi, pag. 471.

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suo nel bene e nel male”.174 In questa posizione mediana tra mondo e Sé, l‟Io viene a perdere “l‟umiltà della sua immediata creaturalità” di essere volitivo per mutarsi a una cogitazione che ha per contenuto l‟oggetto. In questo spazio, in cui la decisione assume la determinazione di una scelta di libertà, la volontà si confronta con le altre volontà e si sceglie come atto doveroso, necessario, e pertanto presente alla coscienza. In qusta doverosa attualità della volontà consiste la Legge, quale “insidia della libertà” che questa pone a se stessa come obbligo autonomo,175 consistente nella supposizione errata che l‟autonomia consista nella autolegislazione razionale indipendente dalla logica della ricompensa o della punizione legate al comandamento eteronomo divino. Infatti la supposta indipendenza della pura interiorità della Legge razionale in realtà è una forma di autogratificazione vanitosa “non meno corruttrice dell‟aspettativa di un profitto esterno”.176 L‟aspetto maligno della vanità della volontà è nella stessa indefinita possibilità della libertà, che surrettiziamente trasferisce l‟infallibilità della volizione divina nella gratuità della scelta umana, la quale, per garantire alla sfiducia nelle finite risorse umane rispetto all‟onniscienza divina una qualche giustezza compensativa, “deve essere creativa, deve inventare il male”, che costituisce “il prezzo inevitabile per l‟assolutezza che io, allo stesso tempo, richiedo a me stesso come agente e esigo per me come giudice” a garanzia unica della mia integrità.177 L‟atto di volontà, perché sia espressivo di libertà, deve offrire il bene in antitesi col male attraverso una “auto-esplorazione della coscienza” morale, che è “riflessiva per natura”, adempiendo così alla sua necessità morale.178] Non può dunque sfuggire la libertà alla sua determinazione morale, la cui necessità interna al foro coscienziale, ne stabilisce una condizione di dipendenza che ribalta la visione stoica della libertà come controllo del foro interiore, che può controllare soltanto le modalità (il “come”) delle sue possibilità, ma “non la scelta di un‟azione esterna”. Ed

174 175 176 177 178

Ibidem. Ivi, pag. 472. Ivi, pag. 473. Ivi, pag. 475. Ivi, pag. 474

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è “proprio a causa del suo generico potere sul „come‟ del proprio essere, [che] la libertà deve essere mutevole. Poiché ogni stato effettivo di libertà non semplicemente esiste ma è un prodotto continuato ad infinitum della propria auto-determinazione soggettivamente illimitata” del “come” che “è potenzialmente molteplice”.179 La stessa molteplicità isola l‟atto di libertà dalle sue possibili alternative, isolandolo nella determinazione di sé, ambiguamente sospesa tra possibilità e necessità, tra autenticità e falsità. “E poiché la falsità, senza cui una genuina libertà non potrebbe esistere, è una concreta possibilità dell‟anima, la libertà accortamente fa in modo di realizzare, insieme alla genuinità, la falsità”.180 La volontà, legata alla sua possibile molteplicità di esternazione, contiene dunque in sé, “nella sfera intima dela sua realtà fondamentale”, la possibilità di fruire del male quale condizione e insieme “ombra” della sua libertà.181 La conoscenza, consentendo di oggettivare riflessivamente l‟atto di libertà, consente alla soggettività morale di determinarsi come Dovere, ossia come legalità., sicché è la Legge la condizione stessa della moralità. Il rapporto necessario tra conoscenza, legalità e libertà rende il sapere viziato in origine dal “peccato” della scissione ontologica, che ha provocato la Caduta dell‟uomo dalla condizione unitaria (del Mito) a quella molteplice (della razionalità). L‟auto-riflessione morale, quale ritorno consapevole alla fonte unitaria dell‟Essere, è insieme un ricongiungimento alla possibilità prima di ogni libera determinazione fallace e a una forma di coesistenza di libertà singolari che consentano una comunione spirituale del desiderio morale condiviso. Da qui l‟importanza della sincerità come spoliazione di ogni mascheramento difensivo teso a conseguire effetti secondari rispetto a quello prioritario della affermazione morale, cioè indiretti vantaggi soggettivi e non condivisibili. L‟affermazione di una libertà solitaria, chiusa nella sua scissione irredenta da alcuna condivisione morale, costituisce la condizione stessa della sociaità politicamente definita nei termini di una relazione di dipendenza ad personam dal Potere, non diversa da quella determinatasi a

179 180

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Ivi, pag. 476. Ibidem. Ivi, pag. 477.

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seguito della “osservanza della Legge” mosaica, contro la quale si è esercitata la critica di Paolo dopo quella di Gesù. L‟inveramento della Legge non avviene attraverso l‟infrazione o l‟ignoranza, bensì il superamento dell‟ipocrisia farisaica del legalismo esteriore, privo di intima adesione ai dettati formali. Estesa alla condizione generale di ogni osservanza legalistica, la critica alla volontà che non riesca a offrire una possibilità di trascendenza alla sua libertà investe anche i presupposti dello Stato moderno di diritto, emancipato da ogni limite morale al suo Potere legiferativo, nonché alla condizione della cittadinanza, sospesa a una solipsistica rivendicazione di diritti soggettivi di libertà, il cui esercizio reale si dispega come un agone razionale ma privo di redenzione morale, ossia di finalità trascendente il conflitto stesso delle libertà. Pare ovvio che tale principio d‟ordine sia del tutto incompatibile con il fondamento caritativo dell‟ontologia cristiana, il cui Essere è inclusivo di ogni alterità in nome della comune sostanza spirituale delle creature, la cui molteplicità e finitezza può essere superata soltanto in Dio, l‟Unico vero e fonte genetica di ogni cosa. E solo Dio può governare il Molteplice, non già il Potere dell‟uomo, per cui ogni regno di questo mondo è per sua natura destinato a perire e tramontare al pari della falsa gloria mondana dei suoi idoli socialitari. Il  che trattiene la società umana dalla anarchia anomica è il potere del Logos, che per le sue capacità di trattenere con efficacia, sia pure pro tempore, il mondo dalla dissoluzione, è dunque il vero Anticristo delle profezie apocalittiche (2 Ts), che verrà “spazzato via” () (2, 8) dall‟avvento () del vero Cristo (2, 2). Il falso idolo rispetto alla Verità annunciata dal Vangeli è dunque storicamente l‟Imperium, il governo politico del mondo, e teoreticamente è il Logos, il principio ideale che lo sostiene. L‟Imperium ha all‟interno di sé il suo fattore oppositivo e dissolutori, così come il Logos lo ha nel suo movente dialettico, in quanto entrambi ricercano di portare ad unità (politica e rispettivamente razionale) ciò che per sua natura ontologica è molteplice, forzandola nel senso della volontà a determinarsi così e non diversamente. Da qui la genesi della violenza politica e metafisica insta in tale programma esclusivo e unitario, la cui falsità risiede nel volersi sostituire artificialmente, attraverso l‟ingegneria umana, a ciò che solo Dio può fare ed essere: conseguire l‟unità del Molteplice (la pace sociale) e il superamento della finitezza storico-temporale (l‟eternità). A questo scopo si è votato

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il razionalismo filosofico, col suo culto della Ragione, a partire da Platone, che ha rappresentato l‟eternità di ciò che non trapassa come un modello di realtà ideale meta-storica, pensando una repubblica ideale come un Imperium appunto eterno e definitivo in grado di negare per sempre il divenire. Se Platone lo espelleva dal suo sistema ideale attraverso l‟uso sistematico della tecnica dialettica, Hegel lo ricomprese all‟interno del processo fenomenologico del Logos, come suo momento da superare- conservare, al fine comunque di pervenire a quella totalità immanente al Logos stesso, che è la Storia, in cui l‟Evo ideale e l‟Epoca politica trovassero conciliazione nello Stato moderno.182 Rispetto allo Stato antico, che espelle dalla sua giurisdizione razionale ogni forma allotria, religiosa e artistica, lo Stato moderno nato dalla dissoluzione del Sacro Romano Impero e dalla Riforma incorpora dialetticamente, attraverso il principio del cuius regio eius religio, anche la sacralità religiosa rappresentata dalla Chiesa, facendo del nuovo contesto etico-politico la realtà intrascendibile dello Spirito assoluto, la totalità stessa nel tempo. Ma ciò presupponeva a sua volta parcellizzazione individualistica del sacerdozio personale, che, esautorando la Chiesa da ogni rappresenta divina in terra, faceva della singola persona il referente diretto di Dio, e di ognuno quella personalità assoluta in cui poteva risiedere anche la cittadinanza politica per completarsi in senso totalitario. Attraverso la cittadinanza sacralizzata, lo Stato moderno poteva introiettare la dialettica medievale tra Impero e Chiesa, rappresentando se stesso come il fondamento escatologico della esperienza esistenziale dell‟uomo, il suo terminus a quo e insieme ad quem, eternizzando il temporale. Il Reich come regnum mondano del rex, chiamato a regere il Potere secolare, ha in sé la natura e lo scopo katechonico dell‟Imperium sacralizzato dal cristianesimo storico. Esso eredita anche la missione soteriologica dell‟antico laos ebraico, essendosi mondato dell‟ibrido connubio cattolico con la romanità pagana. L‟universalizzazione dello spirito teutonico tornato alla purezza della fede cristianan costituisce dunque la missione della sapienza germanica post-cattolica, riformata. Il dramma epocale dello spirito riformato nella fede consiste nondimeno di aver liberato, con la fede, anche il Logos che vi era connesso entro la

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Su “Epoche ed Evo”, ved. M. Cacciari, Il potere che frena, cit., pagg. 39-45.

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sintesi teo-logica cattolico-romana, per cui, in un modo dominato dagli albori della civiltà dalla logica del polemos, la discessio della ratio dalla fides ha finito per giovare prevalentemente allo spirito logico, che come ideologia scientistica domina la scena culturale del mondo cristianizzato e non solo. In questo scenario apocalittico, il Katechon che all‟interno della civiltà cristiana storica raffrena l‟estrema rivelazione della essenza del Logos come fondamentalmente anti-cristica è la persistente omologia tra la teologia della tradizione ecclesiastica romana con la politica a essa ispiratasi nei secoli a partire da Costantino, che oggi assume i sembianti imperiali della democrazia capitalistica, erede ideologica della teologia politica della tradizione cristiana. Come nell‟Evo antico e in quello medio, anche nel moderno compare una figura imperiale, a suo dire cristianamente ispirata, ma portatrice di quella logica del polemos che la vera dottrina del Cristo ha inteso rinnegare. L‟Ingannatore del mondo si presenta come Figlio di Dio. La sua energia si esprime nel se-durre dalla fede nel Signore Gesù: la sua apostasia non è discessio o secessio genericamente da Dio, non ha nulla a che vedere con qualsiasi forma di „ateismo‟; essa ha un solo bersaglio: sradicare la fede che Gesù sia il Cristo. Il Figlio della perdizione è Anticristo, e perciò concepibile soltanto all‟interno dell‟Evo cristiano.183 [

Ma in cosa consiste codesto sradicamento della fede in Gesù Cristo? Per rispondere a questa domanda occorre preliminarmente comprendere la natura dell‟Anticristo, dell‟Antikeimenos. Noi siamo generalmente indotti a credere che ne sia interprete un soggetto fisico, un personaggio simile a quello di un uomo o di un demone, e comunque di un soggetto singolare e unico, come un apostata o un imperatore. In realtà, negare la fede in Gesù, conservando la prospettiva escatologica rappresentata dal Cristo, significa eliminare la figura personale del soggetto individuale per sostituirla con una natura diversa, che è quella appunto consustanziale a quella dell‟Anticristo. Occorre dunque chiederci quale sia o possa essere tale natura antichistica, diversa e opposta a quella propriamente e veracemente cristica. Una natura siffatta deve proporsi

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M. Cacciari, Il potere che frena, cit., pag. 50.

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come alternativa a quella della predicazione cristiana. E se questa si compendia nell‟amore unitivo interpersonale e del genere umano, la predicazione antichistica deve invece vertere sulla divisione tra gli uomini e nel genere umano, ossia nella rivalità, nella concorrenza degli interessi mondani, nella lotta: in una parola, nel polemos. L‟essenza della visione anticristica è pertanto polemica, incentrata sulla divisione e sulla distinzione, propria del giudizio logico e della tecnica politica originati dalla ratio avversativa del  . Le dicotomie introdotte da tale  presuppongo l‟astrazione dalla concretezza del divenire delle rispettive posizioni ideali, tali da costituirle come forme assolute e antitetiche. La tecnica dialettica consiste infatti nell‟isolare i concetti dal contesto discorsivo e di considerarli nella loro purezza razionale, ideale. Ciò comporta che ogni determinazione concettuale, positiva e rispettivamente negativa, della concreta realtà in divenire sia una ipostasi ideale, che non ha riscontro effettuale ma deriva appunto dalla trasformazione razionalistica del concreto divenire in astratto ideale. Questa  dal concreto all‟astratto costituisce l‟essenza del ragionamento logico e quindi della tecnica dialettica. Proprio la tecnica dialettica introdotta da Socrate e universalizzata da Platone ha mostrato come il polemos sia l‟essenza del Logos, il metodo filosofico di dividere razionalmente le parole del discorso ( ) dal loro significato simbolico. E pertanto identificare il Cristo con il Logos costituisce il grande travisamento ideo-logico col quale si è costruita la rappresentazione storica della Dòkesis, l‟immagine cristo-logica della Chiesa cristiana cattolica. La portata eversiva della tecnica dialettica consisteva oggettivamente nella eliminazione della medietas dello Stato dal rapporto tra i valori ideali e l‟agire dei singoli cittadini. Se infatti il conseguimento razionale del valore era possibile attraverso il metodo dialettico, e non dunque attraverso i comportamenti derivati dall‟esempio di chi ne era portatore storico, le classi dirigenti dello Stato, questo comportava che il  della vita umana si de localizzava dall‟agorà al ginnasio filosofico, provocando una competizione per il potere giocata sul piano della teoria e delle arti dialettiche, e non più su quello delle armi e delle arti militari. Il  dell‟impegno agonistico di entrambe le prospettive rimaneva lo stesso, ossia il controllo del Potere politico, ma gli strumenti per ottenerlo cambiavano in ragione della sua diversa legittimazione etica,

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conseguente al passaggio () dal piano mitico-religioso tradizionale a quello logico-razionale posto dal filosofo. Per realizzare una perfetta condizione di alterità dialettica, ossia di opposizione ideale, è necessario che la realtà fenomenica rispecchi la situazione ideale, ovvero che la vita concreta sia del tutto idealizzata. L‟obiettivo pertanto della prassi filosofica diventa quella di razionalizzare la vita umana, cioè di portare a opposizione ideale ciò che nella concreta vita in divenire si interseca e si incrocia come mera possibilità. Liberare la realtà dalle sue possibilità diventa tutt‟uno col razionalizzarla al fine di negarne le opposizioni irrazionali. Questa opera di mondatura dialettica condotta sul piano della effettualità sociopolitica costituisce il programma etico-razionale di un vero Governo filosofico della città. Ciò che trattiene da tale liberazione logica è la presenza nella realtà di fattori di contenimento, che legano gli elementi razionali a quelli irrazionali. Essi sono gli elementi del Mito: le credenze, le tradizioni socializzate, i costumi: in una parola, i pregiudizi. Secondo Gadamer, risale all‟Illuminismo “l‟accentuazione negativa” che gli “è abitualmente connessa” quale “giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi obiettivamente rilevanti”, per cui “solo la fondazione, l‟accertamento conforme a un metodo (e non anzitutto la pertinenza concreta alla situazione) dà a un giudizio la sua dignità”. 184 In realtà questa pretesa metodologica è propria del razionalismo in quanto tale, in quanto cioè presupponga l‟identità dell‟ente logico con l‟esistenza ontologica. senza questa pretesa identità, gli elementi non-razionali secondo il metodo non potrebbero essere considerati logicamente diversi e quindi rimossi dalla realtà razionalmente pensata. Senza una previa determinazione della realtà in termini di essenza razionale, il solo principio di esistenza non sarebbe sufficiente a discriminare l‟essere dal non-essere conforme al metodo della sua conoscenza, sicché è tale metodo cognitivo a determinare la stessa realtà (razionale) dell‟esistente. La rappresentazione mitica del mondo non è fornita di alcun “principio di realtà”, non essendo la realtà mitica costituita da alcun principio

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H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pagg. 317-318.

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determinativo ed esclusivo, ma solo da orientamenti assiologici per l‟azione. La costituzione sociale di questi orientamenti per l‟azione sono le istituzioni politiche, normativamente valide per la coesistenza regolata del gruppo. Tutte le istituzioni storiche di un consesso sociale sono stabilite alla regolamentazione dei comportamenti umani, ed esse sono fondate sui pregiudizi, ossia sulla credenza socializzata che qualcosa appartenga alla sfera dell‟essere, e dunque sia sacra, ovvero che non vi appartenga, e dunque sia profana. Il razionalismo rimuove tale credenza ontologica fondamentale e la sostituisce con il fondamento razionale, in base al quale l‟essere è ciò che logicamente sussiste, per cui l‟essere logico e l‟essere esistenziale coincidono. Tale coincidenza è esclusiva di ogni esistenza che non-è logicamente sostenibile. L‟affermazione razionalistica della realtà presuppone dunque l‟ammissione di un pre-giudizio fondativo dell‟essere razionalmente pensato. Da qui il carattere religioso e mitico di ogni posizione razionalistica, compresa quella socratica e platonica, intimamente mitologica. Questa pretesa mito-logica si ripresenta anche nel Cristianesimo storico sotto la rappresentazione dell‟esistenza umana come dimidiata tra una tensione escatologica e soteriologica, e una catechonica e di contenimento dell‟anomia apocalittica precedente la parousia del Signore. Che cosa infatti trattiene dall‟Apocalisse della salvezza spirituale e dà vigore alle potenze terrene () se non la forza renitente del pregiudizio che l‟esistenza umana coincida con la sua vita naturale? E cosa sospinge l‟uomo di fede a perseverare sulla strada della salvezza nonostante le ragioni mondane della vita umana se non la forza dello Spirito divino? Ecco dunque la rappresentazione della contesa tra Bene e Male che la filosofia trasferisce sul piano dell‟Essere, facendo di questo una realtà ontologica meta-fisica. La differenza rispetto alla nuova prospettiva cristiana è che mentre la meta-fisica greca era fisicalistica, quella cristiana è spiritualistica, per cui se il cosmo greco era una realtà condita, quello cristiano è una realtà condenda. E inoltre, se il filosofo non doveva fare altro che contendere al mitografo la legittimazione etica e teoretica per il governo della società, il cristiano si è posto il compito pagano di governare il mondo di Cesare non ancora liberato dalle forze del Male, e perciò costringendosi per una libido dominandi a piegarle utilizzandole contro se stesse, allo scopo di

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neutralizzarne la portata offensiva. Come se la questione del Potere fosse relativa al riconoscimento imperiale dell‟auctoritas morale della Chiesa. Da quel riconoscimento, da parte di Costantino, l‟attesa cristiana della libertà finale dal Male diventa conflitto tra potestas e auctoritas immanenti alla storia umana, giocato sul terreno della politica. Ma, mentre Gesù, combattendo il Male, invitava a non “giudicare” la realtà maligna dell‟uomo per non separarla da quella benigna della creaturalità, il metodo etico-politico socratico invitava al contrario esattamente a distinguere la dimensione razionale della vita umana per salvarla dalla perdizione dei pregiudizi irrazionali. Di fronte alla rimessione evangelica del giudizio finale a Dio, che esautora dalla partecipazione ai conflitti di Cesare, la determinazione filosofica richiede l‟atteggiamento polemico del critico razionalista, impegnandolo a dirimere quelle controversie mondane della vita politica che il credente dovrebbe riservare a Cesare. La costituzione ecclesiale doveva infatti, nelle more, costituire l‟altro modo di vivere per l‟uomo di fede, in attesa della Apocalisse del Cristo. Il novus ordo cristiano non poteva essere dunque universale, poggiato su un nomos valevole imperativamente erga omnes, ma bensì una metanoia individuale, secondo modi e tempi del foro interiore di ognuno. Stabilire modalità politiche di partecipazione alla vita spirituale dei popoli ha significato conferire al Cristianesimo un carattere religioso contro il quale la predicazione di Gesù era entrata in contrasto con lo spirito israelita della Legge vetero-testamentale. L‟adozione del metodo canonico universalistico predispone la Chiesa a partecipare della esigenza katechonica del Potere secolare prestandogli la sua autorevolezza morale, ovvero, a seconda dei casi, minacciando di privarvelo. Da qui la commistione teologico-politica caratteristica dell‟Evo cristiano.185 Ma anche la strutturale debolezza etico-politica

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A partire da Origene, la diffusione del messaggio evangelico viene ritenuto agevolata dall‟Impero romano, la cui esistenza facilita la missione apostolica. Con Eusebio, la pax romana viene intesa come segno provvidenziale del superamento del politeismo e della frantumazione politica degli stati nazionali, “per cui il monoteismo”, che appartiene metafisicamente all‟Impero romano, “è iniziato in linea di principio con la monarchia di Augusto”, anche se “è diventato realtà al tempo di Costantino”. Ciò significa che a partire dai primi secoli di pensiero

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del Potere in Europa, sospeso tra il fine escatologico della salvezza spirituale, che è il fondamento metafisico della sua legittimità morale, e l‟affermazione della volontà di potenza, la cui efficacia costituisce il criterio empirico della sua effettualità.. La nascita del Potere statuale, che superiorem non recognoscens, e le annesse Chiese nazionali, non alterano sostanzialmente il precario equilibrio di una condizione irreparabilmente contraddittoria di una Chiesa alla perenne ricerca di un “compromesso con „governi forti‟, pur sapendo, col realismo politico che ne contraddistingue tutta la tradizione, che mai si daranno pacificamente in terra imperi obbedienti a chi ritiene come proprio carisma l‟essere espressione del Fine dell‟Evo”. 186 [

teologico, “il problema del monoteismo non viene più visto nell‟ottica escatologica, ma sotto l‟aspetto storico e allo stesso tempo politico”. Ved. E. Peterson, Der Monotheismus als politiches Problem (1935), tr. it., Brescia, 1983, pagg. 59 sgg. 186 M. Cacciari, Op. cit., pag. 67. L‟A. avverte a un di presso che solo il valore autonomo di nomos del katechon, indipendente da ogni prospettiva escatologica, affermerebbe “logicamente” il “pieno potere del Principe di questo mondo”, mettendo “a tacere le altre potenze” mostrando “l‟insensatezza del loro confronto” (pag. 69). Ma ciò è già avvenuto nel corso dell‟Evo moderno a seguito della descessio della ratio dalla fides, che ha liberato la dal suo  trascendente. L‟ipotesi poi che i termini della contesa siano necessariamente dialettici, per cui le forze della Chiesa e del Potere politico siano reciprocamente “ognuna per l‟altra in forza del proprio confliggere e compromettersi reciproco” (ibidem), è del tutto mito-logica, in quanto la pretesa ontologica della autofondazione del Logos si esprime attraverso la poiesi del negativo interna all‟Essere logicamente pensato, quale sua opposizione dialettica. A partire da Fichte, ogni posizione del logos razionale implica la posizione anche del suo opposto dialettico. Ma questo movimento auto-poietico è già inscritto nella possibilità del Logos di universalizzarsi nella sua assolutezza, trascendendo come Idea la finitezza dell‟ente, di cui essa è l‟essenza razionale. L‟Evo moderno è quello della dissociazione apostatica, del processo tendenziale verso l‟anomia, rispetto al quale la Chiesa diventa forza katechonica, invertendo il senso finale tradizionale, quando era il Potere secolare a frenare l‟Apocalisse. Senza questa consapevolezza, la stessa vita ecclesiale rischia di diventare viepiù funzionale al dominio della tecnica politica, ossia della attività mondana e temporale del Logos. La pretesa di un reciproco riconoscimento tra le  e la  deve già presumere la rispettiva

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Proprio la diversa e diacronica conversione dell‟uomo singolo alla salvezza in Cristo giustifica il processo soteriologico della Storia in vista della fine dei tempi come evento differito e relativo alla responsabile e libera disposizione umana. In tal senso, i tempi dell‟attesa della parousia sono messianici, in riferimento alla fede salvifica a quo, ed escatologici in riferimento all‟evento soteriologico ad quem. Diversamente dalla storia profana ed etico-politica, quella sacra e caritatevole include nella sua fenomenologia l‟elemento diabolico e maligno dell‟opposizione negativa al Bene, consustanziale ontologicamente alla stessa realtà della sua affermazione, e ve lo comprende quale elemento provvidenziale alla stessa libertà spirituale dell‟uomo. E in virtù della con-sistenza nell‟uomo singolare delle due nature, biologica e spirituale, è possibile assumere la figura umana come simbolica della realtà dell‟Uomo per antonomasia, ossia del Cristo, il cui sacro modello divino-umano consente altresì la considerazione della sacertà dell‟essere umano empirico, destinatario della Grazia divina, che diventa pertanto il vero mediatore tra i due Regni, strappando il ruolo arbitrariamente assunto nel frattempo dalle due Città agostiniane. Costituisce un autentico limite culturale non considerare l‟importanza in tal senso della esperienza intellettuale di Kierkegaard, il quale ha inteso prima e meglio di altri pensatori cristiani la necessità di deflettere dalla traiettoria teologico-politica inerziale assunta dalla civiltà moderna in conseguenza dello smarrimento del senso originario del messaggio cristiano in seno stesso della comunità evangelica riformata, richiamandola alla necessità di un profondo e radicale ripensamento che fosse nel contempo un invito ai cristiani di ogni confessione ad uscire dalla selva oscura della tradizione che stava portando l‟Europa a quello che Maritain chiamerà ”l‟ateismo pratico”. Ma già l‟infausto esito storico al quale è pervenuto l‟impegno ecclesiale dovrebbe indurre a più ponderata riflessione le opinioni confermative della convergente intesa della Chiesa con le potenze terrene sui fini escatologici della missione cristiana, ritenendo imprescindibile che “esplicitamente o implicitamente, le potenze terrene debbono concepirsi

affermazione di enti universali, astratti dalla loro concretezza di esistenza storica in senso spirituale ed escatologico.

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in funzione di quella generale conversio, per la cui grazia la Chiesa lavora”.187 Infatti, solo all‟interno del presupposto che il processo storico effettivo sia, secondo la visione razionalistica della Storia, l‟unico necessariamente possibile, la Chiesa potrebbe perseguire, al di là dei risultati empirici della sua predicazione, il ruolo che essa si è assegnata in conformità della sua teologia politica. Ma se quel presupposto razionalistico venisse a cadere insieme ai suoi fondamenti onto-logici, allora la stessa lettura della Storia della salvezza dovrebbe essere ermeneuticamente rivista nella prospettiva di una rinnovata esegesi scritturale. A partire dalla ridefinizione categoriale di concetti come quello della “mediazione”, al quale, in una prospettiva mutata, potrebbe sostituirsi quello di , ossia di “passaggio” o “transizione”, non da una “realtà” sacra a una profana, o viceversa, come se l‟una o l‟altra potessero sussistere in senso ideale anche nella concreta condizione esistenziale dell‟uomo, ma bensì da una ad altra “dimensione” che preveda come possibilità storica a) la stabilità politica come remedium mali, e quindi la condizione di socialità come  del  rispetto alla deriva anomica, ovvero b) la costituzione ecclesiale quale condizione di esistenza improntata alla spiritualità dei rapporti fraterni. In questo secondo caso, la  non potrebbe confondersi, neppure “dialetticamente”, con una  mondana, ma tra le due comunità umane esisterebbe la stessa distanza ontologica che divide l‟essere spirituale dall‟essere naturale. La lotta diabolica dovrà interessare la condizione costitutiva dell‟esistenza umana, ossia la de-finizione della sua condizione antropologica, sul fondamento della quale pensare i termini della sua co-esistenza. Se pertanto, sul presupposto naturalistico che l‟uomo sia uno  , volessimo costruire una ecclesia spiritualis universale, è chiaro che ci proporremmo una utopia non soltanto “irrealistica” ma essenzialmente in-possibile, perché sarebbe come definire un legno di ferro. Ma è esattamente questo il percorso tracciato dalla Chiesa finora, assumendo che anche il Regno di Dio fosse per gli uomini una “città”, ossia un consorzio politico, di cui bisognasse indicare, per diversificarlo dalla città profana, solo un fine spirituale, conservando gli stessi strumenti operativi della  187

M. Cacciari, Op. cit., pag. 73 e passim.

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pagana, legittimati dalle stesse categorie sociologiche che avevano sorretto il cosmo antico. Questo percorso è stato tampoco dia-bolico da confermare la stessa dimensione politica anche all‟interno della comunità ecclesiastica, ridotto istituzionale della impossibile comunità ecclesiale.188 [Estremamente significativa la vicenda che ha riguardato, in riferimento ai rapporti tra la Chiesa e l‟Impero, la figura eccezionale e unica di Federico II di Staufen, fondatore della “prima monarchia assoluta d‟occidente”,189 che, paragonato come famulus Dei ad Alessandro, si fece discendere dal prototipo di “rex inclytus”, David, il progenitore degli imperatori del Sacro Romano Impero. “Vicarius Christi” per i cristiani orientali che il 17 marzo 1229 lo videro entrare in Gerusalemme come l‟eroe “dell‟antichissima profezia che voleva un signore d‟occidente a liberatore di Gerusalemme”, Federico II Barbarossa ebbe invece l‟appellativo di “pirata” e “discepolo di Maometto” e la comminazione della scomunica per non aver ossequiato i termini di partenza per la crociata da parte di Gregorio IX, che gli

188

Se fosse vero, come sostiene ancora Cacciari, che “la Chiesa è katechon nei confronti della natura umana vulnerata, trattenendola dall‟essere preda dell‟inganno; è katechon nei confronti della sovranità politica, cercando di imporle il riconoscimento che essa è rappresentante anche di fini che quella sovranità trascendono; è, infine, è katechon in se stessa, poiché sa che nel suo stato di peregrina et militans non può non partecipare anche all‟energia dell‟Avversario”, allora tutta la storia travagliata stessa della Chiesa, le sue interne eresie, apostasie, scismi, non avrebbero alcun significato trascendente la dimensione politica e apparirebbero come fenomeni legati a petizioni superstiziosamente dogmatiche e prove di senso escatologico. Solo assumendo infatti che “in linea di principio, in virtù di una legge generale, che per la Chiesa sarebbe divina, la sovranità terrena tanto più sarà effettuale, quanto più apparirà „contenuta‟ in una dimensione spirituale, e saprà mostrarsi ministra dei fini che in essa si esprimono”, si potrà pervenir a quella conclusione. Ma l‟assunzione di quella “linea” è legata solo alla credenza metafisica in quel “principio”, che però per i cristiani è “follia”, e dunque non può essere produttivo della stessa “legge generale” che regola l‟etica politica della civiltà pagana. Solo uscendo dall‟ontologia pagana si può pervenire a un‟etica cristiana, e per far ciò è indispensabile rimettere a Cesare ciò che è del Logos e a Dio ciò che è dello Spirito. Il sine nomine monstrum partorito dalla teologia alessandrina è una Chiesa istituzionale separata dalla  dei fedeli, lasciata di fatto in pasto al Potere delle  secolari. 189 E. Kantorowicz, Federico II imperatore, tr. it., Milano, 1976. pag. 201.

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attribuiti “i tratti dell‟anticristo venuto a oltraggiare la fede, a troneggiare come un dio nel tempio del Signore, per gettare nella confusione il mondo e i veri credenti”. 190 Indicato come cosmocrate e un “secondo cherubino” per la sua somiglianza con il Figlio Unigenito, che lo rendeva alla stregua dei papi “inferiore a Dio, ma superiore agli uomini”, Federico, prima di Napoleone, si auto-incoronò imperatore posandosi sul capo la corona d‟oro a Gerusalemme il 18 marzo nella chiesa del Santo Sepolcro, compiendo così, senza volerlo, anzi quasi contro la sua volontà […] un atto simbolico di ampia portata: rinnovava nel luogo più sacro della cristianità la dipendenza diretta della regalità da Dio e si legava trionfante a Dio senza l‟intermediario della chiesa. […] Non tanto sulla base di dottrine o teorie, quanto sulla base del miracolo, chiaro e manifesto a tutto il mondo, della sua ascesa: il che mostrava la diretta predilezione della sua persona di imperatore più che della astratta regalità”.191

Per la prima volta, Federico abbinando secondo le Scritture la figura del Cristo al regno di Davide, l‟imperatore al Salvatore, confermava la pretesa imperiale avanzata a partire da Carlo Magno di definirsi eredi dell‟eletto da Dio, rivendicando da Dio la diretta dipendenza della loro autorità. Con Federico, re di Gerusalemme, la pretesa diventa realtà, sicché l‟autorità spirituale si trasforma in eredità materiale di Davide. 192 Con lo Staufen “fu compiuta l‟era dell‟impero cristiano e se ne aperse una nuova [in cui] rifulse ancora una volta l‟unione della autorità e sacralità dei primi imperatori cristiani, con lo splendore della nuova monarchia estendentesi su tutto il mondo occidentale”.193 Infatti, combinando la sovranità feudale germanica con la dignità davidica e 190 191

Ivi, pag. 182.

Ivi, pag. 183.

192

Ivi, pag. 185. Il Kantorowicz ricorda opportunamente che a questa pretesa incarnazione cherubinica del Cristo Re, faceva riscontro speculare la figura di Francesco d‟Assisi, “il quale aveva rinnovato il Cristo serafico, il liberatore e il martire”: Ivi, pag. 186. 193 Ivi, pag. 187.

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quella di princeps Romanorum “lo Staufen aveva elevato l‟autorità cesarea del medioevo cristiano a un‟altezza unica”, in quanto, a differenza degli altri imperatori cristiano-romano-germanici che l‟avevano preceduto, Federico II poteva “affermare di possedere un popolo proprio”, a lui strettamente congiunto e con lui identificato tanto da “seguirlo incondizionatamente, non importa se per paura o per amore”. Ciò che fu creazione federiciana fu insomma il “popolo cristiano” che, dopo la fine del popolo romano, potesse dare corpo al concetto di Imperium, in nome del quale gli imperatori governavano l‟ecumene sottoposta al loro potere. L‟accortezza e la capacità di Federico fu di legare la legittimità imperiale del sacro romano impero al proprio carisma personale attraverso la realtà di un popolo, quello tedesco, che per lui funse da “terreno in cui affondare le radici” del suo potere, soddisfacendo il suo “bisogno di dedizione assoluta e consenziente”, indispensabile a “rinsanguare il suo impero”.194 L‟Impero federiciano era così il prototipo di Stato nazionale, creato al fine di dominare le entità politiche locali prive appunto di quella organizzazione amministrativa e militare in grado di contenerle entro la sua volontà di potenza politica. La differenza rispetto a ogni altra forma di Potere, compreso quello imperiale, risiedeva nell‟idea che lo Stato come entità politico-amministrativa dovesse incarnare anche l‟elemento sacrale del rapporto diretto con la volontà di Dio, che esonerava la mediazione della Chiesa, sacralizzando l‟etica del Potere politico. orbene, questo processo di convergenza verso l‟Imperium del fattore religioso e di quello politico era una novità solo in riferimento alla fede cristiana, ma costituiva l‟essenza stessa della tradizione imperiale romana e del suo statalismo. Federico non fece altro che portare a rinnovata realtà i fondamenti tradizionali del Potere imperiale romano. E tale possibilità, al di là della sua storica effettualità, era insita nel concetto stesso di Imperium ereditato dalla Chiesa romano-alessandrina nei suoi rapporti con lo Stato costantiniano, sicché Federico non fece che riprenderla con maggiore accortezza rispetto al tentativo abortito di Ottone III, spostando il baricentro politico dell‟Impero dalla vetusta tradizione romana alla nuova tradizione germanica, non attraverso una rinnovata teologia politica, come avverrà con Lutero, ma trasferendo

194

Ivi, pagg. 202 e 203.

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sulla nazione tedesca quel supporto radicale di cui si è detto, che non poteva più sussistere per ragioni storiche nelle stirpi italiche. E‟ appena il caso di aggiungere che se questo movimento politico-nazionale interno all‟Imperium fosse stato seguito dalla Chiesa, questa avrebbe evitato probabilmente lo scisma luterano e l‟Europa la tragedia rivoluzionaria che segnò la fine della stessa Cristianità. Rispetto a questa prospettiva federiciana, che conduceva a una stretta organicità politico-religiosa dell‟Impero cristiano, la renitenza ecclesiale funse indubitabilmente da katechon conservatore di una polarità dialettica che si rivelerà non derimibile se non con la rimozione dell‟altro termine oppositivo e l‟astratta universalizzazione del proprio, ossia col fideismo mistico da parte religiosa, e con l‟assolutismo statalistico da parte politica. per l‟intanto, ognuno cercava di egemonizzare la propria prospettiva, rendendo difficile la realtà dell‟altra. Vi è da dire che, in virtù della sua fede oltre che della sua accortezza politico-intellettuale, Federico, nonostante considerasse “lo Stato come fine a se stesso, attribuendogli una virtù divina non inferiore a quella della Chiesa”,195 considerando l‟eresia non tanto un peccato di fede quanto una minaccia all‟unità dello Stato, 196 si mostrò pur tuttavia molto più disponibile al dialogo rispetto ai suoi interlocutori ecclesiastici, rivelandosi “d‟una pazienza, d‟una arrendevolezza quasi inconcepibili” verso il Papa, sicché “non fu colpa sua se mancò poco si venisse a nuova guerra” con Gregorio IX. 197 La comminazione della scomunica, le trattative di pace, l‟influenza sui poteri secolari cristiani e la salvaguardia dei possedimenti ecclesiastici, erano pratiche pontificie a tutti gli effetti politiche, che stabiliscono sul piano storico una tensione per il Potere che legittimava da parte secolare una resistenza al dominio ecclesiastico tutta giocata sul piano dell‟immanenza. Ma l‟aspetto forse più deleterio di tale connubio politicistico di sacro e profano consiste nella intercambiabilità dei ruoli sovrani da parte delle due principali autorità storiche, sicché allorquando “l‟eroe” politico prende “sicura coscienza della sua origine

195 196 197

E. Kantorowicz, Op. cit., pag. 223. Ivi, pag. 247. Ivi, pag. 191.

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divina […] riesce a poco a poco a ottenere la propria deificazione”, ossia perviene attraverso le proprie gesta militari a riscuotere un consenso ammirato da parte dei sudditi che gli devono per diritto divino ossequio e obbedienza. La legittimazione sacrale si consegue così attraverso un tipico movente politico, il Potere. Ma questa stessa legittimazione di carattere morale, e di conseguenza religioso per la stretta attinenza alla dimensione pubblica, non potrebbe ottenersi validamente senza una previa e consolidata tradizione ecclesiastica a misurare la portata spirituale dell‟azione politica in riferimento stretto alla sua efficacia mondana, dandole il crisma della approvazione e benedizione divine, facendole così assumere un significato di valore simbolico che in sé esse non potrebbero avere. Questo significato simbolico, che trascende la stessa fatticità empirica dell‟evento politico, è a sua volta consentito dal carattere ideale rivestito dal Potere quale espressione reale di un principio metafisico di cui è riflesso speculare. E di fatto, “nel contempo, non appena si fa manifesta a sua origine divina, la vita del monarca prende un altro corso: dal piano dell‟azione e del successo personale passa a quello della creazione universale”. 198 Senza questa proiezione universalistica del significato simbolico dell‟evento politico non sarebbe stato possibile fargli assumere un carattere anche religioso. E tale significato simbolico era appunto quello teologico. 3. Le posizioni teologiche tra le più significative del tempo medio sono quella, di parte guelfa, espressa dalla teoria del francescano Matteo d‟Acquasparta (1240 ca.-1302), “il più grande discepolo di Bonaventura”,199 e quella, di parte ghibellina, espressa da Dante (12651321). Esse, più di quelle di Tommaso d‟Aquino, risentono infatti della loro diretta portata politica, che le rendono perciò cariche di un forte senso della realtà storica, che mancherebbe loro se fossero meri scritti teoretici. La distinzione evangelica tra il regno di Cesare e quello di Dio, che determina in linea di principio la frattura in ambito ebraico tra mondo 198

Ivi, pag. 201.

199

H. Wolter, Il papato sotto l’influenza degli Angiò, in Storia della Chiesa a c. di H. Jedin, tr. it., Milano, 1993 2, vol. V/1, pag.

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politico e sfera morale tipica della cultura ellenistica, si ricompone in senso religioso attraverso la giustificazione teologica del Potere riassunta nella formula per cui omnis potestas a Deo. Questa, per un verso, implicava la remissione a Cesare degli affari politici, per l‟altro si prestava a considerazioni di ordine politico nel campo spirituale, delle quali si faceva interprete istituzionale la Chiesa, quale corpo mistico di Cristo. Se pertanto il razionalismo etico greco veniva superato dal cristianesimo di cultura ellenistica in virtù di una prospettiva personalistica che consegnava al foro interiore la sfera morale, il retaggio romanistico ricevuto dalla Chiesa spostava la relazione tra etica e politica tipica della concezione classica dell‟Imperium sul piano della visione teologica elaborata in funzione del ruolo mondano-religioso della Chiesa, la quale diventa per lo Stato cristiano ciò che era la prospettiva ideale per il razionalismo politico classico, ossia la depositaria e custode storica dei principii morali eterni di origine divina. La teoria agostiniana delle “due città” o “società umane”, in cui si concentrano, nella prima, “coloro che vivono secondo l‟uomo” e nell‟altra “coloro che vivono secondo Dio”, riflette la visione platonica delle due realtà distinte, facendo, entro la “città terrena”, dello Stato il luogo del “supplizio eterno con il diavolo”, cioè la condizione peccaminosa naturale peritura in sé non redimibile e fomite di magna latrocinia, e della Chiesa il “simbolo della città celeste”, ossia il riflesso della città ideale-divina, per cui entrarvi equivaleva a mondarsi della dimensione umano-terrena, diventando “vasi di misericordia” da “vasi di collera” che si era secondo natura. Citando la prima Lettera ai Corinzi, Agostino afferma che per necessità “ogni individuo, poiché proviene da una stirpe condannata, dapprima sia cattivo e carnale in Adamo in seguito, se si rinnoverà rinascendo in Cristo, sarà buono e spirituale”.200 Questa divisione antropologica tra i membri della stessa “città” terrena dava alla Chiesa una superiorità morale che inevitabilmente, entro la originaria natura lapsa dell‟umanità, costituiva il luogo privilegiato della redenzione, per cui extra Ecclesiam nulla salus, con uno spostamento ideologico del luogo soteriologico dal foro interiore della coscienza a quello storico della istituzione ecclesiastica, che legittimerà il ruolo inevitabilmente politico della Chiesa.

200

Agostino, De civitate Dei, XV, 1.1-2, tr. it. cit., pagg. 742-743.

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Da questa premessa ideologica, infatti, discende che il rapporto tra politica e morale interessa lo Stato e i singoli cristiani, laddove la relazione tra etica e politica diventa dialettica istituzionale tra poteri costituiti rispettivamente in Chiesa e Stato, con la conseguenza che si sviluppa nella storia del Cristianesimo occidentale, in rapporto alla politica, un doppio binario referenziale, uno personale e inerente alla salvezza dell‟anima, e l‟altro relativo alla affermazione della superiorità dei valori religiosi nei confronti di quelli del mero Potere politico. La vera novità rispetto sia al messianismo ebraico che alla prospettiva filosofica ellenistica era che entro l‟ecumene imperiale cristiano sia il Regno che la civica maxima della tradizione stoica coincidevano con la Chiesa universale, la quale, realizzando in terra la comunità degli eletti, legittimava dialetticamente la possibilità di realizzare storicamente anche la comunità politica ideale, avente in sé le proprie ragioni di esistenza. E‟ da questa visione monopolistica della sfera religiosa che nasce per opposizione la assolutistica ragion di Stato fondata su puri princìpi di costituzione a autoconservazione del Potere, che diverrà consapevole oggetto della moderna teoria machiavellica della politica. La Chiesa non avrebbe mai potuto costituire una forza di contenimento () della dissoluzione imperiale a seguito delle invasioni barbariche se quel ruolo non fosse già inscritto nella possibilità della sua funzione religiosa nell‟ambito del Sacrum Imperium concepito da Costantino. Non si capisce altrimenti la sua missione di scongiurare l‟anomia barbarica, ponendola su un piano diverso da quello della civiltà romana, entrambe pagane. La Chiesa, infatti, non destinava più a Cesare le sorti della vita mondana, ma, convertendolo, gli consegnava anche le proprie sorti spirituali, facendo della sua politica il braccio secolare della fede. Da un punto di vista strettamente cristiano, la prospettiva teologicopolitica medievale costituisce una degenerazione ideologica della originaria missione escatologica dei testimoni della fede, in quanto concentra nella dimensione politica lo sforzo soteriologico della Chiesa, facendone un “potere” appunto politico, indicato come “spirituale” solo per distinguerlo da quello rivale dello Stato. di conseguenza all‟esercizio della sua “funzione catecontica, il suo simbolo deve essere anche politicamente rappresentabile. E non semplicemente nelle forme o „figure‟ del culto, ma anche nella sua relazione-conflitto con la sovranità terrena, [per cui] il „compromesso‟ con questa è immanente al

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simbolo stesso”. Con la conseguenza ulteriore e politicamente decisiva che “la Chiesa potrà „giustificare‟ solo quelle forme di potere capaci di esercitare un‟autentica forza catecontica nei confronti dell‟anomia che sempre agisce, che nessuna energia umana potrà da sé super vincere, e che è destinata a disvelarsi nella generale apostasia”, 201 intesa come tralignamento dal fine della conversio del Potere alla causa cristiana, definita dalla Chiesa stessa. Questo legame organico del Cristianesimo al Potere politico finisce per essere l‟identità storica stessa della Chiesa istituzionale, la quale pertanto si identifica teologicamente con la sua missione politica. Lo slittamento teoretico dalla tradizione platonica a quella aristotelica avviene teologicamente con san Tommaso, il quale, vinte le resistenze opposte alla ricezione occidentale dalla Chiesa, ancora agostiniana, ne intraprende una lettura assimilatoria che cerca di contenere la cosmologia naturalistica della Stagirita all‟interno della fede cristiana, trovando il punto di mediazione e di equilibrio tra fede e ragione proprio nella concezione del Potere. Anche Tommaso d‟Aquino accoglie l‟ipotesi classica che la condizione politica sia consustanziale alla natura imperfetta dell‟uomo, che nella socialità ne compensa i limiti, ma fa derivare l‟organizzazione politica alla volontà di Dio, anziché a tecniche razionali o all‟esperienza di governo, per cui l‟ordine provvidenziale diventa nella sua prospettiva teologica la fonte metafisica dei regimi statuali storici. La novità rilevante della teoria politica tomista è che se i principi sono dei meri reggenti (reges) del Potere secolare, la fonte della sovranità non è più nella figura carismatica dell‟Imperator, ma nei suoi destinatari, ossia nel popolo, il cui consenso diventa il criterio stesso della sua legittimazione divina (vox populi vox Dei). Questa teoria, se da un lato conferma l‟autonomia spirituale della Chiesa da ogni ingerenza del Potere politico, dall‟altro destina questo a sua volta a una sua intangibile autonomia ideale dal controllo spirituale della Chiesa, delegando il popolo a quello socio-politico. Pertanto, attribuendo alla Chiesa una sua intangibile sfera di competenza la emancipa da ogni controllo secolare, vincola di contro il Potere politico al consenso popolare, rendendo i prìncipi ostaggi dei loro sudditi. Il rapporto di

201

M. Cacciari, Il potere che frena, cit., pag. 74.

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potere entro le rispettive sfere, spirituale e politica, è simmetricamente opposto e speculare, in quanto mentre la monarchia divina della Chiesa apostolica viene legittimata dalla sua rappresentanza divina in terra, la monarchia secolare degli Stati politici dipende a un tempo da Dio, in riferimento alla destinazione trascendente di ogni potere mondano, e dal popolo in riferimento al suo concreto esercizio. Con la conseguenza che mentre la vita interna alla Chiesa viene svincolata da ogni ingerenza interessata del Potere politico, riservando ad essa una autonomia di principio non revocabile umanamente, la vita storica degli Stati invece viene, tranne che per la provvidenziale funzione escatologica, consegnata alla tradizione politica classica e alla cultura filosofica pagana che la sostiene, giungendo a sostenere come migliore il governo misto.202 Le conseguenze di questa impostazione teologico-politica della questione del Potere per la civiltà occidentale sono enormi, in quanto legittimano all‟interno della cultura cristiana l‟autonomia della sfera politica, che diventa oggetto di considerazione naturalistica, cioè una tecnica di potere sociale del tutto emancipata da ogni vincolo di destinazione trascendente. Mettendo in mora la immensa prospettiva singolaristica dello spiritualismo evangelico, e riabilitando invece teologicamente la sociologia classica pagana, il pensiero cristiano tende sempre più storicamente a diventare religio, funzionale all‟equilibrio della pax populi, anziché al fine della salus animae. Tale religione, secolarizzata in termini civili, mantiene la funzione di collante sociale, attribuendo alla fonte consensuale ( ) dell‟opinione pubblica () un ruolo sempre più politicamente dominante, a detrimento di quello indipendente del Governo, tradizionalmente monarchico. Quanto alla fonte popolare della legittimazione politica, essa produce quella astratta determinazione sociologico-giuridica dell‟ente sovrano (il Popolo) che va sostituendosi alla concreta esistenza storica delle

202

“Talis enim est optima politia, bene commista ex regno, in quantum unus praeest; et aristocratia, in quantum multi principantur secundum virtutem; et ex democratia, idest potestate populi, in quantum ex popularibus possunt eligi principes, et ad populum pertinet electio principum”: Tommaso d‟Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 95, a. 1.

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aristocrazie sociali che costituivano il presupposto stesso della monarchia come regimen principis. Rispetto alla formazione storica di lungo periodo delle aristocrazie nobiliari, la fonte astratta della sovranità popolare determina a sua volta un astratto rapporto col Potere, che diviene sempre più impersonale e burocratico, legislativo e amministrativo, formale e irresponsabile appunto perché collettivo e indeterminato: ideale. Il processo di idealizzazione della fonte della sua legittimità crea a sua volta un Potere ideale, universale, e come tale per principio totalitario. La tesi secondo cui il Potere politico non sarebbe totalitario fino a quando riconosce il Potere spirituale come suo limite, è del tutto sofistica, in quanto la totalità, sia essa spirituale che politica, inerisce a sfere diverse, e quindi, come le plurime categorie ideali, ognuna universale iuxta propria principia. Ed è la teoria tomista delle due sfere indipendenti, confermativa di quella antropologica agostiniana, a creare questo presupposto dis-organico, che costituirà il paradigma gnoseologico dello scientismo moderno, molto più dissolutorio del razionalismo antico, in quanto l‟unità ideale viene ricercata all‟interno di un ordinamento cosmico di natura fisica, anche se creato da Dio, che diventa la meta finale di ciò che il naturalismo greco poneva come premessa. Sicché, mentre la certezza naturalistica antica poneva Dio come mistero, la ricerca naturalistica moderna pone come mistero la Natura, facendo del Creatore un‟ipotesi indimostrabile e gratuitamente fideistica, comunque distaccata da quella ricerca e inutile ai fini del suo esito. E dunque, così come Dio parlerà il linguaggio della Natura creata, anche il Potere regale parlerà il linguaggio formale dei suoi anonimi creatori, tale che Dio sarà concepito come l‟Unità del Molteplice, e il Potere politico come l‟unità delle forze sociali antagonistiche. Unità che non è Governo sintetico ma è astratta reducio ad unum idealistica del Molteplice reale, priva affatto delle sue concrete determinazioni, che per gli uomini sono esistenziali e non meramente naturali. In un quadro di progressiva riabilitazione umanistica del razionalismo classico a detrimento della forma neo-mitica cristiana, il sapere moderno acquista sempre più la sua legittimazione epistemologica dal grado di emancipazione che stabilisce con i pregiudizi teologici, per cui, giusta la separatezza delle rispettive sfere cognitive, la conoscenza scientifica della realtà diventa il metodo gnoseologico pertinente alla dimensione di vita naturalistica dello  

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L‟inserzione della filosofia nell‟orizzonte teo-logico cristiano, provoca col tempo la stessa tensione universalizzante che nell‟antichità fece implodere il cosmo religioso tradizionale a opera del razionalismo socratico-platonico, riproponendone, mutatis mutandis, lo stesso processo di de-mitizzazione. Con la differenza importante che, distinta l‟etica sociale dalla morale individuale, si fece coincidere la prima con la ragion di Stato, e la seconda con una mera petizione di principio di valore individuale e non afferente agli affari politici. La questione dirimente, che si credeva erroneamente quella della fonte ideale del Potere, che è divina, è risultata essere invece quella della sua origine genetica, per cui attribuirlo a Dio ma facendolo esercitare in Suo nome dal popolo, equivale fare di questo il depositario simbolico della volontà di Dio, sostituendo appunto la volontà del Potere alle sue ragioni, pervenendo alla sovversione del suo principio razionalistico. Come più volte asserito, tale conversione della tesi ideale nella sua concreta antitesi reale è l‟esito di ogni astratto razionalismo, che, distinguendo la concreta realtà in divenire in astratte opposte polarità dialettiche, affermando una ne afferma anche l‟altra opposta, idealmente negata ma concretamente immanente come l‟antitesi alla tesi. A questo proposito sarà interessante esaminare le tesi propugnate in compendio da Tommaso nel suo trattatello d‟occasione sulla politica dei principi cristiani, rimasto incompiuto per la morte del destinatario ma comunque significativo delle posizioni esplicitamente classiche del più grande teologo della cristianità. L‟impianto argomentativo della teoria tomistica della società e del governo politico è chiaramente naturalistico e di modello aristotelico. L‟uomo, sostiene infatti Tommaso, essendo intelligente in quanto provvisto “per natura di un lume di ragione naturale”, agisce per un fine, ma in modi diversi, per cui gli necessita una guida, “qualcuno che lo diriga verso il suo fine”. Diversamente sarebbe se “l‟uomo vivesse da solo….re a se stesso sotto l‟autorità di Dio sommo Re, perché attraverso il lume della ragione datogli da Dio dirigerebbe se stesso nelle sue azioni. Invece l‟uomo di sua natura è un animale sociale e politico fatto per vivere insieme agli altri” in quanto deve provvedere alla sua sussistenza “con l‟opera delle sue mani. Ma a far questo un solo uomo non basta”, per cui “agli uomini è necessario vivere in società in modo che l‟uno sia aiutato dall‟altro e ognuno con la ragione si occupi di cose diverse”, come è comprovato da “l‟uso della parola, per mezzo del quale ciascuno può esprimere completamente il

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suo pensiero agli altri”. Il bisogno del governo nasce dalla opportunità di organizzare l‟amministrazione della produzione dei beni ai quali ogni uomo provvede per sé secondo il suo giudizio. “Se ognuno provvedesse soltanto a ciò che gli serve, il popolo si frantumerebbe nei suoi componenti, qualora non ci fosse qualcuno che si occupasse anche del bene comune”, sicché “una società sarà tanto più perfetta quanto più sarà di per sé sufficiente alle necessità della vita”. Questo qualcuno è “il re”, cioè “colui che regge per il bene comune il popolo di una città o di una provincia”.203 Ciò che colpisce a posteriori di queste tesi è la pedissequa ripresa dei fondamenti naturalistici della sociologia antica, senza minimamente dubitare della loro inadeguatezza in riferimento all‟antropologia cristiana. Soprattutto in merito alle ragioni della socialità, Tommaso avvalora la tesi, in sé contraddittoria, della sovranità personale dell‟uomo e della congiunta necessità di condividerla per motivi utilitaristici legati alla sua imperfetta costituzione naturale. Se infatti la perfezione biologica dell‟uomo dipende dalla sua natura sociale, il governo politico diventa a fortiori il motivo più significativo della speculazione razionale, il tema teoretico ‟ per cui quella stessa condizione viene assunta come in trascendibile, facendo pertanto della  una variante religiosa del modello originario di società umana. L‟idea di Chiesa istituzionale si conforma a questo modello socialitario di convivenza, di natura politica. Rispetto al modello agostiniano di società, quello tomista acquisisce la condizione sociale dell‟uomo come di fondamento naturale, ossia condizione necessaria e imprescindibile, non meramente storica ed empirica, per cui ogni ulteriore intervento umano, anche in senso spirituale, deve potersi adattare a tale condizione di base. E se dunque il consorzio socio-politico è naturalmente necessario, esso è voluto imprescindibilmente da Dio, né vale opporglisi, ricercando l‟uomo di fede solo il riconoscimento da parte del Potere della potestà sovrana celeste e la conseguente disposizione del governo politico a perseguire i fini soteriologici coi quali va identificato lo stesso bene sociale comune. In tal modo, la somma potestà divina diventa confermativa della condizione storica del Potere, facendo di questo un “dato” naturalistico

203

Tommaso d‟Aquino, De Regimine Principum (1267 ca.), I, tr. it. di R. Tamburrini, Siena, 1997, pagg. 14-19.

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oggettivo di fronte al quale recedere o comunque conformarsi. Si comprende dunque come la “anomia” sociale acquisisca per Tommaso un significato precipuamente politico, originario rispetto a ogni valutazione teologica, la quale non potrebbe che confermarlo se non volesse opporsi assurdamente all‟ordine naturale. Ed ecco che la “follia” cristiana si arresta all‟evidenza della realtà naturale della condizione politica, rinnegando in nome del suo realismo storico l‟invito di Gesù a seguirlo in fede della charitas avendo reciso ogni altro legame sociale, politico come familiare. Proprio la rescissione di ogni legame naturale rendeva quello spirituale un legame impolitico, diverso da quello politico e di sangue. E nel passaggio ( ) dalla condizione naturale, politica e familiare, a quella spirituale, ecclesiale e caritativa, veniva a realizzarsi esistenzialmente la  interna della conversione nella fede cristiana. Orbene, nella prospettiva tomistica viene eliminata la soluzione di continuità, a favore di una concezione gerarchica del Potere che parte da Dio, si esprime nel popolo e converge nel sovrano, stabilendo tra il vertice divino e la base molteplice degli uomini una corrispondenza speculare ricalcata sull‟idealismo platonico, sia pure adattato alla lettura naturalistica aristotelica. La ricerca dell‟ottimo regime diventa un succedaneo logico alla premessa socio-antropologica, e verte sul fine della conservazione della società stessa, indicato come “la pace”, senza la quale “finisce l‟utilità della vita sociale, perché la moltitudine in disaccordo è gravosa a se stessa”. La pace, a sua volta, indica nella vita sociale ciò che costituisce il fine del ragionamento, ossia “l‟unità” in cui si comprende sia il popolo che il discorso e che Tommaso, citando Paolo, equipara analogicamente a “l‟unità dello spirito nel vincolo della pace” (Efes. IV, 3).204 Stabilita l‟analogia tra la società profana e quella sacra, si comprende anche l‟origine comune della loro destinazione dialettica, consistente nella stessa condizione naturale, che diventa il fondamento ontologico sul quale costruire il cosmo teo-logico cattolico. La persistenza entro lo stesso orizzonte ontologico ha determinato un cambiamento di livello di coscienza, ossia una variazione di “modelli” razionali (o “caselle concettuali” o “paradigmi”), nel senso di Kuhn, i

204

Ivi, pag. 19.

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quali danno alle Weltanschauungen “la massima coerenza interna e la più stretta aderenza alla natura”, fornendo “i requisiti indispensabili per una scienza normale”,205 ma nondimeno interna a uno stesso orizzonte di coscienza, definito dall‟onto-logia greca, generatrice di .In riferimento allo stesso comune orizzonte ontologico, ogni variazione di modello scientifico costituisce non già un passaggio di orizzonte () ma una digressione rielaborativa (), che prende ad oggetto di analisi le forme strutturali del , i “paradigmi” appunto, ma non i fondamenti di credenza () che li sostengono. Per cui la filosofia rielabora i contenuti del Mito, ma non fuoriesce dai suoi fondamenti epistemici, che nel caso greco sono naturalistici. La cura () teoretica della coerenza strutturale dei , propria del filosofare, non inerisce soltanto al controllo epistemologico, ma anche al governo della struttura. Ed è esattamente questo aspetto congiunto di controllo e di governo delle forme teoriche della conoscenza della realtà a determinare quella fermata, quel contenimento di salvaguardia delle forme ideali che costituisce il senso metafisico della conservazione delle forme politico-istituzionali espressa nell‟idea paolina di . Da qui il rapporto strettissimo tra la intesa come conoscenza scientifica, e il suo connesso senso politico di obbedienza all‟autorità costituita. Non si dà pertanto Potere senza Conoscenza. Il sapere che è potere, nel senso di Bacone, non è dunque una scoperta moderna, ma è il senso stesso del processo teoretico del sapere greco come tecnica () a un tempo dialettica e politica. Orbene, rispetto a questo orizzonte di coscienza pagano, la visione della realtà predicata da Gesù di Nazareth rappresenta non già un cambiamento di paradigma ma una vera e propria  ontologica, la cui consapevolezza metafisica mancò però del tutto alla cultura cristiana medievale, compresa quella espressa sommamente dalla teologia di S. Tommaso. “La divina provvidenza”, afferma Tommaso, “dispone ogni cosa nel modo migliore”, provenendo il bene “da un‟unica causa”, che lo rende

205

Th. S. Kuhn, The Structure oi Scientific Revolution, tr. it. cit., pagg. 21 e 30. Il corsivo è nostro.

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“più forte”, laddove “il male invece sorge distintamente da difetti particolari”, ossia da “più cause”, che lo rendono perciò “più debole” del bene. In campo politico, parimenti, considerato che “un governo è tanto più ingiusto quanto più si allontana dal bene comune”, “è bene dunque che un regime, se giusto, sia monarchico, affinché sia più forte. Se invece tende all‟ingiustizia, è meglio che sia di molti, affinché sia più debole e i molti si ostacolino a vicenda. Fra i governi ingiusti dunque il più tollerabile è la „democrazia‟, il peggiore la tirannide”. 206 Per “bene comune” o “giustizia” Tommaso intende la sussistenza della società, ovvero gli interessi della moltitudine, del popolo, mentre per “ingiustizia” e “bene privato” intende l‟interesse dei governanti. 207 E dunque quello di bene comune è un concetto empirico, che può essere verificato solo in itinere durante il governo concreto della società. Se ciò è vero, la determinazione astratta del miglior governo è impossibile, essendo il giudizio in merito al suo esercizio sempre e solo possibile a posteriori. Di conseguenza, basterà che la moltitudine, cioè i destinatari del “bene comune”, approvino un regime politico perché esso sia anche giusto. Ma questa auto-referenzialità etica della vita politica è esattamente quella condizione doxastica stigmatizzata dal razionalismo etico di matrice socratica. Perché il giudizio sul miglior regime politico abbia una sua validità razionale, esso deve emanciparsi dall‟opinione degli stessi beneficiari e affidarsi a un criterio di validità oggettiva che per i filosofi Greci era appunto logico-razionale, e per Tommaso è “il diritto”,208 ossia la volontà diretta al bene comune, indicato come “governo utile” o tendente alla “unità”, 209 che consiste finalmente nella “pace che è il bene principale della comunità civile”. 210 Ma, l‟utile può coincidere con l‟etico se il principio razionale (ideale) lo si fa coincidere con il criterio generale (opinione), e l‟universalità con la

206

Tommaso d‟Aquino, De Regimine Principum, Libro I, cap. 3, tr. it. cit., pagg. 22-23. 207 Ivi, pag. 22. 208 209

210

Ivi, Libro, I, pag. 23. Ivi, Libro I, pag. 22. Ivi, Libro I, cap. 5, pag. 28.

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società stessa. In tal caso le ragioni immanenti all‟azione del Governo giusto sono coincidenti con la funzionalità stessa della sua capacità politica, e viceversa. Proprio, però, questa convertibilità dell‟azione politica con l‟azione di governo, rende la prima etica e la seconda politica. Sicché nel momento in cui i due principi si convertono reciprocamente, ecco che diventa opinabile il principio etico, e di valore etico ogni condivisa volontà politica. Questo è esattamente il principio democratico, che significativamente viene indicato, anticipando di sette secoli un noto detto di W. Churchill, come “il migliore regime tra i peggiori”, ossia, considerando la natura umana, il più sostenibile. Tenuto conto di quanto affermato circa il regime monarchico, ecco che con tale teoria tomista ritroviamo in nuce quella del sistema misto, che consegna alla monarchia la salvaguardia del principio unitario del bene comune, e alla democrazia il consenso popolare indispensabile alla legittimazione politica della giustezza etica del governo. Tommaso non si avvede che affidando al consenso sociale la determinazione del giudizio etico, si abbandona la funzione di Governo alla prassi politica “utile” di salvaguardare la coesione del gruppo sociale, che diventa perciò il fine stesso dell‟azione di Governo, identificandola perciò con la stessa volontà di potenza dello Stato, ossia col Potere. Divenuta l‟azione di Governo identica all‟esercizio del Potere, bastava de-mitizzare il concetto di “bene comune” per emancipare la politica da ogni indirizzo morale, esautorando di conseguenza il ruolo della Chiesa di custode religiosa dei principi morali per avere lo Stato assolutistico moderno. Ed è infatti quanto è avvenuto in Europa con la “scienza politica” del Machiavelli e con lo Stato teorizzato da Hobbes. Ma tale sviluppo era potenzialmente già nella dottrina politica di Tommaso, nella sua teologia del Potere.. Affrontato dal punto di vista del “male”, il regime politico pluralistico è per Tommaso più soggetto a discordia rispetto al regime monarchico, e “dunque bisogna fuggire di più i pericoli che provengono dal governo di più uomini piuttosto che dalla monarchia”. Infatti, la discordia tra molti genera la prevalenza di uno sugli altri con conseguente usurpazione del dominio sulla società, per cui, come dimostra la storia, “quasi tutte le democrazie sono finite in tirannide, come appare manifesto nella repubblica romana”. E poiché il male maggiore è la tirannide, e questa si ingenera più spesso dalle democrazie che dalle monarchie, “ne consegue che è preferibile vivere sotto il governo di un solo re piuttosto

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che sotto il governo di più uomini”. 211 Se a parte boni il miglior governo appare quello democratico ché evita la concentrazione tirannica del Potere, a parte mali sembra che il regime migliore sia quello monarchico. Ma anche in questo caso l‟apparente preferenza tomista alla monarchia, va sempre rapportata alla fonte della legittimazione del Potere. Infatti, chi è preposto a scegliere a preferenza il regime migliore? Il popolo, e dunque in ogni caso la sua volontà, è determinante, anche se si ammette che “niente sembra più fragile della gloria e dell‟onore nella considerazione degli uomini; poiché essi dipendono dalle opinioni degli uomini, di cui nulla è più mutevole nella vita”.212 Ciò nonostante, nessun regno “si può conservare a lungo [se] è in contrasto con i desideri dei molti”. 213 Stabilita la corrispondenza speculare tra ordine ideale-divino e ordine reale-politico, era inevitabile che la vox populi desse fiato alla vox Dei. Ma la voce divina del popolo restava comunque quella di un ente collettivo e impersonale, che soltanto l‟esperienza politica del Potere rendeva reale. E questa condizione di dipendenza da Cesare era esattamente ciò che doveva essere distinto e separato da ciò che spettava a Dio, che era l‟esperienza spirituale di ogni singolo uomo. Invece ancora in Tommaso ritroviamo l‟antico ente collettivo politico, senza il contraltare morale della coscienza personale, per cui la dimensione politica diventava anche in lui, come per i prediletti filosofi greci, il luogo ‟ della realtà umana e dunque anche umanamente divina. La stessa funzione regale di “ricercare il bene della comunità”, 214 è un fine impersonale, diretto a conseguire risultati generali non commensurabili con gli aspetti esistenziali dei singoli destinatari, che non sono di spettanza della politica. E dunque, se i singoli possono resistere alla iniqua politica di un Potere tirannico, la loro disposizione d‟animo va considerata relativamente alla loro vita sociale e collettiva di popolo. E‟ il popolo che può soffrire politicamente la tirannide, ma non è la coscienza singolare che può essere moralmente indulgente

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Ivi, Libro I, cap. 5, pagg. 28-29. Ivi, Libro I, cap. 7, pag. 35. Ivi, Libro I, cap. 10, pag. 48. Ivi, Libro I, cap. 7, pag. 34.

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verso un Potere iniquo, perché questa deve rispondere a Dio e non a Cesare. Pertanto, se la voce di Dio risuona politicamente nel Governo della città, essa stessa risuona moralmente nelle singole coscienze con accenti ben diversi. Sono due linguaggi, quello del Potere e quello morale, che per un cristiano non vanno confusi, come avveniva per la sapienza antica. E poiché l‟etica antica era comunque una ragione politica, la differenza rispetto ad essa della morale cristiana risiedeva nella diversità della considerazione coscienziale rispetto a quella relativa alla vita sociale del gruppo. Se dunque nella considerazione morale entrasse la valutazione politica, il dominio di Cesare si estenderebbe anche alla coscienza, prendendo il suo Potere anche il posto spettante a Dio. Il tributo a Cesare è di natura politica, laddove il tributo a Dio è il dovere di coscienza. La doppia lettura della storia poteva condurre al conflitto solo se le due regalità, politica e divina, insistessero sullo stesso dominio. Ma la dicotomia dialettica nemicus – hostis poteva insorgere se e solo se la ekklesia e la polis fossero sovrapponibili nello stesso concetto di realtà. Gesù, però, non predicava questo, anzi rifuggiva scientemente da ogni tentativo zelotico di portare la diatriba esistenziale sul piano dei rapporti politici. Questo errore fu invece commesso dalla Chiesa cattolico-romana, concepita come l‟unità mistica del corpo sociale, ossia dell‟entità collettiva del popolo dei credenti, la cui realtà storica era inevitabilmente istituzionale, ossia a sua volta politico-giuridico-amministrativa, e come tale concorrente a quella dichiaratamente ed esclusivamente politica dello Stato. Da qui la confusione deleteria tra la persona morale e quella istituzionale, che poteva riguardare la realtà fisica dei corpi, ma non poteva inerire giammai alla dimensione spirituale, nella quale non c‟è propriamente collettività ma appunto solo singolarità. La differenza tra le due dimensioni risiede nella impossibilità di cogliere l‟Unità spirituale, in cui consiste la verità della fede in Dio, nella Molteplicità politica, ossia nello Stato, che può conseguire soltanto l‟effimera unità politica, la gloria terrena, che il principe consapevole deve conseguire e insieme disprezzare in nome della vera virtù. Infatti la ricerca della gloria terrena porta alla “ipocrisia”, alla finzione e falsità della simulazione di “quelli che fanno le buone opere

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per essere visti dagli uomini”.215 E‟ la condizione stessa della finitezza a generare le contraddizioni, e con esse l‟anelito al loro superamento, la ricerca di quell‟armonica unità del molteplice che la sapienza antica ha creduto di poter ottenere con l‟uso metodico della ragione, ossia con la filosofia. Lo Stato virtuoso e l‟ottimo vivere sociale consisteva appunto nella realizzazione di questo anelito unitario sul piano dei rapporti sociali, ossia sul terreno della vita politica. Orbene, la ricerca dello Stato ideale per la cultura antica è il compito della virtù applicata alla ragione, ma cristianamente essa è un miraggio dettato dalla stoltizia umana, fidente nella possibilità di convertire l‟essere molteplice in essere unitario, facendo del kaos un kosmos razionale, coerentemente strutturato a immagine del modello ideale eterno. Ma il riscontro stesso delle contraddizioni reali che la ragione incontra nel mondo molteplice sono il segno visibile della natura propria al Molteplice, la sua finitezza ontologica, che alcuna theoria potrà convertire in armonia esistenziale. La “verità” del Cristianesimo è nella consapevolezza della impossibilità del percorso filosofico nel tentativo di conseguire l‟Unità dell‟Essere in termini politici, consoni a quelli previsti dal metodo della ragione. E quella Verità nasce e può affermarsi solo nella consapevolezza del fallimento della filosofia, ossia nell‟incongruità del metodo razionalistico di trans-formare la realtà finita in realtà specchio dell‟eterno. Pertanto, aver cercato da parte cristiana di utilizzare il metodo razionale, concepito per la fruibilità politica, come strumento della salvezza spirituale, è stato equivalente a rapportare il piano trascendente della fede escatologica su quello immanente della socialità, entrando in questo modo in concorrenza con la virtù politica creando i prodromi del messianismo ideologico delle utopie sociali. Un Cristianesimo come perfezionata ideologia messianica è stata la prospettiva etico-politica di Costantino, il Cesare convertito. Ma Gesù non predicava la conversione di Cesare, perché non pensava a una fede come a una religione di Stato, e neppure a uno Stato religioso. Quelli c‟erano già. La idolatria romana dell‟Imperium e la religione messianica degli Ebrei. Non bastando al re consapevole dei suoi compiti di governo “l‟onore mondano e la gloria umana”, egli ha da attenderlo da Dio, quale Suo

215

Ivi, Libro I, cap. 7, pagg. 35-36.

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“ministro”, secondo il libro della Sapienza, provenendo, secondo l‟Apostolo, “ogni potere da Dio” (Rm, XIII, 1).216 La felicità, secondo Tommaso, consiste per l‟uomo nel “raggiungere ciò che maggiormente desidera”. Per un re il desiderio massimo è nel “ben governare i sudditi”, il cui premio che lo rende felice è la “beatitudine”, che è “bene perfetto” in quanto comprendente tutto ciò che è possibile desiderare, e che non può essere un bene terreno,”poiché nessuna cosa terrena”, [non essendo “permanente”] può quietare il desiderio” e dunque “può rendere beati, al punto di poter essere una ricompensa adeguata per il re”. E mentre nessuna cosa terrena può pervenire a perfezione in quanto variabile per qualità, lo può l‟anima umana, il cui stadio finale è appunto la beatitudine, “il bene completo al quale tutti desiderano pervenire”.217 Poiché il desiderio “tende al proprio principio dal quale è causato il suo essere”, il desiderio dell‟anima non può che essere Dio, che l‟ha creata e dunque ne è la sua causa, presso la quale si trova inoltre il “bene universale”, che l‟uomo conosce “per mezzo dell‟intelletto, e lo desidera per mezzo della volontà”. Conseguire tale sommo bene per aderire a Dio resta compito precipuo del re, la cui salvezza eterna salverà anche i suoi sudditi “portandoli alla parità con gli angeli”.218 Pertanto, secondo Tommaso, è possibile per ispirazione divina non solo raggiungere la beatitudine ma, attraverso il buon governo, farla conseguire universalmente al popolo, rendendo così potenzialmente la politica virtuosa una tecnica soteriologica. Se l‟obiettivo della beatitudine universale è conseguibile dai re, figuriamoci come sia ancor più possibile ai Papi, la cui ispirazione divina non è un obiettivo morale di buon governo ma la premessa stessa della loro azione pastorale. E dunque in questo scritto protrettico si nasconde una indiretta apologia del governo papale, predisposto alla guida della Chiesa, simbolo della città celeste. La confusione traspare chiaramente allorquando si afferma che “il bene della comunità è più grande e più divino del bene di uno solo”, 219

216

Ivi, Libro I, cap. 8, pag. 38. Ivi, Libro I, cap. 8, pag. 40. 218 Ivi, Libro I, cap. 8, pag. 41. 217

219

Ivi, Libro I, cap. 9, pag. 43.

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facendo così della “pace di tutta la comunità”, e non già della salvezza comune, il fine del Governo regale. Ma questa prevalenza del bene collettivo sul male individuale fu appunto la logica che condusse al martirio di Gesù in nome dell‟interesse politico dell‟Impero e della pace sociale in Galilea. L‟errore morale consiste nel metterli sullo stesso piano di valutazione, che è poi quello politico. Infatti, per salvaguardare la pace sociale è giustificabile anche un massacro collettivo perpetrato in nome dell‟interesse superiore generale. Resta però che il male, in quanto tale, è sempre giustificabile con un bene maggiore dello stesso genere, ma non è riscattabile con un fine eterogeneo, per cui il principio machiavelliano del fine che giustifica i mezzi, è ammissibile solo nell‟ambito della stessa natura comune. Ma non può la morte di un innocente (Gesù) essere strumento della vita collettiva. La morte politica del singolo può ammettersi solo se la sentenza di condanna riguarda il soggetto al regno politico e viene assunta in termini omogeneamente politici, per cui non può giustificarsi politicamente un reato religioso, se non appunto considerare la religione un affare di Stato. La vertenza tra Pilato e il Sinedrio verte esattamente sulla qualità del reato e quindi del tribunale competente a comminare la pena. Che l‟appello derimente al popolo non abbia condotto a una risoluzione divinamente ispirata, non è luogo qui di precisare, ma semmai conferma solo la pericolosità di una tale supposta coincidenza. Sicché, affermare che sia Dio a permettere che “vi siano dei mali” allo scopo di far “derivare [da essi] dei beni per l‟utilità e la bellezza dell‟universo”, 220 non è solo blasfemo ma profondamente errato, in quanto la sequenza delle cause maligne e degli effetti benigni interessa due ordini di valori del tutto diversi, come quello naturale, che riguarda le conseguenze effettuali di cause fisiche, e quello morale, inerente alla situazione esistenziale dell‟uomo quale singolarità spirituale. Per cui asserire che “Dio permette che i tiranni governino per punire i peccati dei sudditi”,221 equivale ad associare la “ira di Dio” a moventi immanenti all‟agire umano, di carattere politico, facendoLo intervenire su ciò che è pertinenza di Cesare.

220 221

Ivi, Libro I, cap. 9, pag. 44. Ivi, Libro I, cap. 10, pag. 50.

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Da tale confusione dottrinale si è potuta stabilire una falsa correlazione tra il noto terremoto di Lisbona del 1755 con la supposta giustizia divina. Ma Dio Padre non può presiedere né ai fenomeni tellurici né tantomeno al Governo degli Stati, e per la semplice ragione che ogni evento in sé considerato non è giudicabile che per i suoi effetti umani, che variano quanto la diversa considerazione del loro legame di senso. Per questa elementare ma essenziale ragione, può sussistere solo una storia spirituale per ogni uomo, e infinite sequenze fenomeniche per le vicende collettive, relative ai loro legami di senso. E dunque la Storia in senso storicistico è solo una proiezione idealistica di una fenomenologia naturalistica astratta dalla sua concreta effettualità molteplice e trasformata in unitaria sequenza spirituale. Ma i processi collettivi non sono mai unitari, unitario è il solo percorso trascelto tra i possibili. Se la scelta avviene attraverso lo strumento della ragione, ogni conoscenza della realtà diventa razionale, e la stessa realtà, in quanto oggetto di ragione, viene considerata in sé razionale. Ma razionale è il metodo, per cui filosofico o scientifico non è l‟Essere in sé quale prodotto della creazione, ma appunto l‟essere razionale. Mutando il metodo, ossia il criterio della conoscenza, muta anche l‟essenza dell‟oggetto metodicamente conosciuto. Ora, esattamente in questo passaggio () consiste la “rivoluzione” spirituale cristiana, ossia nell‟inserzione di un altro modo di conoscere la realtà rispetto a quello razionalistico, in virtù del quale l‟altro non è il potenziale amico-nemico della logica politica, ma il prossimo, con cui solidarizzare come la coscienza fa con la propria esperienza di sé. E‟ ovvio che questa prospettiva impolitica richiedesse una  spirituale che implicasse una nuova visione, non solo dei rapporti inter-personali, ma della intera realtà, fino ad allora culturalmente strutturata secondo le coordinate del cosmo pagano, tale che non fosse uno sviluppo perfezionato delle teorie cosmologiche pregresse, ma una nuova fondazione dell‟Essere. Durante l‟intervallo ( ) della transizione verso il futuro rinascimento dell‟Uomo a immagine del Nuovo Adamo, la vita organizzata secondo il sapere tradizionale andava consegnata a Cesare, mentre la vita rifondata secondo la fede spirituale andava dedicata a Dio. se la vita umana organizzata da Cesare era lo Stato, e la nuova esistenza spirituale doveva essere costruita nella Chiesa, le due comunità, politica e rispettivamente spirituale, non potevano adottare gli stessi criteri di convivenza, ma criteri diversi

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quanto lo sono la politica e la carità. Adottare, di contro, il sapere che presiedeva alla logica politica, equivaleva a introdurre la ragione di Cesare nella città di Dio, nella Chiesa, facendo di questa una entità rivale a quella statuale, in contesa sullo stesso terreno di rivalsa. Persino l‟accenno alla continuità con le credenze pagane nella deificazione dei sovrani,222 dichiara esplicitamente la derivazione mitica del premio celeste agli eroi.223 La differenza poteva discriminarsi solo attraverso la diversa considerazione dell‟esperienza umana nei rispettivi contesti esistenziali. Infatti, nella realtà politica, il valore dell‟uomo è commisurato a ciò che lo rende funzionale alla vita collettiva. Diversamente, nella Chiesa di Cristo il singolo uomo, in quanto immagine di Dio, è un valore assoluto in se stesso, considerabile alla stregua di un mondo inconfondibile e unico. Ed è questa caratteristica ontologica a fare dell‟uomo una creatura divina in rapporto col suo Creatore, oltre che con gli enti della realtà fisico-naturale, anzitutto con quelli politici ed economici della natura sociale. Tra il cosmo pagano, che è una struttura razionale, e il mondo spirituale, che è una esperienza esistenziale, passa la stessa differenza tra la conoscenza dialettica degli astratti nessi concettuali e quella simbolica delle cifre mnestiche della concreta esistenza. La funzione della politica interviene, a partire da Platone, nel momento in cui dalla contemplazione individuale dell‟Essere ideale si intenda passare alla fattiva corrispondenza della sua perfetta armonia nel mondo reale, appunto attraverso gli strumenti della politica, la quale diventa il braccio secolare della Ragione, del Logos. Il compito razionale della

222

Ivi, Libro I, cap. 9, pag. 46.

223

Interessante notare a proposito che, a fronte dello scopo utilitario del buon governo del principe, il suo personale interesse a non tralignare dal percorso virtuoso e diventare tiranno deriva, come detto, dal premio celeste eterno, che “sarebbe sciocco perdere per dei beni così meschini e soggetti all‟usura del tempo” come quelli mondani, ma anche “dall‟amore di amicizia che unisce gli uomini virtuosi e conserva e promuove la virtù”. La tirannide non dura a lungo, poiché non ha l‟appoggio popolare e il solo timore “è un debole fondamento” del potere, potendo spingere i sudditi alla disperazione, e “la disperazione della salvezza poi spinge a tentare audacemente qualunque cosa”: Ivi, Libro I, cap. 10, pagg. 46-47 e 49.

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politica è quello di rendere attuale la possibilità insita nell‟Essere. per rendere attuale la possibilità, la politica deve intervenire fattivamente ad escludere ogni altra possibilità diversa da quella razionale. Ciò vuol dire che la politica agisce nel senso di dare armonia razionale al caos. La legittimazione morale inerente alla funzione politica dipende strettamente dalla fede che tra le tante possibilità insite nell‟Essere quella razionale sia l‟unica veramente soddisfacente per l‟esistenza umana. Infatti, che la possibilità razionale sia quella “vera” è un atto di fede, una credenza metafisica, che col tempo si è rivelata priva di fondamenti epistemici. Ma, nonostante la demitizzazione della credenza razionalistica della filosofia idealistica, operata già a partire dalla predicazione cristiana, la politica continua a costituire lo strumento valido per la soluzione della convivenza umana, e quindi a godere di una credibilità tecnica che la sua legittimazione razionale ha teoreticamente perduto. Occorre comprendere le ragioni di tale persistenza. Le conseguenze che ne derivano sono la progressiva dissociazione () del sapere teoretico dalla prassi politica, e il conseguente predominio dell‟aspetto tecnico della politica, l‟economia, finalizzato alla esclusiva volontà di potenza del Potere, cioè alla sola sussistenza del gruppo sociale, dovuto alla stessa perdita della politica di ogni intrinseco finalismo escatologico. Circa le ragioni della persistenza della logica politica nella soluzione delle questioni umane, non ci si può esimere dal considerare le responsabilità avute dalla teologia cristiana nell‟elaborare una Weltanschauung in cui la politica in senso razionalistico-pagano rientrava a pieno titolo nell‟ambito di una confermata concezione della storia come dinamica di soggetti collettivi, che l‟assumeva come strumento della stessa volontà divina. Ma assegnare alla politica una funzione strumentale al disegno provvidenziale non poteva non implicare anche la sua legittimazione teoretica in ambito spiritualistico, ossia l‟accreditamento cristiano della fede pagana nel Logos, che diventa addirittura l‟espressione terrena del Cristo, la forma concettuale dell‟incarnazione divina. Non è difficile intendere che, diventato un Mito religioso, il cristianesimo sia stato oggetto di demitizzazione razionalistica da parte dello stesso metodo logico adottato per giustificare teoreticamente la fede nella Rivelazione. Né tampoco è difficile comprendere come l‟intera teo-logia cristiana risulti, retrospettivamente agli occhi del

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credente consapevole, una imponente quanto incessante rielaborazione () della credenza greca nella verità del Logos, ossia del Mito cosmologico razionalistico della civiltà naturalistica pagana. E infatti Tomaso afferma che la natura sia il modello dell‟arte, e dalle cose naturali “impariamo ad agire secondo ragione”, sicché “s‟impone come la miglior cosa desumere il compito del re dalla forma del governo esistente nella natura”, il cui governo “universale” viene inteso come lo stesso “governo di Dio”.224 Inoltre, a conferma della specularità tra il “governo divino” universale in senso idealistico e il governo particolare dell‟uomo, micro-cosmo dell‟universo, Tommaso stabilisce una relazione tra la volontà di Dio, “che con la sua provvidenza governa ogni cosa”, e “la ragione” la quale, egli afferma, “è presente nell‟uomo, come Dio è nel mondo”,225 dove è palese la corrispondenza tra il cosmo razionale del Logos naturalistico pagano e la Provvidenza divina in senso cristiano. La preoccupazione teologica di assumere entro il finalismo escatologico cristiano la tradizione della sapienza greca non consente di considerare il carattere più essenziale della predicazione cristiana, che è la diversità del fondamento spirituale dell‟esperienza singolare e individuale dell‟uomo, che trovava in Dio il suo referente normativo, rispetto al fondamento razionalistico della sua esperienza collettiva e sociale, che quel referente lo trovava in Cesare. Proprio l‟assunzione della concezione universalistica greca nell‟ambito del pensiero teologico ha permesso la dialettica Chiesa-Stato, quali proiezioni mondane di enti ideali accomunati entrambi dalla potestà divina. Ma se per lo Stato, di spettanza al potere di Cesare, era possibile una riconferma dei presupposto naturalistici della filosofia politica greca, era chiaramente una forzatura idealistica fare dell‟uomo un ente naturalistico qual era grecamente in qualità di membro della polis. Era infatti impossibile, nello spirito cristiano, estendere la concezione organicistica dello Stato alla Chiesa, in quanto la  non è un ente socio-politico ma una comunità spirituale di singoli credenti il cui collante di fede è Cristo. La differenza rispetto allo Stato è radicale, non differendo la società

224 225

Ivi, Libro I, cap. 12, pag. 54, corsivo nostro. Ibidem.

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politica dalla comunità spirituale per le rispettive Weltanschauungen ma per il diverso fondamento ontologico, che per il cosmo pagano è il  e per il mondo cristiano è l‟ . Un mondo umano pensato alla luce della carità () cioè della benevolenza, è un mondo diverso da quello pensato alla luce della , della cittadinanza. Il Logos non può presiedere alla politica e all‟amore cristiano, essendo radicalmente diversa la legge del polemos dalla prescrizione dell‟amore fraterno. E dunque asserire, come fa Tommaso alla stregua del suo Aristotile, che “l‟uomo è per natura un animale sociale vivente in comunità”, e che come “singolo uomo è retto dalla ragione”, 226 significa accogliere i postulati naturalistici e sociologici della filosofia greca, e non pensare la spiritualità cristiana alla luce del proprio fondamento di fede che la sostiene, che è diverso dal fondamento di fede che sostiene il cosmo pagano. E dunque, una volta confermata l‟antropologia naturalistica del razionalismo greco era difficile approntare un pensiero che metafisicamente non ne dipendesse, e che alla fine non liberasse le sue intrinseche possibilità dialettiche, che fecero infine implodere la struttura dogmatica della teologia cristiana, dandole la parvenza di una mito-logia. La dissoluzione della metafisica cristiana era in qualche misura inevitabile, reggendosi sul fondamento della fede escatologica predicata nei Vangeli. E dal momento che la struttura del cosmo razionalmente pensata veniva attribuita all‟opera di Dio, anziché alla natura, ogni prova della sua inconsistenza logica e ogni riscontro della sua incongruità morale, inevitabilmente provocava un soprassalto di fede, una incrinatura dell‟edificio teologico che andava restaurato. Fino alla emancipazione della ragione da ogni ipoteca teologica, ossia fino al punto da distinguere la struttura razionale del mondo da ogni finalismo religioso, cioè dai suoi fondamenti ontologici di fede, secondo il procedimento logico della scienza, che astrae i fenomeni reali da ogni finalismo metafisico, salvando della costruzione teoretica il solo metodo razionalistico, che sottopone quindi a verifica empirica. L‟esito sarà sempre confutativo, poiché le costruzioni scientifiche astraggono dalla concretezza del divenire dei fenomeni della realtà, legato alla loro finitezza e incompiutezza. 226

Ivi, Libro I, cap. 12, pag. 55.

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La differenza dell‟opera della Provvidenza rispetto agli schemi razionalistici della realtà consiste nella capacità della mente ordinatrice di Dio, non già di connettere strutturalmente ogni cosa al sistema, come già fa la natura, ma di operare per singoli fenomeni in maniera tale da renderli unici e irripetibili: singolari. Tale capacità divina, assegnando ai fenomeni una volontà di essere, non li rende determinati ma liberi, cioè in grado di determinarsi. La determinazione costante dei fenomeni naturali li rende dipendenti dal loro contesto di vita, che è lo habitat. Per l‟uomo tale contesto è la società. Ma, a differenza degli altri esseri viventi e senzienti, è l‟uomo a creare a sua volta la società, ossia le condizioni della sua vita biologica impersonale e collettiva. E proprio perché opera dell‟uomo, la struttura sciale non è eterna; e in quanto impersonale e collettiva è anche conflittuale con la volontà dei singoli uomini. Distinguere i destini personali dell‟uomo dalle condizioni impersonali della sua vita sociale è il presupposto della fede escatologica in senso cristiano, la quale opera nella volontà dei singoli anche quando le condizioni sociali non la assecondano. Ed è proprio tale dissociazione dell‟esistenza singolare dai destini collettivi a fare del cristianesimo una fede non religiosa, cioè funzionale ai valori unitivi della socialità, ma trascendente, inerente alla salvezza delle singole anime. Averne fatto una religione secolare, è il risultato conseguito dalla teologia cattolica romano-alessandrina, che ha trasformato il Mistero divino predicato da Gesù di Nazareth in Mito religioso, in una mito-logia, che è servita da modello metodologico per ogni rielaborazione storicistica e conseguente riduzione sociologica. L‟ipotesi tomistica di un governo divino del mondo “nella sua universalità” è mutuata analogicamente dalla supposta dinamica razionale della natura, e dunque poggiato sulla conoscenza della “ragione” delle cose. E la “ragione della fondazione del regno deve essere desunta per analogia dalla fondazione del mondo”, in cui predomina la “produzione” e la “distinzione” delle cose nel loro “ordine conveniente”.227 Anche i re devono essere considerati dei “fondatori” di regni, quasi che questi potessero assimilarsi a un‟opera dell‟ingegno creativo dell‟uomo, senza distinzione tra opera singolare e

227

Ivi, Libro I, cap. 13, pagg. 56 e 57.

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processo collettivo. Infatti, la demiurgia regale, per essere assimilata a un‟opera d‟arte, diventa prodotto singolare, la cui perfezione o imperfezione resta dovuta al cattivo governo del re. Da qui la credenza di origine platonica che la conoscenza del bene producesse di per sé il buon governo, con gli strumenti tecnici della politica. Ma questa credenza era fondata sull‟ipotesi che l‟uomo fosse essenzialmente un animale politico ( ), e non già un essere spirituale, libero di decidere il percorso del proprio destino esistenziale, ossia quel  che negli altri esseri viventi è predeterminato dal loro habitat naturale. Non si dà mondo senza . E per “mondo” s‟intende esattamente la (poca o molta, a seconda dei casi) possibilità di affermare la dimensione singolare nell‟ambito delle offerte strutturali del sistema sociale in cui l‟uomo si trovi storicamente a vivere. La storicità dell‟esistenza umana è data da questa relazione intercorrente tra la volontà di libertà singolare e la necessità sistemica della struttura sociale di preservarsi dai cambiamenti, ossia dalle spinte socialmente eversive delle singole possibilità esistenziali dell‟uomo, tendenti ad adattare la realtà esterna al proprio mondo. L‟idealismo filosofico, proiettando in Dio la volontà mondanizzante della coscienza umana, fa di Lui un demiurgo onnipotente, creatore e governatore del creato. Un re, appunto, il cui regno è l‟universo intero. Ma questa proiezione antropologica della figura divina, facilmente sottolineata a suo tempo da Feuerbach, non corrisponde all‟immagine che ne danno i Vangeli, per i quali Dio non interviene nella vita umana a sostituire la propria volontà alla responsabilità dei singoli, e cioè alla libera decisione motivata dalla loro fede, ma giudica con misericordia le azioni umane, ossia ne riconosce la parte di bene connessa alle sole possibilità dei singoli. Diversamente dalla distinzione logica del giudizio umano, affidato alla ragione, quella divina non commisura il bene a un principio astratto e a un precetto generale valevole erga omnes, ma attribuisce a ciascuno il suo, sostituendo dunque al giudizio universale proprio della astratta ragione umana, il giudizio singolare proprio della infinita misericordia di Dio. Il re, pertanto, volendosi attenere a un‟idea di giustizia universale e valevole generalmente per tutti indistintamente, si allontana dalla misericordia di Dio, omologandosi alla astratta volontà della natura, la cui consequenzialità dei fenomeni prescinde infatti da ogni considerazione della loro singolarità. L‟amore nasce da tale

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considerazione, che spinge l‟uomo alla pietà verso i destini singolari degli esseri viventi. Invece, la considerazione che di essi ne fa la conoscenza razionale, che universalizzando astrae ciò che è singolare e irripetibile in ognuno di essi, prescindendo dalle loro qualità specifiche, è intrinsecamente priva di considerazione misericordiosa, la quale consiste appunto di valutare il caso nel suo caso singolare, e non nel suo genere, per cui la giustizia in senso razionalistico è il contrario della giustizia divina secondo i Vangeli. In tal senso, prescrivere che “il fondatore di una città o di un regno debba scegliere le varie località secondo l‟esigenza di quelle cose che la perfezione della città o del regno richiede”,228 significa che il compito di chi governa lo Stato sia quello di conformarsi alle leggi di una razionale politica, che sono leggi naturali, cioè astratte e generali per ogni tipo di regno e di cittadinanza, e non spirituali, tese cioè alla salvezza dell‟anima. Questa, sotto forma di beatitudine, è prevista come premio al governo politico, ossia all‟ossequio a princìpi contrari alla predicazione evangelica. Ma se il governo politico della società è imprescindibile alla stessa sussistenza della comunità umana, ogni credo religioso dovrà conformar visi necessariamente, per cui sarà la politica, e ancor più la sua tecnicalità economica, a giustificare la razionalità di ogni credenza umana, ossia la sua plausibilità teorica. E‟ ovvio che la “perfezione della città” consista nella sua capacità di potenza politica, ossia dipende dalla entità economica del Potere che la governa, sicché la religione conforme a quella perfezione politica non può che essere una religione di Stato, che non è esattamente la fede in Dio, la cui potestà non è quella di comandare ai re, ma di giudicare anche loro come uomini di fede o perduti. Se così non fosse, ma fosse invece come teorizza Tommaso, allora la battaglia di Gesù contro la religione farisaica non avrebbe avuto alcun senso, né razionale né escatologico, così come non avrebbe avuto significato escatologico la presa di distanza da ogni posizione zelotica di rivalsa politica contro i Romani. Gesù muore per salvarsi, sacrifica la sua  per affermare il  Non agisce da “ipocrita”, né adotta la doppia verità di Nicodemo e dello stesso pavido Pietro, che rinnega il Salvatore dell‟anima per salvare il suo corpo. ma non aveva detto Paolo che “finché siamo nel corpo peregriniamo lontani

228

Ivi, Libro I, cap. 13, pag. 57.

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da Dio”?229 Se la perfezione consiste nel conservare il corpo, individuale come quello sociale, perché la fede, e perché con essa si dovevano smuovere le montagne, ossia cambiare il corso naturale delle cose, che è atteggiamento stolto per definizione secondo la sapienza pagana? E se dunque per Tommaso “governare significa condurre convenientemente ciò che si governa al debito fine”, 230 allora governare equivale a secondare il corso naturale delle cose stabilito presuntivamente da Dio, ossia conservarne la destinazione mondana. Ma è propria tale conservazione ( ) dello Stato che è il fine di Cesare, e non quello del profeta cristiano e della sua , che non può sussistere “nella città”, ma soltanto oltre i suoi confini politici, segnati dal tempo finito. E pertanto, in virtù di questa consapevolezza, “la Chiesa non può fingere eterna durata”, dal momento che “il luogo, qualunque esso sia, dove l‟Eterno si rappresenta non è eterno – né l‟Eterno si deve confondere con il tempo del resistere, del durare”. Ma la stessa consapevolezza che la Chiesa storica non possa essere il riflesso ideale della eterna Città di Dio deve consentire di sciogliere il legame religioso stabilito con il Potere catecontico, liberandola dalla sua storica contraddizione di costituirsi a sua volta come “una forza catecontica essenzialmente spirituale”, la quale “quanto più prega perché sia donato il tempo necessario alla conversione, tanto più annuncia l‟inessenzialità del tempo per l‟espressione compiuta dell‟atto di fede, che solo salva”.231 La salvezza spirituale in senso cristiano non sposta il fine “fuori di sé”, ossia oltre la destinazione naturale, ma impegna la fede a costruire un fine diverso da quello naturale sociale collettivo, che interessa il singolo uomo, la sua coscienza personale, e pertanto quel fine non può essere identificato con un “criterio”, ossia un concetto razionale, “identico per stabilire il fine di tutta la comunità e di ogni singolo uomo”.232 Poiché tal criterio non può che essere di natura etica, la virtù aristotelica, inerente cioè a un valore orientativo della prassi politica. Esattamente questa supposta corrispondenza ideale la

229 230

231 232

Paolo, 2 Cor, V, 6, cit. in Ivi, Libro I, cap. 14, pag. 59. Ivi, Libro I, cap. 14, pag. 58. M. Cacciari, Il potere che frena, cit., pag. 77. Tommaso, De Regimine Principum, tr. it. cit., Libro I, cap. 14, pag. 59.

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morale evangelica rigetta come remedium mali. Infatti, laddove la legge comune costituisce la misura del “viver bene” politico di un popolo, e la sua osservanza la misura del buon governo, la misura della salvezza singolare è anch‟essa individuale, in quanto ogni anima ha una sua storia spirituale, ed è “criterio” dunque a se stessa, per cui ogni criterio di ogni esperienza esistenziale di ogni uomo è in sé fondamento di verità. Il “paradosso” di una verità singolare costituisce per Kierkegaard l‟essenza della fede cristiana. Da qui il movimento, opposto a quello socio-politico, della comunione spirituale, che ritrova la sua ragione accomunante nella stessa fede in Cristo, anziché in un fine eudemonistico, il quale ultimo viene posto a “criterio” della convivenza sociale. La fede non può che essere singolare, e come tale riconosciuta da ogni fedele. E la fede presuppone la realtà del Cristo, che è il principio unificante della . Se dunque il re del consorzio politico subentra alla sua realtà, che gli preesiste, la comunità di fede non potrebbe sussistere senza e prima della fede in Cristo. la cui realtà va dunque presupposta, e come tale è indipendente dalla stessa realtà comunitaria dei fedeli. Se dunque non si da re senza popolo, la verità di Cristo è anteriore alla formazione di ogni comunità di fede, e proprio perciò questa comunità può riunire ogni singolo uomo di ogni tempo. La comunione spirituale, dunque, sorretta dalla fede nell‟Eterno, partecipa della sua natura ed è perciò eterna. E solo la comunione singolare con Dio attraverso Cristo può essere veramente spirituale. Non già la empirica comunità universale, ossia la Chiesa istituzionalizzata. Questa confusione idolatrica tra fides spirituale e speculum rationis è all‟origine della perdita della “esigenza infinita” del Cristianesimo di cui diceva Kierkegaard. Ma l‟aspetto forse più essenziale della condizione spirituale dell‟uomo e della comunità ecclesiale, che occorre ancora ribadire, è l‟imprescindibile fondamento della fede per la sua esistenza, per cui non può esserci realtà ecclesiale senza fede. Mentre può sussistere un cosmo razionale senza la supposizione del suo fondamento ontologico, che la ragione ritiene mitico proprio in quanto originario ed extra-metodico, non può esistere la realtà di Dio senza il fondamento della fede in Lui. E ciò fa del Suo santo Mistero la Verità stessa della fede, che dunque è il fondamento armonico della realtà spirituale, l‟unica che non potendo astrarsi dal suo fondamento di fede, costituisce una realtà totale e in-finita, come invano

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ha cercato di essere l‟uni-verso razionalistico, la falsa ed esclusiva unità astratta del concetto ideale o categoria. La conseguenza di questa premessa è che anche il più santo apostolato non può sostituirsi alla presenza di Dio, al fondamento della fede in Lui. Soltanto a Cristo fu concesso questo unico e santo privilegio di rappresentare Dio in terra, e a nessun altro uomo, essendo simile la natura divina di entrambi. La diatriba di Gesù coi farisei, idolatri tutori della Legge, rimane a riguardo estremamente significativa, e andrebbe tenuta costantemente presente allorquando si ipotizzi che l‟  cristiana non sia che l‟universalizzazione trans-nazionale dell‟antico popolo eletto, per cui la differenza tra la sinagoga e la Chiesa sia in termini di diffusione quantitativa della Legge. La differenza risiede invece nella diversa determinazione, l‟una collettiva ed etniconaturalistica, e l‟altra concretamente esistenziale, dei suoi membri; l‟una confondibile con l‟unità politica della nazione in uno Stato, l‟altra inconfondibile con la società politica, in quanto singolarmente diversa da un astratto ente collettivo rappresentabile come persona giuridica. Se questo è vero, è sbagliata l‟asserzione tomista per cui il “bene” in senso spirituale sia conseguibile soltanto attraverso la pace sociale, 233 ma è vero semmai il contrario. E cioè che la pace interiore spesso si consegue attraverso i travagli della vita mondana, la quale non può costruire alcun bene che non sia omogeneo alle sue premesse etiche, che per la collettività sono di natura politica, e perciò soggette a quella esclusività dialettica che costituisce il metodo stesso della ragione indicato come il “criterio” di saggezza della vita mondana, che anche per Tommaso presiede al “progresso” della città. 234 Più interessante, invece, è la considerazione circa la differenza tra “governo politico” e “regale”, incluso come un inciso all‟interno della ripresa della distinzione aristotelica dei regimi politici. Infatti, a un certo punto, il redattore, che probabilmente non fu Tommaso ma un suo

233 234

Ivi, Libro I, cap. 15, pag. 64. Ivi, Libro I, cap. 15, pag. 66.

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discepolo,235 introduce una notazione incidentale molto interessante, nella quale emerge la differenza essenziale tra il governo legale, indicato come “politico” e il governo etico, ispirato al re direttamente dalla Provvidenza. Il principato politico, si dice, è quello per cui un territorio sia governato temporaneamente “da una o da più persone secondo i propri statuti”. 236 Esso, sia pure moderando il governo in conseguenza della sua temporaneità e dalla legislazione, è nondimeno più lontano del dominio regale dalla “prudenza divina”, poiché se “il reggitore politico giudica il popolo soltanto in base alle leggi”, il reggitore regale invece, “non essendo impedito dalle leggi, decreta per mezzo della legge che sta nel cuore del principe. Ecco perché il dominio regale imita maggiormente la provvidenza divina”.237 Questa incidentale apologia del regime regale assume ai nostri occhi una grande rilevanza, in quanto afferma la distinzione, a nostro avviso essenziale, tra un regime politico, amministrato da una normativa giuridica vincolante le decisioni del Potere, e un regime di Governo propriamente detto, in cui non è la vigenza di astratte norme legali a decretare la giustezza dei provvedimenti potestativi, ma bensì la decisione etica, conforme a princìpi morali desunti dalla fede escatologica. Orbene, soltanto le decisioni di Governo, prescindendo dalle astratte fattispecie normative, possono assumere un significato conforme al valore etico, mentre le previsioni legali possono assumere soltanto un significato di natura giuridica conforme ai principi del sistema normativo, il quale, contemplando casi astratti e generali, ha una portata erga omnes, e non singolare, come invece la decisione etica, la quale, pertanto, è sempre eccezionale. E dunque, mentre il regime politico, inteso appunto tomisticamente come “governo di molti”, trova la sua unità, ossia coerenza razionale, nella normativa astratta e generale delle leggi, il Governo regale,

235

Pare un certo Tolomeo di Lucca, vescovo di Torcello, di dieci anni più giovane di Tommaso, come indicato dall‟Oratoriano P. Frigerio nella sua Vita di S. Tommaso, in Opera, t. XIX, Venezia, 1754, pag. 514. 236 Ivi, Libro II, cap. 8, pag. 90. 237

Ivi, Libro II, cap. 8, pagg. 92-93.

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essendo in sé unitario, non deve ricercare la sua unità in altro che dalla sua decisione di governo. E se la preoccupazione del Potere politico è la coerenza razionale rispetto ai princìpi giuridici, e quindi la conformità della decisione potestativa particolare con il modello ideale di giustizia formale, costitutiva della giustizia legale, la preoccupazione del Governo etico è la giustizia del caso concreto, che ha un valore singolare e assoluto per il destinatario; valore che nello stesso tempo trascende l‟eticità del caso concreto per diventare moralmente paradigmatico. L‟attitudine del paradigma morale è di potersi declinare in tanti modi, quanti sono i casi concreti, senza eccezioni di sorta, in quanto, non essendo un modello formale, non è esclusivo dei casi difformi al modello stesso, cioè al modello legale, che è coerente in senso sistemico, ma non è necessariamente giusto in senso morale. Un‟etica legata alla coerenza sistemica, ispira una giustizia puramente legalistica e formale, conforme ad astratti princìpi universali, ma non risolutrice necessariamente di questioni etiche situazionalmente concrete. La giustizia legale è razionalmente universale per la applicazione delle norme vigenti, ma non perciò giusta in senso singolare e concreto. Nel qualificare la Provvidenza divina, il redattore, citando il libro della Sapienza, afferma che essa “ha cura di tutti”. 238 In realtà sarebbe più corretto dire che il Governo provvidenziale ha cura di ognuno, nel senso che la sua giustizia non è astratta e generale ma concreta e singolare. Ed è in questa straordinaria possibilità che va riscontrata la presenza della infinita poiesi dell‟eternità, intesa non come sinonimo di “immortalità” rispetto al tempo della finitezza, o di “ciò che resiste alla nostra distruzione”, ossia come katechon, ma come “ciò che è trasferibile e appropriabile da chiunque”. 239 Ed è questa infinita appropriabilità della realtà, che per un verso trascende la finitezza e per un altro si trasfonde con l‟esistenza singolare, la caratteristica precipua della “immagine” ( ) di Dio. Proprio per la sua astratta valenza universale, il governo del diritto è potenzialmente politico, cioè avente una gestione impersonale e variabile, di natura puramente applicativa e quindi tendenzialmente

238 239

Ivi, Libro II, cap. 8, pag. 93. E. Coccia, Op. cit., pag. 194.

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giudiziaria. Il Potere politico è un governo dei giudici, 240 di coloro che, chiunque siano e comunque nominati a governare, applicano le leggi. Il governo delle leggi è lo Stato di diritto, mentre il Potere politico è il moderno regime parlamentare. Il regime politico è più di quello regale adatto a “uomini sapienti e virtuosi, come furono gli antichi Romani”, mentre il regime regale è più adatto a una umanità “corrotta” (lapsa) quale quella generata dopo la “condizione di innocenza”, per cui si rende necessario “frenare la natura umana, disposta in modo da tendere quasi alla sua dissoluzione. Ed è quanto è chiamato a compiere la maestà del re”. 241 Da notare anzitutto l‟incongruenza tra la condizione generale del popolo, segnata dalla sua natura lapsa, e la funzione regale diretta a fronteggiarla in senso correttivo. Nello stesso luogo inoltre si ricorda con l‟Ecclesiaste che “i cattivi difficilmente si correggono”, dando a intendere l‟invarianza di una caratteristica umana che assume stigma antropologico, che renderebbe vano anche il buon governo regale. La confusione tra condizione antropologica (natura lapsa) e condizione storica dell‟uomo, espone il governo regale a una duplice funzione, in sé contraddittoria ma soprattutto impossibile da perseguire: quella di governare il popolo in vista della beatitudine, e quella di correggerlo in considerazione della sua disposizione naturale verso la “dissoluzione”, tanto della propria natura che dello Stato stesso. Qui emerge chiaramente come il fine precipuamente politico di garantire il benessere materiale del consorzio sociale è di tipo eudemonistico, tutto concentrato sul potere economico dei cittadini, laddove il fine morale del governo regale, ossia quello di portare i cittadini alla beatitudine, verte sulla possibilità di una giustizia equitativa se non caritatevole. I due fini sono semplicemente incompatibili. E non tanto per il fatto che al ricco sia difficile accedere al regno dei cieli, quanto perché il fine politico di garantire il benessere sociale è un fine collettivo, di tipo astratto e generale, stabilibile con una buona e coerente normativa, la quale, paradossalmente, se veramente efficace e tale da trasformare i cattivi sudditi in buoni cittadini ligi alle leggi, potrebbe cambiare il regime regale in regime politico. Di contro, considerata la condizione 240 241

T. d‟Aquino, Op. cit., Libro II, cap. 8, pag. 94. Ivi, Libro II, cap. 8, pag. 94.

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generale dell‟umanità in seguito al peccato originale, la salvezza non può che essere singolare, e non generale e tale da contraddire l‟elettività della beatitudine, e quindi una salvezza eccezionale, non preventivabile normativamente per tutti. Se per il fine eudemonistico occorrono buone leggi, per il fine morale occorrono sagge e ispirate decisioni. Ossia si prescrive nei rispettivi casi un regime di governo qualitativamente diverso, quale quello “politico”, preposto alla giustizia legale, e cioè alla conformità pratica di modelli comportamentali idealmente universali in senso razionale, e quello che qui si indica come “regale” ma che in realtà è il Governo etico, ispirato alla morale cristiana. Se il fine politico è quello di garantire il benessere collettivo, il governo conforme a questo fine non può che essere etico in senso appunto politico. L‟etica politica sta a indicare il senso razionale della condotta pratica, tale da ossequiare un principio di legalità universale. In tal senso, qualunque condotta politica che osservi il fine della potenza dello Stato diventa etica, e quindi etico-politica. Questa condotta etica conforme al principio razionale, essendo una condotta ideale è essenzialmente impersonale, cioè astratta dal caso concreto e codificabile in un comando legale. In tal caso, l‟etico e il legale coincidono. Diverso il caso di un‟etica conforme, non al principio razionale universale e astratto, ma al caso concreto, in cui la decisione potestativa tiene conto delle sue possibili conseguenze esistenziali, ponendo in essere una decisione moralmente responsabile, e non meramente legale. In questo caso, il brocardo Dura lex sed lex è privo di ogni valore giustificativo, poiché la decisione è rivolta non alla conformità di legge () ma alla giustizia ( ). Da quanto detto, il governo politico o legale stabilisce un regime razionale, diretto a fini economici di benessere sociale, laddove il governo etico in senso morale stabilisce un regime agapatico, diretto a fini di giustizia. L‟atto di giustizia, la decisione giusta, per il suo carattere simbolico, è suscettivo di sviluppo mitopoietico, ossia ha un implicita funzione immaginativa ultra rappresentativa, allusiva a una condizione che pur aderendo all‟evento concreto, lo trascende per diventare exeplum. Ciò che tradizionalmente viene indicato nell‟esempio come fonte di insegnamento morale (exeplum ad imitandum) contiene un intrinseco carattere immaginativo cui si fa appello ( ) per la sua indeterminata rievocazione occasionale, che ne consente l‟imitazione.

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L‟exeplum bonitatis è esattamente l‟azione morale ri-evocabile come evento memorabile. Il rapporto tra la memoria dell‟evento e il suo significato simbolico costituisce l‟essenza temporale del , il cui momento viene determinato dal significato del suo contenuto, e non dalla sua durata cronologica, come invece l‟ .242 La rievocabilità dell‟evento esemplare, attraverso la memoria attualizzante del suo contenuto significativo, fa di esso, nel senso etico chiarito, un caso simbolico di giustizia (). Ma in che modo l‟atto sovrano di giustizia si collega all‟ispirazione divina? Cioè, in che modo Dio può essere imitato dal principe giusto? L‟azione politica è, per sua destinazione funzionale, interna allo spazio del Potere, segnato dai limiti della sovranità. Il Potere, anche quando assoluto, è sempre condizionato dallo spazio di potenza, limitato dai confini dello Stato. L‟atto giuridico è, di conseguenza, sempre confinato alla sua destinazione di Potere, alla sua giurisdizione. Un Potere più ampio, anche imperiale, è comunque un potere definito dai limiti della sua giurisdizione. Avere “più potere” significa avere “più spazio di potenza”. Il Potere politico è intrinsecamente spazializzato. Il razionalismo etico ha cercato, non già di rimuovere lo spazio di vigenza dell‟azione politica, ma di conformarla a un modello d‟azione ideale dislocato nell‟altrove, in un extra locum suum assumendolo come un ydolum, una immagine che potesse rispecchiarsi nella realtà locale. Tale rispecchiamento ideale comportava l‟idolatria del locum suum della politica, cioè dello Stato. Solo trasformando il luogo del Potere in un luogo sacro, le sue azioni assumevano valore sacrale. Se il transfert teoretico del filosofo muoveva dal luogo profano del Potere per giungere al luogo sacro delle Idee, l‟universalizzazione della coscienza teoretica comportava il processo inverso del transfert politico. La Repubblica di Platone non intende fare di ogni cittadino un filosofo ma di idealizzare lo Stato, cioè il luogo del Potere e della vita sociale, mantenendo la differenza tra l‟uomo pubblico ( e i cittadini privati (). Far assumere al Potere un carattere sacrale equivale filosoficamente a razionalizzarlo, cioè a renderlo idealmente coerente. E

242

O. Cullmann, Christus und die Zeit, tr. it. cit., pag. 61.

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la coerenza razionale non è altro che l‟imitazione del modello metafisico e dunque anche meta-locale. Diversa è la posizione cristiana. La salvezza in Cristo è singolare, e presuppone una singolare conversione spirituale ( ) che abbia in comune solo il modello storico dell‟esistenza di Gesù. Ma il modello esistenziale da imitare per la conversione spirituale non è un‟ipostasi ideale, cioè non è una fattispecie ortoprassica a cui conformare la nostra condotta, sicché ognuno possa somigliare a Gesù, divinizzandosi. Non basta cristianamente ossequiare la Legge, cioè la forma, per salvare l‟anima. La salvezza legale è impersonale, riguardando l‟azione, la attualità dei comportamenti umani, mentre la salvezza cristiana presuppone la conversione dell‟anima, l‟intenzione benevola che si traduce in azione. Un‟intenzione che, restando interna all‟agente, non è rilevante per la conformità legale, che richiede la sola azione conforme alla norma. La differenza è radicale tra le due prospettive, come lo è la differenza tra ognuno e tutti. La conformità razionale è l‟unità del branco civilizzato che occupa uno spazio politico sistematizzato, che non lascia cioè alcuno spazio vuoto di ragione. La ragione politica è un Potere del tutto pervasivo, che non lascia alcuna ombra indifferente alla sua sovranità. E‟ un Potere totalizzante, e a totalità del controllo politico razionalizzato comporta la completa prevedibilità delle azioni dei membri del gruppo sociale politicizzato. La politica razionalizzata, divenuta tecnica di controllo della prassi sociale, presiede uno spazio di potere totalitario. La filosofia, universalizzandosi, diventa ragione del Potere, che custodisce il valore etico-politico dello Stato. Se alla filosofia pagana sostituiamo la professione di fede cristiana, cattolica ma comunque interna allo spazio politico dell‟Imperium, noi abbiamo la religione politica del cristianità romana, cioè una mito-logia costruita su un ossimoro, una fides loci imperialis ma non abbiamo ciò che Gesù intendeva per fede come salvezza dell‟anima, ossia come estraneazione dai valori sociopolitici sostituiti dal valore trascendente della fede nel Mistero, che Lui stesso davanti a Pilato chiama “Verità”. Se l‟immagine della Legge è il diritto, il canone universale valevole erga omnes entro lo spazio politico del Potere, cioè lo Stato, invece l‟imago Dei non è spazializzabile, ma è extra locum politicum, in quanto è in interiore homine. Se dunque il processo filosofico radicalizza dialetticamente le opposizioni al Sé per omologargli il simile

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sussumendolo nella sua unità sistemica, trasferita nello spazio politico del Potere, il processo spirituale, all‟inverso, operato dalla fede cristiana rimuove gli spazi sociali, cioè le discriminazioni politiche e le qualifiche naturali tra gli uomini, per rifondare la loro convivenza su un piano meta-politico ed ecclesiale in cui ognuno giunge all‟altro senza passare attraverso la mediazione istituzionale e normativa, ma sulla base del solo rapporto singolare con Cristo, che è convergente con ogni singolarità di fede. La comunità ecclesiale trascende le differenze sociali, non perché le neghi polemicamente, ma in quanto non sono rilevanti ai fini della comunione cristiana, non afferendo alla dimensione mistica della partecipazione fedele. La fede cristiana individua il luogo della comunità non più nello Stato ma nella Chiesa, stabilendo la ragione della socialità non più nella potenza economica del gruppo politico, ma bensì nella carità fraterna la cui unità è la paternità divina. Nel contesto ecclesiale la facoltà mimetica del fedele abbandona il Sé narcisistico, che è al fondo del rapporto polemico con l‟altro, a favore di una condizione pre-politica e pre-razionale nella quale il ruolo fraterno e filiale è del tutto interscambiabile nell‟Altro trascendente che per ognuno è lo stesso, e in questo reciproco riconoscimento Egli è Uno. Se, pertanto, la Legge vige anche senza il suo riconoscimento da parte dei cittadini, proprio perché il suo comando è impersonale, giammai Dio potrebbe esistere senza la fede di chi lo venera. Il Potere politico () ha come contraltare la passione () nella dimensione della fede. Alla natura cratetica della politica il cristianesimo propone la natura patetica della carità. Lo spazio della fede non è lo Stato, e non è neppure la Chiesa, ma è l‟esistenza spirituale di Gesù, la sua storia, imitando la quale è possibile all‟uomo costruire la sua propria vicenda storica, che è spirituale e singolare, e non politica. La storia politica è processo collettivo, e consiste nel processo genetico di una società e di uno Stato, che nascono vivono e muoiono nel tempo finito del loro sviluppo naturale di organismi economici. I corpi sociali, in quanto formazioni naturali, sono sempre esistiti, ma una storia si dà solamente per i fenomeni spirituali, che sono singolari e concreti, cioè esistenziali, e mai collettivi e impersonali, cioè astratti. Ciò che chiamiamo “cultura” di un popolo e di un gruppo umano, è l‟interazione dei modelli ideali, solitamente religiosi, di socialità con le forme politico-istituzionali con cui economicamente si realizzano. E chiamiamo “storia” di una cultura le

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modalità di tale interazione nel tempo. Ma la loro costanza strutturale, legata alla capacità di previsione razionale degli effetti interattivi dei molteplici fenomeni sociali, non può costituire una vera storia spirituale, cioè un autentico percorso di libertà che solo la coscienza affronta in quanto responsabile di fronte al suo modello trascendente. Se dunque il fine dei corpi politici è sopravvivere, il fine di ogni storia spirituale è di salvare l‟anima, e in tal senso la storia spirituale è sempre un racconto di salvezza, la soterìa di un‟anima.  Rispetto all‟immagine genetica unitaria del processo naturalistico delle cose indicato dal nomen, la storia spirituale non è soggetta a ripetizione del sempre uguale, ossia non è vincolata dalla impersonale necessità, ma è lasciata al libero sviluppo della trama. La libertà spirituale non consiste nel negare la natura, come se tra spirito e natura ci fosse agonismo dialettico, impossibile tra entità eterogenee, ma nella scelta dell‟ in-possibile anziché del necessario, ossia del dovuto secondo la norma regolare. Il dovere è la possibilità d‟essere ciò che è attuale, laddove l‟in-possibile è l‟apertura verso l‟in-determinato, l‟in-previsto, e dunque verso la condizione non strutturata, non sistematizzata, non regolamentata. La fede cristiana, che “smuove le montagne”, contraddice il brocardo giurisprudenziale per cui “Ad impossibilia nemo tenetur”. La fede infatti consiste in questa in-possibilità, e cioè nella scelta della risoluzione della possibilità non pre-determinata. La libera scelta d‟essere ciò che non-è-attuale non è un evento assoluto, non nasce ex nihilo, ma dalle condizioni d‟essere di ciò che è. Essa sceglie però, entro la condizione d‟essere di ciò che è, la possibilità non necessaria, non vincolata ad alcuna pre-determinazione o pre-visione del suo processo necessario. Essendo diversa dalla determinazione necessaria secondo il processo fisiologico degli eventi naturali, „azione di libertà è intrinsecamente anti-economica, prescindendo il suo  da ogni considerazione di opportunità. L‟atto di libertà è in-opportuno e perciò intrinsecamente creativo, in-prevedibile. Da qui l‟ostracismo platonico dalla Repubblica dei sapienti. Ma da qui anche la stretta attinenza della libertà con il Mistero della fede. In-prevedibile è infatti ciò che non è socializzato e quindi sfugge al Potere di Cesare. La libertà dell‟uomo dunque appartiene a Dio. Ma qual è il luogo della libertà in cui l‟uomo appartiene a Dio? Abbiamo visto che l‟essere delle immagini è il “sensibile”, che interpone tra la realtà esterna e la coscienza razionale del soggetto la

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mediazione del fenomeno esperibile ai sensi, di ciò-che-appare (), ossia appunto la “immagine”.243 Tale spazio intermedio (), immaginifico, si costituisce come una dimensione “non spaziale”,244 riflessiva in senso speculare, in cui cioè si riflette la forma corporea dell‟altro. La alterità dell‟immagine crea un rapporto indissolubile con l‟altro riflesso che lo rende indispensabile. Se nel rapporto politico l‟altro è opzionabile, potendo essere amico ovvero nemico del soggetto di coscienza, nel rapporto immaginifico l‟altro non può essere evitato dalla coscienza riflessiva, che lo pone così come appare, nella sua oggettività fenomenica. I processi fenomenologici della coscienza hanno pertanto come oggetto, non le cose nella loro nuda esistenza corporea, ma il loro riflesso fenomenico, la loro immagine. Se pensiamo alla libertà umana come lo speculum in cui si riflette l‟immagine di Dio, ogni immagine riflette Dio, in modo diverso a seconda della possibilità della Sua ricezione speculare, essendo ogni uomo diverso uno specchio diverso; ma, nel contempo, Dio rimane lo stesso Uno. La libertà è lo spazio della possibilità inerente al riflesso singolare che l’uomo ha di Dio,Uno immutabile ed eterno. Orbene, lo spazio della libertà, riflettendo l‟unità di Dio nella coscienza attraverso una immagine speculare in-dissolubile del suo oggetto divino, include nel suo orizzonte di coscienza anche la necessità, ossia quella dimensione naturale che in senso logico il livello razionale di coscienza tende a distinguere dalla libertà contrapponendovela esclusivamente. E dunque lo spazio della libertà, in cui l‟uomo riflette l‟immagine di Dio, è uno spazio inclusivo, anziché esclusivo, e pertanto è possibile costruire entro il suo orizzonte un rapporto agapico, radicalmente diverso dal rapporto proprio allo spazio politico, razionalmente esclusivo. Ciò comporta che lo spazio inclusivo della libertà coincida appunto con lo spazio spirituale della relazione agapica dove l‟uomo, incontrando Dio riflesso in ogni altro uomo, vede Dio nell‟altro come Suo riflesso, come Sua immagine. Ovunque l‟uomo veda il riflesso di Dio nell‟altro uomo, costituisce una .

243 244

E. Coccia, La vita sensibile, cit., pagg. 31 sgg. Ivi, pag. 51.

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Ma qual è l‟immagine di Dio che si riflette nello specchio della libertà spirituale dell‟uomo? In altri termini, qual è la forma naturale che Dio ha assunto per apparire all‟uomo come fenomeno umano? Quella immagine naturale ed umana di Dio è Gesù il Cristo, il Fenomeno di Dio esperibile all‟uomo, il . L‟atto di libertà con il quale l‟uomo de-libera di costituirsi come immagine di Dio riconoscendola in quella riflessa in ogni uomo, è la deliberazione () spirituale, agapicamente inclusiva dell‟altro come immagine di Dio nel proprio orizzonte di coscienza. Tale atto di libertà è il modo proprio in cui l‟uomo imita Dio, anziché Cesare, il cui operato politico consiste nel de-cidere esclusivamente se l‟altro sia amico o nemico. La de-liberazione () è l‟atto spirituale con cui l‟uomo inpolitico riconosce l‟immagine di Dio riflessa nell‟altro uomo. L‟unità ricercata dalla ragione attraverso la politica è lo Stato come persona giuridica, la cui unità si costituisce attraverso l‟astrazione di ogni singolarità dei suoi membri, accomunati logicamente dalla appartenenza politica, che è la cittadinanza. Il soggetto della ragione politica è il cittadino, la persona giuridica in cui si riflette la persona dello Stato. La personalità giuridica del cittadino, riflettendo l‟immagine astratta dello Stato, è essa stessa astratta dalla sua realtà esistenziale. Ed è su questa astratta realtà che lo Stato razionale costruisce le sue finzioni giuridiche e determina col suo sistematico Potere la vita dei suoi membri-cittadini. Una vita esclusivamente politica, cioè razionalizzata in senso astrattamente politico. Rispetto alla immagine spirituale dell‟uomo quale riflesso di Dio, la sua astratta immagine politica,quale riflesso dello Stato, è radicalmente diversa, non semplicemente opposta in senso dialettico. Le due immagini nn sono dialettizzabili, in quanto quella di Dio, per quanto definita in Cristo, è in-finita n sé e nella destinazione singolare universale, mentre quella dello Stato è intrinsecamente finita e de-finita entro lo spazio geografico del suo Potere, che, come lo spazio che lo definisce, non può essere trasceso, al pari della sua finitezza. La forma che non può essere trascesa è quella naturale in senso genetico-trascendentale aristotelico, ossia quella che segue un percorso fisiologico dovuto al

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movimento di cui è capace in senso generativo e degenerativo. 245 Nell‟ambito del suo percorso fisiologico, l‟essere naturale appare all‟uomo come un fenomeno appunto naturale. Ed essendo il percorso fisiologico la sua stessa essenza, il fenomeno naturale può mutare forma apparente, cioè immagine, rimanendo sempre se stesso. Ciò significa che la trans-formazione () di un fenomeno naturale, inerisce le qualità accidentali della sua immagine, ma non la sua essenza, sicché, nel caso del Potere, può mutare la forma storica della sua manifestazione istituzionale, ma non mutare di essenza. L‟essenza del Potere è la violenza, intesa come la riduzione del complesso in semplice, della realtà concreta in realtà astratta dal suo divenire naturale, dalla sua “durata” in senso bergsoniano. E poiché, come abbiamo visto, l‟essenza naturale non può essere mutata nel suo decorso fisiologico, ogni costruzione razionalistica dell‟essere sociale come sistema di Potere politico, è destinato naturalmente a decadere. Il destino naturale delle costruzioni razionalistiche della vita sociale umana è di convertire l‟astratto essere politico nel suo opposto dialettico, e in questa intestina contraddizione dialettica consumare la sua decadenza. Ora, identificare la immagine di Dio con quella di una istituzione umana, è idolatria, poiché l‟unica immagine umana di Dio è quella del Cristo, il cui percorso naturale è stato umano, essendo Lui nato e morto, ma la cui vicenda spirituale, riflettendo l‟essenza divina di Dio, è eterna e unitaria come Dio, rendendo perciò singolare e insieme eterna la vicenda di ogni uomo che, nella vicenda di Gesù Cristo, riflette sé stesso come immagine di Dio. Il  di Dio è Cristo, in cui ogni uomo si riflette come creatura spirituale, e non può essere alcuna persona giuridica, alcuna istituzione storica come lo Stato o la Chiesa. Il di Dio non è né lo Stato e neppure la Chiesa. Ogni identificazione in tal senso è idolatrica, confondendo la creatura umana (ydolum) con l‟Immagine divina ( ). La statua di Cristo col Cristo. Il prodotto umano con l‟uomo. Il lavoro con l‟esistenza. A maggior ragione, non può confondersi l‟azione politica, la decisione (decisio) di privare la realtà della sua complessità a favore del suo solo

245

E. Coccia, La vita sensibile, cit., pag. 33.

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senso razionale iuxta propria principia ethico-politica, con la deliberazione spirituale (), il cui senso proprio è il manifestare la presenza di Dio. L‟Essere di Dio come presenza spirituale manifestata dalla testimonianza della fede nella Sua immagine nell‟altro, non è nel senso d‟essere del  razionale, ossia l‟attualità di ciò che è naturale secondo il suo processo genetico, esclusiva della sua inattualità, ma è l‟Essere nella sua totalità ed eternità, cioè nella sua indissolubile unità. E solo in Dio si può ritrovare tale unità, e giammai nella realtà empirica della molteplice finitezza. Voler trovare l‟unità nel regno del Molteplice, cioè della finitezza, è un tentativo vano quanto sofferto, non potendo la finitezza trascendersi ma solo generalizzarsi in senso spaziale. Questa generalizzazione in senso spaziale è ciò che la logica razionale intende per universalità, che non è altro che una reductio ad unum per separazione (abstractio) del diverso dal simile. Questa esclusiva operazione decisoria, condotta nel campo delle relazioni sociali, si dice politica, mentre la riduzione razionale e sistematica del molteplice in unità similare, in campo teoretico si dice etica. Una politica condotta in senso coerentemente razionale si traduce in una condotta etica. Ma giusta in senso giuridico di conforme alla regola, e quindi opportuna, non vuol dire giusta in senso morale, ossia coerente all‟inclusivo sentimento agapico. Giusto in senso etico-politico è il comportamento opportuno della persona dello Stato: come lo Stato si sarebbe comportato in quanto persona giuridicamente titolare di una razionale volontà politica. Giusto in senso morale cristiano è il comportamento adeguato all‟amore di Dio, così come si manifesta nell‟esperienza storica del Cristo. La scelta, tutta umana, del senso immanente ovvero trascendente della giustizia delle azioni dell‟uomo, è il travaglio spirituale che non riguarda il pensiero razionale, cioè il ragionamento metodico, ma il dialogo spirituale che la sua coscienza ha con il Mistero della Verità. Se dunque la decisione di ragione, il giudizio razionale, diventando metodo dialettico e tecnica logica, riguarda solo i filosofi, gli uomini eletti del , la deliberazione spirituale riguarda invece ogni uomo in quanto immagine di Dio. E se la politica razionalizzata, ossia la ragione politicizzata, intende espandere la filosofia in senso spaziale universale con la forza, la misericordia intende proporre alla coscienza umana di guardare in interiore homine per scorgervi l‟immagine di Dio che si riflette in ognuno. Alla forza politica, qui si sostituisce la pazienza della

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speranza nella conversione. E se il tempo della politica è l‟attualità e dunque la certezza, il tempo della misericordia è l‟inattualità della speranza, che non è incertezza, cioè il contrario della certezza, ma è una certezza non determinabile temporalmente, affidata alla Provvidenza divina, che grazia alcuni ma non esclude nessuno dalla speranza della redenzione spirituale. A differenza del rispecchiamento razionalistico dell‟ideale nel reale, tale che a riflettersi nel fenomeno sia la sua realtà coessenziale a suo modo omologata dalla riduzione della Verwandlung, la specularità del divino nella coscienza umana non mantiene inalterata la realtà umana essenziale, ma la trasmuta radicalmente. Questa trasmutazione () radicale mantiene il modello divino univoco nella sua perfetta realtà trascendente, ma altresì rende univoca la identità esistenziale in cui l‟Immagine si riflette spiritualmente, privandola così della sua accidentalità naturale e trasfigurandola in senso spirituale come soggetto intenzionale, ossia a un tempo simile a Dio e responsabile delle sue azioni verso di Lui. L‟intenzionalità e la responsabilità sono gli elementi costitutivi della coscienza empatica dell‟uomo spirituale. La trasfigurazione spirituale della coscienza umana, che la rende empaticamente simile a Dio e moralmente responsabile delle proprie azioni, è l‟evento della Grazia divina che si riflette nella coscienza dell‟uomo. Ma qual è il senso esistenziale della trasfigurazione spirituale dell‟uomo? Il senso della trasfigurazione spirituale consiste nel trascendimento del singolo uomo dalla sua specie. L‟uomo spirituale è un uomo singolare, nella cui esperienza esistenziale si riflette, come aveva ben visto Kierkegaard, l‟esperienza spirituale stessa della specie umana. In questo preciso senso spirituale Gesù è l‟Uomo eterno rinato nella Grazia divina, il nuovo Adamo. L‟Immagine di Dio ( ) che in virtù della Grazia si manifesta alla coscienza umana trasfigurandola spiritualmente, è quella appunto di Gesù di Nazareth, il Cristo, la cui storia rappresenta l‟esperienza oggetto della umana imitatio. Questo il senso profondo della Incarnazione divina come fenomeno antropico e il senso stesso della storia eterna dell‟Uomo spirituale che è in ognuno.

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Ma in quanto fenomeno, l‟Incarnazione, quale immagine di Dio, è anche atopica, senza luogo.246 E dunque, poiché de-localizzata, l‟Immagine ‟, il , è anche sommamente in-politica, non soggetta ad alcuna cittadinanza. Questa sua condizione ontologica, non solo libera i cristiani dal vincolo etnico dell‟elezione veterotestamentaria, ma crea il presupposto che ogni uomo che rifletta in sé l‟Immagine di Cristo, si senta svincolato dall‟appartenenza politica. in questo senso, la fede in Cristo è parallela al servizio dovuto a Cesare, ossia alla cittadinanza politica. In quanto immagini finite dell‟Infinito, per i cristiani non vi è “città”, ma solo riflesso di Dio. La fede come riflessione divina è la testimonianza ( ), ossia l‟offerta di sé in olocausto, il martirio, appunto, del . Da qui la grandiosa esegesi di Kierkegaard della prova di fede di Abramo, che “ha cancellato con la sua azione tutta l‟etica ottenendo il suo  superiore fuori di essa”.247 Questa riflessione testimoniale non ha niente a che vedere con la riflessione teoretica ( ), che è inerente all‟essere dell‟ente, e quindi con la teo-logia che si è sviluppata con l‟innesto filosofico. Il prodotto della  è l‟imitazione di Cristo, che non è  ma è . La mimesis è infatti la rappresentazione di ciò che è già stato, di un modello da riprendere così com‟era rievocandolo simbolicamente. Ed è ciò che persegue l‟ , che rappresenta l‟immagine mimetica di Cristo dell‟arte figurativa bizantina. La deixis, invece, è la corrispondenza mnemonica che l‟evento presente ha con il suo paradigma cristico, simbolizzato didascalicamente dal nome con cui ricorre. Non vi è rappresentazione ma appunto testimonianza dell‟evento entro l‟esperienza esistenziale del martire, e quindi al di fuori di ogni stilizzazione liturgica. Ogni  non è mai ripetitiva, non ubbidisce a un canone liturgico, a una rappresentazione stilizzata, ma riflette l‟esperienza della fede in maniera unica e irripetibile come lo è l‟evento storico. Ma in quanto evento riflessivamente paradigmatico, quello della  è insieme la memoria

246

“Un‟immagine è sempre in qualche modo fuori luogo, è l‟esser fuori luogo del mondo e delle cose”: E. Coccia, La vita sensibile, cit., pag. 71. 247

TeT, pag. 235.

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simbolica dell‟evento eponimo accaduto entro l‟esistenza storica di Cristo, e come tale appartiene al . La realtà temporale dell‟evento testimoniale è una realtà simbolica, che reca in sé la memoria, non la pro-duce alla stregua di un evento meramente temporale. L‟evento simbolico del martirio presente è già avvenuto, e quindi già consegnato alla memoria, che la  dunque rievoca, per cui ogni atto testimoniale di fede simbolizza la Storia di Cristo. in questo preciso senso abbiamo affermato che non vi è storia che non sia spirituale. Ma se questo è vero, allora la conversione () non segna che il passaggio () da una condizione trattenuta ( ) entro la spazialità () dei rapporti sociali di Potere (), a una condizione di libertà atopica spirituale in cui il senso della giustizia () affidato alla legalità ( ) viene sostituito dal sentimento () della misericordia (). Ne consegue inoltre che la stessa rappresentanza del Potere, diversamente dalla testimonianza di fede (), non può che essere fondata sulla territorialità (), segnando così la sua stretta appartenenza alla fisicità topica. Noi cogliamo così il senso non solo simbolico ma ontologico della non appartenenza del Regno di Dio a “questo mondo” finito, ossia a un mundus che, per quanto vasto e imperiale, è segnato comunque da un confinium e perciò conclusus entro la finitezza fisiologica della realtà naturale. Ma l‟ambito dello spirituale, se non è quello della topologia politica, non è neppure l‟iperuraneo platonico o il Regno dei cieli. Non foss‟altro perché si prevede per il suo conseguimento la mediazione di Cristo. Lo spirituale infatti è quella dimensione di realtà intermedia tra l‟Infinito divino e la finitezza naturale in cui prende forma l‟incontro tra le due dimensioni estreme. Questo “incontro” è la rappresentazione del mondo, la sua “immagine”, nella sua fase auratica. Essa non è ancora “forma”, e non è più mera concatenazione di elementi fisici, ma è la fase intermedia della possibilità dell‟Essere di ripiegare verso il naturale ovvero di dispiegarsi nel senso della sua determinata forma razionale, astratta dalla originaria e “confusa” realtà organica. La “con-fusione” è il dis-ordine, morale e prammatico, non ancora strutturato in sistema ordinato di prevedibili corrispondenze. Tutto l‟impegno dell‟uomo mentalmente ordinato, o educato, deve tendere all‟ordine, che consiste nel sapere trans-fondere il confuso in un fenomeno provvisto di senso, e 117


quindi interpretabile. Ciò-che-ha-senso è l‟immagine dell‟ordine, la sua rappresentazione, indicata con il nomen. L‟immagine dell‟ente è il suo nome, che indica il senso dell‟ordine delle cose emancipate dalla originaria organica confusione naturale. E dunque il linguaggio per l‟uomo equivale a dare nome alle immagini, distinguendo gli enti. La distinzione è il contrario della confusione. E se la distinzione è attribuzione di nomi, il linguaggio è per l‟uomo anzitutto attività nomenclatoria con cui egli dà ordine al suo mondo. L‟ordine cosmico è dunque essenzialmente logoico. La filosofia è l‟ordine cosmico apportato dal linguaggio in maniera sistematica, con la tecnica dialettica. Il logoico diventa logico. Ma il metodo logico non è l‟unico modo di organizzare il mondo umano. Esiste anche quello del linguaggio immaginifico, in cui le immagini (nomina) restano con-relate nella loro indistinta organicità auratica. E‟ questo il modo della rappresentazione del Mito. I Nomina del  non sono semplici “cose” distinte dalla natura ma indistinte fra loro, ma richiamano le immagini dei fenomeni evocati. E tali immagini sono quelle della condizione originaria della fase auratica. E‟ questo il fascino emanato dalla poesia, che nomina le cose lasciandole nella loro aura sensibile, cioè apparente. La poesia è l‟apparenza delle cose, e il Mito è la conoscenza apparente del mondo. Secondo un consolidato pregiudizio intellettuale, la fase mitica sarebbe lo stadio infantile dell‟esperienza cognitiva dell‟uomo, rispetto alla progressiva età adulta della ragione. Stabilendo che l‟operazione astrattiva della ragione sia la fase progressiva di emancipazione dall‟organicità del Mito, la civiltà dell‟uomo antropologicamente greco, che pone a fondamento unificante della soggettività l‟intelletto, si è strutturata nel senso della sua progressiva razionalizzazione, cioè determinazione logica. Diverso, però, dall‟Io alla greca è la soggettività in senso cristiano, che agostinianamente è la persona spirituale, “l‟uomo interiore” delle Confessioni, che “voleva e non voleva”,248 e quindi non decideva ma rimaneva immerso in quella  , in quella proclivitas alla passione, che per i greci era morbosa in quanto irrazionale. Eppure per i cristiani, quello spazio interiore della persona 248

Agostino, Confessioni, VIII, 22.

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spirituale era il luogo in cui l‟Io incontrava Dio. E non era uno spazio logico ma immaginifico e auratico, in quanto non concentrato sulla , cioè sulla , ma sul , ossia in quell‟ambito mediano () in cui era possibile ascendere a Dio meta-fisicamente. Se non in questo spazio intermedio, diverso da quello fisico della socialità politica, non si poteva nominare Dio, invocarlo ( ), ossia rifletterne l‟Immagine ( ). E pertanto, su questo fondamento topologico spiritualistico bisognava costruire la Chiesa universale ( ). Nondimeno, il percorso della civiltà europea di religione cristiana è stato ben diverso, avendo perseguito un disegno di oggettivazione in grado di costruire topologie culturali costitutive di luoghi di senso comune (). Tali loci communes sono le forme istituzionali che costituiscono l‟intelaiatura connettiva della socialità, intesa come principio religioso della convivenza umana. Questo reticolo connettivo di carattere religioso ha espresso quelle che Cassirer chiama “forme simboliche”, che sono essenzialmente forme di comunicazione funzionali alla trasmissione del pensiero e della volontà degli uomini membri della comunità sociale. Le forme topologiche di convivenza espresse da ciò che Hegel chiamava l‟objektiver Geist tendono tutte a formare unità significative di senso, indicando nel progetto teleologico delle istituzioni sociali due elementi fondamentali di esse: a) il loro carattere convenzionale e b) la loro succedaneità rispetto alla condizione molteplice di cui sono remedium superatore come strumento comunicativo. Tale condizione molteplice, indicata dalla stessa nomenclatura, è il carattere singolare degli enti mondani. La singolarità dell‟uomo non è il suo corpo biologico, che fa di lui un individuo della specie, ma la sua esistenza, cioè la sua storia spirituale. La comunità costruita sul dato corporeo e naturalistico della vita umana agisce sui moventi bio-psichici dell‟uomo inteso come  , lasciando in un limbo informale la zona pneumatica mediana ( ) che è la fonte della sua personalità singolare, della sua singolarità spirituale. La differenza radicale tra la dimensione oggettiva e formale dell‟uomo e quella mesotagica e informale consiste nella diversa possibilità unitiva delle due realtà. Se infatti l‟individuo bio-psichico è accomunabile agli altri membri sociali attraverso le forme istituzionali della sua esperienza socio-culturale, le esistenze singolari abbisognano di legami connettivi 119


di diversa natura, che sono i sentimenti, attraverso i quali le singolarità spirituali riconoscono se stesse negli altri. I luoghi comuni di questo idem sentire sentimentale sono i Miti, che narrano l‟esperienza comune dell‟uomo spirituale. La trascrizione razionalistica dei  mitici in termini logici intende fondamentalmente sostituire la connessione sentimentale () dei rapporti umani con una connessione esclusivamente naturalistica e formale basata sulla corporeità topica (). La politica in senso idealistico non è altro che una geometria (del corpo) sociale ( ), ottenuta attraverso la riduzione dell‟ a calcolo topometrico () attraverso l‟astrazione del , considerato irrazionale e morboso. L‟uomo del razionalismo greco è dunque politico ma non sentimentale, topico ma non pathetico. Non a caso l‟arte, che è l‟espressione estetica del pathos, viene bandita dalla Repubblica ideale di Platone, in quanto poiesi dell‟in-formale, elemento estetico del Mito. Il sentimento è l‟intuizione sensibile del mondo, materia di ogni poiesi oggettiva, o “proiezione intenzionale”.249 E‟ il contenuto spirituale di ogni espressione immaginifica. Il sentimento, insomma, è il contenuto dell‟immaginazione. La creazione immaginifica è l‟arte. L‟estetica in senso razionalistico, priva cioè del pathos sentimentale, diventa espressione del logos, formale in senso topico, ossia geometria topologica, tecnica stilistica. Ora possiamo renderci conto della portata dello scarto dialettico. Ciò che infatti viene escluso dalla logica formale è esattamente il sentimento della vita, lo scorrere delle scansioni vitali, il movimento in divenire di tutte le cose. Senza questo stadio mediano della zona pneumatica () il rapporto tra gli enti fisici e gli enti ideali diventa riflessivamente diretto, e quindi interscambiabile, e tale che l‟ente idealizzato sia la proiezione geometricamente infinita dell‟ente-che-è, il suo modello universale. La possibilità di tale rispecchiamento proiettivo, di tale idealizzazione ontica, passa attraverso l‟astrazione estetica del pathos. Una realtà de-pathetizzata, privata del sentimento della vita, viene ri-localizzata more geometrico in forme topiche universali, le categorie. La logica diventa la tecnica della ragione 249

E. Coccia, La vita sensibile, cit., pag. 112.

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geometrica, lo strumento teoretico della topo-logia economica.250 Ma poiché il movimento della vita reale, il pathos sentimentale, non può esiliarsi in interiore homine, poiché esso costituisce la trama della esistenza spirituale dell‟uomo nei suoi rapporti col mondo, esso deve trovare un varco attraverso lo  formale sorvegliato dalle istituzioni politiche, per essere canalizzato e neutralizzato come risorsa psichica della sublimazione razionale necessaria alla vita sociale.251 E così, anziché essere coltivata come potenzialità espressiva dello spirito umano, la risorsa del sentimento, pur indispensabile alla vita umana, viene considerata solo in rapporto al suo valore funzionale alla sopravvivenza del sistema politico, e per cui o tollerata come strumento religioso di contenimento sociale ( ) o banalizzata a tensione ludica. Nel primo caso, la Weltanschauung razionalistica sviluppa una antropologia politica basata sulla “uniformità della natura umana”, i cui “affetti” primordiali “dell‟amore e della paura” vengono concepiti come “la potenza dell‟animalità” dell‟uomo. Di conseguenza, “la fantasia positiva dell‟uomo di Stato, che calcola i fatti, ha il suo fondamento in questo modo di vedere, che considera l‟uomo come una forza di natura e insegna a vincere i suoi affetti mettendo in azione altri affetti”.252

250

è intesa qui come la dispositio dei teologi alessandrini di “governo salvifico del mondo”, come intende Heidegger il “modo dell‟ordinare” col termine Bestellen e Faucault il concetto di “dispositivo”, ossia come “un insieme di prassi, di saperi, di misure, di istituzioni il cui scopo è di gestire, governare, controllare e orientare in un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini”: G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Roma, 2006, pag. 20. L‟A. lo identifica con “una pura attività di governo che non mira ad altro che alla propria riproduzione” (pag. 32), intendendo “governo” per amministrazione. Infatti il senso originario del Governo divino e provvidenziale era quello di salvare l‟elemento eterno dell‟uomo, e non semplicemente di esercitare un Potere di controllo corporeo, così come era inteso invece nel senso greco del  . 251 G. Agamben parla di “desoggettivizzazione” dei dispositivi del capitalismo tardo-moderno (Ivi, pag. 30). Ma questo fenomeno in realtà corrisponde allo stesso processo di astratta universalizzazione della soggettività socializzata e privata del sentimento singolare della creatura pathetica operata dal Potere razionalizzato. 252 W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, tr. it. cit., vol. II, pag. 240.

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Indispensabile, all‟uopo, una definizione razionale dei moti affettivi che di essi censuri quelli politicamente eversivi, esaltandone di contro quelli socialmente religiosi. E pertanto la religione viene inclusa funzionalmente alla direzione della vita politica come mito fondativo dell‟ordine sociale attraverso canali pedagogici istituzionalizzati in riti periodici, di natura mistica (si pensi ai culti divini) o pedagogica (si pensi alla drammaturgia greca). Nel secondo caso, l‟istanza razionalizzatrice del cosmo topico-politico consente che alcune aree della vita sociale, perlopiù marginali, possano sviluppare una produzione rappresentativa del sentimento della vita indipendente o quasi da ogni remora di carattere politico. E‟ il caso dell‟arte moderna e dello sport, che offrono una immagine, anche veridica, ma del tutto surreale dell‟esistenza umana, in cui il sentimento viene acquisito solo come elemento icastico. Sollevata da ogni fondamento di verità incontrovertibile, la stessa conoscenza scientifica acquisisce tale elemento icastico in senso congetturale per le sue immaginarie ipotesi teoriche. Una natura umana de-mitizzata e imbrigliata alle idee tende a essere rappresentata come un gioco di parti prefissate in cui “le passioni umane [siano]come un motore prevedibile della creatura” politica. 253 Lo sforzo etico-politico è finalizzato acché tutto sia rappresentabile in termini che eludano il mistero della esistenza, sostituito dal rapporto drammatico interno alla dialettica sociale servo vs. padrone, Potere vs. cittadino. In questo senso è stato indicata la Weltanschauung moderna come il luogo proprio “in cui soltanto il tragico può trovare un suo sviluppo incontrastatamente poderoso e coerente”, per quanto l‟eroe moderno è rappresentato “entro un insostenibile ordine del mondo che non regge di fronte a occhi illuminati”, essendo l‟immagine dell‟umanità che egli offre caratterizzata dalla “angustia”, dalla “oppressione” e dalla “non libertà”, 254 recando in sé un irriducibile pathos anti-etico notato a suo tempo da Nietzsche, che per primo ha messo in luce il carattere immaginifico della produzione artistica come

253

W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, tr. it. cit., pag. 86.

254

J. Voelkelt, Aesthetik des Tragischen, cit. da W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, tr. it. cit., pag. 93.

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puro “fenomeno estetico”.255 Ma ciò che Benjamin stigmatizza come “l‟abisso dell‟estetismo” dionisiaco e nichilistico, 256 è in realtà il giudizio di un critico che si pone interamente entro la visione apollinea, di cui quella estetica assume di converso il valore di contraltare dialettico. Ma era inevitabile che una cosmologia costruita sulla esclusiva determinazione dell‟Essere come Logos ponesse fuori del topos idealistico il suo relativo Niente, divenuto il nemico che premeva ai confini della moderna città della Ragione emancipata dai suoi fondamenti di fede. Ma il Niente era anche la tenebra dalla quale era uscita la creazione divina, e il luogo temuto del ritorno del mondo privato della Grazia, al cui intervento salvifico era dunque sempre debitrice l‟umanità. Il Dio creatore (creator) del mondo ne era anche reggitore (rex) in quanto custode (provisor) della sua realtà ontologica. Il governo provvidenziale (providentia) di Dio era dunque la condizione stessa dell‟esistenza del mondo così com’era. Conviene ribadire che la fede cristiana è del tutto estranea a ogni visione religiosa tradizionale, compresa quella ebraica, dove il Mistero divino viene rappresentato come una esperienza etnica. Ma è altrettanto vero che ciò nonostante, la civiltà cristiana si sia definita entro i confini di una religiosità di natura segnatamente politica, internamente quindi a una teologia pensata topologicamente nel senso chiarito. Questa connubio teologico-politico ha generato il problema della compatibilità logica delle dottrine interne ed esterne alla tradizione ecclesiale, filosofiche o teologiche, con la costruzione ideografica sostenuta dalla dogmatica ufficiale della Chiesa, la cui dottrina, come abbiamo visto, in ogni caso si era andata definendo come un grandioso commento digressivo () della cultura pagana classica. Al centro della grande disputa teologica del XIII secolo che divide la Cristianità vi sono le Quaestiones de legibus del francescano card. Matteo d‟Acquasparta (1240-1302), redatte tra il 1283 e il 1284, dove “la „lettura‟ religiosa del cosmo, proposta dall‟opera, non è priva di connessioni anche con l‟ambito politico, fornendo implicitamente una

255

F. Nietzsche, Die Geburt der Tragoedie (1895), cit. da W. Benjamin, Loc cit., pag. 95. 256 Ibidem.

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giustificazione teorica all‟ideologia teocratica” propugnata da Bonifacio VIII contro Filippo IV detto il Bello, con la quale si voleva, in chiave agostiniana, “legittimare la pretesa del potere spirituale alla plenitudo potestatis”,257 che sarà oggetto esplicito del Sermo de potestate papae pronunciato ad Anagni il 24 giugno 1302 dinanzi a Bonifacio VIII, al collegio cardinalizio e agli inviati di Filippo di Francia, in cui la plenitudo viene estesa anche al potere temporale. 258 Il Governo divino è qui inteso non come generica providentia, riservata a tutte le creature, ma, magis proprie, come lex, ossia come ordine razionale confacente a una creatura razionale, e quindi di una armonia cosmica retta dalla lex aeterna impressa nell‟uomo come sua lex naturalis, (beninteso, naturae superadditum) che è la “regula che dirige esclusivamente le azioni libere della creatura razionale”.259 Libertas e lex sono strettamente congiunte, essendo la destinazione della prima secondo la prescrizione della seconda a fare del comportamento umano oggetto di valutazione secondo il Bene. Infatti, essendo la loro corrispondenza conforme ai divini principii universali, eterni e immutabili, l‟osservanza della lex naturalis fa della libertas umana un auto-governo. Ciò implica che la lex naturalis sia uno habitus in senso proprio (proprie) di “disposizione stabile” secondo i principii eterni, e non una disposizione occasionale, come l‟intendeva invece Tommaso,260 il quale lasciava pertanto autonomia alla ragion pratica di determinarsi indipendentemente dalla volontà diretta di Dio. Il riflesso diretto della legge divina nel cuore degli uomini, fa della libertà morale una responsabile adesione a ciò che costituisce la

257

L. Mauri, “Introduzione” a M. d‟Acquasparta, Quaestiones disputatae de legibus, tr. it. Il cosmo e la legge, Firenze, 1990, pagg. 9-10. Per La disputa tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII, ved. l‟omonimo saggio di M. Delle Piane in L. Firpo (a cura), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Torino, 1983, vol. II 2, pagg. 497-541. 258

Ved. la Nota bibliografica a Il cosmo e la legge, cit., pag. 42. Il Sermo de potestate papae è riportato in Appendice ai Sermones de S. Francisco, de S. Antonio, de S. Clara, Firenze 1962 (BFA X), da cui saranno tratte le citt. 259 L. Mauri, Introduzione, cit., pag. 14. 260

Tommaso, Summa Theol., I-II q 94; ved. L. Mauri, Loc. cit., pag. 17 n. 37.

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giustizia eterna. Ed in tale adesione è da ravvisarsi la capacità raziocinativa dell‟uomo. Allora come spiegare il male nonostante lo habitus della lex naturalis? Col peccato originale (status naturae lapsae), che oscurando l‟intelletto umano ha reso necessaria una lex scripta che la ricordasse rendendo significativa l‟esistenza umana. Ma la necessitas della legge scritta non va intesa in senso naturalistico ma di opportunità soteriologica, e pertanto inscritta nella stessa provvidenza divina. Da qui la doppia fisionomia della lex, che appare metafisica ex parte Dei ed etica ex parte hominis, con una presuntiva predilezione di Matteo per “una ermeneutica dell‟esistenza che privilegia nettamente la considerazione dell‟uomo „storico‟ rispetto a quella che lo vede nella sua condizione „naturale‟”261. In realtà, la preoccupazione di Matteo è quella di stabilire una distanza tra la necessità ex naturae principiis, che riguarda generalmente gli enti materiali, e la volontà legata all‟atto razionale, proprio invece dell‟uomo, includendo surrettiziamente anche ciò che è “male di per sé ma non in se stesso” tra gli eventi previsti da Dio a buon fine. Ciò vuol dire che la persona umana riflette il Bene eterno frammisto alla naturan naturans della sua animalità. La maschera umana riflette da Dio la luce benigna della Grazia ma la riflette insieme alle sue ombre della sua natura finita. Il tentativo di de-finire i termini di questa presenza divina nell‟uomo, equivale a decrittarne la volontà secondo una simbologia omogenea alla fonte di irradiamento. Il linguaggio di Dio diventa quello razionale depositato nell‟uomo. E quindi la persona umana deve atteggiarsi simbolicamente a quanto consenta la decifrazione della volontà di Dio. L‟estroversione della presenza divina in una forma simbolicamente traducibile in termini razionali fa della estetica una produzione pubblica, destinata cioè alla comprensione comune. E dunque ciò che era precipuo della interiorità del singolo deve partecipare della simbologia della scrittura comune del consorzio civile, rientrando a pieno titolo nella cultura socializzata, la quale, come sappiamo, è una topo-logia, una cultura dello spazio politico. Che poi tale ambito topico venga distinto da quello propriamente civile, non afferisce alla natura del suo carattere comunitario. Tale esigenza comunitaristica traspone

261

L. Mauro, Ivi, pag. 20.

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l‟unità simbolica della molteplice singolarità umana nell‟ente generalizzante, che non è più Cristo ma un ydolum tribus, si chiami Chiesa o Stato. Di conseguenza, l‟Immagine accomunante che rendeva possibile la  non è più il riflesso singolare della immagine () di Cristo in interiore homine, cioè la persona singolare di ognuno, ma la proiezione ipostatica di tale ydolum, un feticcio sensibile (), del quale la normativa esegetica, scritta e pittorica, diventa la traduzione universalizzata della voce stessa di Dio. La  che ha la stessa radice (ritirarsi) di , rappresenta appunto l‟Immagine sacra privata del suo  singolare, del suo sentimento personale, ossia della sua “fede” (), sulla cui “confermazione” () andava costruito evangelicamente il mondo cristiano. L‟esistenza cristiana è quella in cui la fede in Cristo viene confermata, non dalla legalità (), ma dalla deliberazione ( ) conseguente all‟appello evocativo () all‟Immagine divina dello Spirito (). Non è un caso che l‟appello luterano alla sola fide, senza una radicale revisione dei fondamenti ontologici del cosmo cristologico, abbia prodotto la civiltà materialistica dell‟immagine, in cui la semiotica è affidata alla sola modalità di presenza dell‟immagine corporea, al segno estetizzante, privo di corrispondenze con l‟altrove che non sia lo sguardo di chi quell‟immagine de-finisce entro lo spazio della finitezza sociale, misurata dalla capacità di controllo dello spazio , relativo all‟ambiente della vita biologica, la casa dell‟uomo. Poiché lo spazio esterno è il prodotto convenzionale del calcolo topometrico () ottenuto dall‟astrazione del  dall‟, la sua de-finizione risente dei motivi politici relativi alla particolare geometria (del corpo) sociale ( ), ossia dalle storiche contestuali possibilità di operare tale riduzione (Xxxxx), la quale è dunque sempre frutto di un equilibrio precario tra il molteplice e variegato livello di coscienza simpatetica e le forme istituzionali storiche atte a rappresentarlo iconicamente. Queste forme rappresentative, prodotto di quell‟equilibrio socio-culturale, necessitano di essere riconosciute da altri interlocutori istituzionali. Ed esattamente in questo riconoscimento iconico consiste la dialettica della politica, tendente a una pacifica con-venzione, e quindi a un pactum che trasformi lo hostis in amicus. 126


Lo stretto intreccio ideo-logico tra forme rappresentative e politica non è solo evidenziabile attraverso le guerre civili o tra Stati, ma anche tra confessioni religiose diverse in lotta per il reciproco riconoscimento politico. Un cambio di paradigma che consentisse il superamento delle divisioni interne al Cristianesimo dovrebbe prioritariamente avvenire nel senso del passaggio () da una visione iconica dell‟Immagine divina a una concezione dochematica, tale da rinunciare a ogni formalismo estetico a favore di una libera espressione spirituale legata alla Grazia divina ( ), secondo il modello cristico, per cui la  era una libera associazione carismatica, non una istituzione normativa. Questo particolare comunitarismo spirituale segnerebbe in modo radicale la differenza tra le forme sociali legate al Potere e le libere associazioni ecclesiali, per cui la conversione () da un sistema bio-politico a un legame pneumatico fosse non una semplice svolta (Kehre) interna all‟orizzonte di coscienza dell‟Essere temporale, ma un passaggio () autentico, segnato dall‟abbandono (Diremption) del fondamento discriminatorio (Urteilung) logiconaturalistico a favore di una considerazione dell‟esistenza come intuizione spirituale del Tutto, che non è presente nella temporalità del tempo finito, come pretendeva lo storicismo e la stessa “effettività” (Factizitaet) di Heidegger, ma in quella dell‟evento propizio ( ) alla Possibilità di Dio () e il superamento della vuotezza della Sua presenza incompleta ( ) nel tempo intermedio della finitezza (), caratterizzato da relazioni inautentiche e puramente bio-logiche oggetto della gnoseologia scientifica, che è sapere esclusivo derivato dall‟idealismo, inadatto alla vera conoscenza di fronte alla intuizione della pienezza infinita divina, che è pensiero del Tutto anziché dell‟Essere, come invece è quello dell‟ontologia tradizionale sulla quale si è affidata, per il medio teoretico della tecnica dialettica, la teo-logia cristiana.262 Il Tutto non è l‟Essere-presente, cioè

262

La Possibilità della pienezza di Dio include la sua presenza storica (Dasein) attraverso l‟esistenza stessa dell‟uomo spirituale, e perciò non è propriamente presenza attuale nel senso metafisico del pensiero logico-razionale tradizionale, per cui lo stesso concetto della  come “presenza” di Dio, riflette la concezione idealistica dell‟ente quale attualità dell‟Essere, laddove il suo senso autentico è quello riferito alla pienezza della Sua infinita possibilità. Ma non è

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non è la forma dell‟ente, e neppure dunque “il modo di esistenza di una forma”,263 ma con-siste nella Possibilità in-attuale che avvolge l‟Essereche-è e che lo de-limita in negativo rispetto a ciò che lo de-finisce positivamente. Il modo di esistenza di una forma è il suo divenire, la sua genesi, che è il passato della sua attualità. La forma ideale di questa esistenza è il concetto categoriale, mentre la sua forma estetica è lo spazio d‟essere sottratto alla sua possibilità pensata come ni-ente e come vuoto. Giustamente è stata confutata la pretesa di definire una gnoseologia spirituale parallela a quella naturalistica, poiché anche le scienze dello spirito, inteso questo come forma ideale dell‟Essere attuale, sono un sapere dell‟Essere-che-è, cioè dell‟ente come fenomeno temporale, e quindi come realtà estetica. La logica che de-finisce la presenza dell‟Essere è lo stesso metodo cognitivo relativo a ogni ente naturale, a ogni fenomeno attuale, e perciò non può essere il criterio di conoscenza del Tutto, di ciò che nonè l‟Essere ma l‟avvolge come sua possibilità in-attuale. La scienza dell‟immagine sensibile dell‟Essere è l‟estetica, che è la conoscenza della forma dell‟Essere attuale scissa dai suoi contenuti logici, ossia dalla sua genesi. Tale pre-scissione rappresenta l‟immagine sensibile come appare alla vista di chi ne osserva l‟esteriorità. Il modo dell‟apparenza dell‟ente è sempre spaziale, un modo topico, un modo di de-finire lo spazio fenomenico. L‟immagine pneumatica di cui parliamo non è spazializzata ma limita lo spazio attuale trascendendolo, ossia non gli si contrappone per contenderne dialetticamente la forma, ma lo avvolge l‟oscurità della possibilità avvolge la luce del fenomeno, come il Mistero della verità avvolge la certezza della ragione se indichiamo il Mistero della verità col nome di Dio, allora la conoscenza di Dio non può essere una teologia, una scienza della Sua presenza fenomenica, perché la Sua immagine umana è Cristo, e la Sua conoscenza è la Storia di Cristo, la storia dell‟Uomo pneumatico. Una storia che non può essere meramente

neppure l‟assoluta storicità della universale vita intenzionale. Infatti, il pensiero del mondo-della-vita (Lebenswelt), in quanto pensiero dell‟esserci, è ancora interno all‟orizzonte di senso onto-logico della metafisica greca, identificando la “vita” con il divenire della Natura, della totale possibilità degli enti fisici. 263 E. Coccia, La vita sensibile, cit., pag. 188.

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logico-fenomenica, ossia naturalistica, ma appunto anch‟essa pneumatica, che testimonia la fede dokematica nel Cristo, e perciò non una indagine scientifica ( ) ma una testimonianza () di fede. L‟oltrepassamento dell‟orizzonte ontologico greco comporta l‟abbandono dell‟ipotesi dell‟universale unità cosmica, per la quale l‟uomo viene inscritto nello stesso habitat naturalistico degli altri esseri mondani, e l‟accoglimento della verità della condizione singolare dell‟uomo quale essere sentimentale, non, cioè, meramente senziente, come ogni altro essere vivente, ma disponibile alla trascendenza della sua finitezza. In tale disponibilità consiste la sua libertà spirituale, il suo sentimento della esistenza (), che lo allontana dalla necessità della vita biologica cui soggiacciono gli altri esseri animati. Questo allontanamento dalla condizione animale equivale alla considerazione della sua esistenza non-logica, non soggetta al  universale le cui leggi regolano la vita finita del cosmo naturale ( ), il vero soggetto intrascendibile del mondo-della-vita. In considerazione dell‟evento cristico, la coscienza teoretica dell‟uomo non può più circoscriversi entro l‟orizzonte della finitezza onto-logica, ma schiudersi a quell‟incontro col trascendente costitutivo dell‟orizzonte della totalità che Jaspers chiamava l‟Umgreifende, il cui tempo avvenimenziale non è la diacronia di  ma la compiutezza del , la cui Immagine antropo-pneumatica è il  e non l‟ sensibile dell‟antropologia tradizionale. L‟identificazione razionalistica dell‟immagine trascendentale ( ) con la figura empirica dell‟  ha comportato per riflesso idealistico, a fase alterne, la umanizzazione del sacro (teo-crazia) ovvero la sacralizzazione dell‟umano (umanesimo), provocando l‟alternanza di unitarismo religioso e di frantumazione bellicistica tipica della storia della Cristianità, pervasa dal principio naturalistico del  anziché da quello cristiano della Ciò ha creato le premesse culturali del dominio della immagine antropizzata della forma topica come “vita sensibile”, la cui finitezza ha schiuso le porte alla manipolazione del corpo sociale (), attraverso le ideocrazie politicistiche, e del corpo biologico (), attraverso la manipolazione genetica. “Così intesa essa [la potenza di un corpo di avere veste, di trasformare cioè una porzione estranea del mondo nel luogo della propria apparenza e della propria verità] è il luogo in cui la natura deve 129


farsi immagine e l‟immagine individuale è demiurgia immediata della propria natura, […] assorbendo in sé ogni possibile morale. In essa si mostra come l‟ethos sia capace di disegnare sensibilmente tutti i tratti del nostro bios”.264 “Disegnare sensibilmente” vuol dire dunque progettare e manipolare forme topiche, naturali o umanizzate, e quindi ri-formare, ossia dare nuova forma, al creato secondo una intenzione riflessiva della propria concezione del mondo. Il carattere eversivo e rivoluzionario di tale impostazione razionalistica forse non è stato pienamente colto dai suoi teorici e propugnatori, i quali probabilmente ritengono ingenuamente che “la capacità di custodire ed emanare immagini”265 sensibili sia un gioco di società, come appunto la “moda”, e non già il carattere terribile della libertà umana come Potere demiurgico della specie priva della redenzione indiativa, la quale soltanto può trasformare la vita biologica dell‟individuo in una esistenza del Singolo favorito dalla Grazia divina ( ). Il totalitarismo politico è la coerente applicazione pratica dell‟universalismo naturalistico del concetto razionale, per il quale “naturale” è quanto abbia ovunque e per tutti lo stesso valore legale 266. E se “ovunque” vuol dire in ogni parte dello spazio topico, idealmente formalizzato, “per tutti” vuol dire che ha valore anche per ognuno indistintamente, secondo uno spirito uniforme contrario al singolarismo della morale cristiana. Stabilire pertanto sulla base del principio naturalistico il rapporto razionale tra Creatore e creatura è perlomeno fuorviante. Eppure tutta l‟argomentazione di Matteo d‟Acquasparta procede attraverso sillogismi basati su premesse di tipo naturalistico, desunte dai classici pagani quali Aristotile e Cicerone, oltre che sulle fonti patristiche, per cui la questione sulla legge eterna è condizionata dallo stesso concetto di legge come “regola o principio” prodotti del diritto, “presente in chi governa, grazie al quale egli dirige, ordina e dispone le

264 265 266

E. Coccia, La vita sensibile, cit., pag. 193. Ivi, pag. 198. Aristotile, Etica a Nicomaco, V 7, 1134 b 19.

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realtà subordinate”,267 [accomunando Dio a un legislatore “eterno” ma omologo a ogni reggitore di Stati. Infatti, “nessun legislatore istituisce una legge se prima non l‟ha concepita in sé e nella sua mente”, 268 sicché con la legge eterna “l‟eterno signore, governante e sovrano dirige e dispone ogni creatura dotata di ragione o di intelletto, angelica e umana”. Non già “alla cieca o caso o secondo fortuna o fatalità – il che appare assurdo anche nel caso di qualsiasi altro re, principe o padre di famiglia -, ma guida, dispone e governa con potenza, sapienza ed in modo sommamente retto”, ossia appunto “in base o conformemente a un principio che chiamiamo legge eterna”. 269 E che altro non è che il disegno provvidenziale concepito alla maniera topo-logica e naturalistica greca, per cui “la legge eterna è la stessa ragione sempiterna”,270 “in base alla quale variano tutte le leggi temporali che servono al governo degli uomini ed il cui principio è che sia giusto che tutto sia sommamente ordinato: infatti è sempre giusto che tutto sia sommamente ordinato”.271 Il principio d‟ordine è quello razionalistico per cui i principi morali giusti e veri sono eterni, “noti di per sé” e da tutti conosciuti per tali. Essi sono assiomatici, come “ad esempio che si deve amare il bene e che si deve desiderare la sapienza”, ma ciò non significa che siano immutabili ed eterni “nelle cose stesse, dato che ogni realtà creata è soggetta a mutamento e può essere ricondotta al nulla”, e neppure relativamente “in ciò che la nostra mente possiede in modo stabile, […] in quanto anche il nostro intelletto è soggetto al mutamento” e all‟errore. E dunque gli uomini, sulla base di quale legge gli uomini giudicano la condotta degli altri uomini? Non in base a se stessi, perché è di se stessi che giudicano; non secondo una disposizione stabile della mente, giacché è noto che le loro menti sono ingiuste. Essi giudicano, quindi, in base ad una legge totalmente

267

M. d‟Acquasparta, Quaestiones disputatae de legibus, tr. it. Il cosmo e la legge, cit., pag. 63. 268 Ivi, pag. 67. 269 270

271

Ivi, pag. 64. Ivi, pag. 65. Ved. Agostino, De libero arbitrio, I 6, 15. Ivi, pag. 69.

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immutabile ed in giudicabile, che è superiore alle nostre menti. D‟altra parte, [secondo Bonaventura,] nulla che non sia eterno è superiore alle nostre menti, per cui è necessario ammettere che la legge eterna esiste. 272 Il

costrutto sillogistico si basa tutto sull‟assioma implicito che la ragione umana sia speciale, ossia della specie antropologica nel suo complesso, per cui la divisione empirica tra savi e stolti non inficia il dato complessivo della guida razionale della mente dell‟uomo. Ciò implica che il genere umano, per quanto di natura lapsa a seguito del peccato d‟origine, sia teologicamente rilevante per la sua componente razionale, la quale si assume sineddoticamente per il tutto. Questa discriminante razionalistica introduce nel discorso cristologico una componente eversiva dell‟intera concezione morale di Cristo, il quale, chiedendo di non giudicare e di perdonare il prossimo, intendeva superare la dicotomia vero/falso in ambito della condotta umana spostando il referente normativo dal piano del Potere politico a quello caritatevole del Governo divino. Questa  non poteva presumere la universalità di una normativa valida erga omnes, ma soltanto l‟attitudine a con-prendere le ragioni dell‟altro sulla base del proprio sentimento (). Il tipico rapporto legale tra fattispecie astratta e caso concreto viene da Gesù rinnegato in nome della carità in occasione dell‟episodio della lapidazione della meretrice, allorquando Egli fa appello alla coscienza di ciascuno di essi per suffragare un gesto legittimo e quindi giuridicamente giusto. La morale della pietà elimina l‟etica giuridica, contravvenendo alla razionalità della prescrizione normativa, la cui validità si misura appunto con la sua applicazione universale. Il giudice cui fa appello Gesù a proposito della Maddalena non è il tutore della legge ordinamentale, poiché l‟atto morale in senso cristiano trascende ogni ordinamento giuridico, ma al “tribunale di Cristo” (2 Cor., 5, 10), diverso dalla Legge stessa mosaica custodita dai farisei, in quanto applicata secondo il criterio umano della sua astratta universalità, la quale non considera che il sabato, cioè la regola generale, sia fatto per gli uomini, anziché il contrario. La priorità del caso concreto, che configura per l‟ordinamento legale un caso di eccezione, viene eletto da Gesù come il prescritto normale nei rapporti caritatevoli tra fratelli nella fede.

272

Ivi, pagg. 70 e 71.

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Ordunque, qual è la “legge eterna”? La “regola o modello del bene e del giusto”, ossia la prescrizione ideale della ragione universale, ovvero l‟ordine provvidenziale in cui la parte è teleologicamente ordinata rispetto al tutto, tale che, come afferma Agostino, “non vi sia onta di peccato senza splendore di giustizia”? 273 Nel primo caso, Dio coincide idealisticamente con l‟Essere, tale che “l‟essere che è in Dio è il principio dell‟essere in ogni cosa”, 274 compreso il principio legale, per cui “è la legge stessa, che è la prima e somma verità, ad essere principio di ogni legge giusta, e tutte le leggi giuste vengono tratte da essa e perciò la legge è realmente eterna”. 275 In tal caso, tra la legge divina e quella umana c‟è una rifrazione diretta, partecipando entrambe della stessa ragione. Ma se il sole sorge sui buoni e sui cattivi, e la pioggia bagna i giusti e gli ingiusti (Mt 5, 45), affinché “tutti gli uomini buoni e cattivi condividessero i beni e i mali temporali”,276 non può valere per le ragioni morali, nel cui ambito un qualche evento può apparire “fortuito, quando non si conosca la ragione profonda dell‟ordine”. 277 Il che vuol dire che tra l‟Essere, che è uno, e la prassi, che è molteplice, c‟è una distanza segnata dall‟erramento umano, tale che rispetto al modello eterno ed esemplare si ammette la possibilità di una “pluralità di leggi” diversa dal modello unico, 278 ognuna delle quali riflette una intensità diversa di giustizia relativamente al grado di carità in essa contenuta.279 L‟ipotesi che se la legge eterna “non esistesse, non vi sarebbero nemmeno le leggi che sono ordinate al conseguimento di tali esiti [o fini] nel tempo”,280 ossia le norme di diritto, verrà confutata dalla legislazione dello Stato assolutistico moderno che, superiorem non

273 274 275 276

Ivi, pagg. 75-77. Agostino, De libero arbitrio, I 15, 44. Ivi, pag. 78. Ivi, pag. 79. Agostino, De civitate Dei, I 8, 1. Corsivo nostro.

277

Boezio, De consolazione philosophiae, IV 6, cit. in M. d‟Acquasparta, Il cosmo e la legge, pag. 80. 278 [Ivi, pagg. 80-81. 279

Agostino, De natura et grazia, 70, 84; ved. M. d‟Acquasparta, Il cosmo e la legge, pag. 82. 280 Ivi, pag. 83.

133


recognosens, accentra in sé la potestà normativa positiva e il potere demiurgico costituente. Questa è la prova storica che la supposta derivazione diretta della legge naturale da quella divina sia in realtà soggetta a una mediazione, quella della fede nella validità dei fondamenti morali della legge eterna riaffermata da Cristo, senza la qual fede la stessa potestà regale è auto-noma e indipendente da ogni potestà trascendente, inerendo non già la soggettività creaturale ma la soggettività politica. Questo comporta la distinzione ontologica, affermata da Agostino, tra legge eterna e legge naturale, 281 per cui si introduce un elemento terzo tra il modello eterno e il naturale la cui assunzione trasforma questo in propriamente umano. Questo elemento mediatore è appunto la fede nel Cristo Redentore come Immagine spirituale () dell‟Uomo non-più naturale. Questa mediazione non viene contemplata nel rapporto tra legge divina e legislazione di diritto, sicché il rapporto tra le due dimensioni normative non è di carattere mnestico, come per Platone, ma eternamente innato per illuminazione divina.282 La differenza riposa nel fatto che non vi è coincidenza tra legge naturale e natura razionale. Infatti, secondo Aristotile, “la natura si rapporta ad una cosa soltanto, per cui anche la legge naturale, se esiste, deve rapportarsi ad una cosa soltanto ed essere determinata ad una cosa soltanto [laddove] le facoltà razionali, proprio perché razionali, si rapportano a cose opposte. Di conseguenza, la legge naturale contrasta totalmente con la natura razionale”. 283 La legge di natura è legata alla necessità, mentre il fine della legge razionale trascende la natura ed è legata alla libera determinazione dell‟arbitrio umano, sicché “razionale” va intesa quella legge che obbedisce al principio dell‟ordine divino, e non a quello necessario e uniforme della natura, per cui “è del tutto superfluo e inutile ammettere un‟altra legge che stabilisca l‟ordine. Pertanto, non si deve ammettere la legge naturale”284. Nel senso che “naturale” per l‟uomo è la legge razionale divina, distinta da quella variabile umana dei costumi.

281

Agostino, De vera religione, 30, 56; De Trinitate, XIV 15, 21.

282

M. d‟Acquasparta, Il cosmo e la legge, pag. 89. Ivi, pag. 90. Aristotile, Metaphysica, IX 2, 1046 b 2-6. 284 Ivi, pag. 91. 283

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Ma divinizzare la natura ha significato per la teologia di origine agostiniana aver operato una ulteriore razionalizzazione della legge naturale, privandola della sua polarità dialettica e destinandola al fine univoco della salvezza trascendente. Questa assunzione tecnica della razionalità del logos pagano entro il finalismo escatologico cristiano, introducendo metodicamente nel discorso teologico uno dei due termini dialettici del discorso filosofico, quello volto alla trascendenza, implicitamente ne introduce anche l‟altro opposto, volto all‟immanenza. E se il finalismo della ragione divina è univocamente volto al Bene, l‟elemento ugualmente governato dalla provvidenza ma volto al Male è comunque presente nella ragione umana appunto come elemento naturale, e perciò non separabile se non per via distinguente, e perciò dialettica e polemica. Infatti, com‟è giustamente ricordato, “se si deve ammettere nella creatura razionale la legge naturale è necessario ricondurla ad una delle categorie dell‟essere”. 285 Mentre però, come afferma Aristotile, “nulla di ciò che è per natura, è soggetto a variare”, invece “ogni giudizio della creatura razionale è soggetto a variazioni” 286 in quanto libero. E dunque nel modo naturalistico sfuma il carattere caritatevole della graziosa relazionalità cristiana. La “legge di grazia”, infatti, mira a volere “il bene per l‟altro e il male per me”, e pertanto “abolisce piuttosto ed annulla la legge di natura”, per la quale “devo volere per l‟altro ciò che voglio per me e fare all‟altro ciò che voglio sia fatto a me”, dal momento che, secondo Aristotile, “il diritto naturale è il medesimo e ha la medesima validità presso tutti”. 287 L‟equivoco tra la validità universale della norma razionale e la vigenza concreta nei singoli casi dell‟esperienza umana, gioca sulla confusione non chiarita tra l‟elemento legalmente prescrittivo e l‟elemento moralmente imperativo. E‟ chiaro che la legge naturale, per la sua astratta uniformità, prevede la conformità del rapporto reciproco, laddove la legge morale è sempre contestuale e dunque unilateralmente difforme dalla biunivoca prescrizione universale. La differenza tra

285 286

Ivi, pag. 93. Ivi, pag. 94. La cit. di Aristotile è dall‟Etica Nicomachea, II 1, 1103 a 19-21.

287

Ivi, pag. 92. Il passo cit. di Aristotile è tratto dall‟Etica Nicomachea, V 7, 1134 b 19.

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l‟inottemperanza della norma legale per ragioni morali e la violazione della norma di diritto risiede nel suo diverso fine, che nel primo caso è altruistico mentre nel secondo è egoistico. 288 E dunque la morale in senso cristiano è sempre unilaterale e favorevole all‟altro. 289 Questo principio altruistico pertiene a un regno che non è di questo mondo, la cui legge di movimento tende all‟affermazione di ogni ente mondano, anche a scapito di altri, ma a un regno altro in cui le dinamiche naturali vengono smentite da una volontà spirituale volta al bene comune. Se questo è inteso nel senso della salvaguardia della specie naturale, il principio razionale è di salvare l‟intero anche a scapito dei singoli membri, e l‟etica coincide con la stessa potenza economica dell‟ente idealmente unitario. Ed è questo il percorso del naturalismo greco, metodicamente universalizzato dall‟idealismo platonico che dall‟etica l‟ha trasferito all‟intiero pensiero filosofico. Ma questo non può essere il pensiero cristiano, che si oppone alla ontologia pagana proprio perché afferma la superiorità delle concrete ragioni del singolo su quelle astratte della specie naturalistica. Se ciò è vero, allora è insostenibile l‟ipotesi di una provvidenziale direzione unitaria e univoca per la quale sia le leggi di natura che le leggi spirituali della morale possano convergere o addirittura coincidere in una stessa coerente legislazione razionale, gerarchicamente strutturata e riportabile a una medesima potestà divina. In tal caso non ci sarebbe stato alcuno evento salvifico da parte del secondo Adamo, né il bisogno di una  spirituale che stabilisse la  da una condizione naturale a una

288

Il tentativo casuistico di distinguere tra bene e male assoluti da evitare a sé e all‟altro, e situazioni “intermedie” e relative “al luogo, al tempo e alle condizioni delle persone”, non risolve la questione del contrasto tra la normatività del valore universale, che inerisce un contesto socio-politico collettivo, e il dovere coscienziale che inerisce al rapporto del singolo con la verità del suo sentimento morale, la quale pertanto non può non essere anch‟essa singolare. Ved. la risp. 13 a questa obiezione in Ivi, pagg. 116-117. 289

Se pensiamo alla natura utilitaristica del sinallagma dell‟economia capitalistica, che tende alla massimizzazione del profitto nella relazione di scambio, ci rendiamo conto come l‟universalizzazione del principio razionalistico della reciprocità abbia prodotto una forma di civiltà di religione cristiana ma essenzialmente di cultura pagana.

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pneumatica. Ossia, a una rappresentazione della realtà non più legata a una immagine estetica del mondo ma a una immagine pathetica, informata al modello del  cristico. Per scongiurare una deriva gnostica, la teologia romano-alessandrina ha assunto il principio di validità tipico della gnoseologia greca, l‟universalità del concetto razionale, estendendolo in senso teo-logico fino a comprendere nella stessa unità di ragione il mondo sacro della carità e quello profano della natura egoistica, nel tentativo di legalizzare in uno stesso sistema normativo la preminenza del primo sul secondo, attribuendo alla provvidenza divina la responsabilità che la libertà morale ha assegnato al singolo di scegliere – e non già di conciliare – l‟uno o l‟altro orizzonte valoriale, stabilendo pertanto la priorità della salvezza spirituale singolare alla salvezza naturale speciale. Nel momento in cui si antepongono le ragioni dell‟unità sociale – dalla famiglia allo Stato imperiale o alla stessa Chiesa – alle ragioni della salvezza singolare, viene asserito il primato razionale della logica del polemos su quello spiritualistico dell‟altruismo agapico. Di conseguenza non può sussistere un regno di questo mondo che sia nel contempo cristiano, poiché lo status personae del cristiano è unicamente singolare, e non collettivo. Ogni conformità alle ragioni della vita collettiva stabilisce una resa a Cesare, il cui potere non può essere ispirato da Dio, ma dal principe di questo mondo, col quale Gesù non ha voluto intrattenere alcun negozio né alcuna tregua pattizia. Quando perciò si afferma, con Agostino, che “se non ci fossero dei princìpi noti di per sé, non potrebbe esistere alcuna formazione teorica o pratica”, si vuol dire che il fondamento di ogni verità risiede nella sua fede. Ma quando si aggiunge che essi coincidendo con “i princìpi del comportamento morale universali” sono le “regole della legge o del diritto naturale”,290 si confonde l‟universalità del principio razionale con la condizione antropologica, facendo della situazione reale la immagine riflessa di quella ideale, lasciata sospesa nella sua astratta latenza fenomenica tipicamente razionalistica. Per assicurare la corrispondenza dell‟aspetto reale alla sua immagine ideale, l‟istanza deontologica inscritta nella universalità del principio razionale unitario suscita l‟intervento correttivo del Potere normativo generalizzante, al quale si

290

Ivi, pag. 101.

137


assegna il compito di operare ogni rettifica empirica necessaria all‟affermazione effettiva di quella astratta universalità. Ed è in questa zona mediana che la onto-logia del Sapere incontra la topo-logia del Potere come sistema giuridico strutturato in “dispositivo” istituzionale.291 Ogni sapere, teoretico e pratico, afferma Matteo,

291

Foucault, rifacendosi a Hyppolite e al concetto hegeliano di Positivitaet relativo alla religione cristiana, ha parlato di “universali”, di “governamentalità” o, più recentemente, appunto di “dispositivo”, inteso come “manipolazione di rapporti di forza, di un intervento razionale e concertato nei rapporti di forza, sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli o per fissarli o utilizzarli. Il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti del sapere, che derivano da esso e, nella stessa misura, lo condizionano. Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati” e che Foucault chiama “la rete” (le réseau): M. Foucault, Dits et écrits, vol. III, pagg. 299-300, cit. da G. Agamben, Op. cit., pagg. 6-7. G. Deleuze definisce i dispositivi come “regimi che bisogna definire per il visibile e per l‟enunciabile, con le loro derivazioni, trasformazioni, mutazioni. E in ogni dispositivo – egli aggiunge – le linee oltrepassano delle soglie, in funzione delle quali esse sono estetiche, scientifiche, politiche ecc.”: G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo? (1988), tr. it. in Id., Due regimi di folli e altri scritti, Torino, 2010, pag. 280. Interessante a proposito notare come il concetto foucaultiano di “soggettivazione”, intesa come schema processuale di sintesi dei due elementi intersecati del Sapere e del Potere della rete del dispositivo, nasconda senza pervenire a consapevolezza l‟idea della trascrizione singolare dei motivi universali e astratti in istanze deontologiche non sempre riconosciute in senso sociale, e perciò, quando criptiche e marginali, “sfuggono ai poteri e ai saperi di un dispositivo per reinvestirsi in quelli di un altro, sotto altre forme che devono ancora nascere”. E in tal senso, “poiché sfuggono alle dimensioni del sapere e del potere, le linee di soggettivazione sembrano particolarmente adatte a tracciare percorsi di creazione, che solitamente abortiscono ma che vengono anche ripresi, modificati, fino alla rottura del vecchio dispositivo”: Ivi, pagg. 282 e 284. E‟ appena il caso di aggiungere che il fenomeno storicamente più significativo per la cultura umana di “soggettivazione” è stato la predicazione di Gesù, in cui le possibilità dei modi socializzati di esistenza vengono relativizzati e ricondotti al dispositivo regolatore del sistema istituzionale – il regno di Cesare - entro il cui orizzonte di senso esse assumevano rilevanza valoriale di natura etica. Il Cristianesimo, però, è il prodotto culturale del razionalismo di derivazione socratico-platonica, del quale costituisce la forma teologico-politica universalizzata in senso topico-religioso. La conseguenza di questa dislocazione della predicazione di Cristo nell‟universo concettuale greco è la crisi della ontologia costitutiva della cosmologia classicocristiana e conseguentemente della sua forma di civiltà europea. In tal senso

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presuppone dei principii indimostrati dalla scienza che li adotta, che sono gli assiomi aristotelici, “e dai quali discendono tutte le conclusioni posteriori”. Se non ci fossero “ma fossero tutti soggetti a dimostrazione, essi non potrebbero essere dimostrati all‟interno della loro propria scienza – perché nessuna scienza dimostra i suoi principii – e si dovrebbe ricorrere ad un numero infinito di scienze, anzi, non esisterebbe alcuna scienza”.292 Donde derivano tali princìpi? Mancando una legge scritta presso i pagani e i gentili, “è la coscienza ad indicare loro che cosa vada fatto e che cosa evitato”, intendendo per essa non la “disposizione di colui che ha la coscienza ma piuttosto l‟insieme dei princìpi costitutivi che permettono alla coscienza stessa di formarsi”. Una coscienza che è posta nei loro animi “per natura”. 293 Il fondamento del sapere è dunque extra-scientifico e originario. Essendo indimostrabile, è una fede. la fede pertanto è all‟origine di ogni sapere. E poiché tale fede originaria non deriva da conoscenze scientifiche, e spesso non si trova prescritta nei libri sapienziali o giuridici, essa è inscritta naturalmente nella coscienza umana, intesa appunto come fondamento di conoscenza. L‟aspetto interessante è che dai fondamenti non scientifici del sapere derivino “tutte le conclusioni posteriori”, quelle scientifiche e quelle non-scientifiche. Solo le prime conclusioni sono razionali, mentre le altre restano fideistiche. E fin qui siamo all‟interno dell‟orizzonte di coscienza greco. La coscienza cristiana dovrebbe ragionevolmente confidare nel sapere naturale, universale ed eterno, non in quello razionale e umano, temporale e fallace, come appunto sostiene Agostino nel De doctrina cristiana. 294 Invece inscrive il sapere divino nell‟orizzonte di coscienza razionalistico, per cui “nessuno può desiderare o compiere il bene se prima non lo ha conosciuto né può condannare, detestare o evitare il male se prima non lo ha conosciuto”.295 Ed è “questa conoscenza”, afferma Matteo, che

possiamo ripetere con Sloterdijk che “la filosofia è il suo spazio espresso nel pensiero”: P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale (2005), tr. it. Roma, 2006, pag. 31.] 292 M. d‟Acquasparta, Il cosmo e la legge, pagg. 102-103. 293 Ivi, pag. 103. 294 Ivi, pag. 104. 295

Agostino, De trinitate, VIII 4, 6.

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“chiamiamo legge naturale”.296 Eppure, nonostante non si voglia intendere “la natura come contrapposta alla ragione e alla volontà”, 297 si tratta di cose ben diverse. “Naturale” è ciò che preesiste alla legge “razionale” e umana. E soltanto se si crede nella identità della legge di natura con la legge razionale è possibile affermare che si tratta della stessa legge di coscienza. Ma questa appunto è una fede. Una fede razionalistica “in un ideale personificato”, 298 che non appartiene alla verità evangelica ma al Cristianesimo storico di cultura ellenistica, quello che viene professato da Matteo. Vi è dunque una inserzione pseudomorfica di fede razionalistica che trascrive la fede escatologica di Gesù di Nazareth nell‟orizzonte di sapere della cultura di origine greca, che fa del cristianesimo, a seconda dei casi, un razionalismo religioso ovvero una religione razionalistica. In ogni caso, l‟esigenza del razionalismo è quella di accreditare esclusivamente la conoscenza suffragata da una legge di carattere universale, per cui, poiché omnia potestas a Deo, ed “Egli non provvede né governa se non secondo un qualche principio, che possiamo chiamare legge”, “anche la creatura, amministrata e governata secondo tale legge, deve necessariamente essere in qualche modo partecipe di tale principio”, che, in considerazione di chi governa, “lo si chiama legge eterna; quando lo si considera nella realtà che è governata, lo si chiama legge naturale”. 299 E‟ bastato spostare l‟origine del cosmo razionale dal vago “sempre” dei Greci alla creazione divina degli Ebrei, e fare della legge eterna la “causa” della legge naturale,300 per confermare lo stesso ordine naturalistico del creato, con la conseguenza contraddittoria ricordata di porre la sua conoscenza () a fondamento di ciò che era inscritto da sempre per natura ma rivelato da Dio agli uomini. Un guazzabuglio.

296 297

Ivi, pag. 105. Ivi, pag. 112.

298

“La fede in Cristo è una fede in un ideale personificato”: G.C. Hegel, Religione popolare e Cristianesimo (1794) tr. it. in Scritti teologici giovanili, Napoli, 1972, pag. 99. 299 M. d‟Acquasparta, Il cosmo e la legge, pag. 109. Corsivi nostri. 300

Ivi, pag. 114.

140


Se la necessità è inscritta nella procedura metodica della gnoseologia razionalistica, essa contrasta con la libertà di coscienza che è supposta dalla conversione cristiana, sicché la indeterminatezza della sua modalità effettiva è la traccia che lascia trasparire l‟incongruità logica e morale di quell‟abbinamento, e la conseguente instabilità teorica della relativa dottrina teologica. Se infatti, come sopra riferito, dai principi primi discendono necessariamente “tutte le conseguenze”, non vi è più spazio all‟indeterminatezza modale, la quale diventa agli occhi della dottrina razionale un difetto da correggere sistematicamente, e non già un riscontro della libertà umana, dal momento che “poter fare il male non è libertà ma mancanza di libertà”. 301 Libero è solo ciò che è conforme al principio universale. Da qui la necessità della normativa legale che vi provveda, ossia della autorità ecclesiastica, depositaria del “principio formale”.302] Infatti, “il diritto naturale è il medesimo presso tutti e ha la medesima efficacia” potenziale, ma “il fatto poi che non abbia lo stesso effetto presso tutti, non dipende da un difetto della legge ma da un difetto della volontà, che non è costretta o vincolata dalle legge”.303 Basta dunque regolamentare prescrittivamente la volontà ribelle per ottenere la conformità alla norma della recta ratio, essendo lo scopo della legge di rendere buoni, 304 indicando la correzione nel senso della “disposizione della giustizia” come “libertà”. E “a tale scopo [correttivo] abbiamo bisogno di un modello e di una legge scritti [sia per] l‟esplicazione della legge naturale [che per] illuminare l‟intelletto […] ottenebrato dal peccato”, 305 e dunque a seguito della “corruzione della natura”, decaduta e soggetta alle “trasgressioni” del peccato che, se non punito, manterrebbe l‟universo nel suo disordine. 306 E‟ dunque attraverso la legge che si conosce il peccato necessario alla salvezza.307 Legge che diventa una sorta di catalogo delle “conclusioni”

301 302 303 304 305 306 307

Ivi, pag. 113. Ivi, pag. 111. Ivi, pag. 117. Aristotile, Etica Nicomachea, II 1, 1103 b 3-5. Ivi, pag. 118. Ivi, pagg. 134-135. Rm. 7, 7; Ivi, pag. 129.

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dedotte dai princìpi primi naturali innati ed espresse attraverso “le varie scienze”,308 il cui servizio ancillare è inscritto nella logica ordinamentale stessa della Provvidenza, nonché un remedium medicamentale alla “natura malata o inferma” dell‟uomo, il quale, “mentre è in vita, può errare e deviare sia nell‟intelletto sia nell‟affettività”. E a tal fine “la legge fu, dunque, tramandata per iscritto per una maggiore solidità e per una perpetua stabilità” 309 del consorzio umano, sicché “nonostante che essa gravi, tuttavia, d‟altra parte, risana, fa progredire, reca aiuto” all‟anima “dispersa o estraniata”, ricacciandola in sé stessa.310 A questo punto, viene definita la relazione organica e funzionale tra la fede e la ragione, che non sono più viste come diverse disposizioni mentali ma appunto come le “due cause”, nessuna delle due “sufficiente” senza l‟altra “a compiere il bene”. Esse sono “la conoscenza” e “l‟amore”, per cui, platonicamente, Agostino afferma che “non si può amare se non ciò che è conosciuto”,311 lasciando intendere che l‟unica forma di conoscenza valida ai fini della salvezza sia quella razionale. E infatti, come chiosa Matteo, una causa “implica l‟altra e la presuppone”, anziché escluderla, “per cui l‟una è per l‟altra”. Da qui la conclusione lapidaria del ragionamento: “l‟amore scaturisce dalla disposizione alla carità, la conoscenza, invece, scaturisce dai precetti della legge; pertanto, la bontà proviene dalla legge che guida e resta salda e dalla disposizione che la informa”.312 In queste premesse teologiche, tese a confermare un ordine presuntivamente innato ma deviato dal peccato originale e alla cui correzione è chiamato l‟ordinamento legale del Potere, si annida la ideologia totalitaria latente nel movente universalistico di ogni razionalismo etico-politico, la cui astratta tensione con-prendente tende a emanciparsi da ogni vincolo autoritativo legale o tradizionale che sia, come già ebbe ad avvertire Kant quando affermò che “in modo incontrastabile la ragione conduce

308 309 310 311

312

Ivi, pag. 132. Ivi, pagg. 136 e 137. Ivi, pagg. 140 e 141. Agostino, De Trinitate, X, 1 2. Ivi, pag. 142.

142


al grande principio dell‟autosufficienza della virtù”, 313 pensiero poi ripreso dal giovane Hegel 314 Le sorti teoretiche e morali del Cristianesimo cattolico sono segnate da questa giustapposizione di fides et ratio, ritenuta non soltanto possibile ma necessaria alla stessa economia della salvezza spirituale. Quanto invece essa sia stata un sincretismo teo-logico intimamente instabile, lo comprova tutta l‟esperienza storica del Cristianesimo e l‟esito attuale della sua finale dissoluzione strutturale, già compresa da Kierkegaard ancor prima di Nietzsche, e della quale inutilmente si è tentato la ristrutturazione da parte di Hegel. Come comprova la stessa distinzione hegeliana tra “religione naturale” e “religione positiva”, la riflessione filosofica sulla religione cristiana diventa da subito una critica dei suoi contenuti dogmatici e statutari, inerenti al fondamento mitico della sua struttura dottrinale, da parte di ciò che Kant chiamava la “religione razionale”, ossia di un cristianesimo mondato della sua stessa premessa fideistica e trasformato perciò in una Religionsphilosophie. Trasformato Dio in un “postulato” della morale, la Sua rappresentazione finisce per coincidere con quella del sistema che Lo rappresenta, ossi su quella “positività” messa in evidenzia da Fichte prima che da Hegel, in virtù della quale la “fede” viene trasferita alla veridicità dei dogmi, anziché vertere nella realtà di Dio, sicché la critica al dogmatismo si trasforma in una negazione scettica di Dio. Da qui il “pericolo”, preconizzato da Kant che le dottrine dogmatiche vengano “attaccate dalla ragione” in nome del “grande principio” dell‟auto-affermazione della soggettiva coscienza morale, esautorando infine la stessa sussistenza di una fede religiosa

313

I. Kant, La religione nei limiti della pura ragione (1793), tr. it. Roma-Bari 2004, ved. cap. I, pag.17-57. 314 “Per quanto possa circondarsi di autorità […] alla fine tuttavia la ragione si avventura a provare da se stessa quella fede, ad attingere da sé i principi della possibilità e della verosimiglianza, non prendendo in considerazione, anzi mettendo da parte, quell‟artificioso edificio storico che afferma un primato sulle verità razionali fondato su basi storiche”: G. C. Hegel, Religione popolare e Cristianesimo, tr. it. cit., pagg. 98-99.

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cristiana distinta dalla universale e razionale moralità, l‟unica veramente “divina”. L‟affrontamento razionalistico della questione religiosa come questione morale, riporta in auge inevitabilmente la cultura che, diversamente da quella cristiana che l‟aveva estraniata in Cristo, aveva esaltato la virtù come sommo valore esistenziale e civile proprio dell‟uomo, quella greca. 3. La pòlis è una “comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene”. Qual è questo bene? “La comunità che risulta di più villaggi è la pòlis”, che “esiste per natura”, e perciò è “anteriore a ogni individuo”, e “la natura è il [suo] fine”, ossia “il meglio”, che per la pòlis consiste nella sua “autosufficienza completa”. “La pòlis è un prodotto naturale” così come “l‟uomo per natura è un essere socievole”. Ma è altresì dotato di parola, la quale, a differenza della semplice voce, posseduta anche dagli animali, “è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l‟ingiusto”. Il possesso di tale discernimento è proprio all‟uomo, e il possesso comune ( ) di tali valori “costituisce la famiglia e la pòlis”.315 In queste pregnanti e sintetiche espressioni di Aristotile, si compendia l‟antropologia che deriva dalla visione naturalistica dell‟uomo propria dell‟ontologia greca, la quale esaurisce la sua portata filosofica nella concezione dell‟uomo quale animale politico. Già Hannah Arendt aveva sottolineato la duplice definizione aristotelica dell‟uomo come animale politico e come essere dotato di parola, ma la sua considerazione della natura politica dell‟uomo, quale “modo di vita nel quale solo il discorso aveva senso e nel quale l‟attività fondamentale di tutti i cittadini era di parlare tra loro”, 316 la portava a misconoscere l‟orizzonte teoretico del pensiero greco quale pensiero della finitezza. Infatti, la circoscrizione del lògos nell‟ambito della convivenza politica, fa di esso lo strumento ‟ funzionale al ragionamento politico, ossia alla discussione utile alla vita della comunità politica. Orbene, il lògos, distinto dalla contemplazione 315 316

Aristotile, Politica, I A, 1-2. H. Arendt, The human Condition (1958), tr. it. Milano, 2014, pag. 21.

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(nous), “il cui contenuto non può essere espresso in parole”, assolve alle sue funzioni essenziali, cioè naturali, mettendo in relazione reciproca, non già gli uomini in quanto tali, ma le cose del mondo creato dagli uomini. Il carattere mondano del lògos politico fa di questo lo strumento precipuamente umano di rapportarsi al mondo. Di conseguenza, l‟approccio razionale al mondo, consentito dalla tecnica dialettica del ragionamento scientifico, costituisce il massimo livello di coscienza del pensiero greco, per definizione “politico”. Ciò comporta che le cose nominate dalla parola politica, siano anch‟esse, in quanto oggetto del relativo pensiero, di natura politica. Il mondo rappresentato dal lògos è un mondo politico, ossia pensato attraverso categorie di natura politica. In tal senso, avendo la parola una destinazione funzionale alla vita politica, la filosofia greca è essenzialmente politica, ovvero non trascende l‟orizzonte mondano della finitezza. Questo limite del pensiero greco è il limite stesso del suo orizzonte di senso; un orizzonte intrascendibile e circoscritto alla dimensione dell‟immanenza, entro la quale il “giovevole” è quanto consente di raggiungere il più possibile la sua “autosufficienza”, ossia la condizione fisiologica della sua durata nel tempo. E dunque il “giusto” nella prospettiva politica è la durata della comunità sociale. Lo spazio della parola politica coincide con la durata delle istituzioni sociali, le quali permangono oltre il tempo propriamente politico della discussione, per cui è propria della parola politica creare un mondo durevole quanto la parola che l‟ha pensato. E poiché o spazio della politica è quello della finitezza della vita sociale, il tempo della parola politica è lo stesso spazio di durata dei regimi politici. In tal senso tempo ed essere vanno a coincidere nel pensiero greco sì come la durata con la realtà fenomenica, per cui la sua massima espansione razionale, ossia la sua universalità, coincide con il massimo della sua espansione spaziale, geometrica. Da qui l‟esigenza di espansione del pensiero razionale in senso politicamente universale, acquisendo al suo spazio ogni dimensione umana in quanto prodotto dell‟uomo. Il pensiero politico è dunque l‟orizzonte semantico dell‟homo faber rationalis. L‟idealtipo faber include la specie di homo politicus quale espressione di animal rationale. La variante di specie razionale del generico homo faber è l‟homo oeconomicus, il quale è l‟espressione sociale dell‟homo politicus, la sua interfaccia socializzata. Da qui l‟esigenza essenziale della unità (koinonìa) della comunità politica sia nel senso della convergenza del pensiero, che nel senso della

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corrispondenza ideologica della società, quale oggetto di pensiero e destinataria della parola politica. Nella corrispondenza della unità esistenziale con la unità ideale si realizza il fine naturale della ragione politica, il suo télos razionale universale di far corrispondere l‟essere al pensiero, realizzando così la sua realtà totalitaria: fare del Molteplice Uno. In tal senso lo Stagirita afferma che “la ragione è architetto”. 317 Ma egli stesso si avvede che realizzare questo fine politico sarebbe la fine stessa della politica, realizzando la sua contraddizione, il suo “paradosso teorico” di voler garantire la vita dell‟uomo e di stabilirne la morte.318 Ma questo esito paradossale è inscritto nella logica stessa della dialettica politica, che escludendo dal suo essere ogni sua antitesi alla fine per sussistere deve convertire in opposto reale la sua stessa posizione tetica ideale e finire dunque per contraddirsi. La posizione tetica consiste nel porre il Tutto come Urgrund e identificarlo con lo stesso spazio politico, il quale si definisce come il tòpos della natura razionale, opposto al tòpos della natura meramente animale. Già per questo solo fatto, la pretesa di costituire una unità esclusivamente razionale convertendo la realtà naturale in mondo umanizzato, trasformato in prodotto di ragione, è il massimo della hybris, che non è stato raggiunto in considerazione della persistente insuperabile condizione etnica della logica greca, quale scoperta teoretica propria del genio ellenico, ed etica, relativa alla condizione politica, necessariamente conflittuale verso l‟altro-da-sé, a cominciare dall‟uomo meramente produttore, sia contadino o schiavo, l‟animal laborans di cui parla la Arendt.319 Ma l‟obiettivo universalistico dell‟architettura politica non è stato raggiunto anche per una ragione più profonda, da Aristotele stesso individuata nel suo trattato sulla Politica, in un passo in cui si manifesta palesemente l‟impraticabilità teorica dell‟assunto razionalistico del Tutto ideale come unità politica. Socrate stesso, afferma dunque Aristotile, pone “l‟unità” della pòlis come il “principio fondamentale” e il suo bene più alto. In realtà, egli

317

Aristotile, Politica, I A, 13, 1260a, 15-20.

318

M. Foucault, “Il faut défendre la société” (1976), tr. it. Milano, 1998, pagg. 207 sgg. 319 H. Arendt, The human Condition (1958), tr. it. cit., pag. 18.

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aggiunge, “se una pòlis nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure una pòlis, perché la pòlis per sua natura è pluralità e diventando sempre più uno si ridurrà a famiglia da pòlis e a uomo da famiglia: in realtà dobbiamo ammettere che la famiglia è più una della pòlis e l‟individuo della famiglia: di conseguenze chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la pòlis ”.320 Il che vuol dire, non solo che, secondo i princìpi del metodo razionalistico, la tesi che universalizzandosi si contraddica è logicamente falsa, ma altresì che la unica vera unità concepibile dal pensiero razionale è quella dell‟essere umano quale singolarità concreta, per cui se l‟unità è il fine del pensiero, esso coincide con il pensiero dell‟uomo. E poiché il fine stesso è il terminus ad quem della parabola del pensiero razionale, esso è già all‟inizio, quale terminus a quo di ogni ragionamento, comportando che il movimento del pensiero razionale va dall‟uomo (come inizio) all‟uomo (come fine). Questo ordine concretamente universale capovolge l‟assunto greco per cui il “principio fondamentale” della pòlis sarebbe la pòlis stessa, poiché l‟unità politica è una unità astratta dalla sua concretezza di vita, costituita dalla molteplicità delle sue forme sociali, la cui realtà concreta sono i singoli uomini. Che la filosofia politica non possa, per sua natura ideale, pensare i singoli uomini ma solo le entità astrattamente formali, è un limite teoretico della ragion logica, ma non dipende dalla irrealtà dell‟unità singolare dell‟uomo, che è concreta e non formale, ossia è una unità non logica, ottenuta per esclusione dell‟opposto al “giusto” politico, ma spirituale, inclusiva del giusto e dell‟ingiusto. E tale spirituale unità è perciò nell‟uomo concreto tutt‟altro che concorde, laddove “la concordia è il più grande bene delle poleis”, essendo “il modo migliore per evitare le rivoluzioni”. 321 Da queste note fondamentali della Politica aristotelica possiamo desumere tre livelli di pensiero, relativi a tre forme concettuali. Il primo livello è inerente ai concetti di realtà, che sono quelli in cui l‟unità di senso reale viene indicata all‟interno dell‟orizzonte ontologico della relativa credenza fondamentale. Sono modelli di legittimazione

320 321

Aristotile, Politica, II B, 2, 1261 a, 15-25. Ivi, 4, 1262b, 5-10.

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razionale della realtà basati su credenze fondative originarie, di cui rappresentano le forme ideali o categoriali. Il secondo livello di pensiero inerisce ai concetti di relazione, che sono quelli in cui l‟unità di senso tra enti presuppone un orizzonte di realtà all‟interno del quale assume significato il nesso logico dei fenomeni temporalmente anche non consequenziali e quindi contingenti. Essi descrivono i processi causali determinati da una unità di senso razionale il cui significato è sempre relativo al contesto valoriale che empiricamente li comprende come espressioni fenomeniche. Il terzo livello, infine, riguarda i concetti di verità, per cui le unità di senso reale e di senso relazionale si corrispondono e si comprendono attraverso il comune referente normativo di fondazione che ne sostiene la rispettiva fondatezza assiologica e legittimazione razionale. Questo livello di pensiero non è razionale, cioè discorsivo e oppugnabile, ma credenziale e apodittico, e dunque fondativo di realtà. Questo livello costituisce l‟orizzonte di coscienza entro il quale si sviluppano e si articolano gli altri due livelli, fondandone la credibilità metafisica. Orbene, l‟idea che la pòlis sia una “comunità naturale anteriore a ogni individuo” corrisponde al primo livello di coscienza, quello in cui la realtà empirica viene definita ontologicamente sul fondamento di verità che pone la Natura come orizzonte intrascendibile di vita, la quale a sua volta non può articolarsi concettualmente che sul suo modello ontologico. Che tale originario modello naturale sia per l‟uomo quello politico è però desumibile dagli sviluppi razionali di legittimazione della sua realtà empirica di zoòn politikon, la cui condizione ontologica relativa alla sua partecipazione alla natura viene estesa alla sua speciale determinazione qualitativa, tale che la credenza nella verità della essenza naturale della vita umana comprenda anche la sua determinazione politica. Che però tale estensione di senso non sia necessaria ma solo accidentale, lo attesta la circostanza che l‟uomo possa definirsi con lo stesso procedimento transitivo anche zoòn logon echòn, investito dunque di una qualità altra da quella politica e originaria rispetto ad essa perché delle due è l‟unica universale, e la cui corrispondenza identitaria inerisce il secondo livello di coscienza, dei concetti relazionali, che è il livello di coscienza proprio delle ideo-logie, ossia delle architetture logiche di relazioni concettuali non originarie, cioè non originariamente fondate sul fondamento di verità, ma razionalmente derivate attraverso una trasposizione di senso affermata

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ma non verificata come vera. Infatti, non c‟è alcun nesso necessario tra la natura dell‟uomo come essere parlante e la sua destinazione politica. Che infatti l‟uomo parli reciprocamente all‟altro uomo si può indicare come una condizione naturale originaria all‟esistenza stessa dell‟uomo, ma che la sua sia una parola politica, inerente cioè allo spazio di realtà concepito per le relazioni di governo della pòlis, è una petitio principii, smentibile dalla circostanza che lo spazio politico sia storico e non originario né universale, e come tale contingente e non necessario. E difatti, se l‟uomo è sempre un parlante, non è sempre politico, in quanto la condizione politica è relativa alla durata dei regimi storici. Tutta l‟architettura razionale della attività politica come azione naturale dell‟uomo dotato di discorso appartiene al secondo livello di coscienza, quello dei concetti relazionali, che designano una mera condizione empirica, smentibile e modificabile attraverso le leggi o l‟educazione morale.322 La qualità propria dei concetti relazionali è la loro temporalità, e quindi il loro legame con la verifica empirica della loro veridicità dipendente dalla loro capacità di durare contro l‟edacità del movimento del ciclo vite naturale. Come ricorda la Arendt, “i corpi politici sono sempre stati istituiti per essere stabili, e le loro leggi intese sempre come limitazioni imposte al movimento”. 323 Ciò comporta che ogni “corpo politico” difenda la sua verificazione empirica difendendo le proprie posizioni postulatorie allo stesso modo in cui la pòlis difende la sua incolumità istituzionale, ossia differendone la fine negando la realtà del movimento che ne minaccia la sussistenza. E se il movimento è la realtà dell‟essere naturale, negare il movimento equivale a trascendere la dimensione naturalistica. La contraddizione di tutto il theorein politologico antico riposava nella pretesa di fondare sulla verità naturale il bios politikos, ossia quanto contraddiceva la natura finita delle cose e tendeva all‟immortalità. Lo spazio politico era infatti la dimensione della umana immortalità destinata agli aristoi, mentre la vita

322

La concordia politica, afferma Aristotile in polemica con Platone, non si consegue con la comunanza dei beni o delle donne e dei figli, come vorrebbe il Socrate della Repubblica, bensì attraverso l‟educazione, la cultura e le leggi che rendano i cittadini virtuosi, ché è necessario che la pòleis sia una unità di pluralità: Ivi, 1263b, 35-40. 323 H. Arendt, The human Condition (1958), tr. it. cit., pag. 35.

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caduca e legata all‟esclusivo ciclo biologico era propria degli animali.324 Costruire e difendere dall‟edacità del tempo l‟architettura politica significava custodire la stessa immortalità propria agli umani. Il differimento nel tempo della fine del processo di un corpo politico costituisce ciò che si definisce il “progresso” del suo orizzonte storico. L‟idea di progresso nasce dalla coscienza del carattere universale delle idee, dalla loro intrinseca possibilità logicamente totalitaria di sussumere ogni aspetto della realtà fenomenica come loro oggetto di pensiero al fine di trasvalutarlo idealisticamente. Il progresso è storico nei termini in cui vi è corrispondenza tra essere e pensiero, per cui l‟affermazione reale è il rispecchiamento temporale dell‟universalità ideale, e in tal senso “la storia, nel suo complesso e nella sua essenza, è progresso”, le cui manifestazioni empiriche vengono recepite come “esperienza del mutamento”.325 Tale mutamento storico, coinvolgendo l‟oggetto della mutazione, ossia il mondo tradizionale, era tanto più veloce quanto meno forti le resistenze che si opponevano alla trasformazione, e viceversa tanto più lento quanto più forti le relative resistenze tradizionali al cambiamento. La filosofia, per affermare dunque la sua supremazia teoretica, doveva abbattere i tradizionali idola tribus, la sfera mitica, che poneva i referenti normativi nelle divinità, ossia in una sfera indisponibile all‟uomo. La immortalità umana non era la sacertà custodita dai miti, ma l‟universalità del pensiero logico-razionale, in grado di provocare il mutamento alternativo al ciclo biologico naturalistico. L‟idea moderna di progresso concentra l‟attenzione sul mutamento in sé, inteso come processo storico universale endogeno alla stessa realtà socioculturale e istituzionale dell‟umanità, sicché “la storia venne identificata con questo processo”.326 Ciò comporta che “se la storia viene concepita come progresso, questo significa che il concetto di progresso è non soltanto un indicatore ma anche un fattore: esso dà un impulso ulteriore al movimento storico”. E in questa funzione il concetto di progresso ha assunto un valore ideologico di promozione del nuovo, alimentando aspettative future distanti dall‟esperienza passata e orientando il senso di

324 325 326

Ved. H. Arendt, Op. cit,. tr. it. cit., pagg. 14-17. Ch. Meier, Op. cit., pag. 451. Ivi, pag. 451.

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precarietà delle masse “in un un‟epoca di mutamenti veramente profondi e complessivi”.327 L‟idea di progresso è dunque collegata empiricamente alla possibilità d‟azione dell‟homo oeconomicus di effettuare considerevoli interventi innovativi di vasta scala sociale, produttivi di “un miglioramento molto consistente della situazione umana in generale”, tale da coinvolgere sostanzialmente ed emotivamente, grazie alla potenza tecnica, “un‟ampia cerchia di persone”, portatrice di una comune “consapevolezza della crescita” (auxesis).328 Téchne designa la “capacità di potere” trasformare o modellare la realtà metodicamente, grazie al quale “noi diventiamo padroni di ciò in cui siamo vinti dalla natura” (Antifonte), per cui l‟uomo, attraverso l‟uso sapiente e appropriato del potere tecnologico, diventa “signore delle cose”. Episteme designa la conoscenza e il sapere necessari a governare la téchne nel senso prefissato. La tecnica applicata al governo civile costituiva la areté, la virtù politica, consistente nella capacità di governare bene la città. 329 Ora, che tale bene fosse la Giustizia è ammissibile solo se la virtù politica fosse ispirata dalla consapevolezza dei limiti della tecnica dovuti alla natura finita dell‟uomo, e quindi dalla phrònesis, dal sapere che porta alla necessità di autolimitarsi. Tale sapere è legato all‟ossequio agli achìneta nòmima della tradizione teologica, i quali circoscrivono l‟ambito di possibilità tecnica nei termini in cui viene confermata la direzione divina del cosmo. Ma, nel momento in cui la politeia avrà acquisito la téchne dialektike del discorso filosofico, diventando il luogo stesso della universalità ideale, non basterà più l‟indicazione divina, necessaria ma misteriosa, occorrerà invece rifarsi a un responso razionalmente verificabile, tale cioè da eludere l‟aspetto contingente legato alla empirica particolarità delle cose, a favore di una necessità di carattere logico, nella quale l‟uomo ritrova la potenza divina della natura ma in termini tutti umani. La filosofia politica separa insomma la volontà divina, sostituendola con l‟episteme, dalla necessità cosmica del Logos, acquisita con la téchne. La tecnica del pensiero logico, emancipata dal suo fondamento filosofico, che era il télos

327

328 329

Ivi, pag. 452. Ivi, pag. 454. Ivi, pagg. 481 sgg.

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eudemonistico della ragione politica, scadeva ad arzigogolo sofistico, a semplice metodo retorico di argomentazione funzionale a uno scopo particolare. Da qui la necessità idealistica di ribadirne la sua natura etica. La fiera consapevolezza ricordata da Erodoto sulla possibilità di istituire nuovi assetti istituzionali, funzionali alle esigenze concrete della polis, attesta l‟espansione della topografia politica in direzioni sempre più vaste e originali.330 Tramonta l‟età nomistica, contraddistinta dal nòmos e sorge l‟età cratistica, contraddistinta dal kràtos, 331 in cui “fu così possibile che sapere e virtù diventassero giustificazione del potere”.332 Chiedendosi cosa fosse la pòlis, Aristotile afferma che è “un composto” consistente in “una pluralità di cittadini”, di persone che, in democrazia, sono abilitate alle funzioni di governo,333 e che tale composto “è lo stesso guardando alla costituzione”, a prescindere se gli abitanti siano gli stessi o del tutto diversi.334 Costituzione è lo stesso dunque che “comunità”.335 La bontà dei cittadini non è la bontà possibile a ogni uomo di animo buono, ma è l‟areté, che è la virtù relativa alla costituzione. E se la bontà può variare a seconda delle persone, “la virtù del bravo cittadino deve trovarsi in tutti”, anche se non è la stessa per tutti, ma differisce a seconda che si comandi o si obbedisca da semplici cittadini.336 Il “comando” che si esercita sui propri simili per etnia e condizione civile Aristotile la definisce “politica”, la cui virtù consiste nella “prudenza”.337 Ora, egli afferma, che la “suprema autorità [dello Stato] è la costituzione”, e che “nelle democrazie sovrano è il popolo, mentre al contrario nelle oligarchie lo sono i pochi: e noi diciamo che queste due costituzioni sono diverse”.338 Ciò vuol dire che al fondamentale presidio divino dell‟ordine cosmico, e quindi anche umano, il filosofo politico ha 330 331

332 333 334 335 336 337 338

Ch. Meier, Op. cit., pag. 500. Ivi, pag. 437. Ivi, pag. 505. Aristotile, Politica, III , 1, 1274 b-1275 a-b. Ivi, 1276 b, 10-15. Ivi, 4, 1276 b, 30. Ivi, 1277 a, 1-25. Ivi, 1277 b, 25 sgg. Ivi, 6, 1278 b, 12-15.

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sostituito la statuizione sovrana della legge, la cui legittimazione ideale viene assegnata dal popolo ovvero dalle oligarchie politiche. Il fatto stesso che esistano diverse costituzioni, comporta che esistano altrettanti modi di interpretare il governo, e quindi di organizzare il relativo spazio, politico. E dunque non esiste un modo univoco e migliore di altri. Alla pluralità delle indicazioni divine denunciata da Socrate nell‟Eutifrone corrisponde ora il pluralismo delle costituzioni. Ma non è questo il punto decisivo, sia pure alquanto rilevante. Decisiva, invece, è l‟idea che la differenza tra le costituzioni derivi dalla loro forma istituzionale, ossia da una ragione accidentale, e quindi da una determinazione empirica e contingente. Infatti, che siano molti o pochi a comandare non dice nulla della qualità del loro esercizio, e perciò può esistere un buon governo democratico e uno cattivo, una buona oligarchia e un pessimo governo di pochi autocrati. Se dunque la fonte sovrana è stabilita per legge, e viene ossequiata dai cittadini, la costituzione è sempre formalmente idonea. L‟elemento differenziale si sposta sul momento amministrativo, ossia sulla concreta gestione del Potere, legata alla qualità del personale politico in carica, e quindi inevitabilmente su dati psicologici o morali, cioè extra-politici. Ma se noi ricorriamo a dati extra-politici per qualificare un comportamento politico, significa che la struttura istituzionale non è auto-sufficiente, ma deve rifarsi a un complemento di natura esistenziale, che è l‟uomo. E per far sì che l‟uomo coincida il più possibile col modello del cittadino ideale, occorre intervenire per formarlo antropologicamente, ossia per specificare la sua indefinita destinazione naturale nel senso dell‟unica fisionomia politica, funzionale alla vita dello Stato. Lo spazio politico, dunque, come spazio nonnaturale, implica la snaturalizzazione dell‟uomo in direzione della sua specializzazione politica nel senso della formale necessità razionale. La politica, quale correttivo antropologico, si pone all‟opposto della premessa teorica dell‟uomo come zoòn politikon, dal momento appunto che il politikon contraddice la destinazione naturale (informale e spontanea) dell‟uomo, ovvero la sua socievolezza e la sua correlata spontaneità.339 Conseguenza della progressiva politicizzazione della vita

339

“Secondo il pensiero greco, la capacità degli uomini di organizzarsi politicamente non solo è differente, ma è in diretto contrasto con l‟associazione naturale che ha il suo centro nella casa (oikia) e nella famiglia. Il sorgere della città-

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in senso dell‟universale etico-razionale non è più la supposta coesistenza di “due ordini di esistenza” umana, quello privato e quello pubblico, ma bensì la trasformazione dell‟ordine sociale spontaneo nel razionale e necessario ordine politico. L‟esigenza di un correttivo antropologico nasce dalla condizione stessa dell‟uomo naturale, esposto a possibili determinazioni culturali diverse da quella politica e interne alla naturale socievolezza, la quale dunque viene a sua volta trasformata in socievolezza politicizzata, ovvero in razionale socialità. Il dato antropologico di partenza della filosofia politica è tutt‟altro che naturale e originario, ma razionale e derivato, e pertanto proprio all‟ordine concettuale relazionale in senso ideologico, intendendo fondare un novus ordo politicus che sostituisca l‟ordine della natura, attraverso la costituzione di una seconda natura, quella che Rousseau indicava come “la civiltà”. Il dato strutturale della costituzione politica democratica è la “uguaglianza e parità dei cittadini”,340 ossia una condizione legale del tutto differente da quella reale, di tipo sociale ed esistenziale. La prevalenza della identità politica su ogni altra è il presupposto formale dell‟appartenenza civile, e pertanto del Governo quale “autorità sovrana della polis”.341 L‟elemento fondamentale della costituzione politica è la sostituzione del tradizionale Governo sociale, fondato sui valori etici, con il nuovo Governo politico, fondato sulla legge. Nell‟atto in cui si afferma la “traslazione” (Uebertragung) della sovranità comunitaria dal luogo naturale della società a quello artificiale della politica, si costituisce anche l‟etica concreta con un‟etica astratta dalle relazioni umane concrete. E l‟astrazione consiste appunto nell‟assunzione della cittadinanza come valore universale di uguaglianza tra gli uomini. Il parametro della cittadinanza si sposta dall‟elemento della disuguaglianza naturale all‟elemento dell‟uguaglianza politica, a una condizione cioè nella quale

stato significò per l‟uomo ricevere “accanto alla sua vita privata una sorta di seconda vita, il suo bios politikos. Ora ogni cittadino appartiene a due ordini di esistenza; e c‟è una netta distinzione nella sua vita tra ciò che è suo proprio (idion) e ciò che è in comune (koinon)”: H. Arendt, The human Condition, tr. it. cit., pag. 19. La cit. tra virgolette è tratta da W. Jaeger, Paideia. 340 Aristotile, Politica, III , 6, 1279 a, 9-10. 341

Ivi, 7, 26-30.

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non trovavano più vigore i rapporti naturali fra gli uomini, fondati sulla loro diseguaglianza reale. Non importa se si continua a ribadire il dato naturale della differenza tra gli uomini, poiché esso non è in alcun modo ignorabile; ciò che veramente risulta decisivo politicamente è la possibilità di superarlo attraverso la definizione dello spazio politico, entro il quale prende forma una nuova gerarchia di sovranità, fondata su presupposti di Potere, e non di Governo. 4. L‟opera di Erodoto rappresenta, per la civiltà ellenica, la versione prosaica di ciò che l‟epica omerica fu in senso poetico, offrendo agli Elleni “la consapevolezza di avere una storia comune”, 342 indicando nella koinonìa degli eventi che li riguardavano il senso stesso dell‟appartenenza a uno stesso destino nazionale. Sul piano della tradizione, già Omero nella Iliade aveva indicato l‟opportunità che “uno solo fosse il signore”343 Nell‟età del razionalismo greco, sul piano politico, “le riforme di Clistene rivelano i lineamenti caratteristici del nuovo tipo di pensiero [per cui] essi sono paragonabili a quelli che ci sono parsi definire, con l‟avvento della filosofia, la trasformazione del mito in ragione”. 344 Platone, nel Timeo, afferma infatti che il demiurgo è appunto colui che “conduce dal disordine all‟ordine”, 345 lasciando supporre che l‟ordine politico ( ) dovesse ricalcare quello formale del pensiero, che consiste nel portare all‟unità ideale l‟empirico molteplice. L‟ideale d‟ordine, come sinonimo di unità, era già presente in Callimaco e in Esiodo, come ricorda il Peterson, .346 ma l‟accezione

342

“La sua opera, pervasa dal fuoco di un genuino entusiasmo, il primo grande monumento in prosa della letteratura greca, ha avuto, per lo sviluppo della coscienza nazionale, un‟importanza appena inferiore a quella dell‟epos omerico”: M. Pohlenz, Der hellenische Mensch (1947), tr. it., Firenze, 1962, pag. 248. 343 “”: Iliade, II, 204. 344

J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs. Etudes de psychologie historique (1965), tr. it., Torino, 2001, pag. 406. 345 “ ”: Timeo, 30 a. 346

E. Peterson, Der Monotheismus als politiches Problem (1935), tr. it., Brescia, 1983, pag. 39.

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razionalistica imprime al modello unitario della realtà del mondo umano un senso di compiutezza formale che manca alla rappresentazione mitico-poetica della sovranità divina, e che viene invece recuperata dalla dogmatica cristiana nella dottrina della monarchia di Dio come “segno dell‟obiettività dello spirito” contrapposta alla concezione politeistica del poeta, intesa come “espressione della possessione dell‟anima”, la cui “esaltazione” esprime “un pluralismo metafisico, che è in un ultima istanza, di origine demoniaca”. 347 In tal senso, lo spirito unitario è di per sé espressione divina, per cui sorge spontanea la questione se il monoteismo comporti una costituzione politica di tipo monarchico. In considerazione del rapporto tra Cristo e Dio, il giurista Tertulliano, ispirandosi al “doppio principato” romano, che consentiva una partecipatio imperii, distinse il “solo ed unico comando (imperium)” monarchico, che spetta a Dio, dalla “amministrazione” del Potere che spetta al Figlio, sicché anche la monarchia può in analogia essere amministrata da altre persone all‟uopo designate come “funzionari” (officiales).348 L‟unità politica propugnata dalla filosofia greca postulava l‟omogeneità dei cittadini, indispensabile premessa dell‟esercizio del Potere su uomini ugualmente liberi (isonomia). Rispetto a questa concezione politeistica del Potere, che non poteva estendersi che a uomini e non certo ad altri esseri naturali, soggetti ad altro governo rispetto a quello politico, la concezione creazionistica del monoteismo ebraico-cristiano introduce l‟idea che Dio sia il signore unico di tutto il creato, il cui “dominio si estende su una realtà differente e per questo motivo egli non regna con la violenza della tirannide, ma con la fermezza dell‟amore”. Il governo divino è dunque diverso dal governo politico, ossia dal Potere, esercitato per mezzo della “coercizione” ( ) e della “forza”349

347

E. Peterson, Op. cit., pagg. 42-43. Tale pregiudiziale anti-pluralistica nel campo della metafisica ha costituito una costante della teologia cristiana anche in età moderna, come ricordato da M. Scheler, Probleme einer Soziologie des Wissens (1924), tr. it., Sociologia del sapere, Roma (1966), 1977 2, pagg. 134-135. 348 Tertulliano, Adv. Praxean, cit. da E. Peterson, Op. cit., pag. 45. 349

().Macario di Magnesia, cit. da E. Peterson, Op. cit., pag. 50. 156


La distinzione tra il Governo divino e il Potere politico è fondamentale ai fini della costituzione di un regime liberale, in quanto stabilisce, in conseguenza di quella distinzione, la persistenza di valori fondamentali comuni trascendenti a fronte di una varietà di forme politicocostituzionali empiriche. Ora, la determinazione politicistica greca di emancipare la sfera politica dalla contraddittoria e razionalmente incoerente rappresentazione mitico-religiosa della realtà, ha inteso operare nei termini della unità del molteplice entro la sfera della realtà sociale, avendo intrapreso una ricognizione filosofica in direzione di una unità metafisica dell‟Essere, che doveva perciò supportare la dimensione politica nel suo fondamento ideale. Ma proprio il carattere omogeneo che l‟ontologia greca assegnava all‟ente fenomenico e all‟Essere del pensiero comportava una complessiva circoscrizione dell‟interesse teoretico della filosofia alla dimensione socio-politica, intesa appunto come riflesso mondano del complessivo equilibrio cosmico universale, che andrà costituendo il paradigma immanentistico di ogni posteriore razionalismo. D‟altro canto, in conseguenza del mutuo filosofico ellenistico contratto dalla teologia cristiana di formazione romano-alessandrina, l‟insopprimibile carattere pluralistico della dimensione etico-politica interno alla dialettica filosofica venne traslato nella dogmatica teologica cristiana. Il concetto di “traslazione” (Uebertragung) risale a Leibniz 350 , e fu riadoperato da C. Schmitt nella sua Politische Theologie del 1922, nel noto esordio del terzo capitolo allorquando afferma che “tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati [che] vengono traslati [uebertrangen wurden] dalla teologia alla dottrina dello Stato” .351 La questione, al di là della

350

G.W. Leibniz, Nova methodus discenda docendaeque jurisprudentia del 1667. Ved. G. Zamagni, Op. cit., pag. 180. 351 C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveraenitaet, Munchen, 1934 2, pag. 49. Il concetto fu contestato da E. Peterson nel suo saggio sul Monoteismo come problema politico del 1935, in ragione del concetto trinitario delle persone di Dio. Per J. Assmann si tratterebbe di invertire il riferimento proposto da Schmitt, per cui egli sostiene che i concetti più rilevanti della teologia “sono concetti politici teologizzati”: Id., Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in Istaele e in Europa, Torino, 2002, pag. IX.

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correttezza teologica del mutuo concettuale, non è affrontabile in termini esegetici e filologici, poiché inerisce al rapporto tra i fondamenti onto-teo-logici della rappresentazione della realtà nell‟ambito dell‟orizzonte culturale cristiano, e il conseguente sviluppo critico-filosofico dei relativi archetipi categoriali, secondo una processualità tipica della tradizione razionalistica occidentale, sicché la tesi di Schmitt è storico-culturalmente corretta.352 Ciò non toglie che il passaggio da uno ad altro orizzonte concettuale possa comportare una variazione, anche riduttiva, di senso legata all‟adattamento nel contesto allotrio, tale che quello rinnovato conservi dell‟originario un significato anche soltanto simbolico, come appunto quello legato al potere creatore divino traslato nel campo regale della sfera politica. Ma ciò che rileva dal punto di vista storico-culturale è propriamente la fungibilità dei concetti teologici nella sfera politica, il che comprova che la loro funzionalità semantica è conseguente alla rielaborazione concettuale, operata dal pensiero razionalistico moderno, dei fondamenti ontologici della tradizione mitica che presiedono alla rappresentazione della realtà,

352

“Le infinite interrelazioni attive tra Chiesa e Stato in ogni secolo del Medioevo diedero luogo a ibridi in ambedue i campi. Derivazioni e scambi reciproci di insegne, simboli politici, prerogative e diritti onorari continuarono senza sosta a intercorrere tra la guida spirituale e quella laica della società cristiana. Il papa adornava la propria tara d‟una corona dorata, indossava la porpora imperiale e si faceva precedere dalle insegne imperiali cavalcando durante le processioni solenni per le strade di Roma. L‟imperatore portava sotto la corona una mitra, indossava i calzari pontificali e altri paramenti sacerdotali e riceveva, come un vescovo, l‟anello al momento dell‟incoronazione […] sicché il sacerdotium finì per acquisire un aspetto imperiale e il regnum un carattere sacerdotale. […] Durante il basso Medioevo […] gli scambi tra Chiesa e Stato continuarono; ma il campo di influenza reciproca, estendendosi dai singoli dignitari ad intere comunità, fu d‟allora in poi determinato dalle questioni giuridico-costituzionali riguardanti la struttura e l‟interpretazione dei corpi politici. Sotto la pontificalis maiestas del papa, che veniva anche definito „principe‟ e „vero imperatore‟, l‟apparato gerarchico della Chiesa cattolica tee a divenire il prototipo perfetto di una monarchia assoluta e razionale su base mistica, mentre al contempo lo Stato dimostrava la crescente tendenza a diventare una quasi-Chiesa o una corporazione mistica razionalmente fondata”: E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 166-167.

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o mondo della vita, oggetto pertanto anche di quel pensiero. D‟altro canto, la stessa possibilità di rinnegare quella fungibilità teoretica allotria, espressa dal teologo Peterson, sta a indicare il nucleo problematico essenziale della tensione, non componibile, tra l‟attualità (Jetztzeit) della metafisica razionalistica di origine greca, volta all‟Essere-che-è, al fenomeno astratto dal suo divenire, e l‟attualità della prospettiva escatologica in cui si pone l‟éskaton cristiano, in cui “l‟allora (das Einst) degli albori del destino” (Heidegger), cioè “l‟allora della creazione” (Taubes), “giunge come l‟allora per l‟ultimo (zur Letze)” (Heidegger), che è “l‟allora della redenzione” (Taubes). 353 Una tensione che la teo-logia cristiana ha cercato di contenere entro l‟orizzonte della fede piegata alle ragioni mondane di un “contenimento” (katechon) della dissoluzione imperiale, latente peraltro nella stessa pretesa d‟ordine di ogni Potere politico, la quale è stata interpretata paolinamente come anti-cristica, e quindi esposta ab origine a una “traslazione” ideologica in chiave di teologia politica. Nel caso specifico della mitografia cristiana, la loro trascrizione in termini teo-logici, costituiva già di per sé una forma originaria di elaborazione concettuale, rispetto alla quale la più recente opera di demitizzazione non è altro che il consapevole esercizio logico. Ma esattamente questa elaborazione teologica dei fondamenti di verità cristiani costituisce il paradigma di ogni futura “traslazione” semanticoconcettuale in campo profano, in verità non originario, ma mutuato dal metodo della filosofia greca socratico-platonica, che stabilisce pertanto l‟archetipo di quel percorso intellettuale la cui tracciabiità ideale coincide con la storia stessa della nostra tradizione culturale, costellata di tante “parole-chiave”. Una delle più importanti è quella di sovranità, che secondo Schmitt cnsiste nella “decisione” presa nello “stato di eccezione”, ovvero allorquando la struttura formale della legislazione si inceppa di fronte alle aporie della concretezza esistenziale, che porta in evidenza le contraddizioni della ragione astratta. In questo caso eccezionale, l‟auctoritas, che secondo il noto adagio di Hobbes facit

353

Per M. Heidegge, ved. Der Spruch des Anaximander, in Holzwege (1977), Frankfurt/M, pag. 327; per J. Taubes, ved. Abendlaendische Eschatologie, Munchen, 1991, pag. 12, citt. da E. Stimilli, Prefazione a J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Macerata, 1996, pag. 13.

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legem, si immedesima con la veritas, tenuta normalmente lontana dalla lex, per cui le previsioni legali sono efficacemente vigenti nella situazione ordinaria, in cui è possibile al diritto di esonerare la verità dalle sue considerazioni di giustizia formale. Ma allorquando si presenta il caso di eccezione, ecco che la rimozione della verità viene contraddetta a sua volta dalla necessità di riesumarla per derimere un conflitto decisionale, formendo alla volontà ragioni più forti di quelle razionali chiamate ad ispirare la vita politica ordinaria dello Stato. Si pensi all‟appello di Stalin alla antica fede ortodossa, che lo Stato ateo comunista aveva cercato di rimuovere dalla vita civile dei Russi, in occasione della resistenza all‟esercito nazista invasore della madre patria. Non bastava l‟ideale della Rivoluzione a salvaguardare la indipendenza nazionale, ma occorreva una motivazione più prodonda e fondamentale, appunto religiosa e veritativa, come quella di libertà, il cui sentimento intuitivo e profondo non coincideva con il suo formale concetto. Non si trattava, infatti, di resistere alla forza imperativa illecita, ma a una forza più radicalmente illegittima, quella del Male, ossia della dissoluzione dell‟ordine cosmico stabilito sui fondamenti di quella verità evocata come sacra e accolta come la vera libertà dell‟uomo di fede. In quel caso, contro il Male rappresentato dall‟invasore tedesco, lo Stato comunista, per quanto ateo, rappresentava il Regno che si opponeva katechonticamente all‟Anticristo nazista. Ma proprio in questa “traslazione” del senso cristiano della libertà nella resistenza politica del popolo russo al nazismo si perviene a quella sua conversione dal senso teo-logico al suo senso ideo-logico, che snatura la libertà, consegnandola a una accezione polemica ed esclusiva da agapica e inclusiva che era in origine, e pertanto contraddittoria e fallace, diabolicamente perversa, in quanto induce a credere idolatricamente al comunismo ideo-cratico appunto come al “regno della libertà”. Allo stesso modo si è poi agito a sua volta contro il regime totalitario russo da parte delle democrazie liberali, sventolando contro il mostro comunista nemico della libertà, l‟idolo amico del capitalismo occidentale, contrabbandato anch‟esso come il “regno della libertà”. Ogni trasvalutazione di senso teo-logico in senso ideo-logico era consentita dalla fungibilità della componente logica comune alla teologia e alla ideologia, che fungeva da ancilla sia alla trascrizione del Logos divino che alla definizione del Logos ideale, consentendone, con la traslazione concettuale, la sua rielaborazione di

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senso. Infatti, come simbolicamente Zeus verso Crono e come Cristo verso Jehova, la logia applicata al Mito aveva rielaborato l‟antica autorità della fede paterna nei termini di una rinnovata rappresentazione della sua verità, che da fondazione nazionale diventava astratta credenza universale, e come tale concettualmente permutabile e ideologicamente fungibile a un uso politico contingente. Il metodo dialettico di rappresentazione logica dei contenuti di fede implicava l‟assunzione di un deuteragonista come condizione indispensabile della sua stessa posizione tetica, lasciando l‟adito alla loro trascrizione politica, sicché la teo-logia, come linguaggio di fede della comunità ecclesiale, presupponeva l‟esistenza di una antropo-logia, ossia il linguaggio proprio dello spazio politico dello Stato, che pertanto diventava la realtà sociale opposta alla Chiesa. Il metodo di confronto tra le due realtà, ossia la rappresentazione razionalistica del mondo, essendo comune diventava il vero assoluto tra le due posizioni relative alla Chiesa e allo Stato, prendendo il posto che era stato dei contenuti della fede, assumendone anche la relativa credenza nella sua verità; da qui il duplice carattere fideistico e idolatrico sia delle teo-logie, fruibili come politiche proprie dell‟ordine sacro stabilito dalla Chiesa, che delle ideologie, concepite come “religioni civili” dell‟ordine profano stabilito dagli Stati secolari. Era il Lògos a unire e nello stesso tempo a dividere la Chiesa dallo Stato, dando vita alla civiltà liberale, caratterizzata dalla condivisione di un comune orizzonte razionalistico di rielaborazione e “gestione della verità” del Mito354 fondativo della comune civiltà cristiana, in cui confliggono polemicamente la libertà della Chiesa e la libertà antitetica dello Stato, ognuno in funzione di katéchon nei confronti dell‟assolutismo totalitario dell‟uno e rispettivamente dell‟integralismo teocratico dell‟altro termine polemico.355 Prendiamo

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“E‟ un pregiudizio corporativo [degli storici], quello per cui le immagini mitiche o i termini mistici sarebbero oracoli vaghi, duttili ed obbedienti a ogni volontà, mentre la lingua scientifica del positivismo avrebbe preso in gestione la verità”: J. Taubes, Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione (1985), tr. it. in Id., In divergente accordo, cit., pag. 36. 355

E‟ appena il caso di precisare che la teologia cristiana, ossia la Cristo-logia, definendosi come logos del Figlio che rielabora la parola del Padre inscritte nella Legge della nazione ebraica, si costituisce come discorso tetico dell‟antitesi

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dunque a proposito il caso tipico e forse più rilevante di esercizio creatore di sovranità politica, quello del moderno diritto di libertà, al centro del novus ordo saeclorum. La difesa della proprietà, garantita dalle leggi dello Stato costituzionale pre-rivoluzionario, consisteva nella salvaguardia della libertà come valore privato e autonomo, del quale erano responsabili i corpi etici particolari della società, da quello pubblico e politico, del quale era responsabile la Corona. L‟assolutismo monarchico non consisteva tanto sulla condizione per cui la volontà del re fosse legibus soluta, quanto sull‟avocazione della libertà dal piano sociale al piano politico, ossia dalla considerazione della libertà, tradizionalmente privata, come libertà pubblica. Ciò avvenne con la fine del sistema feudale e la creazione dello Stato nazionale, che determinò il passaggio definitivo della proprietà feudale da una condizione possessoria de facto a una condizione de jure, implicante che anche i suoi contenuti esistenziali, a partire dalla libertà, fossero giuridicizzati in quanto rientranti nel patrimonio pubblico, e dunque considerati disponibili ope legis. Questo comportò, con la fine della condizione feudale come rapporto fiduciario del vassallo col sovrano, stabilito sul principio etico della fedeltà, l‟insorgenza di un vincolo giuridico relativo anche ai suoi contenuti reali, che da concreti e legati alla autonomia feudale, divennero astratti da quella condizione e quindi indipendenti da ogni possibilità di essere difesi da quella autonomia, ma riconosciuti e difesi solo dal Potere statale. La pubblicizzazione della libertà, e dunque la sua politicizzazione, comportò l‟inserzione della discriminante propria della dimensione politica tra chi ne poteva godere e chi non, secondo la volontà superna del Potere esclusivo. Per un verso, dunque, la libertà venne riconosciuta anche ai non proprietari, in quanto meri sudditi dello Stato, per l‟altro verso essa, in quanto intesa come di natura politica, venne concepita come una concessione regale. L‟idea di un contratto sociale col quale si

legalistica giudaica, e universalizzandosi in teologia cattolica deve riprodurre ogni volta, per affermarsi come posizione eterna, una antitesi di carattere legale, e dunque statuale, rappresentata come particolare e transeunte. Come infatti affermato da Peterson, “la Chiesa esiste solo a partire dal presupposto che gli ebrei, in quanto popolo scelto da Dio, non sono diventati credenti nel Signore”: cit. da J. Taubes, Da una disputa intorno a Carl Schmitt (1986), tr. it. in Id., In divergente accordo, cit., pag. 61.

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delegasse la propria quota di sovranità al Potere politico, presumeva la natura appunto politica della libertà dei singoli quale facoltà astratta dalla condizione sociale di proprietari. La dissociazione della libertà, come stato politico, dalla proprietà, come condizione sociale, fu conseguente al riconoscimento, e dunque alla salvaguardia legale, del diritto di proprietà da parte del potere regio o statuale, che successivamente considerò la libertà come un attributo della proprietà idealmente indipendente da essa, anziché come la sua essenza stessa. E così la proprietà, avendo perduto il suo carattere di condizione sociale e divenendo un astratto diritto legale, poté essere dissociata dal suo contenuto esistenziale, ossia dalla libertà, la quale divenne essa stessa un diritto, che poteva essere riconosciuto o non dal Potere politico, che pertanto ne diventava il suo originario detentore e discrezionale dispensatore. L‟estensione in senso universale dei diritti di proprietà e di libertà comportava implicitamente la possibilità di una loro revoca, facendo del Potere il depositario della sovranità, consistente appunto nella creazione giuridica di quei diritti. E proprio in tale funzione il Potere legislativo assunse nel contesto civile e secolare il carattere monocratico analogo a quello divino, teologicamente riconosciuto come il potere creatore per eccellenza. Come già notato dalla Arendt, la deriva dispotica presa dalla rivoluzione francese, ma non da quella americana, fu legata alla natura dei rapporti tra corona e corpi costituiti, che in Francia erano di tipo esclusivamente politico, mentre nel Nuovo Mondo conservavano la struttura tradizionalmente sociale della costituzione inglese, per cui se “la rottura fra il re e il parlamento gettava veramente l‟intera nazione francese in uno „stato di natura‟ [poiché] dissolveva automaticamente la struttura politica del paese, nonché i legami fra i suoi abitanti, che si basavano non su reciproche promesse, ma sui vari privilegi accordati a ciascun ordine e stato della società”, mentre “il confitto fra le colonie americane da una parte e il re e il parlamento inglese dall‟altra non dissolveva nient‟altro che gli statuti concessi ai coloni, e quei privilegi di cui essi godevano per il fatto di essere inglesi, privava il paese dei suoi governatori, ma non delle sue assemblee legslative; e gli americani, rifiutando la loro fedeltà a un re, non si sentivano affatto sciolti dai loro numerosi patti, accordi,

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reciproche promesse e „consociazioni‟”.356 L‟ideologia democratica, sostituendo la titolarità sovrana del re con quella del popolo, mutò la persona nominale del Potere politico, che da singolare divenne collettivo, ma non la struttura ordinamentale dello Stato di diritto, che rimase auto-cratica e priva della sanzione morale di una auctoritas meta-politica. Come scrisse la Arendt, “teoricamente la deificazione del popolo nella rivoluzione francese fu la conseguenza inevitabile del tentativo di far derivare tanto la legge che il potere dalla stessa identica fonte”.357 Lasciando assoluto il Potere legislativo di promulgare qualsivoglia norma politica, l‟ideo-logia populistica ne consentì l‟identificazione col Governo democratico, determinando così la forma totalitaria del moderno Stato di diritto secolarizzato di matrice razionalistica. In tal senso, quanto affermato dalla Arendt circa “la pretesa della monarchia assoluta di fondarsi su „diritti divini‟ [che] aveva configurato il governo secolare a immagine e somiglianza di un dio, insieme onnipotente e legislatore dell‟universo, ossia a immagine di quel Dio la cui Volontà è Legge”, 358 non è ciò che più propriamente rileva ai fini della deriva totalitaria dello Stato, poiché la fondazione sul diritto divino costituiva già una forma di controllo morale sulle sue leggi. La questione decisiva era la pretesa di sostituire quella tradizionale fondazione divina con una di natura assolutamente politica e di tipo meramente costituzionale. La vexata quaestio risale all‟alto Medio Evo, di cui il Sermo de potestate Papae di Matteo d‟Acquasparta, pronunciato ad Anagni il 24 giugno 1302 al cospetto di Bonifacio VIII, del collegio cardinalizio e dei legatari di Filippo il Bello, è documento eloquente ed estremamente significativo per l‟intero percorso della tradizione teologico-politica occidentale.359 Partendo da Geremia, 1, 10, in cui Dio concede al

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H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pagg. 206-207. H. Arendt, Loc. cit., pag. 209. Ibidem.

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Il Sermo de potestate papae di M. D‟Acquasparta (1240-1302), ex Cod. di Parigi, bibl. Lat. 1505, f. 82v-84v ( = P), è riportato in originale come Appendice ai Sermones de S. Francisco, de S. Antonio, de S. Clara, ed. G. Gàl, Firenze, 1962 (BFA X), pagg. 177-190. Da ora SpP. La versione italiana qui utilizzata è di G. Tamburi.

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Battista “la sovranità su tutti i popoli e i regni, affinché estirpi e demolisca, dissipi e disperda, costruisca e semini”, 360 Matteo afferma che “queste parole […]si potrebbero più veritieramente dire di Cristo e del suo vicario, il beato Pietro e dei suoi successori, Sommi Pontefici”, che Dio avrebbe posto “sopra i popoli e i regni”. 361 Quindi passa a trattare del “dissenso sorto tra il nstro signore, Sommo Pontefice, il sacro Collegio dei Frati e la Chiesa da una parte, e l‟illustre re di Francia e i suoi consiglieri dall‟altra”, scaturito da una causa che il teologo definisce “modesta e certamente di poco conto”, 362 ma che in realtà si rivelò di estrema importanza in quanto vertente sulla plenitudo potestatis del Papa, e di converso della estensione della sovranità regale del monarca secolare. Il fatto fu che Bonifacio aveva creato nel 1295 la diocesi di Pamiers, ricavandola in parte da quella di Tolosa, ponendovi a capo il prevosto Bernardo Saisset, senza interpellare né il re di Francia, che insieme al conte di Foix esercitava il patronato di Pamiers, e neppure il vescovo di Tolosa. Il nuovo vescovo entrò in urto col re allorquando questi, contro precedenti accordi, concesse nuovamente il patronato al conte, al quale il papa, interpellato dal nuovo vescovo, inflisse le previste pene ecclesiastiche. A questo punto il re, colpito da alcune intemperanze verbali del Saisset, lo priva dei suoi possidimenti con un‟ordinanza del 24 ottobre 1301 e quindi lo cita in giudizio innanzi al consiglio di Stato “per offesa del re, ribellione, alto tradimento, simonia ed eresia”, facendolo condannare e incarcerare presso il metropolita arcivescovo di Narbonne. 363 Informatone il papa, al quale il re richiese la destituzione del neo-vescovo, Bonifacio esigette di contro la sua liberazione, ritirando con la bolla Salvator mundi del 5 dicembre 1301 i privilegi concessi al re, e convocando un sinodo speciale dell‟episcopato francese per il I novembre 1302 a Roma, al quale anche Filippo fu invitato con un‟altra bolla intitolata Ausculta fili, contenente

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SpP, pag. 177. SpP, pagg. 179-180.

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SpP, pag. 181. Sulla “poca importanza” dell‟ “incidente” concorda anche la più recente storiografia. Cfr. H. Wolter, Celestino V e Bonifacio VIII (1968), in Storia della Chiesa, dir. da H. Jedin, vol. V/1, tr. it., Milano, 1993 2, pag. 396. 363 H. Wolter, Loc. cit., pag. 397.

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tutti i capi di imputazione della Chiesa contro la corona di Francia, che sarebbero stati oggetto del sinodo, vertenti appunto sulla superiorità del potere papale su quello civile. Il re impedì la pubblicazione dell‟ultima bolla pontificia, facendo diffonderne un‟altra a cura di Pietro Flotte dal titolo Deum time, “in cui a nome del papa si comunicava deformato ed esagerato il contenuto della bolla tenuta nascosta”, rendendo nel frattempo nota “una presunta risposta del re (Sciat maxima tua fatuits), in cui praticamente si affermava che il re non era sottomesso a nessuno negli affari temporali”, e che fu letta in una assemblea degli stati generali tenuta il 12 aprile 1302, da cui il Flotte ottenne l‟appoggio alla causa del re. 364 Scoperto la macchinazione regale, il papa minacciò Filippo di scomunica, riinovando il sinodo romano, in cui fu discussa la bolla Unam sanctam, pubblicata il 18 novembre 1302, che “diventò il documento più discusso di questo pontificato e forse anche di tutto il governo pontificio nel medioevo”. 365 Essa, riprendendo le tesi esposte nel trattato De ecclesiastica potestate di Egidio Romano, che proprio Bonifacio aveva voluto arcivescovo di Bourges nel 1295, fu redatta da Matteo, che ne anticipò l‟oggetto nel sermone che qui commentiamo. 366 Quivi il cardinale d‟Acquasparta, contestando ogni volontà malevola del papa verso il re, che “veniva ammonito con le dolci parole di una madre affinché desistesse da alcuni propositi e altri li correggesse”, affermava che “mai fu scritto in quella lettera”, la Ausculta fili appunto, “dal Sommo Pontefice o dai fratelli [del sacro Collegio] che [il Re] dovesse riconoscere che il suo potere [regnum] gli derivasse da alcuno”, come invece alcuni riferiscono asserendo che “gli derivasse dalla Chiesa”, “né tantomeno essa fu mai spedita”.367 Circa poi “la raccolta delle prebende

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Ibidem. H. Wolter, Loc. cit., pag. 398.

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J.A. Watt indica il sermone di Matteo “a gloss on Ausculta fili”, cit. da L. Mauro, Introduzione a M. D‟A., Il cosmo e la legge, cit., pag. 43. 367 “Referunt aliqui quod continebatur in illa littera quod dominus Rex deberet recognoscere regnum suum ad Ecclesia. Propter Deum, cesset murmur! Quia nunquam fuit scriptum in illa littera, quia nunquam fuit scriptum vel mandatum ex

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del suo regno, due sono in tal caso le modalità: il diritto di patronato e la presentazione, la raccolta e l‟utilizzo”, del cui beneficio “il laico non può avere alcun diritto, se non nell‟ambito delle sue funzioni ministeriali”, fosse pure il re. Se infatti il re ne avesse titolo per sé, “perché avrebbe dunque chiesto nel caso di specie la concessione dei privilegi alla Chiesa?”.368 Che il buon principe cattolico ne riconosca l‟autorità è conclamato dal fatto stesso che confessandosi “chieda l‟assoluzione dei suoi peccati al suo confessore, il quale in nome di quale autorità lo potrebbe assolvere se non quella del Sommo Pontefice, che da lui discende a tutti, compresi i vescovi e arcivescovi che hanno potere su una certa provincia, in quanto da lui incaricati. E se costoro hanno un potere ben definito, il Sommo Pontefice ne ha uno maggiore che nessuno può limitare”, essendo egli “vicario del beato Pietro”, che lo ricevette da Cristo, “che fu il signore di tutti”, perché lo lasciasse a sua volta ai suoi successori. E pertanto “quelli che lo negano, sono eretici”.369 A questo punto viene in considerazione la questione del potere monocratico, per il quale Matteo stabilisce delle analogie che partono dalla e terminano nella figura papale. Infatti, egli sostiene, come

parte Summi Pontificis et Fratrum quod deberet recognoscere se tenere regnum suum ad aliquo”: SpP, pag. 182. 368 “Item, de collationibus praebendarum regni sui non videtur quod gravetur, quia duo sun t ibi: ius patronatus et praesentatio, collatio et usus. Ad laicum nullo iure potest pertinere collatio beneficii. Sed dicas: rex aliquid habet amplius. Nescio, sed dico quod nullo modo potest pertinere nisi ministerialiter. – Sed dicas: praescriptionem habet pro se, quaero: si potest dare, quare ergo impetravit super hoc privilegia ab Ecclesia?”: SpP, pag. 185. 369 “Item, Rex habet confessorem suum tamquam bonus et catholicus princeps, cui confitetur. Qua auctoritate, qua potestate absolvit eum? Certe, aucotoritate Summi Pontificis. Et derivatur in mnes ab eo. Episcopi etiam [et] archiepiscopi habent determinatam provinciam et sunt assumpti in partem sollicitudinis; unde habent certam potestatem, Summus Pontifex habet plenissimam; nullus est qui possit eam limitare […] quod Summus Pontifex, qui est vicarius beati Petri, habet plenitudinem potestatis, quia certum est quod Christus, qui fuit dominus universorum, dimisit potestatem suam Petro et successoribus eius. […] Unde qui dicunt contrarium, haeretici sunt […]”: SpP, pagg. 185-186.

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in tutto l‟universo vi è un solo Sommo Pontefice; in una casa un solo padre di famiglia, in una nave un solo comandante, altrimenti vi sarebbe disordine e tutto sarebbe caotico, anche in un corpo vi è una sola testa, e nn due, altrimenti tutto il corpo sarebbe mostruoso. […] Così nella Chiesa, che è la nave di Cristo e di Pietro, deve esserci un solo comandante e un solo capo, ai cui ordini tutti devono obbedire. E deve essere sognore su tutto ciò che è temporale e spirituale colui che ha la pienezza del potere […]; e costui è il Sommo Pontefice, che è il successore di Pietro. E mentre quelli che vi credono hanno ben inteso, quelli che invece credono diversamente da 370 questo, lo fanno erroneamente .

Si noti l‟accostamento di Pietro a Cristo, che sarà, com‟è noto, controverso dai teologi riformati insieme alla teoria secondo la quale “extra Ecclesiam nulla salus”, in cui l‟indicazione dell‟erede storico di Cristo viene ribadita come il contenuto stesso della fede cristiana, ma che presenta in ogni caso, all‟atto stesso dell‟affermazione della teria monocratica, una duplice titolarità del Potere. Altro dato saliente ci pare l‟ubiqua indicazione della Chiesa sia come istituzione ecclesiastica, a capo della quale c‟è il papa, che ha potere gerarchico diretto sui vescovi, che come comunità dei cristiani, comprensiva perciò anche dei laici battezzati. E in questa (ancora una volta) duplice veste viene affermato il primato petrino sia nella successione apostolica, e quindi sugli ecclesiastici, che nell‟ambito della società civile in quanto communitas christianorum. Orbene, tale teoria del primato poteva reggere soltanto in considerazione di un unico ordinamento gerarchico interno a un unico consorzio sociale. Infatti, l‟unità poteva concepirsi solo nel caso della omogeneità della comunità ecclesiale (sacerdotium) con quella civile (regnum). Infatti, se è vero che “sotto l‟autorità del

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“[…] In toto universo orbe est unus summus; in una domo est unus paterfamilias, in una navi est unus rector, alias esset inordinatio et totum esset deordinatum; in uno corpore etiam unum capit, nn duo capita, quia totum esset monstruosum. […] Sic in Ecclesia, quae est navis Christi et Petri, debet esse unicus rector e unum caut, ad cuius praeceptum omnes tenentur obedire. Et ille debet esse dominus omnium temporalium et spiritualium, qui habet plenitudinem potestatis […]; et iste est Summus Pontifex, qui est successor Petri. Et qui hoc credunt, bene sentium, qui autem contrarium, male credunt”: SpP, pag. 187.

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pontefice, in quanto princeps e verus imperator, l‟apparato gerarchico della Chiesa romana – malgrado alcune caratteristiche del costituzionalismo – dimostrò una tendenza a divenire il prototipo perfetto di una monarchia assoluta e razionale, fondata su basi mistiche”, è parimenti certo che “contemporaneamente lo Stato dimostrava una tendenza crescente a diventare una quasi-Chiesa e una monarchia mistica fondata su basi razionali”, venendosi a creare le premesse dottrinali in cui “il nuovo misticismo dello Stato trovò la sua origine e il suo sviluppo” grazie alla traslazione – favorita dall‟interscambio del diritto romano nei canonisti, e del diritto canonico nei civilisti, come pure dalla comune fruizione del metodo scolastico e della filosofia aristoteica - degli arcana ecclesiae spirituali nei nuovi arcana imperii dello Stato assolutista. E anzi fu l‟uso comune tra “i giuristi di tutte le branche del diritto” dello stesso formulario teorico a consentire il libero uso “di metafore e di similitudini teologiche per avvalorare i propri pareri nelle glosse e nei giudizi ufficiali”, a seguito del quale uso “nacque la formula dei „misteri dello Stato‟ che oggi, in un senso più generico, tradurremmo con „teologia politica‟”. 371 Se a parlare di “arcana imperii templari” fu per primo Tacito negli Annales, a usare l‟espressione “il mistero dello Stato” in una accezione cristiana come “prerogativa” regale, ovvero “i misteri del potere del sovrano”, fu Giacomo I d‟Inghilterra, secondo il quale il sovrano e i principi “sono dei in terra”, ai quali si deve “il rispetto mistico di chi siede sul trono di Dio”, e sul cui “dominio” “nessuno si deve mai permettere di intromettersi”, né tantomeno “è ammesso confutare i misteri del potere dei re”, poiché così come “è da atei e blasfemi contestare quello che solo Dio può fare […] Analogamente, è trasgressione e vilipendio contestare le azioni del sovrano”, secondo una normativa imperiale del 395 di Graziano, Valentiniano e Teodosio che denunciava come “sacrilegio” ogni controversia sulle decisioni del principe, che era già stata recepita dal Codex di Giustiniano e poi nella legislazione di Ruggero II di Sicilia e di Federico II, e quindi dal diritto canonico e applicato al pontefice prima di arrivare alla dichiarazione del sovrano

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E.H. Kantorowicz, Mysteries of State. An absolutist Concept and its late Mediaeval Origins (1955), tr. it. in I misteri dello Stato, Genova-Milano, 2005, pagg. 188-189. Da ora MdS.

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inglese ai Lords e Commons del 1609 ribadita alla Star Chamber del 1616. E dunque i “misteri dello Stato” promanano da ciò che i giuristi del XII e XIII secolo chiamavano, in riferimento al proemio delle Institutiones giustinianee, la “religione del diritto” (religio iuris), ovvero, come nelle Costituzioni siciliane di Federico II, come i “misteri della Giustizia” (mysterium Iustitiae), dove Giustizia stava per Governo dello Stato.372 Considerata la stretta analogia tra mysterium e ministerium, risalente all‟epoca cristiana e ancora invalsa nel Medioevo,373 la “pertinenza ministeriale” cui faceva riferimento Matteo in ambito del governo regio, presupponeva invece una distinzione rispetto alle prerogative papali, tale che queste prevalessero in materia religiosa. E dunque, ai fini della prevalenza del sacro sugli affari profani, era indispensabile che la sfera politica non venisse, per così dire, contaminata dal carisma religioso e dall‟aura mistica che avvolgeva le funzioni sacerdotali. Invece, come chiarisce il Kantorowicz, “la carica regale fu clericalizzata” allorquando l‟incoronazione con l‟unzione del capo, risalente al VII secolo, venne assimilata alla consacrazione dei vescovi, per cui “il diritto romano e quello canonico produssero una nuova interpretazione del vecchio ideale rex et sacerdos che non era né esoterica né liturgico-clericale, bensì legalistico-clericale”, che dal XII secolo “aprì la strada al concetto di regalità per mezzo del diritto divino […] quando il carattere quasi sacerdotle del sovrano non era più legittimato esclusivamente dall‟unzione e dall‟altare, ma in quanto proveniente dal diritto romano che definiva sacerdotes iustitie i giudici e i giuristi”, 374 secondo l‟apertura del Digestum di Giustiniano, e come confermata da una sua Glossa ordinaria a opera di un tale Accursio in cui si stabiliva “un chiaro parallelo tra i sacerdoti della Chiesa e quelli del diritto”. Il che ovviamente comportava per estensione che anche “l‟imperatore fosse chiamato anche pontefice”, secondo la chiosa di Guglielmo Durando al Decretum di Graziano, per cui “une et Romani Imperatores pontifices

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MdS, pagg. 190-195. Ivi, pag. 195. MdS, pagg. 196-197.

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dicebantur”, che confermava inequivocabilmente “l‟inseparabilità dei misteri dello Stato dalla sfera del diritto e della giurisprudenza”. 375 Ma allorquando il concetto di regalità andò gradualmente a “separarsi dall‟altare”, se la “pretesa a una giurisdizione universale” avanzata dal Barbarossa “sulle basi del diritto feudale e di quello romano, subì uno scacco”,376 esito diverso ebbe la analoga pretesa papale di senso inverso. Infatti, sul fondamento paolino per cui “l‟uomo spirituale giudica ogni cosa senza poter essere giudicato da nessuno” (Cor., 2, 15), proprio la bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII avanzava, dopo il Dictatus papae di Gregorio VII, la pretesa della giurisdizione universale della Santa Sede, la quale “omnes judicat, sed a nimine iudicatur”, come reciterà da allora in poi la massima canonista. 377 Il principio papale, secolarizzato, fu mutuato dai teorici dell‟assolutismo regio come Salmasio, difensore di Carlo I d‟Inghilterra, il quale “non fece altro che trasformare la teoria papale trasferendone l‟essenza allo Stato secolare”, mettendo così “il principe assolutista […] nei panni del pontefice romano”, dando corpo teorico al moderno “super-uomo” politico, che come “homo spiritualis Bonifacio VIII aveva tentato di monopolizzare con forza a favore del Pontefice Romano, escludendo tutti gli altri”. 378 E proprio il sermo di Matteo, non citato dal Kantorowicz, costituisce il testo canonico più significativo a contrasto della teoria assolutistica laica, in quanto tende a stabilire nel contempo sia l‟eterogeneità delle sfere religiosa e politica, sia la loro comune appartenenza all‟orizzonte cristiano, indicato come “arca Noe” e “navis Christi et Petri”,379 e di cui la plenitudo potestatis papale rappresenta l‟unità simbolica del temporale e dello spirituale. Ma quale la differenza tra la concezione cattolica del Potere, di natura teologica, e quella assolutistica laica, di natura giuridica? L‟idea di Potere come Governo della società cristiana era comune tanto alla Chiesa che al regno secolare, e sul governo della società cristiana si

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MdS, pagg. 198-199. Ivi, pag. 199. MdS, pag. 200. MdS, pag. 201. SpP, pag. 187.

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stabiliva la concorrenza dei due poteri, ecclesiale e statuale, entrambi intenti a stabilire la propria natura mistica originaria superiorem non recognoscentem. Finché però si accoglieva come fonte del Potere la potestà divina, il buon principe cristiano non poteva senza conseguenze ereticali contestare il primato petrino, ossia il fondamento teologico della stessa sovranità regale, per cui era inevitabile che, volendo rimanere nella stessa “nave” cristiana, la concezione del Potere assumesse un connotato funzionale, non tanto al Governo della scietà cristiana, quanto alla sussistenza dello Stato come organismo precipuamente politico. In questa accezione politica, o Stato veniva distinto dal corpo mstico cristano, e quindi dallo stesso suo Governo, facendo assumere a quest‟ultimo una accezione tutta spiritualistica e dunque consegnata alla sfera religiosa. La distinzione tra il Governo spirituale della società cristiana, e il Potere politico del consorzio civile, evitò tanto il misticismo politico che l‟integralismo religioso, e dunque scongiurando quell‟assolutismo teologico-politico tentato invano sia dalla Chiesa che dallo Stato, che caratterizzava la figura dell‟imperatore bizantino quale “uomo divino superiore a tutti gli uomini” ( ), secondo la definizione di Gregorio Nicefora ancora vigente nel sec. XIV.380 Tale sdoppiamento del Potere politico dal Governo spirituale, se per un verso scongiurò l‟esclusività concorrente dei due poteri ecclesiale e secolare, dall‟altro creò le premesse dell‟assolutismo nell‟ambito dello spazio politico, che riabilitò la concezione razionalistica greca della politeia come zona franca da ogni ingerenza mitico-sacrale. Ed proprio contro questa deriva neo-pagana che si concentra la tesi di Matteo d‟Acquasparte oggetto del Sermo de potestate Papae pronuncato ad Anagni il 24 giugno del 1302, in cui si rivendica al papa, a costo “di sacrificare il corpo e la vita del Pontefice e di ogni ecclesiastico del sacro Collegio, […] il pieno potere in campo spirituale”, identificato con la stessa “libertà della Chiesa”. 381 Ciò significa, in altri termini, che la libertà rappresentata dalla Chiesa 380

MdS, pag. 201 n. 36.

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“Unde dominus noster, Summus Pontifex, habet plenitudinem potestatis in spiritualibus. Unde pro libertate Ecclesiae et pro ipso ego et omnes Fratres sacri Collegii auderemus et vellemus exponere corpora nostra et vitam nostram”: SpP, pag. 188.

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ha una natura spirituale, e non politica, e se essa costituisce il fine morale della convivenza, è nel suo orizzonte ecclesiale cristiano, come salus trascendente e non già in quello statuale, come immanente libertas, che va realizzata mondanamente. E ciò non ineriva ovviamente a una questione nominalistica, dal momento che la libertà della Chiesa era appunto dal Potere assolutistico, e la libertà dello Stato consisteva nella emancipazione della sfera politica da quella religiosa, secondo la tipica struttura ideologica del sistema liberale europeo. Questa duplice e simmetrica tensione ideologica ha potuto ingenerare il ritenimento per cui Chiesa e Stato fossero in competizione sull‟egemonia politica entro la comunità cristiana, laddove la questione vera ineriva al concetto della libertà, come salvezza cristiana dell‟anima singolare, ovvero come modus vivendi della socialità politica. Entrambe le posizioni liberali partono da una mancanza antropologica: quella teologica dal peccato originale, mentre la politica dalla condizione di dipendenza dalla natura. Ma mentre la salus animi riguarda ogni singolo uomo, e dunque la sua personalità morale, la emancipazione politica dalla precarietà dello stato naturale riguarda l‟uomo in quanto membro di un consorzio sociale, e dunque la specie biologica. Ora, se ogni forma storica di socialità varia nel tempo per cultura e tradizioni locali, variando con essa la relativa fisionomia del potere secolare, ciò che sta all‟origine di ogni esperienza umana nel tempo, potere secolare compreso, ed è invece immutabile, è la condizione spirituale dell‟umanità, legata al peccato originale, per cui, a fianco della legittimità del potere dei principi inerente alla varia e perfettibile giurisdizione degli affari temporali, esiste la giurisdizione spirituale del Sommo Pontefice, che si estende a ogni manifestazione della vita umana, e dunque anche agli affari temporali, oggetto di giudizio morale. Ciò implica che la categoria morale della giurisdizione del Governo spirituale è dunque idonea a giudicare ogni azione umana, e pertanto è inclusiva di ogni forma di Potere secolare, laddove ogni potere secolare è competente solo iuxta propria principia, nei limiti cioè delle sue pertinenze ministeriali. E come Dio creò il sole per illuminare il giorno (luminare maius, ut praeesset diei), e la luna per illuminare la notte (luminare minus, ut praeesset nocti), così esistono due giurisdizioni, la spirituale, che pertiene per legge divina (de iure) al Papa, e la temporale la cui gestione usuale spetta per esercizio mandatario (ratione actus et usus) all‟imperatore e agli altri re, le cui legittime azioni però sono

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anch‟esse giudicabili dal Sommo Pontefice in ragione dell‟indelebile peccato originale.382 E, seppure il potere temporale, relativamente all‟esercizio e alla gestione di fatto, non competa al papa, non di meno il buon principe cristiano è tenuto a ravvedersi in caso di errore di condotta, e gli verrà perdonata ogni cosa, confidando che il Nostro Signore sia pronto ad accoglierlo a braccia aperte. 383 Ciò che dunque concerne la “materia conquerendi” tra i due poteri, e che trasforma l‟incidente bagatellare in una fondamentale questione di principio, è la portata ontologica della sfera spirituale, il cui Governo cattolico include ogni particolare e transeunte esercizio del potere temporale, che resta sempre circoscritto alle funzioni che gli vengono demandate dalla fonte suprema, che è divina e non umana, e che è unica per entrambi i contendenti, e pertanto l‟unica veramente monocratica e universale. La differenza, quindi, tra il Governo spirituale dell‟unico erede di Pietro e il Potere dei molti reggitori politici consiste nella universalità del primo e nella circoscritta territorialità e contingenza degli altri, sicché le relative istanze rispettive, quella eterna e trascendente, e quella storica e immanente, non possono essere idealmente equipabili e considerabili allo stesso piano formale di giurisdizione. Infatti, così come quella del Governo spirituale è inclusiva di ogni determinazione politica, mentre quella politica è esclusiva di altre analoghe e concorrenti giurisdizioni, parimenti la categoria dell‟amore cristiano che sta alla base del Governo spirituale dei papi non può essere equiparata a quella politica su cui si basa il Potere secolare dei principi. Se questo è vero, ne consegue che la essenza del politico non è il suo metodo discriminante tra amicus et hostis, come vorrebbe Schmitt, ma bensì il criterio suppostamente universale fondativo di quella discriminazione, che consiste nella uguaglianza tra gli uomini compresi

382

“Sunt enim duae iurisdictiones: spiritualis et temporalis. Iurisdictionem spiritualem principaliter habet Summus Pontifex, et illa fuit tradita a Christo Petro et Summis Pontificibus, seccessoribus eius; iurisdictionem temporalem habeant imerator et alii reges, tamen de omni temporali habet cognoscere Summus Pontifex et iudicare ratione peccati”: SpP, pag. 189. 383

“Sed iurisdictio temporalis quantum ad usum et quantum ad executionem actus non competit ei”, cioè al papa, “si velit redire, scio quod Dominus Noster paratus est eum”, cioè il principe, “cum duobus brachiis [amplecti]”: SpP, pag. 190.

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nel solo spazio della cittadinanza, la , che non a caso è “il nome comune a tutte le forme di costituzione”, 384 ma che comprende forme diverse e incompatibii, e perciò intrinsecamente polemiche. Solo attraverso la definizione di questo spazio come orizzonte politico della libertà, comune ma interno alla sola cittadinanza, è possibile discriminare sulla appartenenza o meno e circa la varietà dei regimi costituzionali. Prescindendo da questo astratto criterio fondativo del politico, ogni costituzione ne custodisce uno positivo, tale da creare con la relativa forma politica anche il suo contenuto polemico essenziale. Ma in realtà ogni costituzione deve presupporlo come la sua implicita Grundnorm, che rimane aperta alla definizione formale in quanto consiste nella stessa definizione ideale. In altri termini, lo spazio politico si costituisce attraverso la sostituzione della realtà (rappresentata attraverso le forme ideali del concetto) alla verità (rappresentata dal racconto cosmico del Mito). E‟ questo il vero ratto del fuoco che gli uomini compiono a scapito degli dèi olimpici. E in questo preciso senso epistemologico, l‟assunzione del Logos greco nell‟ambito della fede religiosa operata dalla teologia cristiana costituisce la prosecuzione, sotto forma di religione razionale, del programma greco di civilizzazione universale. Ed è nello stesso senso che va compresa l‟importanza del concetto di religione all‟interno dell‟orizzonte di coscienza della tradizione filosofica.385 Occorre tenere presente che lo stesso processo di

384

Aristotele, Politica, III , 7, 1279 a, 35 sgg.

385

H. Jonas, osserva che le “radicalizzazioni” sono state “imposte alla filosofia dalla difficile convivenza con la rivelazione”, per cui a suo dire “la filosofia non poteva far altro che tentare di eguagliare lo spirito assoluto della rivale”, e ciò sarebbe inoltre “la ragione per cui la filosofia più recente è priva della padronanza di sé, dello spirito di moderazione, che caratterizza la filosofia antica”: Id., Jewish and Christian Elements in the Western Tradition (1967), tr. it. in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna, 1991, pag. 68. In realtà, nessuna forma religiosa, né pagana né cristiana, ha condotto una battaglia contro la filosofia che non sia stata condotta per mezzo della filosofia, ossia in nome di quell‟universalità della ragione totalitaria, che è stata acquisita dal cristianesimo ellenistico in conseguenza della compatibilità col retaggio monocratico giudaico, contestato però dalla predicazione antilegalistica di Gesù. In questo spirito filosofico e legalistico risiede la lotta teologica ricordata da Scheler contro le posizioni metafisiche autonome dal

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cristianizzazione culturale della società europea ha comportato, quale sua premessa religiosa, l‟affermazione dei regimi politici di massa, ossia di quelle distinte espressioni storiche di “democrazia”, indicata da Aristotile come la forma degenerata di politia, definita sulla base del prevalente interesse sociale, economico per definizione, delle sorti dei “poveri” su quello delle altre classi sociali. Il criterio aristotelico dunque è chiarificatore della posizione generale del pensiero politico greco, il quale appunto considera devianti le forme dei regimi costituzionali in cui prevalga l‟interesse sociale dei gruppi particolari su quello politico generale, considerato bene comune. 386 La definizione concettuale di tale bene politico comune a tutti i cittadini della polis fa di esso un valore universale, proprio cioè di tutti i cittadini di tutte le poleis. Il concetto razionale di politica rappresenta dunque la forma ideale di cittadinanza universale, ossia di ogni regime costituzionale fondato sulle leggi eterne del Logos. Ma la differenza di tale valore razionalmente universale, rispetto a quello naturalistico religioso, risiedeva non solo nell‟ampiezza orizzontale dello spazio del politico, ma anche nella declinazione dell‟eternità dell‟essere di natura, ente religioso, in termini di immortalità dell‟essere di cultura, cioè appunto dell‟uomo politico. 387 Se infatti la natura è immortale in quanto non prodotta dall‟uomo mortale, il mondo compreso nello spazio politico ha sicuramente un suo inizio, e quindi una sua pre-istoria naturale, ma può non avere una fine, ossia è possibile all‟uomo di non seguire il ciclo mortale di ogni ente naturale, e di edificare una realtà duratura che interrompa quel ciclo, sostituendo al telos naturale uno tutto umano, di carattere politico. Il senso finalistico dell‟opera umana dotata di ragione è di emanciparsi dalla divina fatalità, che sottomette il destino umano mortale al ciclo naturale eterno, che consiste nella indistinzione degli enti. Viceversa, attraverso la distinzione logica, l‟uomo perviene a separare la propria storia antropologica dall‟indistinto ordine fagocitante della natura. Che

dogmatismo religioso. Ma lo stesso retaggio ebraico che, come ricorda Jonas (Ivi, pag. 69), è stato tramandato all‟interno della civiltà cristiana nelle forme di pensiero che il cristianesimo teologico ha assunto, sono forme appunto filosofiche. 386 Ivi, 7, 1279 b, 5-11. 387

Ved. H. Arendt, The human Condition, tr. it. cit., pagg. 14-17.

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questa “separazione” sia un atto di creazione umana, è il fondamento di ogni ordine del mondo filosoficamente concepito; che poi tale creazione sia creduto l‟atto della volontà divina, è il contenuto di fede della religione ebraica e quindi di quella cristiana. 388 L‟aspetto più importante dell‟emancipazione politica dell‟uomo dalla necessità del ciclo naturalistico è la costituzione positiva della dimensione razionale come derivazione antitetica della dimensione naturale, la cui negatività logica rispetto a quella politica si poneva come niente. Il Niente come sottofondo naturale della realtà della ragione umana, è un altro modo dell‟essere cosmico, legato alla pura necessità, rispetto al quale modo quello della politica si costituiva come il modo della libertà. Non, pertanto, la ragione cosmica era pervasa da un logos di libertà, ma solo la ragione politica, la cui tàxis liberava la natura della sua contraddittoria contingenza particolare entro la

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H. Jonas, quando afferma che per la filosofia classica “il mondo è eterno”, per cui questo “è una conseguenza necessaria della natura divina, e ciò nel doppio senso che esso esiste perché esiste il divino e che è ciò che è perché la natura divina è ciò che è”, omette di considerare che “l‟impossibilità intrinseca di „essere altrimenti‟ è logicamente necessaria o razionale” (Op. cit., pagg. 72-73) solo in riferimento alla struttura normativa cosmica, appunto di tipo razionale, ma non già in riferimento all‟ordine politico (tàxis), parallelo a quello naturalistico, per cui, fruendo epistemicamente delle leggi cosmiche, l‟uomo sostituisce gli dèi nella organizzazione del vivente, sostituendo in ambito sociale il caso fortuito con l‟ordine politico giusto. In tal senso, la giustizia consiste nella applicazione della razionalità entro il mondo sociale, scientificamente amministrato secondo la virtù (ossia la teleologia della volontà) politica, la cui vigenza implica che gli enti sociali politicizzati siano uguali rispetto al necessario principio razionale che li pone. Ma tale uniformità, vigendo all‟interno del particolare spazio politico stabilito dall‟uomo, stabiliva inevitabilmente, almeno in quell‟ambito, una scissione tra antropologia e fisica, che non derivò dunque alla filosofia dalla concezione ebraica, come vuole Jonas (Ivi, pag. 74). Il bìos qualificandosi politicamente ri-formava la natura in mondo, la cui costituzione, diversamente da quella del resto ella natura, poteva essere dimostrata a priori. L‟incontro con l‟ebraismo avviene in questo luogo creazionistico, dove Dio, similmente al demiurgo politico greco, era artifex mundi, solo più potente.

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necessità cosmica, destinandola a una univoca e coerente necessità, quella della sola realtà attuale, (aliqua res actu, direbbe Duns Scoto), originariamente desunta dal confronto delle tesi o volontà particolari avanzate dai rappresentanti politici delle distinte phylai, e quindi logicamente, e quindi necessariamente, determinata attraverso il procedimento metodico della tecnica dialettica. Liberata dalla negatività della physis, l‟attualità dell‟essere razionale è tutto ciò che di positivo può esserci nella realtà del bìos. Ora possiamo renderci pienamente conto che la “prudenza”, quale virtù del Potere politico, consista nell‟evitare la degenerazione dell‟ordine razionale in una condizione naturale, pre-politica, nella quale si ripropongono tutti gli elementi di conflitto nelle relazioni umane che erano state depurate della loro ingiusta, e cioè contingente, distribuzione naturale. Ciò vuol dire non già che l‟ordine complessivo della natura sia irrazionale, ma che lo sia il suo interno sviluppo contingente, privo di alcuna finalità che non sia la ripetizione dell‟uguale. L‟ordine politico, di contro, riportando all‟interno della fenomenologia della vita umana l‟ordine cosmico generale, adatta metodicamente la società al principio razionale di socialità, la politìa. E in ciò costituisce l‟areté della “prudenza”. La scelta razionale consiste pertanto nella possibilità riservata all‟uomo di emanciparsi dal ciclo della vita naturalistica, dalla sua inconcludente ed eterna ripetizione, assegnandosi un tèlos che sia la ragione dello svolgimento della sua vita mortale, il quale consiste nel bios politikos. Lo spazio della vita politica realizza il modo di emanciparsi dalla finitezza della natura. Un modo dunque pratico, istituzionale ed etico. L‟uomo greco è consapevole della finitezza della natura umana e convinto di poterla superare attraverso la forma politica. tale forma non è noetica, inerente il nous, ma ideale, inerente un modello astratto di realtà utile alla sua definizione reale, cioè alla sua realizzazione concreta. In questo senso, l‟idealismo è l‟espressione teoretica del pragmatismo greco, finalizzato alla de-finizione dello spazio politico alternativo a quello originario naturale. uno spazio derivato da un modello ideale razionale. Uno spazio ideale, quello politico, che in natura non c’è ma va creato dall‟uomo come suo mondo, all‟interno del quale egli stabilisce delle dinamiche di comportamento razionale non rinvenibili direttamente in natura, ma derivate dalla scoperta del rapporto di identità del pensiero logico con l‟essenza ideale della realtà.

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L‟essenza ideale della realtà è di tipo razionale, ossia consiste nella dimensione d‟essere di ciò che è privo di divenire, e quindi stabile, conoscibile attraverso il modo dialettico di distinguerla dalla dimensione contraddittoria del processo naturale, instabile per definizione. Razionale non è pertanto la realtà naturale, ma solo quella del pensiero ideale, conseguibile col metodo del ragionamento filosofico. Lo spazio politico era per l‟uomo greco l‟ambito in cui gli era possibile determinare il passaggio dall‟essenza all‟esistenza attraverso la volontà razionale, piegata cioè dall‟ “intelletto attivo” epistemico. L‟ambito della razionalità politica era dunque quello della volontà emancipata dalla fatalità naturale e padroneggiata dall‟uomo attraverso il significato del suo tèlos universale. La volontà universale era quella della ragione politica, e l‟ambito politico era dunque quello dell‟universalità dell‟essere razionale, in cui era possibile liberarsi filosoficamente del divenire naturale, ossia, infine, dalla dipendenza degli dèi. 389 Il primato greco della volontà umana fu riesumato dalla tradizione cristiana che, se da un lato riabilita la diffidenza ebraica verso la natura, esalta dall‟altro con Agostino la “volontà nell‟uomo, come luogo estremo del dramma del peccato e della salvezza”,390 intesa però in senso trascendente e punto socio-politico. Il senso cristiano di “totalità” allarga l‟orizzonte filosofico-politico di universalità, e con esso anche la sfera della volontà, in cui essa è chiamata a “prendere le sue decisioni senza l‟aiuto dell‟intelletto”. Una forma o un modo di essere della volontà è la fede, che diventa con Duns Scoto il suo fine ultimo al posto della conoscenza,. “Questo spostamento rompe con una tradizione millenaria, che aveva concepito il fine ultimo come una forma di conoscenza”. 391 D‟altronde, l‟intelletto, se ha perduto il primato sulla volontà, può conoscere non solo le realtà astratte universali ma anche l‟individuale, che con Duns Scoto diventa la realitas ultima, ossia la perfezione, anziché un difetto rispetto al modello della forma ideale. Ora anche l‟individualità ha un modello formale, che è la haecceitas, che completa 389

A maggior ragione ci si poteva liberare dal giogo del potere non conforme ai dettami della verità razionale. 390 H. Jonas, Op. cit., pag. 88. 391

Ivi, pag. 90.

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la essenza generale della quidditas degli enti, per cui “lo stesso principio di individuazione si trova nella sfera ideale, cioè nel cuore delle cose”. Se nella conoscenza in senso greco conta solo la forma universale, di cui l‟individuale è una rappresentazione materiale che nulla aggiunge di intelligibile, rimanendo la materia “estranea all‟essenza”, la “forma dell‟individualità” postulata da Duns Scoto diventa una “componente necessaria, intrinseca dell‟essenza concreta”, tale che “ciascun ente individuale [abbia] la sua forma”. 392 L‟ente divino del monoteismo ebraico-cristiano, superando la pluralità del deismo pagano e le sue contraddizioni criticate da Socrate nell‟Eutifrone platonico, non può irretire la sua onnipotenza creatrice entro le leggi della ragione, per cui l‟ordine da Lui stabilito è morale, non in quanto conforme a leggi immutabili ma in quanto opera della Sua volontà. “E in virtù del potere assoluto di Dio sarebbe anche possibile un altro ordine morale”. Ciò che conta è il mutamento del concetto di legge morale in ordine alla volontà e al potere, nel senso che “la volontà di postulare dei valori, e il potere di trasformarli in legge, sono congiuntamente all‟origine di ogni norma operativa”, il cui fondamento è per la fede la imperscrutabile saggezza di Dio. Quando il fondamento della fede venne a mancare , “restano solo la volontà e il potere dell‟uomo a fondare ogni norma o legge”, sicché , se nella prospettiva del razionalismo socratico “i comandamenti varrebbero anche senza Dio, in quanto si basano su essenze intelligibili”, il cui fine immanente è l‟euzein politico, nella nuova prospettiva volontaristica affermatasi col cristianesimo “l‟uomo eredita il ruolo di creatore e protettore dei valori, senza alcuna luce che guidi la sua scelta, poiché egli non è saggio e non ha alcuna visione dell‟eterna saggezza a cui ricorrere”. All‟inizio, l‟antica distinzione tra leggi valide “per natura” (perciò immutabili) e leggi “istituite” (perciò mutevoli) venne cancellata dalla dottrina creazionista-volontarista secondo cui ogni cosa era “istituita”, e trasformata nella distinzione tra istituzione divina e istituzione umana. Successivamente, questa seconda distinzione, privata del suo sostegno dottrinario e svanito il suo elemento divino, si ripiegò sull‟elemento

392

Ivi, pagg. 90-91.

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rimasto, quello umano, e il legiferare dell‟uomo, immerso nel continuo mutamento del suo essere, rimase padrone del campo. Fu questo l‟effetto potenzialmente dirompente della svolta determinata dal confluire di scotismo e nominalismo, che segnò il passaggio dal Medioevo all‟Età Moderna.393

La questione è però che la riesumazione di tale svolta omette di considerare che a) l‟incidenza “dirompente” dell‟istituzione umana presupponeva a) la rimozione della civitas Dei quale contraltare alla città dell‟uomo, e b) il ruolo che il dogma teologico ha per resistere alla riduzione del messaggio evangelico a ideologia politica. La sostituzione della civitas Dei alla pòlis pagana comportava da parte cristiana una ridefinizione della legislazione terrena in senso escatologico che escludeva dalla sua prospettiva terrena il rifacimento istituzionale del modello razionalistico greco, concepito come funzionale alla realizzazione dell‟astratto ideale politico, e quindi lo stesso fondamento epistemico della sua giustificazione filosofica. Di contro, proprio la assunzione della prospettiva filosofica pagana come metodo di rappresentazione razionale dei contenuti scritturali e dogmatici da parte della teologia cristiana – si pensi alla giustificazione dell‟impero romano col monoteismo da parte di Eusebio, che per puro spirito di acquiescenza al Potere romano rimosse l‟istanza anti-politica dell‟escatologia cristiana, esaltando “la pax augusta come qualcosa operato dalla Provvidenza per preparare la diffusione del vangelo cristiano tra i popoli non più nemici” -394 ha determinato la “svolta” politicistica e razionalistica moderna, consentendo quindi la formazione di una “teologia politica che abusa dell‟annuncio cristiano per giustificare una certa situazione politica”. 395 Ma proprio tale trasformazione del messaggio divino in ideologia politica è alla radice dell‟idolatria razionalistica, operata per primi dai filosofi idealisti greci, i quali hanno svincolato le leggi umane da ogni rapporto di fede religiosa. L‟emancipazione filosofica greca dalla

393

Ivi, pagg. 92-93. G. Ruggieri, Editoriale in E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem (1935), tr. it., Brescia, 1983, pag. 14. 395 Ivi, pag. 16. 394

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religione pagana tradizionale avvenne in nome della costruzione etica del contesto politico, garantito non più dagli dèi ma dalla costituzione. Nella forma del regime politico si realizzava l‟oggettività del modello ideale. Per quanto riguarda la fede cristiana, invece, il rapporto tra coscienza filosofica e Stato si trasformò nel rapporto problematico tra coscienza individuale e Chiesa. Se, infatti, nel caso politico, l‟individuo si definiva attraverso la sua appartenenza alla comunità statale, nel caso religioso l‟appartenenza alla Chiesa non era affatto scontata, in quanto l‟istituzione ecclesiale non era il fine, che rimaneva trascendente, cui tendeva il cristiano, ma semmai lo strumento storico, per cui il senso dell‟adagio extra aecclesiam nulla salus, andrebbe intesa come nulla ecclesia sine salutem. Omologare la Chiesa allo Stato, facendo di entrambi il fine dell‟operare umano, equivaleva appunto a idolatrare l‟opera umana. Questa ideologizzazione dell‟escatologia cristiana in senso ecclesiale è avvenuta attraverso la fruizione teoretica dello stesso strumento concepito dal pensiero greco per pensare la virtù nella città terrena, ossia la filosofia, la cui universalità attende di realizzare se stessa, il suo modello ideale, e non la parola di Dio. Il testimone della virtù politica dello Stato è il cittadino, rappresentante della vita politica. Il testimone della grazia divina è il martire della confessione della sua fede in Cristo, e della Sua chiesa, intesa in senso originario di comunità dei battezzati, non di Chiesa istituzionale. La dogmatica ecclesiale è la stessa fede espressa attraverso la sua concreta confessione pubblica, e non il testo legale opposto a quello della astratta legge statale. Il cittadino può rappresentare lo Stato, partecipando da sovrano democratico alla sovranità, in quanto l‟essenza della sua funzione è la stessa essenza del Potere. il credente, invece, non rappresenta mai la sua chiesa, né tantomeno la Chiesa istituzionale, in quanto la sua concreta singolarità è già una totalità rispetto agli altri uomini, e non perfettibile che in rapporto escatologico alla perfezione spirituale di Dio, non certamente attraverso il medium socialitario, sia quello politico che ecclesiale.396

396

Quando si afferma che nella fede “la politica e lo spazio della sovranità umana non vengono annullati, ma solo sostenuti in un atteggiamento più grande che demitizza, laicizza, desacralizza quel potere […]” (G. Ruggieri, loc. cit., pag. 25),

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Lo spazio politico, supponendo una omogeneità di enti ideali, i cittadini, differenti dalla molteplicità degli enti reali, i membri sociali, doveva trovare nel modello razionale la sua fonte di legittimazione, e nel Potere la sua espressione storica. la corrispondenza tra l‟unità del fondamento logico e quella del Potere è espressa da Aristotile nel XII libro della Metafisica, in cui lo Stagirita cita le parole di Agamennone, per il quale “non è bene vi siano più signori, ma signore sia uno solo”.397 In quale rapporto si trova il principio metafisico con il mondo politico? Secondo la ricostruzione dello Jaeger, ripresa da Peterson, se la rappresentazione platonica del cosmo conservava all‟Idea una sua indipendenza dal mondo, Aristotile supera il dualismo platonico, facendo di Dio “il fine trascendente di ogni movimento e, soltanto in questo senso, monarca”. Nello scritto sul Mondo, invece, Dio appare come la potenza ( ) che è “causa () originaria della conservazione di ogni cosa”, spostando la questione dall‟unità dei princìpi potestativi ( ) alla partecipazione divina alla potenza () sul cosmo.398 Lo stesso Pterson fa notare che le diverse teorie mostrano, per un verso, che “la formulazione ultima dell‟unità di una concezione metafisica del mondo è sempre condizionata e predeterminata da una scelta nei confronti di una delle possibili unità politiche”, e per l‟altro che “la differenza fra „potenza‟ (potestas, ) e „autorità‟ () è un problema metafisico-politico”, dando luogo a due rispettive interpretazioni. Quella secondo cui “se Dio è il presupposto perché vi sia potestas allora l‟unico Dio diviene detentore della auctoritas politica”, e quella per cui il dualismo tra potenza e autorità di Dio comporta che “la categoria del re () non solo viene contrapposta a quella del creatore del mondo ()”, ma che “Dio domina come re ma non governa”.399 Prima di chiarire questo concetto, occorre affermare che la interpretazione di Jaeger, secondo il quale Dio non sarebbe “l‟unità delle forme” del mondo, ma il mondo stesso che dipende da lui, anche

non ci si avvede che questa funzione di rielaborazione critica di un oggetto di coscienza è propria della filosofia, e non della fede. 397 Iliade, II, 204 sgg. 398 399

E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, tr. it. cit., pagg. 32-33. Ivi, pag. 34.

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se non vi appartenga,400 è del tutto equivoca, dal momento che tale identità si può stabilire solo pensando Dio non come entità personale, alla maniera biblica e cristiana, ma come forma ideale, alla maniera greca. L‟unità divina aristotelica è già filosoficamente pensata come altra rispetto a quella della tradizione teologica arcaica, per cui entro lo spazio politicamente strutturato e definito il principio ( ) fondamentale, seppure fosse chiamato Dio, non sarebbe un dominus o un , concretamente esercitante la funzione di potere, ma un Demiurgo distante dalla concreta amministrazione del potere politico, soggetto a tutti i limiti del suo umano esercizio. Che Dio sia il monarca dell‟universo, ossia che governi ogni sua naturale creatura mondana, è una indicazione ebraico-cristiana che manca alla teologia greca arcaica, che concepisce il ruolo di Zeus come quello di un re anziché di un creatore di mondi, laddove la figura greca che si avvicina a quella ebraica è quella del demiurgo politico, del legislatore e, ancor più, del fondatore di città (conditor urbis). Come infatti il Dio ebraico trae il mondo dal nulla, il fondatore crea lo spazio politico in opposizione alla condizione di natura, che è il Niente rispetto all‟Essere oggetto della ragione. Se dunque per la teologia arcaica greca la natura era l‟Essere interno al cui orizzonte si esprimeva l‟esistenza umana, per la dimensione filosofico-politica della vita umana, l‟Essere diviene ciò che viene tratto e razionalizzato dalla condizione naturale, che assume pertanto il senso logico del negativo rispetto al prodotto razionale derivato. L‟assolutizzazione dell‟Essere razionale, e quindi politico, elimina in radice l‟esistenza di forze divine confliggenti con l‟ordine sistematico della pòlis, facendo della legge razionale la vera monarca di essa. Il cristianesimo nasce in antitesi alla Legge ebraica, non in senso antiteocratico, ma in quanto fonte depositaria della verità, e quindi è portatore di uno spirito intrinsecamente e originariamente antilegalistico, e in questo senso impolitico. Il razionalismo greco intese rimuovere la mediazione teocratica della mitologia arcaica per instaurare un rapporto diretto tra i contenuti di verità del Mito e la comprensione filosofica di essi, mentre la predicazione cristiana non

400

Cit. in Peterson, Op. cit., pag. 74, n. 13.

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oppose alla mediazione teologica ebraica una verità di ragione a una rappresentazione mitica, ma gli stessi fondamenti di fede dell‟ebraismo alla loro astratta rappresentazione legalistica. Se pertanto il concettualismo filosofico oppose alla contraddittoria rappresentazione mitologica una più razionalmente coerente e logicamente unitaria, il fideismo cristiano riportò nel luogo della coscienza individuale il fondamento di fede che il legalismo farisaico aveva tradotto in termini di formale ossequio ai canoni della Legge mosaica e della Thorà. E mentre il formalismo logico ricercava i dati comuni della universale coscienza razionale, il fideismo cristiano, al contrario, cercava di riportare il senso del formale ossequio religioso ai suoi fondamenti di coscienza individuali, propri non di tutti gli uomini in generale ma di ciascuno in particolare. Il fondamento di fede individualistico conduceva a trovare il fondamento divino accomunante nel Dio trascendente, laddove la pratica politica tendeva a trovare il suo fondamento razionale nella congruità delle sue deliberazioni, ossia nella logica immanente al caso concreto. Da qui il doppio movimento che caratterizzerà ogni azione politica, volta per un verso a legittimarsi eticamente coi suoi princìpi razionali, e per l‟altro a verificare la sua congruità con gli effetti da essa concretamente prodotti. Ma, mentre ogni azione politica, per quanto originalmente concepita, deve necessariamente mantenersi all‟interno dell‟astratto alveo normativo del sistema strutturato al fine della sua sussistenza e conservazione, l‟atto di fede non ha come obiettivo finale l‟efficacia mondana delle sue concrete determinazioni ma la salvezza dell‟anima, rispetto alla quale ogni altro fine diventa contingente e secondario, anche quello teso alla salvaguardia della vita. E se l‟azione politica mira alla permanenza del suo spazio mondano, trovando in essa la sua legittimazione etica, l‟atto di fede non si pone alcuno scopo di efficacia mondana relativa al parametro della lunga durata dei rapporti umani, ma si commisura all‟eternità del rapporto con Dio. Tale eternità, attribuita dalla credenza greca alla Natura, è lo sfondo negativo del pensiero filosofico, da cui emanciparsi per l‟edificazione della umana realtà razionale, mentre è lo sfondo positivo della fede cristiana, secondo la quale è il mondo naturale il luogo di transito dell‟uomo sulla via della salvezza spirituale, mondo di cui la realtà politica è solo una effimera variazione contingente, mentre per la concezione razionalistica greca esso è il mondo.

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L‟etica razionale dello spazio politico è per il pensiero greco l‟orizzonte intrascendibile della migliore vita umana, laddove per il cristiano Tommaso essa sarà solo l‟elemento naturale propedeutico all‟accoglimento della lex divina, informata all‟etica dell‟amore e della grazia. Ciò comportava la superiorità delle virtù dianoetiche su quelle pratiche, per cui la volontà si pone al servizio della contemplazione di Dio, così che “anche l‟intera società appare dominata da un‟aristocrazia intellettuale clericale”, e non certamente politica. Solo in seguito al nominalismo e al volontarismo francescano viene a dissolversi il sistema scolastico, riponendo”la volontà e lo scopo, in Dio come nell‟uomo, al di sopra dell‟idea della legge razionale”, compiendosi per tal via la “divisione dualistica di ambiti fra ciò che sottostà alla legge di ragione e ciò che sottostà alla legge della rivelazione” che verrà perseguito compiutamente in età moderna dall‟Illuminismo attraverso la teoria del diritto naturale, allorquando l‟etica razionale si è distaccata dall‟etica della grazia e dell‟amore. 401 Le conseguenze di tale distacco sono evidenti per la realtà sociale. Infatti l‟assolutizzazione dell‟ordine storico-giuridico da ogni aspetto organico con l‟ordine normativo razionale esalta l‟attivismo della volontà umana, abolendo ogni ordine stabile di carattere divino, non riconoscendo alcun ordinamento positivo che vi rimanesse gerarchicamente ispirato e non rapportabile all‟attività razionale dell‟uomo. Allorquando Platone fa del metodo razionale dell‟etica un paradigma universale di validità di ogni scienza, l‟ambito di possibilità originariamente circoscritto allo spazio politico diventa anch‟esso universale, e tale che l‟emancipazione dalla necessità della natura divenga la regola di condotta dell‟agire razionale. La razionalizzazione della vita umana diventa il programma di un agire orientato nel senso della libertà dalla necessità della condizione naturale. Nel tomismo, attraverso il suo sistema di virtù e di educazione, tale razionalizzazione “mira in primo luogo a un ordinamento e a un‟armonia interna dell‟anima e delle sue forze, e questo al fine di farne un contenitore puro e chiaro per l‟accoglimento delle verità della

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Ved. M. Scheler, Die Zukunft des Kapitalismus (1914), tr. it. in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Napoli, 1988, pagg. 68-70.

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rivelazione e di una vita soprannaturale della grazia”, e perciò “viene tenuta in alta stima proprio per far scorrere, anche nella vita mondana di tutti i giorni, la corrente delle forze della grazia e della redenzione che fluisce nelle mediazioni ecclesiastiche della grazia, e per farla lievitare grazie a questa corrente”. Il Protestantesimo, in seguito, rinunciando alla casistica morale, “diventa antirazionalistico. E proprio per questo emancipa e secolarizza la „mondanità‟ e l‟abbandona alle sue proprie leggi, estranee a Dio. e in tal modo nasce quella specifica „razionalizzazione‟ moderna della vita, che è, propriamente, soltanto tecnicizzazione”, ossia apparato di strumenti utili al superamento degli ostacoli frapposti al raggiungimento di scopi e vantaggi esterni, relativi al valore sociale delle azioni umane. Se dunque “la „virtù‟ di Tommaso è un habitus interiore della persona, la virtù del‟uomo capitalistico è la „disposizione‟ per certe azioni”.402 In realtà, la teologia scolastica trasferisce in interiore homine lo spazio di libertà che la sapienza greca aveva predisposto per l‟agire politico, ma, pur cambiando il fine dell‟agire in senso trascendente, conserva il metodo razionalistico dell‟ascesi spirituale come antidoto alla costrizione della condizione naturale, considerata come salvezza dell’anima, anziché, alla maniera greca, come libertà politica. Il dualismo metafisico corpo-anima si stabilisce attraverso il nuovo télos trascendente, che non libera l‟uomo solo dalle costrizioni della natura ma anche dalla stessa pseudo-libertà immanentistica della vita politica, della quale la liberazione dell‟anima in Cristo è l‟alternativa esistenziale. Il primato della volontà, all‟interno dell‟orizzonte trascendente, eliminava la mediazione razionale ma non la tensione ad Deum, che anche la predicazione di Gesù aveva originariamente considerato preminente su ogni forma legale. Solo l‟eliminazione di tale tensione trascendente ha potuto riabilitare in senso politico antico il metodo razionale della filosofia, facendo di esso la tecnica della liberazione da ogni impedimento, religioso o naturalistico

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M. Scheler, Loc cit., pag. 72.

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che fosse, secondando la vocazione originaria del filosofare. Se dunque “il moralista cattolico vuole piegare l‟intera vita mondana, fin negli elementi più concreti, sotto norma etico-religiose, che, in ultima analisi, derivano dalla lex divina”, la cui obbedienza “per lui costituisce una condizione, al fine della salvezza e della beatitudine, non inferiore alla fede in Cristo, alla sua grazia e alla sua redenzione”, il Protestantesimo nel suo complesso “dichiara la „legge‟ „finita‟ e „mondana‟ e la considera come obbligante soltanto „al fine della pace terrena‟ (Lutero), ma non la considera vincolante dal punto di vista religioso e al fine della giustificazione e della beatitudine”, rinunciando per tale via “anche, per principio, a ogni genere di direzione etico-religiosa della vita economica”.403 Da qui la rinuncia alla “spiritualizzazione anche della vita corporale dell‟uomo” e di conseguenza “la rinunzia ulteriore a delimitare da un punto di vista etico-religioso, n qualsivoglia forma, l‟impulso acquisitivo”, e dunque “l‟emancipazione, in linea di principio, dello spirito della vita economica in generale da qualsivoglia ispirazione di un‟autorità spirituale etico-religiosa e da ogni direzione sacerdotale”.404E l‟intero “spirito operativo che si esplicava nel culto, come lato pratico della contemplazione e della preghiera si travasò “nello spirito operativo pratico-mondano del lavoro professionale e del lavoro acquisitivo”, realizzando “il paradosso, per cui il soprannaturalismo rafforzato della religiosità protestante […] doveva spingere l‟impeto dell‟energia della volontà dell‟uomo nient‟affatto verso l‟alto, bensì verso il basso, verso il lavoro illimitato sulla materia, anzi sviluppava quei poteri illimitati della volontà rivolti a dar forma e ordine alla materia”.405 Tuttavia, con buona pace di Scheler, non poteva un “paradosso” essere la ragione storica di una trasformazione così importate dello spirito europeo e della sua civiltà universale. Essa è

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M. Scheler, Loc cit., pag. 79. Ivi, pag. 80. Ivi, pag. 82.

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potuta avvenire in quanto la possibilità di una devianza dalla trascendenza del fine della fruizione della lettura razionale del mondo era già compresa nel metodo razionalistico stesso, concepito ab origine proprio per emancipare la coscienza filosofica da ogni tradizionale determinazione fideistica. E fin quando la potenza della fede era riuscita a contenere nel suo orizzonte cristologico la tensione eversiva del filosofare, questo potette essere piegato dalla volontà religiosa a servire un fine trascendente, ma dal momento in cui l‟amore spirituale per l‟eterno nell‟uomo abbandona le sorti della sua carne al destino mondano, questo destino riprende a definirsi in termini di ragione universale autonoma, emancipata da ogni fine di santificazione. E‟ infatti nella natura della volontà stabilire un rapporto di forza tra impulsi divergenti, e quindi collegare l‟esito della stessa volontà alla forza maggiore, ossia a un Potere direttivo, per cui la direzione spirituale della volontà umana era inscindibilmente legata alla forza mondana della Chiesa, vindice su altri poteri concorrenti. Il Potere dello Stato moderno, rimosso teoreticamente il fondamento fideistico e trascendente del metodo razionale di direzione della volontà, ne esalta la sua libertà identificandola con la stessa emancipazione dalla fede, ossia dai fini trascendenti della sua fruizione metodica, ripristinandone l‟originaria destinazione anti-dogmatica e politica. Infatti sul terreno politico si incontravano sia la libertà della volontà dal fine religioso che la libertà della ragione dal fine trascendente, fondendosi modernamente in maniera filosoficamente alternativa al sincretismo teologico cristiano, e dove prima c‟era un prodotto rivolto al contatto col cielo, ora vi è un prodotto rivolto alla trasformazione della natura. Un ricorso neo-pagano della civiltà conseguente all‟esaurimento dell‟inerzia culturale della teologia cristiana medievale. “Proprio la nuova svalutazione religiosa, soprannaturalistica, del mondo sopprime l‟amore per il mondo e l‟atteggiamento contemplativo rispetto ad esso e ne fa una pura e semplice „resistenza‟ per un‟energia lavorativa adesso illimitata. Un mondo in sé dotato di valore, che provoca „gioia‟, lo si

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guarda con stupore e con ammirazione; solo il mondo svalutato può sviluppare un‟energia di lavoro illimitata!”. 406 L‟etica del lavoro nasce nondimeno dal raffronto tra il modello cosmico razionale e la concreta realtà effettuale. Senza quel modello, neppure il lavoro avrebbe quel motivo di perfezionamento della natura che è implicito nella volontà di cambiarla attraverso di esso. E questa volontà razionalizzata in agire etico-politico è alla radice della dimensione della vita civile in senso greco, tesa al perfezionamento della vita morale dell‟uomo, ereditata dalle teorie contrattualistiche e democraticistiche moderne. La stessa teoria tomistica della società organica rappresenta l‟ordine delle gerarchie sociali come un correttivo razionale apportato dall‟uomo alla vita meramente biologica dell‟esistenza naturale, conforme alla immutabile lex divina ma comunque attinente a un ordine non spontaneo, non fosse altro perché garantito dalla azione pastorale della Chiesa, indispensabile al buon funzionamento dello stesso Stato. Ciò implicava che la superiorità morale dell‟uomo non derivava dalla sua natura perfetta rispetto alla imperfezione naturale, ma alla sua capacità di correggere tale imperfezione della natura, compresa di quella propria, in senso conforme a ragione, che è il fine sostanziale, “l‟anima” e la “causa”, dell‟essere umano. Se infatti “vivere è per i viventi l‟essere”,407 la vita razionale () è quell‟essere che tende a emanciparsi dall‟informe eternità dell‟essere di natura ( ), il cui modello cosmico è costituito dal ciclo biologico, quel divenire eterno delle cose che costituisce la vita naturale. “Al contrario, incastonata in un cosmo in cui tutto era immortale, la mortalità divenne il marchio distintivo dell‟esistenza umana”, caratterizzata da un  individuale che “sgorga dalla vita biologica, dalla ” e che nella nascita e nella morte ha i suoi termini., distinguendosi “da tutte le altre cose per il suo corso rettilineo”. E proprio “questo è l‟essere mortale: muoversi in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue, semmai, un moto

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Ivi, pag. 83. Aristotile, Dell’anima, II, 4, 415b-13.

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ciclico”.408 La “frattura” che “spezza il moto circolare della vita biologica” diventa il contenuto straordinario della storia. 409 Ma il senso riposto della “mortalità” è custodito dalla implicita incompiutezza della natura umana, dalla sua insufficienza antropologica, destinata a trovare nella socialità razionalizzata il correttivo artificiale alla sua disarmonia col resto della vita naturale, di ciò che nasce spontaneamente da sé e che costituisce il “peccato originale” dell‟uomo. Lo strumento per superare tale incompiutezza umana, che avvolge opere e parole, è affidarle alla memoria, a Mnemosyne, la quale strappa i  alla loro labilità e li fissa nella  scritta, nella parola poetica e quindi storiografica. 410 E qui riscontriamo l‟origine del “paradosso” moderno ricordato da Scheler, il più “grave e doloroso”, che conferì “un aspetto tragico alle più alte espressioni della cultura greca”: il contrasto tra l‟eterntà delle cose divine e naturali e l‟immortalità delle gesta e delle parole umane, per definizione labili, che ha costituito “l‟incubo costante della poesia e storiografia elleniche, così come ha turbato la pace dei filosofi”. 411 Mentre la poesia decantava l‟eroe divinizzato in quanto all‟altezza della natura, la filosofia rintracciava la verità eterna, non commensurabile con la finitezza dei prodotti mortali, anche gloriosi, e alla quale l‟uomo può attingere con la contemplazione, ossia con la “visione” di essa. Come ha ricordato il Pohlenz,  deriva dalla stessa radice , “vedere”, di , “sapere”, così che  è colui che sa in quanto ha visto le gesta umane grandiose che meritavano di essere ricordate. 412 Per la Arendt, lo stretto legame tra natura e storia “non ha affatto il carattere di un‟opposizione”, e risiede nella “immortalità, che la natura possiede senza sforzo […], e che i mortali devono invece sforzarsi di realizzare se vogliono mantenersi all‟altezza del mondo in cui sono nati”, per cui “la storia accoglie nel suo bagaglio di memorie i mortali che con le loro gesta e parole si sono dimostrati degni della natura”,

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H. Arendt, Between Past and Future (1954), tr. it., Milano, 1999, pag. 71. Ivi, pag. 72. Ivi, pag. 74. Ivi, pag. 75. Cit. da H. Arendt, Ivi, pag. 295.

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rimanendo “in compagnia delle cose durevoli, pur essendo mortali”. 413 Ma il criterio della immortalità è necessariamente riferito alla caducità degli eventi umani rispetto a quelli divini. Emancipatosi l‟uomo dalla dipendenza religiosa, ossia dalla rappresentazione mitica della realtà, è venuto a mancare anche il termine di paragone relativo alla differenza rispetto alla in-differenza qualitativa del ciclo naturale, per cui la storia umana per affermare le proprie ragioni doveva umanizzare la natura, rendendola perciò storica, ossia prodotto non-eterno ma significativo in quanto opera della ragione. La stessa trasformabilità della materia ne dimostrava la sua finitezza, mentre la vera immortalità toccava alla ragione, l‟unica in grado di trasformare un inerte e indifferenziato composto di eternità fisica in un prodotto della determinatezza volitiva dell‟uomo. La storia così diventa il luogo delle vicende umane in cui la volontà si eleva sopra la necessità indifferente della natura, ossia sopra lo stesso destino. La storia come il luogo della trasformazione della vita di destino in esistenza ideale è lo spazio della libertà umana dalla necessità della natura, dalla sua indifferenziata indeterminazione. E poiché tale spazio di libertà era ‟ per i Greci quello politico, la storia diventa l‟epopea della libertà umana, segnata dalla trama del lògos eterno. A partire da Tucidide, la storiografia diventa scrittura non meramente narrativa ed espositiva ma significativa e teleologica, perché rappresentativa di avvenimenti collegati in senso logico, fenomenologia. Il  filosofico era una domanda senza risposta, la cui meraviglia consisteva non dalla contemplazione ma dalla necessità di attribuire al prodotto naturale un artefice che si occultava dietro gli eventi appariscenti. Esclusi gli dèi, anch‟essi soggetti alla lotta per l‟affermazione, la natura stessa fu pensata come dotata di un intimo fine, la riproduzione di sé, che è “l‟anima” della vita. 414 Il demiurgo del Timeo stabilisce una  che non persegue semplicemente la tradizione di vita della specie indifferenziata, ma un modello ideale di , prodotto dalla coscienza teleologicamente orientata. La natura può essere eterna ma non grandiosa, perché il suo corso è prevedibilmente lo stesso, ciclico, e non si trascende. Presso i Greci, “la grandezza si

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Ivi, pag. 78. Aristotele, Dell’anima, II, 4, 415a-415b.

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riconosceva subito come una cosa che di per sé aspirava all‟immortalità”, che rivelava un disprezzo “per tutto ciò che si limita ad avvenire e trascorrere”.415 La distinzione tra ciò che indeterminato e quindi caduco, da ciò che è determinato e partecipa del logos razionale è l‟attività stessa del filosofare. I fenomeni naturali, però, pur nella loro ripetitività, esperibile empiricamente e univocamente da tutti gli osservatori, celano il senso profondo di ciò che manifestano, attestando come solo il prodotto umano possa essere veramente conosciuto, secondo la conversione vichiana del verum col factum. Noi sappiamo il “come” di un fenomeno, ma non il “perché”, in quanto non possiamo metterci nella mente di Dio, imperscrutabile. L‟unico ambito veritativo in cui l‟uomo può esercitare la sua facoltà conoscitiva è dunque la storia, la realtà fatta da lui stesso. “Dal XVII secolo in poi ogni indagine scientifica, in materia storica o fisica, ha per oggetto dei procedimenti: ma solo l‟odierna tecnologia […] avrebbe potuto corrispondere in pieno all‟ideale vichiano della conoscenza”, sicché la storia in senso moderno “non narrava più lo svolgersi degli eventi connessi alla vita degli uomini, ma diventava un processo fatto da mano d‟uomo, l‟unico processo a carattere universale che dovesse la propria esistenza all‟esclusiva opera della razza umana”.416 Nondimeno, non bisogna mai perdere di vista che il suddetto “carattere universale” delle trasformazioni tecnologiche, sia pure non realizzate nell‟ambito della civiltà greca per l‟interesse riservato alla destinazione politica dell‟intervento umano, era comunque implicito nel razionalismo filosofico, costituendo l‟universalità il fondamento veritativo del sapere. Che tale universalità potesse essere conseguita nella definizione dei modelli formali di realtà, attraverso le attività teoretiche, era all‟origine, non soltanto della declinazione filosofica della conoscenza della realtà, ma della differenza tra esse e le attività pratiche, sempre limitate nella loro traduzione effettuale di quei modelli ideali. Recentemente però lo sviluppo delle potenzialità umane di intervento sui processi naturali ha ridotto progressivamente tale differenza, per cui “dai primi del Novecento, la tecnologia si è rivelata il punto d‟incontro delle scienze naturali e di quelle storiche”, secondando così perfettamente “le 415

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H. Arendt, Loc. cit., pag. 83. Ivi, pagg. 89 e 90.

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intenzioni più recondite della scienza moderna”, il cui metodo sperimentale si è esteso dalle scienze naturali a quelle sociali.417 Il metodo scientifico, richiedendo la condizionatezza delle procedure della conoscenza, realizza elitticamente anche un potere di controllo sulla realtà quale oggetto di conoscenza, costringendo per quanto possibile le azioni umane entro i parametri della loro verificazione formale. Questo è il senso della razionalizzazione del mondo: il ricondurre l‟esistenza umana universale entro un processo prevedibile di sviluppo regolamentato da quella che M. Weber chiamava “la gabbia della civilizzazione”, che nell‟agire politico greco trova il suo archetipo tipologico. Rispetto ai “manufatti” del tradizionale homo faber, le nuove creazioni umane conseguenti a interventi sulla natura in vasta scala differiscono per l‟incontrollabilità della loro fruizione, non più localmente circoscritta ai bisogni essenziali ma aperta a una molteplice funzionalità strumentale non sempre prevedibile e quindi astratta dalla concretezza dell‟agire umano, che dunque il metodo scientifico non può compiutamente conoscere. Ma questa insuperabile aleatorietà insita in ogni processo universale incide anche sulla credibilità scientifica del sapere filosofico, che trova il suo limite teoretico nella sua stessa pretesa di veridicità, a cui consapevolmente ha rinunciato la metodologia delle scienze accettando la verifica empirica delle loro ipotesi teoriche. Considerata la labilità dell‟azione umana, che non “potrà mai essere eliminata da nessuna direzione meccanizzata delle faccende umane”, solo l‟ipotesi di “un condizionamento totale, cioè la completa abolizione dell‟azione, può riuscire a sconfiggere l‟imprevedibilità”. Ma “anche quel comportamento prevedibile, imposto all‟uomo dal terrore politico durante periodi relativamente lunghi, difficilmente riuscirà a modificare la più profonda essenza delle faccende umane, e non potrà mai assicurarsi il futuro”.418 Ma se ciò è vero, la stessa pretesa universalistica della filosofia deve trovare il suo limite, non solo empirico ma ontologico, nella consapevolezza che la realtà concreta dell‟esistenza umana non può essere conosciuta attraverso il metodo astrattivo del sapere razionalistico, e dunque che lo spazio della libertà

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Ivi, pag. 91. Ivi, pag. 93.

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umana non può identificarsi e ridursi a quello politico del Potere frenante gli effetti del divenire, ossia di quella “pluralità di nuovi esseri umani” di cui parla la Arendt, “autori di azioni e reazioni imprevedibili da quanti vi si trovano prima e sono destinati a partire tra breve”. 419 L‟azione umana, inserita con la sua imprevedibilità all‟interno della natura, ne altera lo sviluppo spontaneo, generando un “processo” anch‟esso imprevedibile, il cui concetto ha sostituito nella storiografia moderna quello antico di “immortalità”, facendo della storia umana un processo storico.420 Il concetto di processo sta alla storia spirituale dell‟uomo come il metodo razionalistico sta al pensiero umano; “sottintende che il concreto si è scisso dal generico, la cosa o l‟evento singolo si sono divisi dal significato universale”, per cui esso solo “rende significante tutto quanto si trova ad abbracciare, acquistando così il monopolio dell‟universalità e della significazione”. 421 Sennonché, tale “monopolio” è implicito nella stessa pretesa di universalità avanzata dal concetto razionale quale condizione della sua validità intesa come “verità”; condizione che si costituisce attraverso l‟inveramento della rappresentazione della realtà offerta dal Mito, rielaborando il quale la filosofia distingue l‟evento di senso razionale dal suo significato concreto, considerando di esso solo il suo contenuto universale, astratto dal suo fondamento di senso eterno, ossia dalla concretezza della sua verità di fede. ed è appunto tale perduta concretezza del pensiero razionalistico che l‟azione pratica cerca di recuperare emancipandosi a sua volta dal metodo del pensiero astratto come atto spontaneo di libertà. Scisso il pensiero dall‟azione, e considerato questo essenzialmente libero, il metodo razionalistico dispiega la sua coerenza logica sempre più come un regno della necessità, analogo a quello della natura. E da qui l‟avvicinamento dei processi storici a quelli naturali; che non è moderno ma è un ricorso naturalistico del pensiero greco. Proprio per la polivalenza metodologica delle “domande” che l‟uomo pone agli eventi, questi non possono avere “un senso in sé e per sé”, originario e univoco, cioè 419

Ivi, pag. 94.

420

Ivi, pag. 95. 421 Ivi, pag. 97.

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metafisico, rispetto al loro significato razionale, in quanto la loro comprensione si è stabilita esattamente sulla esclusione o rimozione di quel presupposto extra-metodico. Esso infatti poteva essere concepito solo come eterno, dal momento che il nesso avvenimenziale tra i fenomeni storici si stabiliva sulla loro consequenzialità temporale che li comprendeva nella scansione finita che andava da un terminus a quo a uno ad quem. E l‟eterno è “sacro” per definizione, e dunque pertinente al divino, non all‟umano. Avendo il metodo filosofico costituito la sua validità scientifica sulla esclusione di ogni originario supporto di sacertà divina, ecco che la stabilità del fondamento assente la si rinvenì nella natura, nella sua onnipresente realtà, a cui si collegò l‟essere del pensiero razionale, secondo il binomio tipico della ontologia greca. Il cristianesimo ristabilì quel fondamento divino, facendo degli eventi umani una storia sigificativa rispetto ad esso, e in tal senso divina.422 La divinizzazione cristiana della storia libera gli eventi umani dalla fatalità naturalistica consegnandoli alla volontà di Dio, che presiede e dirige il corso complessivo delle azioni dei singoli uomini, responsabili di esse. Il senso complessivo degli eveni singlari è nella visione cristiana della storia un senso sacro e spirituale, non razionale. Il cristianesimo ha universalizzato la singolarità di ogni storia personale, liberandola dall‟ancoraggio etnico della teologia ebraica ( ). Fu la tradizione alessandrina che con Filone concepiì l‟unico Dio della tradizione ebraica sancita dal primo Comandamento come il “monarca cosmico” di “tutto il genere umano”,423 facendo della storia dell‟umanità un evento unitario, per quanto frastagliato. Non si può, tuttavia, come fa la Arendt, separare l‟evento storico secolare dal religioso come il profano da quello sacro, 422

“Sebbene le istituzioni umane del passato siano riferite in una narrazione storica, la storia in sé non può essere annoverata tra le istituzioni umane”: Agostino, De doctrina christiana, 2, 28, 44, cit. da H. Arendt, Loc. cit., pag. 99. 423 Ved. E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, tr. it. cit., pagg. 35-36. Sulla concezione teologico-politica di Filone, ved. F. Calabi, Sovranità divina, regalità umana in F. di Alessandria, in P. Bettiolo-G. Filoramo (a cura), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Brescia, 2002, pagg. 63-77.

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attribuendo alla mentalità moderna uno stesso valore sacro agli eventi secolari,424 poiché l‟evento cristico conferisce all‟agire complessivo dell‟uomo come creatura divina un significato spirituale che trascende la stessa distinzione di secolare / religioso, in quanto il cristianesimo è una fede singolare e non una religione sociale o nazionale. E in questa singolarità, non già nella sua secolarità, riposa la considerazione moderna che le azioni di ogni attore storico abbiano un proprio e irripetibile percorso avvenimenziale. 425 Diverso è il caso dell‟accostamento della storia umana a un processo naturale. Infatti già il naturalismo pagano presupponeva l‟eternità come fondale cronologico indeterminato della fenomenologia degli eventi naturali, per cui è vero che “tale duplice infinità, passata e futura, cancellando ogni nozione di principio e fine escatologica, stabilisce l‟uomo in una potenziale immortalità terrena”, 426 ma nel senso che eliminando dalla storia il suo cristiano valore spirituale singolare, la riporta a una sequenza di meri processi fenomenici collettivi di tipo sociologico-naturalistico, aventi tutt‟al più un significato di carattere economico e politico. L‟immortalità degli eroi cantata dagli aedi e da Omero era confermata dalla immortalità del loro connubio divino, laddove l‟immortalità derivata dalle gesta politiche dipendeva dalla resistenza dello spazio politico all‟edacità del tempo, ossia al divenire irreversibile di tutte le cose umane, contro il quale il mondo era stato concepito come realtà alternativa. L‟Essere del lògos non poteva essere lo stesso per la natura e per la storia, poiché quella era impersonale e unitaria mentre questa frammentaria e molteplice. L‟unità della Storia doveva pertanto rinvenirsi in ciò che univa il molteplice, in un senso riposto delle cose umane, che però dipendesse non dalla volontà degli dèi ma dall‟uomo stesso. Ma niente di umano era immortale, non restava dunque che carpire agli dèi o alla natura la loro immortalità. Diventare come dèi ovvero come potenze naturali restava l‟unico modo di emancipare l‟uomo dalla sua finitezza ontologica, completando così la sua

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H. Arendt, Loc. cit., pag. 100. Ivi, pag. 101. Ivi, pag. 102.

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consapevole imperfezione antropologica. La maniera greca, precristiana, e quella moderna, post-cristiana, di trascendere la finitezza umana consiste nella “secolarizzazione” della vita pubblica attraverso la “separazione della religione dalla politica”,427 ossia della Potenza dalla Verità, conseguente alla emancipazione del logos filosofico dai suoi fondamenti mitici. In termini politici, tale fenomeno si è manifestato come separazione del Potere degli uomini dal Governo di Dio. 428 “Il problema politico riacquistava così nell‟esistenza umana quell‟importanza decisiva perduta con il tramonto della civiltà classica”.429 La questione moderna non era più dunque quella di stabilire la tipologia del regime politico conforme alla  di Dio, quanto di definire il “sistema di valutazione” per porre i fondamenti secolaristici della sovranità, e quindi del criterio dell‟affidamento sociale del Potere. La creazione greca di uno spazio politico autonomo dalla costituzione tradizionale della società, aveva ridefinito i ruoli sociali secondo criteri razionali di funzionalità etica e non di prestigio morale. La politica si pose nei confronti dei tradizionali rapporti sociali come il pensiero filosofico di fronte alla tradizione religiosa. Ma la possibilità di costituire uno spazio relazionale alternativo a quello sociale quotidiano era condizionata dall‟affermazione di una funzione razionale dei ruoli politici esclusivamente circoscritta al bene comune. E ciò comportava il riconoscimento comune della superiorità della funzione pubblica e politica su quella privata ed economica di tipo appunto sociale. Allorquando si distingue l‟ascendenza sociale dal merito politico, si gettano le basi della costituzione dello Stato inteso come ideale realtà

427

Ivi, pag. 104.

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“Gli scrittori politici del XVII secolo realizzarono la secolarizzazione scindendo la filosofia politica dalla teologia, e sottintendendo come le leggi naturali fornissero un fondamento alla politica indipendentemente dall‟esistenza di Dio. […] Non si negava con ciò l‟esistenza di Dio: si scopriva un senso immanente, indipendente del regno secolare, che non poteva essere alterato neppure da Dio”: H. Arendt, Loc. cit., pag. 105. Ma esattamente questo assunto naturalistico costituiva la credenza ontologica pagana dei Greci, che viene ristabilita in età moderna alla dissoluzione della cosmo-teologia cristiana. 429 Ivi, pag. 106.

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politicamente autonoma. Lo Stato realizza dunque l‟ideale condizione umana altra da quella tradizionale legata alla realtà sociale. Il carattere pubblico del ruolo politico differisce da quello sociale privato dalla circostanza decisiva che il ruolo privato è trasmissibile ed ereditabile, laddove quello politico è unico e intrasmissibile. Da qui la ritrosia dei costituzionalisti greci verso i reggimenti monarchici, che riflettevano gerarchicamente la struttura sociale del governo privato dell‟oikos. Mentre l‟attività economica tendeva a conservare il più possibile il patrimonio privato, l‟attività politica ricercava la “immortalità” pubblica, quella “gloria” degna di memoria ricordata dai monumenti ed eternata dagli storici. Ma l‟aristotelico  presuppone la mortalità dell‟uomo e la caducità delle opere umane, quelle politiche comprese. L‟umanesimo moderno riporta l‟uomo spirituale della tradizione cristiana entro lo spazio naturale della socialità politica, nel cui ambito culturale acquistano significato le sue opere finalizzate al consensus gentium. Con la constatazione della natura peritura degli stessi stati, lo scenario dell‟azione umana che aspirasse all‟immortalità terrena diviene la Storia dell‟uomo quale essere naturale, ossia l‟esperienza dell‟umanità. La Storia diventa così per gli uomini “ciò che la specie è per gli animali e le piante”.431 Il legame tra storia e politica si stabilisce a partire dalla determinazione stessa del tempo storico, il quale attende, come la nottola di Minerva, che gli eventi umani giungano a compimento prima di levarsi in volo a comprenderli. E poiché l‟avvenimenzialità entro l‟orizzonte politico riguarda l‟agire umano a partire dalla condizione naturale, ossia in senso trasformativo dello status quo ante della condizione sociale, e quindi il futuro, la storia diventa lo scenario dei processi umani in divenire, che il loro resoconto acquisisce quando già sono diventati passato. La dipendenza del passato dal futuro conferisce alla Storia un carattere contraddittorio, ma soprattutto paradossale, in quanto nello stesso tempo in cui afferma la dipendenza del presente dal passato, esalta il futuro insito nella tensione verso la libertà dal (le costrizioni del) passato. Da qui la propensione della filosofia politica 430

Aristotele, Etica nicomachea, 1177 b-31. Cfr. H. Arendt, Loc. cit., pagg. 106 sgg. 431

J.G. Droysen, Historik (1882), cit. da H. Arendt, Loc. cit., pag. 111.

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moderna, a partire da Hobbes, a costituirsi come una teleologia razionale funzionale agli scopi del Potere (Herrschaft), di cui la memoria storica diventa l‟archivio magistrale. 432 E di qui, di conseguenza, la propensione storicistica a porsi nella prospettiva del passato per leggere il presente come il futuro di quel passato. Dalla congerie degli eventi passati, lo storico ricerca quelli che lo conducono al presente che gli interessa, il quale presente, essendogli noto, non ha la caratteristica di ogni vero futuro, ossia di essere “misterioso”, né, avendo ancoraggio attuale, la caratteristica del vero passato, di essere appunto “passato”, per cui il tempo della storia è un “eterno presente” della memoria, in cui lo storico sospende le vicende evocate. Questo eterno presente storico è l‟Essere del pensiero filosofico, eternamente immobile nella sua attualità. Ed è nella storiografia che si opera la trasfigurazione memoriale ( ) della realtà effettuale dell‟uomo () degna di perpetua gloria in racconto ideale. Rispetto alla narrazione mitica dell‟epica omerica, quella storiografica ha per oggetto l‟ente veramente reale () del pensiero razionale (), e non l‟immagine poetica semplicemente creduta reale per fede negli dèi. E pertanto lo storico ( ) prende il posto di Zeus come garante della verità di ciò che è narrato, facendo della sua ricerca storica ( ) la depositaria del significato del vissuto umano, che per Erodoto come per Aristotele era la causa originaria () da cui procedevano gli eventi fenomenici narrati. In tal senso, l‟origine significativa di un evento storico in senso classico era posta in un factum passato e compiuto, che diventava esemplare, e non, in senso moderno, nel fine di una realtà condenda, per cui la Storia appare un infinito processo di libertà soltanto perché si rappresenta come “una interminabile catena di scopi che nel suo continuo progredire cancella il significato di tutte le precedenti conquiste, proponendo obiettivi e intenzioni future” che pur richiederebbero un compimento.433 Solo i facta possono farsi, per cui il loro significato è relativo ai rispettivi modelli strutturali entro i quali ha senso l‟agire che li pone in essere. Fuori di quell‟ambito strutturale, 432

433

Th. Hobbes, Leviathan, I, 3. Ved. H. Arendt, Loc. cit., pag. 112. H. Arendt, Loc. cit., pag. 115.

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viene a perdersi anche il loro significato, che è universale, ma all‟interno della sostenibilità razionale delle deduzioni procedenti da determinati assiomi ipotetici, per cui “l‟assioma dal quale parte la deduzione non deve di necessità essere (come sostenevano logica e metafisica tradizionali) una verità di per sé evidente; non deve minimamente tener conto dei fatti dati dal mondo oggettivo nel momento in cui l‟azione ha inizio; se sarà logico, il processo dell‟azione creerà un mondo nel quale il postulato di partenza diventa assiomatico e per sé evidente”.434 Se dunque ogni modello strutturale può comprendere quei fatti che lo confermano e da cui traggono il relativo significato, avanzando la stessa legittima pretesa di razionalità di ogni altro, i significati dotati di senso non contestuale, dal quale contesto non dipenda la stessa ragionevolezza della loro memoria, 435 e dunque assolutamente veri, possono “soltanto manifestarsi o svelarsi”. 436 Che il luogo dello svelamento fosse la Storia, ha costituito la credenza mitica di intere generazioni, che nella coscienza collettiva credettero ritrovare in scala esponenziale quei valori eterni perduti dalla disincantata coscienza individuale. La progressiva scansione temporale impedisce, d‟altro canto, alla Storia di rappresentare a parte subjecti l‟infinito processo in divenire dell‟umanità, ma non di costituire lo scenario fenomenologico dell‟eterno, custodito dalle eponime vicende singolari dell‟uomo universale, produttore di opere spirituali, che hanno la fattualità dei prodotti materiali e il significato delle azioni immortali. Da qui la necessità di una filosofia della storia spiritualistica che abbandonasse ogni residuo naturalistico dell‟uomo come animal rationale e si concentrasse sui suoi prodotti spirituali, essi solo eterni, trascendenti la stessa origine empirica dell‟attore materiale, la cui caducità fisica lo rende, a cospetto dei suoi atti immortali, quasi irrilevante. Ma anche la trascrizione trascendentale della cristiana personalità spirituale dell‟uomo, conservando l‟idea platonica di un rispecchiamento delle

434

Ivi, pagg. 124 e 126.

435

“La memoria […] perde ogni potere se avulsa da un contesto prestabilito”: Ivi, pag. 28. 436 Ivi, pag. 118.

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molteplici azioni umane nei loro unitari modelli ideali, partecipa della antica ontologia pagana, avendo eliminato dallo scenario storico la figura essenziale dell‟uomo quale totalità singolare, simile a Dio proprio in virtù di tale singolare totalità, la cui essenza divina, se accomuna le distinte singolarità empiriche, non è da esse disgiungibile e astrattamente rappresentabile alla maniera idealistica. Esattamente questa duplice fisionomia, spiritualmente trascendente e storicamente singolare, fa della empirica vicenda umana la dstinta articolazione temporale della vicenda paradigmatica del Cristo, a un tempo eterno e singolare, persona concretamente storica e non surrogabile con il concetto di umanità. Proprio l‟impersonalità dell‟astratta rappresentazione dell‟uomo-cittadino ha consentito la teoria di modelli politici performativi, invasivi degli spazi sociali, che non tengono conto della “realtà oggettiva” che costituisce lo scenario naturale che l‟intervento razionalizzatore è tenuto a trasformare secondo modello. Esattamente, cioè, la definizione dello spazio pubblico come dimensione della politeia ha consentito quella esercitazione del Potere che, in nome dei suoi fondamenti razionali indipendenti da ogni pregressa verità condivisa (dòxa), ha legittimato eticamente il proprio ruolo attraverso la realizzazione dei suoi fini immanenti, coerenti con il postulato fondamentale della sussistenza, ossia, in pratica, con la conservazione dello Stato quale spazio politico razionalizzato, uno habeas corpus istituzionale che non è altro che la proiezione ideale di quello del soggetto politico individuale, il cittadino appunto. Rispetto all‟esercizio di arte politica del Potere, la relazionalità politica in sé come attività persuasiva ( ) non è altro che una variante pubblica della tecnica dialogica del filosofare esteso in senso essoterico, che fa della filosofia la logica che sottende i rapporti politici universali e quindi i processi storici. I limiti di questa visione retorica delle relazioni pubbliche, che fa della politica una attività basata sulla discussione, e quindi sulla tecnica affabulatoria, è di destoricizzare una rappresentazione del mondo tipica della civiltà orale della Grecia arcaica, quando ancora mancava una relazionalità fondata sulla scrittura o altri mezzi di comunicazione del pensiero. Gli stessi riti contemporanei della relazionalità politica, a partire dalla legislazione per finire ai rapporti diplomatici, assumono come un dato antropologico l‟aristotelico  inteso come facoltà dell‟oralità, che necessita della piazza politica, agorà o parlamento che sia, come del suo luogo di

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teatralizzazione.437 Si comprende facilmente come tale rappresentazione orale del politicare, parallelo a quella del filosofare, eleggendo il dialogo come fondamento stesso della , fa di esso una condizione di statu nascendi che rimuove la questione del Governo, che la prassi politica intende come il factum decisionale del Potere pervenuto alla sua unità etico-razionale, ma che in realtà è eminentemente extra-politico, perché consegnato a una fattuale compiutezza che che esula dalla possibilità in-definita in cui si muove il discorso, de-terminandolo come evento implicante la responsabilità della scelta definitoria in cui si conchiude, con la sua indeterminatezza, anche la sua libertà, inerente alla decisione della sfera morale. Con la decisione morale, ossia con l‟atto di Governo, si realizza il passaggio dalla libertà alla responsabilità, consistente nella volontà di interrompere il processo in fieri del pensiero per stabilirlo in senso normativamente determinativo: come terminus ad quem, in riferimento alla sua attuale determinazione finale, e come terminus a quo rispetto al suo valore deontologicamente normativo. Ed è nell‟atto decisorio, della de-cisione morale, che si assume la responsabilità (l‟abilità di ponderare [il significato de] le cose) di far corrispondere alla realtà ideale la realtà pratica. In questo senso l‟atto di Governo, che assume il senso di valore comune, non è la semplice determinazione finale di un procedimento dialettico e formale, ma è un atto tragico, in cui si fronteggiano il Bene e l‟opportuno, e per la cui giustezza si richiede l‟assistenza divina. Se infatti la colpevolezza può essere dimostrata attraverso una concatenazione causale di eventi, l‟innocenza invece, non è dimostrabile, e la sua credibilità richiede un atto di fede nella giustizia, che si rivolge sempre al caso concreto, riguardato con partecipazione compassionevole,438 e perciò non universalizzabile. Assumere invece l‟atto di Governo come la mera conclusione di un processo formale, equivale a considerare lo stesso ragionamento logico, anziché un atto contemplativo del “vedere”, un lavoro tecnico regolativo delle azioni politiche, dall‟esito reale necessario prefigurato nel modello ideale in cui si rispecchia la realtà. Sulla base di questa configurazione polare dell‟Essere idealistico, Hegel poté riconfermare, dopo la scissione 437 438

Ved. l‟introd. di A. Dal Lago all‟ed. it. cit. di Passato e futuro, pagg. 16-17. Ved. H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pag. 92.

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metafisica di Cartesio, “l‟identità ontologica della materia con l‟idea”, sulla quale Marx fondò la sua concezione del movimento dialettico come legge universale.439 Se dunque ogni petizione politica riflette l‟istanza razionalizzata dei suoi patrocinatori, essendo coerente al suo fondamento assiologico, essa è etica in quanto razionale rispetto al suo fine particolare, e quindi metodo-logicamente universale, ma non perciò di contenuto valoriale comune a tutte le altre petizioni particolari, ognuna portatrice di una sua razionale giustificazione assiomatica, e dunque parimenti etica rispetto al suo assunto di base, che è l‟interesse di parte. Che questo costituisca, in quanto razionale, e metodologicamente universale, anche un valore comune entro lo spazio politico, è una petitio principii che costituisce l‟atto di fede che legittima la fictio juris della rappresentanza dei sistemi democratici, ma non è di per sé una verità incontrovertibile sulla quale stabilire il fondamento preferenziale del criterio politico come il migliore reggimento di Governo. La natura sociale e quindi pre-politica e originaria del Governo può essere razionalmente negata solo facendo dell‟attività politica stessa l‟antitesi della condizione sociale, ossia costituendo la prassi politica come un processo anti-sociale, alternativo e non difensivo degli assetti sociali. In questo senso, la polis ideale oggetto della filosofia politica, costituisce uno spazio virtuale razionalmente alternativo a quello concretamente esistenziale, e costituito da rapporti che non sono reali nel senso della concretezza ma solo nel senso della loro pensabilità ideale. In questo processo di trasformazione della vita comunitaria, basata su rapporti sociali, in vita politica basata su rapporti formali, consiste l‟aspetto rivoluzionario e utopico di ogni modello strutturale di Stato etico, la cui operatività razionale si esplica attraverso la neutralizzazione di ogni forma di Governo morale a opera del Potere politico surrogatorio. Non a caso la politeia fu sin dall‟origine concepita come alternativa alla conduzione economica della comunità domestica, strutturata per durare nella sua realtà naturale e dunque eterna, e non per conformarsi a un modello ideale. Dalla originaria unità comunitaria di famiglie (Gemeinschaft),

439

H. Arendt, Passato e futuro, tr. it. cit., pag. 67.

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legate funzionalmente alla , si pervenne alla società politica (Gesellschaft), al legame di scopo razionale in vista dell‟, alla filosofica liberazione (futura) dai vincoli di necessità della imperfetta condizione di natura (passata) per vivere finalmente sicut dii. L‟endiadi antropologica aristotelica di e di si costituisce, in questa prospettiva, come la dialettica stessa dell‟esistenza umana, sospesa tra la immanente socialità politica e l‟orizzonte trascendente della parola mitica, alla ricerca perciò di un equilibrio informato alla razionalizzazione sia della rappresentazione religiosa del mondo, che dell‟esistenza mondana come , attraverso una sintesi dei due elementi dialettici in termini di “agire comunicativo” interno all‟orizzonte di senso politico. Il limite insuperabile della dimensione del politico, che rende quell‟orizzonte intrascendibile anche se universale, non risiede nella finitezza, che costituisce tutte le opere umane concepite nel tempo, ma nella intrinseca antinomicità della sfera politica in quanto espressione della dialettica del Logos. E‟ propriamente la rielaborazione in termini razionalistici del Mito a costituire la rappresentazione dialettica dell‟Essere, e dunque la sua proiezione esistenziale in termini oppositivi di amico/nemico, tipici del rapporto politico. Razionalizzazione o universalismo, e politicizzazione o democratismo sono intrinsecamente congiunti al polemos del logos, e dunque alla tensione verso la dissoluzione della storia del mondo umano attraverso la ingiusta risoluzione dell‟un termine dialettico nell‟altro o totalitarismo. Ciò comporta che la stessa “pace” cui tende la razionale , intesa come soluzione del conflitto tra posizioni antitetiche, consista nella risoluzione dell‟un termine nell‟altro, ossia appunto nella “dissoluzione”, a impedire la quale ciascun termine antinomico opera come katechon. Di fronte a questa situazione polemica, la pacificazione contrattuale o quella del terrore leviathanico, non durano, perché non eliminano le ragioni del dissidio, ma solo le rimuovono lasciandole latenti nei rapporti tra le parti. Tali ragioni polemiche sono dovute allo strumento usato dalle parti per stabilire le loro relazioni, quello razionale, il cui dispiegamento sistematico produce un metodo essenzialmente divisivo, stabilito su antitesi ideali reciprocamente esclusive. Ogni volontà di addivenire a un accordo col nemico trasformandolo in amico, ma conservando lo stesso metodo razionale di rapporto tra le parti, cioè la , produrrà ogni volta un‟altra

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antitesi, affermativa della sussistenza della tesi, per cui lo sfondo delle relazioni tra le arti resterà comunque polemico, confermando l‟intrascendibilità dell‟orizzonte politico, incentrato sul principio della sovranità, espressione razionalistica in termini di Potere dell‟autorità di Governo morale tradizionale, la cui depositaria era la divinità narrata dal Mito, anziché la costituzione depositaria dell‟immanente diritto (= Potere degli uomini = nomos della legge), ma non della trascendente Giustizia (= Governo divino = “giustizia del cuore”: Rom., X, 10).440 In questa rielaborazione, o se vogliamo in questo “superamento”, del Mito da parte del discorso logico si predispone il dominio de (la ragione esclusiva del) politico sul (sentimento inclusivo del) religioso, nei due tempi della secolarizzazione, ossia della distinzione del sapere sacro dal sapere profano, e quindi dell‟auto-nomia del sapere profano come scienza delle essenze ideali e metafisiche, e della razionalizzazione dell‟intero orizzonte del mondo della vita attraverso l‟affermazione universale dell‟ente economico (capitalismo) e politico (democrazia) come l‟unico Essere reale oggetto di conoscenza razionale, la cui destinazione tecnica si trasferisce funzionalmente al suo relativo concetto come ideale di libertà secolarizzata.441 Come ha detto J. Taubes a proposito della filosofia della storia di W. Benjamin, “ciò che esteriormente si compie come un processo di secolarizzazione, di desacralizzazione e de-divinizzazione della vita pubblica e si comprende come graduale processo di neutralizzazione, fino ad arrivare alla „libertà dal valore‟ della scienza come indice per la forma di vita tecnico-industriale, ha anche un volto interno, che testimonia della

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Questo aspetto di insuperabile ingiustizia connaturato a ogni pace politica, e dunque a ogni soluzione di diritto, doveva spingere gli spiriti giusti di ogni epoca a ricercare una pace vera in un ambito superire a quello dell‟ordine giuridico e trascendente la socialità politica, nel quale potessero infine trovare un sollievo al caos mondano ben diverso da quello incerto del katéchon legale. Tale ambito superiore, considerate le premesse istituzionali, non poteva essere né il cattolicesimo della Chiesa né l‟assolutismo dello Stato, per quanto idealizzati, per cui ogni vera grande anima, “bella” in quanto aspirante all‟infinita realtà di Dio, ha sempre anelato intimamente al congedo dal mondo storico come all‟unica pace spirituale veramente eterna, cercando rifugio in un eremo poetico e mistico. 441 H. Arendt, Loc. cit., pagg. 142 sgg.

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libertà dei figli di Dio in senso paolino, ed è quindi espressione di una Riforma che sta giungendo a compimento”.442 Questo lungo processo immanentistico è venuto a maturazione con l‟umanesimo e col rinascimento e si è perfezionato, attraverso l‟illuminismo e il positivismo, con l‟ideologismo totalitario, ma esso era insito nelle stesse forme razionalistiche di pensiero filosofico. Il Leit-motiv di tale processo è stato la lotta contro ogni forma sociale di autorità tradizionale, considerata mitica, fondata sui rapporti gerarchici tra gli uomini. Il razionalismo, proponendosi di fondare la conoscenza sui soli principi della ragione, è intimamente anti-tradizionalista, considerando i fondamenti ereditati della conoscenza comune come pre-giudizi, opinioni non suffragate da alcuna dimostrazione logica. Tale presa di posizione ideo-logica è all‟origine della costituzione greca dello spazio politico come luogo dell‟esercizio del logos inerente alla sfera pubblica, e il legame stretto che il razionalismo stabilisce con la politica rimarrà una costante in ogni forma di critica alla autorità della tradizione, che è la modalità caratteristica di ogni proposito intellettuale di rinnovamento culturale e sociale del proprio tempo. Ma solo a partire dall‟età democratica, inaugurata dalla Rivoluzione francese, l‟ideologia razionalistica si è andata affermando come il sistema di valutazione di miglior valore delle classi dirigenti degli Stati e delle società contemporanei, realizzando quella perfetta aderenza del piano strutturale con quello sovra-strutturale preconizzata da Marx come “regno della libertà”, la cui costante organizzazione tesa a salvaguardarlo costituiva anche per Lord Acton, “il fatto caratteristico della storia moderna”.443 D‟altro canto, la “perdita della tradizione non implica affatto una perdita del passato, poiché tradizione e passato non sono la stessa cosa”, essendo la tradizione “la catena che vincolava ogni generazione successiva a un determinato aspetto del passato”, la “memoria” di esso, senza la quale “l‟intera dimensione del passato risulta compromessa” in quanto priva della “profondità nell‟esistenza umana”, che “l‟uomo può raggiungere soltanto attraverso la

442

J. Taubes, Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione, cit., pag. 39.

443

Lord Acton, Essays on Freedom and Power (1955), cit. da H. Arendt, Loc. cit., pag. 136.

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memoria”.444 Anche nel campo religioso, invaso dal dubbio metodico, le verità della fede tradizionale sono state scosse dal paradosso e dall‟assurdo, anche se, va detto, “il rifiuto dei dogmi della religione istituzionale non implica necessariamente una perdita, e neppure una crisi, della fede, poiché religione e fede, o fede e convinzione religiosa,

444

H. Arendt, Loc. cit., pag. 133. In realtà, la memoria del passato, come rappresentazione di ciò che è già stato, trova la sua giustificazione storica nella considerazione del presente solo in quanto latrice e confermativa di una autorità pregressa e tramandabile che funga da fondamento normativo del pensiero e dell‟azione anche degli attori contemporanei, attraverso il cui ossequio e perpetuazione essa viene nobilitata in senso dell‟attualità come mimesis del passato. Fuori di questa valenza normativa e mimetica, la memoria diventa la traccia di percorso di una rappresentazione della realtà spirituale che trascende simbolicamente la realtà pubblica del mondo fenomenico, oggetto della considerazione politica, per attingere a un ordine avvenimenziale legato al paradigma soteriologico meta-fisico, di cui la memoria come dèxis è la traccia assiologica. Ciò che Hegel notava dell‟arte simbolica, uno squilibrio tra il ridotto contenuto e la forma esuberante, che verrà confermato nell‟arte romatica questa volta a favore del contenuto, è in realtà il rapporto costante che sussiste tra l‟inclusivo orizzonte di senso religioso e ogni sua determinazione concettuale o sensibile, inevitabilmente riduttiva. Solo l‟arte greca, razionalistica, ha potuto concepire una perfetta corrispondenza tra contenuto e forma estetica, che era già supposta tra il Logos e l‟Essere. Ma proprio la incompiutezza dell‟arte fa di questa una rappresentazione aperta alla totalità che consente quella libertà espressiva e semiotica che il concettualismo scientifico tende a convertire in una unità di senso esclusiva di ogni alterità semantica, il cui presupposto razionalistico è di emancipare il pensiero dall‟inclusivo orizzonte mitico originario. Ciò che distingue l‟arte dal pensiero scientifico è dunque la diversa rappresentazione della realt à, che nell‟arte rimane simbolicamente aperta al trascendimento della forma nel senso della totalità, inclusiva del negativo, laddove l‟espressione razionalistica tende invece a contenerla nella forma concettuale, che è determinazione del solo essere positivo, che è l‟essere dell‟ente. Proprio perché l‟arte esclude che l‟Essere dell‟ente sia il Tutto, essa è la rappresentazione della possibilità dell‟ente a nonessere l‟Essere del pensiero determinato ma altro, e dunque a costituirsi come traccia simbolica della libertà verso il Tutto, che è sempre in-determinato. Non a caso l‟arte romantica è profondamente religiosa e intimamente cristiana.

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non sono affatto identificabili”. La convinzione è infatti affine al dubbio e quindi a questo esposta. Aver perduto l‟autorità equivale per l‟uomo a fare a meno di quella “pietra angolare [che] ha reso il mondo durevole e permanente”, ossia ad “aver perduto le fondamenta del mondo”, la sua “solidità”, rendendolo “un universo proteiforme, dove in ogni momento tutto può trasformarsi in qualunque altra cosa”. 445 L‟autorità, in materia di Governo, è legata intimamente tanto alla libertà che alla legittimità, perdendo le quali l‟autorità si trasforma in tirannide.446 “Nel regime autoritario”, come giustamente ricorda la Arendt, “la fonte dell‟autorità è sempre una forza esterna e superiore al potere di questa”, che “trascende il campo politico” limitandone il potere, e dalla quale “le autorità derivano la loro „autorità‟, cioè la loro legittimità”.447 Il totalitarismo, in quanto “è la conseguenza della perdita di tutte le autorità tradizionalmente riconosciute”, si coniuga con la tirannide, ma appunto perciò, “pur non identificandosi direttamente con la democrazia, ne appare il risultato inevitabile”. 448 Infatti, anche dal punto di vista strutturale, il regime autoritario è stabilito su fondamenta gerarchiche ed è quindi intrinsecamente “la forma di governo meno egualitaria, che incorpora l‟ineguaglianza e la distinzione come principi informatori dell‟intero sistema”, laddove il regime tirannico è da sempre compreso “tra i regimi egualitari”, essendo tutti i sudditi “isolati, disgregati e perfettamente uguali,” cioè “ugualmente impotenti”, di fronte al potere tirannico, per la sua totale distruzione dei corpi sociali intermedi.449 Sia il liberalismo, che “misura il declino della libertà”, che il conservatorismo, che “misura quello dell‟autorità”, sono entrambi concordi nel prevedere “come risultato finale il totalitarismo”, quale esito inevitabile di entrambi i processi. Nondimeno, le due posizioni, quella liberale e quella conservatrice, “costituiscono le due facce di una sola medaglia, così come le loro due ideologie, corrispondono alle due possibili direzioni del processo storico”, postulato dalla loro filosofia

445 446

447 448 449

Ivi, pag. 134. Ivi, pag. 136. Ivi, pag. 137. Ivi, pag. 138. Ivi, pag. 139.

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della storia tardo-moderna, avente “una direzione definibile e una fine prevedibile”. Entrambe le ideologie storico-processualistiche attestano della loro incapacità di tracciare le necessarie distinzioni teoriche tradizionali, che costituivano il senso della analisi politica dei secoli passati, oggi perduto nella attuale “realtà politico-pubblica”,450 in quanto i loro giudizi critici si concentrano sulle funzioni dei fenomeni socio-politici ed economici, surrogabili e pertanto sempre labili storicamente, anziché sui loro contenuti ideali, che sono storici in quanto riconducibili al loro contesto genetico.451 In riferimento all‟autorità, il relativo concetto di governo è di origine romana, e non greca, e “comporta un‟obbedienza nella quale gli uomini rimangono liberi” da coercizioni esterne e da incombenze domestiche.452 L‟obbedienza che garantiva la libertà era per Platone quella “esercitata dalla ragione attraverso il filosofare”, in quanto discende non dalle persone ma dalle idee, intese quindi come criterio o “unità di misura del comportamento umano in quanto trascendono la sfera delle cose umane, nello stesso modo in cui un metro trascende ed è estraneo a tutte le cose delle quali può misurare la lunghezza”. 453 Esse costituiscono un modello formale utile all‟azione “proprio in quanto trascende il processo di realizzazione, pur essendone la guida”, e perciò in grado di “costituire il criterio di giudizio per misurarne la riuscita o il fallimento”. Un criterio “del comportamento e del giudizio politico e morale” tanto idealmente assoluto ed eterno quanto politicamente funzionale alla costruzione della vita pratica.454 Come abbiamo altre volte chiarito, proprio l‟esigenza edificatoria dei principi ideali in senso generale fa di questi dei modelli funzionali al Potere politico, e quindi inclusivi di “un elemento di violenza” che è “inevitabilmente insito in ogni processo di fabbricazione e produzione”, che nel caso dei rapporti umani si avvicina al rapporto naturale che l‟uomo ha con le cose e si distingue da attività come “l‟agire e il parlare, i cui oggetti primari sono

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Ivi, pagg. 141-142. Ivi, pag. 145. Ivi, pag. 147. Ivi, pag. 152. Ivi, pag. 153.

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altri esseri umani”.455 La fase edificatoria della filosofia politica segna il passaggio dalla contemplazione del Bello come realtà trascendente la finitezza della condizione umana, alla realizzazione del Bene come valore comune di natura sociale. Ed è altresì in questa transizione che nasce il rapporto problematico tra il Potere politico () e il Governo morale (). Se infatti la sfera del giudizio politico presuppone una autorità giudicante, o di ultimo appello, essa non può essere omogenea al criterio in base al quale si conforma l‟oggetto politico, ossia al modello valoriale interno alla struttura ideo-logica, poiché tale modello si costituisce come la proiezione ideale dell‟ente di ragione nato dalla voluntas operandi dell‟attore, per cui la coerenza interna al giudizio di conformità può stabilire la corrispondenza tra astratto modello ideale e concreto prodotto realizzato, ma nulla può dire circa il senso della destinazione dell‟opera in quanto tale, ossia il suo rapporto con ciò che la precede e da cui sorge e da ciò che la segue e a cui è destinata. Senza tale relazione, infatti, qualunque prodotto può essere giudicato valido secondo il suo valore efficace, cioè lo scopo strumentale, ma non secondo la sua destinazione finale, per cui la rimozione di ogni criterio teleologico rende ogni prodotto funzionale a se stesso e quindi uguale a ogni altro. E poiché ciò che è funzionale a se stesso ha per unico scopo la propria sussistenza, ogni ente di ragione finisce per confondersi con un qualunque ente mondano, stabilendosi pertanto tra gli enti una sola possibile reciproca alterità, quella estetica. Conseguenza politica di tale autoreferenzialità ideologica è che l‟autorità venga intesa, all‟interno della  strutturale come necessità funzionale all‟ordine sistemico, e all‟esterno come dispositivo di potere nel senso di Foucault. Il criterio esterno, sovraordinato al sistema come una Grundnorm, deve essergli pre-esistente, e come tale indipendente. Rispetto all‟ordine politico, soltanto quello sociale è pre-esistente, e fondato sull‟ordine divino. La critica filosofica alla religione e quella politica all‟ordine sociale minano i fondamenti di legittimazione dei rispettivi atti di pensiero, operando esplicitamente o surrettiziamente contro l‟ordine stabilito (ordo conditus) in nome di un altro ordine, da stabilire. Ed è la pretesa di un ordo condendo a costituire la posizione del filosofo e del

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Ivi, pag. 155.

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politico come oggettivamente rivoluzionaria rispetto alla tradizione e al tradizionale principio di autorità, fondato su statuizione eterne di ordine morale-religioso. Una autorità che è legittimata da questa tradizionale concezione religiosa dell‟ordine sociale è appunto quella del Governo (), laddove l‟ordine politico che la filosofia vuole fondare è stabilito sul Potere ( ).456

456

Va precisato che l‟  cui aspira e allude il Potere politico è un initium (l‟Enstehung nietzscheiano, l‟Anfang arendtiano) contingente ( ), un evento, cioè, non originario (Ursprung, Beginn) che irrompe sulla scena avvenimenziale come prodotto umano, la cui necessità è legata alla sua fattualità storica. Ed è la sua condizione di factum a stabilirlo come criterio ( Prinzip) di un processo politico. In questo senso, la “liberazione” rivoluzionaria dall‟auctoritas tradizionale costituisce il momento negativo, destruens e dunque violento, della costituzione dello spazio politico come luogo della libertà, che è la pars costruens del processo rivoluzionario, a partire dal quale si stabilisce l‟inizio del Governo politico, che pertanto con-tiene sia il segno della violenza istitutiva che quello dell‟ordine costituito. L‟atto decisorio del Governo politico è un potere che proviene dalla sua libertà, intesa come sovranità (potestas) anziché come atto di giustizia arbitrale e di responsabilità morale di una auctoritas che “arresti il potere” in considerazione che “la vertu meme a besoin de limites” (Montesquieu, Esprit des Lois, XI, 4). La doppia fonte di potestas politica (pouvoir constituant) e di legittimità democratica (pouvoir constitué) furono le premesse del Potere totalitario secolarizzato, in cui i rappresentanti della volontà generale governano per tutti contro ognuno. Quando la Arendt afferma che “il potere e la violenza sono opposti; dove l‟una governa in modo assoluto, l‟altro è assente” (On Violence (1970), cit. da R. Esposito, L’origine della politica. Hanna Arendt o Simon Weil, Roma, 1996, pag. 44), in realtà si riferisce al Governo, che è “assoluto” da ogni determinazione politica, mentre il Potere in funzione di governo, essendo esercizio della forza politica esclusiva delle forze minori, contiene sempre in sé l‟elemento originario della violenza che l‟ha istituito e “l‟accompagna lungo l‟arco di tutta la sua estensione” (Ivi, pag. 45). La stessa distinzione tra una fase di “liberazione” e una successiva di “libertà”, conferma la natura contingente ed eventuale dell‟ordine politico come “costituzione della libertà” (constitutio libertatis), ossia di un Governo costituzionale, non più dunque, come per tradizione, monarchico e legato a un ruolo di istituto etico-sociale, ma organo politico di natura giuridica e di forma repubblicana. (Ved. H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pagg. 156-157 e 160-173; Id., The Life of the Mind (1971-1975), tr. it., Bologna, 1987, pagg. 459 sgg. e le sintetiche pagine dedicate all‟argomento da R. Esposito, Op. cit. ,pagg. 25-33, 3542).Tra le due fasi del processo rivoluzionario, il collegamento che rende possibile il passaggio alla seconda è la credenza nel fondamento autoritativo dello stesso atto

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La differenza stabilita da Aristotele tra  e  , verteva non tanto sulla attività economica del primo e su quella pubblica del secondo, quanto sulla diversa legittimazione che la sfera politica, razionale, vantava rispetto a quella sociale, religiosa. Rispetto alla credenza sociale ( ), la cui forza era di essere condivisa e quindi comune, la convinzione filosofica era soggettiva e individuale, ma non opinabile, cioè non controvertibile, e legata alla natura elettiva del filosofo, la coscienza () del quale si emancipa dalla vita umbratile della caverna allontananandosi appunto dalle credenze comuni ma non vere. Allorquando la dimensione della  ha coinvolto a partire da Socrate la dimensione politica, l‟antropologia filosofica ha preteso con Aristotele di includere nella definizione di uomo anche la sua natura di essere  . In quanto essere di pensiero, il metafisico si occupava della verità. Solo in quanto pensatore sociale il filosofo prese a occuparsi dei modelli ideali della vita ( ) razionale (), per definizione politica. Il valore teoretico delle Idee era riposto non nella loro verità metafisica, che poteva variare da cultura a cultura e da popolo a popolo, ma nella loro universalità antropologica congiunta inseparabilmente alla condizione politica, precipuamente greca. Il sapere metafisico era considerato universale in quanto destinato a tutti i cittadini (omnes,  ), e non a fazioni o gruppi sociali, mentre al pensiero

rivoluzionario come deificazione della libertà quale religione del nuovo status civitatis. Ma la “religione della libertà” in senso politico greco, che concepiva “l‟azione” come “l‟unica facoltà umana che esige una pluralità di uomini”, e che fa del “potere l‟unico attributo umano che si esplica solo in quello spazio terreno fra gli uomini per mezzo del quale gli uomni sono reciprocamente collegati” (H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pag. 199), in un contesto culturale cristiano come quello europeo dove la libertà aveva tradizionalmente un valore morale essenzialmente impolitico, incentrato sulla ekklesia come comunità spirituale, equivaleva all‟instaurazione di una concezione pagana della socialità, che non a caso è stato l‟esito ideologico di tutte le rivoluzioni moderne, il cui idolum tribus è la democrazia, intesa appunto come dimensione ideale della libertà politica, rispetto alla quale il liberalismo ha rappresentato storicamente la fase indicata dalla Arendt come quella della “liberazione” razionalistica dall‟autorità etico-religiosa tradizionale. L‟ideologo che per primo ebbe ben inteso il carattere pagano della politica fu Machiavelli, il teorico dello Stato secolare assolutistico, il cui Principe (nazionale, classe, partito o popolo che fosse) era l‟origine di ogni legalità.

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filosofico lo era nel senso che ognuno distintamente (omnis, ) vi poteva attingere attraverso il viatico dialettico, ma non che tutti indistintamente (universi, ) lo potessero né lo dovessero. La destinazione indistintamente universale delle idee è un‟istanza politica, originata dal bisogno di difendere il filosofo dall‟ignoranza del collettivo e dal sopruso del Potere, e prodotta dalla loro trasformazione in ideo-logie sociali, concepite pragmaticamente come norme vigenti per tutti indistintamente (erga omnes). La socializzazione delle idee ha comportato l‟assunzione dell‟universalità filosofica in universalità sociale, con la conseguente trasformazione del pensiero elettivo () in una credenza condivisa ( ). Quanto dalla Arendt sostenuto, che “per sé le idee non hanno assolutamente nulla a che vedere con politica, l‟esperienza politica, o il problema dell‟azione”457 non è pertanto esatto, poiché il fondamento veritativo delle idee, alternativo a quello sociale (della dòxa) e a quello religioso (del Mito), è nella loro supposta universalità, intesa come universale possibilità di fungere da modello assiologico dell‟azione razionale, rispetto al quale ogni altra determinazione finita diventa logicamente incongrua e quindi moralmente biasimevole. Da qui l‟annessa istanza deontologica di ogni principio ideale del filosofo (il Bello), la ricerca del miglior regime di governo per l‟uomo politico (il Bene), 458 quale prioritario programma d‟azione del Potere, funzionalmente pedagogico. Ma la sostituzione dell‟ “educare” al “governare”, rilevata dalla Arendt,459 era insito nel ruolo governamentale originariamente esercitato dalle aristocrazie sociali e che il Potere politico aveva avocato a sé. Tale ruolo originariamente non era meramente decisorio ma soprattutto direttivo, proprio perché intrinseco all‟autorità morale che lo costituiva, e coinvolgeva tutti indistintamente. L‟idea che la politica coincidesse con “il diritto di aver parte nel disbrigo degli affari pubblici”,460 è quanto meno riduttiva, rifacendosi alla fase dialettica e, per così dire, dibattimentale, laddove la fase deliberativa e decisionale

457 458 459 460

H. Arendt, Loc. cit., pag. 156. Ivi, pag. 177. H. Arendt, Loc. cit., pagg. 163 sgg. Ivi, pag. 164.

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non poteva ammettere restrizioni di ordine esistenziale o sociopedagogiche nei destinatari, ma aveva una valenza normativa erga omnes. Ed è in questa fase, propriamente governamentale, che prende il suo rilievo l‟autorità del Governo, la cui legittimazione tradizionale costituiva il viatico morale delle decisioni attuali. Autorità che manca al Potere, che se ne serve solo per scopi di dominio, 461 in quanto la sua natura è di sconfessare l‟autorità della tradizione, in nome di valori universali destoricizzati, impositivamente e non tradizionalmente vigenti, che potevano dunque essere solo imposti con la forza. Da questa tensione di principio tra l‟istanza performativa del Potere e quella educativa del Governo origina la situazione contraddittoria di un Potere che afferma il suo principio d‟ordine (potestas) a scapito dell‟ordine tradizionale (auctoritas), cioè creando disordine sociale, al quale esso stesso si dispone a ovviare instaurando un novus ordo. La novità è il contrario della tradizione, così come il potere lo è dell‟autorità. Infatti, come ricorda la Arendt, “caratteristica principale dei detentori dell‟autorità è di non avere alcun potere”, consistendo essa nella credibilità morale del loro giudizio sugli affari pubblici, che risulta “autorevole proprio in quanto consiste in un puro e semplice consiglio che non richiede, per essere seguito, né la forma imperativa, né alcuna coercizione esterna”.462 E allora, ci chiediamo, donde nasce l‟autorità? Essa non può che nascere dalla credenza nella sua importanza, ossia dalla fede nella sua necessità, che è quella di farsi portatrice della volontà superna degli dèi. L‟autorità è dunque portatrice di saggezza, di capacità, non di discernimento ideale tra Bene e Male, ma di contemperanza nella valutazione dei due aspetti indisgiungibili della realtà nel caso concreto, quello che richiede la decisione saggia, che ha cioè per la sua responsabilità conseguenze reali. La saggezza è la verità del caso concreto, quanto il concetto categoriale lo sia del caso astratto. La decisione saggia ha come virtù la responsabilità, cioè la coerenza morale, mentre il concetto ha per virtù la razionalità, cioè la coerenza logica. La coerenza morale considera rilevanti le conseguenze possibili dell‟azione, i potenziali effetti collaterali di un‟azione che non esaurisce 461 462

Ibidem. Ivi, pagg. 168-169.

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i suoi effetti al suo presente ma in un futuro indeterminato, mentre la coerenza logica considera dell‟azione le conseguenze necessarie, quelle dipendenti esclusivamente dal diretto nesso causale di una relazione la cui sequenza prossima definisce i suoi effetti al tempo stesso dell‟azione, cioè al presente. Lo scenario della decisione saggia è quello della storia, magistra vitae463 e dunque inclusiva della coscienza del divenire, laddove lo scenario della decisione razionale è la realtà ideale dell‟Essere attuale, astratto dal divenire della vita concreta, ossia dal passato stesso di un popolo. “Il modo in cui Platone ed altri, prima e dopo di lui, trattarono Omero, „l‟educatore di tutta l‟Ellade‟, a Roma sarebbe stato inconcepibile”.464 Invece lo spazio politico in senso razionalistico greco si costituì come realtà parallela alla tradizione e superatrice di questa; ossia come uno spazio secolarizzato, distinto dai valori religiosi comuni. Fin quando il era l‟attività privata del metafisico, lo spazio sociale tradizionale rimaneva quello pubblico in cui ogni membro si riconosceva come parte organica, ma allorquando a definirsi pubblico pretese quello politico, i contenuti della tradizione furono ricacciati nell‟ambito privato, con una inversione di prospettiva rispetto al tradizionale filosofare come attività privata. E ciò comportò anche una inversione del senso dell‟autorità, che dalla tradizione si trasferì al postulato di ragione, rispetto alla cui eternità la vetustà dell‟esperienza del passato divenne irrisoria. Proprio la rimozione dell‟unità sociale tradizionale, la religione, impose alla sfera politica filosoficamente riformata la questione di un novello legame tra gli uomini liberati dalla solidarietà morale tradizionale, ossia la vigenza di un‟etica pubblica di tipo razionale, impersonata da un‟autorità di tipo politico, quella del Potere, la quale, imponendosi su uomini per definizione “liberi” e dunque uguali, nella loro condizione di libertà, assumeva una natura oligarchica, senza essere, come invece l‟autorità 463

“I precedenti (le azioni degli antenati e l‟uso nato da queste) erano [per i Romani] sempre vincolanti. Qualunque cosa accadesse era trasformata in esempio: la auctoritas maiorum corrispondeva ad altrettanto autorevoli modelli del comportamento reale, a veri e propri criteri di etica politica. […] Il passato risulta santificato dalla tradizione appunto in tale contesto principalmente politico”: H. Arendt, Loc. cit., pagg. 169 e 170. 464 Ivi, pag. 170.

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tradizionale, di tipo aristicratico. La differenza dell‟oligarchia politica dall‟aristocrazia sociale consiste essenzialmente nella diversa legittimazione dell‟una e dell‟altra: una legittimazione razionale, quella politica, legata alla funzione di comando; una legittimazione storica, quella aristocratica, legata alla tradizione spirituale. La forza dirompente del pensiero ideo-logico fu sin dall‟origine nella pretesa di volersi costituire come “mondo”, come realtà universale, ossia come la “forma mediante la quale noi comprendiamo in una unità la totalità di dati reali o possibili”,465 costitutivi l‟oggetto del pensiero logicorazionale, l‟unico ritenuto idoneo a pensare la realtà come Bene, che “è la misura di tutte le cose”, come ci ricorda Platone nel Politico. La realtà pensata come mondo dal filosofo e come spazio politico dall‟artifex detentore del Potere, e non quella mitica contemplata dall‟auctor depositario dell‟auctoritas della tradizione.466 L‟aspetto “derivato” della filosofia politica è dunque della filosofia greca in quanto pensiero mondano, cioè profano e secolarizzato, che critica il suo originario fondamento sacro emancipandosi dalla tradizione religiosa. Il Cristianesimo poté adottare la filosofia come pensiero teo-logico in quanto critico verso la tradizione mitologica pagana, e tradizionale rispetto all‟adozione che ne fece la cultura romana della quale la Chiesa si professava erede storica e suo inveramento religioso. “Di fronte a questo compito di natura realistica e secolare, la Chiesa divenne così „romana‟, adeguandosi così completamente alla mentalità romana, da costituire la morte e resurrezione del Cristo in pietra angolare di una nuova fondazione, sulla quale veniva eretta una nuova istituzione umana eccezionalmente stabile”.467 I due movimenti universalistici conversero nel comune orizzonte politico come lo spazio esistenziale sia della fede trascendente e sia della vita terrena dell‟uomo, dando origine alla civiltà liberale caratterizzata dall‟equilibrio instabile della fides e della ratio imploso in età moderna.

465

466 467

G. Simmel, Lebenschauung (1918), tr. it., Milano, 1938, pag. 102. H. Arendt, Loc. cit., pag. 168. H. Arendt, Loc. cit., pag. 171.

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Il simbolo più pregnante di tale eredità della Chiesa fu l‟adozione romana della distinzione tra “la sacra autorità”, riservata “ai papi” (auctoritas sacra pontificum), e “il potere dei re” (regalis potestas), lasciato ai principi di questo mondo, secondo le parole di Gelasio. 468 A seguito del processo di civilizzazione cristiana in senso teopoliticamente universale, ossia “in quanto [la Chiesa] assunse la filosofia greca nel corpo delle sue dottrine e dei suoi dogmi”, la filosofia idealistica di Platone poté spiegare “tutta la propria efficacia politica soltanto con il cristianesimo”. 469 5. Col Cristianesimo, la concezione dell‟immortalità dell‟anima, che Platone riferiva a pochi eletti, divenne una dottrina universale “elaborata a fini politici e palesemente destinata alla massa”, 470 alla quale il filosofo aveva destinato, anziché il ragionamento logico a essa inattingibile, rappresentazioni favolistiche di “senso puramente politico”.471 Se in Platone il confine tra l‟idea del Bello e l‟idea del Bene rimase sfumato, a tal punto da essere interscambiato, ciò non avvenne in riferimento alla “distinzione tra un‟anima immortale, invisibile, incorporea, e una vita ultraterrena in cui corpi sensibili al dolore patiranno il loro castigo”, 472 il cui carattere politico è attestato dalla contraddizione del previsto castigo post mortem riservato ai corpi mortali, che pure già in vita, come narra il mito della caverna nella Repubblica, subiscono la loro condizione infernale. Tale carattere politico fu confermato da Agostino, le cui teorie sull‟inferno, il purgatorio e il paradiso avevano il valore di “minacce per la vita di questo mondo”.473 Il dio teologico che vi si rappresenta, già preconizzato da Platone nella Repubblica, “non è un Dio vivente, né il dio dei filosofi, né una divinità pagana [ma] un espediente politico” che funge da “criterio in base al quale si possono fondare città e stabilire

468

469 470 471 472 473

Ved. H. Arendt, Loc. cit., pag. 173. Ivi, pag. 174. Ivi, pag. 176. Ivi, pag. 177. Ibidem. Ivi, pag. 178.

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norme di comportamento per la massa”, essendo la teologia per il filosofo parte integrante della scienza politica, “per l‟esattezza, quella che insegna ai pochi l‟arte di governare i molti”, sicché “lungo tutta l‟antichità la dottrina dell‟inferno continuò a essere usata ai fini politici, a difesa dell‟interesse dei pochi a conservare il controllo politico e morale della massa”. Questa infatti non è in grado di vedere la verità, e perciò ha bisogno di credere a quanto “nello stesso tempo è evidente, invisibile e trascende ogni discussione” logica, come avvertito da Platone nella sua Settima lettera, per non restare soggiogata dalle “favole irresponsabili” narrate dai poeti, e per tal via “indotti a comportarsi come se conoscessero la verità”. 474 La credenza nelle punizioni eterne dell‟Inferno aumentava il terrore deterrente dell‟uomo anche nel confronto con le punizioni corporali inflitte dal potere secolare. “Ma tale acquisto di potenza” da parte della Chiesa sulle masse “avvenne a prezzo di un indebolimento del concetto romano dell‟autorità e del conseguente insinuarsi, sia nella struttura del pensiero religioso occidentale, sia nella gerarchia della Chiesa, di un elemento di violenza”, del tutto estraneo alla predicazione evangelica. 475 D‟altro canto, la religione, perdendo con la secolarizzazione della cultura moderna la sua componente politica, ha privato anche la vita pubblica della sanzione di una autorità trascendente, senza la quale non si sarebbe pervenuto ad alcun convincimento della massa “a conformarsi ai criteri di pochi”, facendo discendere l‟ideale del Bene “dal regno delle utopie alla realtà”.476 Ciò farebbe supporre una funzionalità della religione cristiana, snaturata dalla sua destinazione originaria di fede. il che è certamente vero, ma sarebbe fuorviante se non ricordassimo che la filosofia, come verità alternativa a quella tradizionale, ha dovuto imporsi sulla doxa comune, ossia su quell‟opinione pubblica che proprio sulle credenze religiose tradizionali si era formata e perpetuata, per cui la funzione divulgativa di opinioni morali e di costume delle credenze religiose vi era sempre stata. La novità del platonismo era di utilizzare la vulgata religiosa in senso filosofico, facendo divenire la

474 475 476

Ivi, pag. 179. Ivi, pag. 180. Ivi, pag. 184.

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religione la “filosofia del popolo”. La novità della predicazione cristiana – rispetto alla concezione filosofica ma non rispetto alla tradizione ebraica - era, invece, quella di costituire la fede religiosa come la verità, alternativa a quella espressa ed elaborata dalla sapienza greca. In questo senso il mutuo cristiano dalla concezione platonica costituiva una netta inversione culturale verso una concezione ideocratica della religione, di segno nettamente filosofico e pagano. E tutto questo, ovviamente, non fu senza conseguenze per la civiltà cristiana. Infatti, spostando il rapporto tra verità e religione dalla dimensione singolare della fede al senso sociale della funzionalità politica, il concetto di autorità veniva di conseguenza a perdere la sua valenza morale per l‟acquisizione di una precipuamente etica di conservazione dello spazio politico organizzato, lo Stato, la cui “ragione” era tutta immanente alla necessità della sua sussistenza, fine economico per definizione. Servire lo Stato o servire la Verità per il cristiano doveva costituire una scelta radicale a favore di Dio a scapito di Cesare. Nel momento in cui la Verità della fede diventava religione di Stato, Dio divenne il tutore dei Cesari cristiani, custodi e reggitori di una “monarchia di Dio”. La funzione demiurgica del fondatore è quella di stabilire la potestas (), e perciò essa può essere indicata come arcaica, in quanto depositaria della  (auctoritas). Rifarsi alla tradizione arcaica equivaleva ad anteporre la fondazione all‟esercizio storico del Potere, che a essa rimaneva vincolato moralmente sul piano della legittimazione. Ma, soprattutto, il rifacimento alle origini fondative del consorzio civile aveva il significato di appellarsi a un tempo di pienezza in cui la potestas e l‟auctoritas erano concentrate nelle stesse mani., per cui l‟atto di fondazione dello Stato italiano (Machiavelli) o della Repubblica francese (Robespierre) era rivoluzionario proprio nel senso di tornare alle origini della fondazione in cui i due elementi del Governo e del Potere erano ancora uniti. La “decadenza dell‟Occidente” moderno477 riguardava dunque la perdita di legittimazione morale della politica come esercizio d‟ordine ( ), ed era conseguenza non alla distinzione tra religione e politica, ossia alla secolarizzazione, che era ab origine l‟elemento costitutivo della , cioè della 477

H. Arendt, Loc. cit., pag. 190.

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“costituzione dello spazio politico”, ma della loro reciproca indipendenza, conseguente alla implosione del cosmo teologico-politico cristiano medioevale, coincidente, per un verso, con la riscoperta protestantica dell‟originario motivo evangelico della sola fide, e per l‟altro con la riesumazione machiavellica della funzione teologica in senso platonico della religione come instrumentum regni. Se lo spazio politico si era idealmente costituito per soddisfare l‟esigenza di libertà insita nell‟uomo emancipato dal lavoro, approdando a una forma di domino dell‟uomo sull‟uomo che fosse condivisa, ossia razionalmente accettata, e non tradizionalmente imposta, l‟ambito della fede escatologica cristiana si era proposto all‟uomo per una liberazione proprio dallo spazio politico, ossia dal dominio dell‟uomo sull‟uomo, a favore di una communitas che fosse caratterizzata dalla volontà di un libero riconoscimento reciproco nella fede in Cristo. La differenza tra lo status della coesistenza politica e la condizione fideistica consisteva nella diversa modalità del reciproco riconoscimento tra gli uomini. Se infatti il riconoscimento politico si fondava sulla mediazione della legge (normativa e razionale), che rendeva irreversibili i rapporti legali, considerati oggettivamente razionali, il riconoscimento nella fede cristiana comune era frutto di una adesione volontaria che impegnava il convincimento interiore dell‟uomo, e non la sua oggettiva condizione legale. A maggior ragione la destinazione della fede cristiana all‟uso religiosamente strumentale prescritto da Platone e perseguito dalla Chiesa romana dava per storicamente rinnegata quella libertà in interiore homine che costituiva l‟essenza della predicazione evangelica e la premessa della differenza tra la e la . I due tipi di libertà che presiedevano ai due diversi rapporti umani ponevano, quello politico, la forza come elemento derimente, sia della fase polemica che di quella pacificatrice, e quello fideistico l‟amore come criterio unitivo di una relazionalità non polemica e caritativa. I due tipi di libertà erano diversi quanto la legge e la convinzione, ma resi opposti entro lo stesso orizzonte di fede cristiana in cui la dialettica tra Chiesa e Stato esprimeva quella polarità in termini funzionali all‟esistenza reciproca delle due istituzioni storiche. Ma il senso della reciproca diversità non poteva scomparire senza annullare la stessa rispettiva differenza istituzionale, ed essa infatti permase, secondo però una caratterizzazione strutturale del tutto opposta alle premesse costitutive, per cui la Chiesa, nata come comunità

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solidale di uguali che si riconoscevano fraternamente nella comune fede in Cristo, divenne una struttura gerarchica improntata al principio dell‟Imperium romano trasfuso nel dogmatismo legalistico della dottrina teologica, e lo Stato, nato originariamente come spazio politico di libertà parallelo a quello degli inviolabili rapporti sociali economicamente gerarchici, garante dunque della loro sicurezza, divenne l‟istituzione che, nell‟intento di far coincidere politica e libertà, progressivamente estese il principio egalitario della cittadinanza in senso universale, fino ad annullare totalitariamente ogni rapporto socialmente gerarchico di natura pre-politica. L‟esito totalitario, sia della Chiesa che dello Stato, è conseguente alla fine dell‟equilibrio istituzionale dei due poteri legato all‟organicismo religioso medievale, ossia al processo di autonomia della religione dalla cultura moderna, e della politica dall‟autorità religiosa, la cui emancipazione dalla auctoritas religiosa, estendendo la ratio politica in senso universale, estese l‟egalitarismo politico ai rapporti sociali, violandone con la loro gerarchici la stessa sicurezza. La dissociazione dei due elementi strutturali della società europea cristiana, la ratio politica e la fides escatologica, ha fatto implodere il sistema liberale della cristianità romana, inducendo la Chiesa a perseverare, nel tentativo di accreditarsi come testimone petrina della fede cristiana, anche come custode catechonica dell‟ordine politico tradizionale pre-moderno, che presupponeva quella funzione teologicopolitica della religione cattolica che la Riforma aveva contestato e la filosofia politica moderna aveva riscoperto in senso anti-ecclesiastico. Cristianesimo e razionalismo entravano dunque nuovamente in conflitto dopo i primi secoli di assestamento delle dottrine evangeliche, e dopo oltre un millennio di conciliazione, a partire dal sec. V che inaugurava l‟età costantiniana,478 offrendo della crisi della civiltà europea una prospettiva tanto più profonda quanto meno risolvibile in termini meramente politici, coinvolgendo, insieme alla millenaria struttura istituzionale garante del sistema liberale europeo, la Chiesa di Roma, anche la coscienza religiosa dei cristiani, confliggente irreparabilmente con le forme di pensiero razionalistiche che, emancipatesi dall‟orizzonte

478

Ved. un agile resoconto in G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, Bologna, 2012.

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religioso teologico, agiscono in senso filosoficamente critico delle sue rappresentazioni mitiche. Il che comporta che vivere nella sfera pubblica senza l‟autorità (e quindi senza la consapevolezza della trascendenza della fonte di tale autorità rispetto al potere e ai detentori di questo) significa trovarsi ad affrontare daccapo, senza più fede religiosa in un principio consacrato, e senza la protezione offerta da criteri di comportamento tradizionali, e perciò assiomatici, i problemi più elementari suscitati dall‟umana convivenza. 479

La conseguenza più rilevante della mancanza di autorità è l‟abbandono della vita politica alle sue ragioni, ossia alla forza delle possibili determinazioni contrarie a quelle avversarie. La stessa pratica compromissoria, che costituisce il futile vanto delle democrazie parlamentari, non è altro che un confronto di forze che perviene alla sua consapevolezza attraverso il voto maggioritario. Ciò che costituisce il fondamento debole di una prassi politica non supportata da un‟auctoritas che ne costituisca il parametro di validità, è che tale parametro sia rappresentato dall‟efficacia stessa dell‟azione, che dunque ha in sé il suo fine, identico al mezzo. Tale libertà da la morale, fa della politica lo spazio di una volontà, la cui estrema possibilità è costituita dall‟emancipazione da ogni “principio”, cioè da ogni vincolo autoritativo, tradizionale o razionale (la “virtù” di Montesquieu) che ispiri un‟azione politica, ossia dalla negazione di ogni antitesi dialettica. Ed è in questa zona franca che s‟incontrano la volontà e la libertà come dinamiche rivoluzionarie. Orbene, l‟idea che “la libertà o il suo contrario appaiono nel mondo ogniqualvolta si rendono attuali questi principi”, per cui la libertà sia “la manifestazione dei principi” e coincida con “l‟atto realizzatore”, 480 significa confondere l‟atto propriamente politico con l‟azione etica di Governo, la quale non acquista il suo valore in considerazione della sua pubblicità, ossia di inerire a un ambito pubblico, ma dalla sua autorevolezza morale, ossia conformità ai principi fondativi del Potere quale autorità pubblica. Se, dunque, la condizione pubblica è lo spazio in cui appare la libertà

479 480

H. Arendt, Loc. cit., pagg. 191-192. H. Arendt, Loc. cit., pag. 205.

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politica, come volontà del Potere, non tutto ciò che è pubblico è di per sé un atto di libertà conforme ai principii, cioè azione di Governo. Perché la libertà e la politica coincidano e siano “in relazione reciproca come le due facce di uno stesso argomento”, 481 necessita che il Potere sia conforme all‟auctoritas morale, ovvero che divenga azione di Governo, trascendendo la dimensione della mera pubblicità, cioè della legalità, che è lo spazio propriamente politico in cui si è costituito lo Stato di diritto o della normativa universale. Trascendere l‟ambito pubblico, ossia della normativa universale, equivale a trascendere l‟astrattezza della legalità statale in cui si muove il Potere come “arte” della , per una decisione giusta secondi i principi relativa all‟unicità del caso concreto, che ha per oggetto di giudizio non una fattispecie astratta conforme a un modello universale di azione e di uomo, ma la realtà del caso concreto, inclusivo degli elementi imponderabili non considerati dal modello razionale stabilito erga omnes. L‟azione di Governo, quale atto morale, non va confusa con lo “stato di eccezione” rispetto alla normativa universale, ossia come una sospensione della sua validità erga omnes, poiché non ne costituisce una violazione dei principi ispirativi, ma il loro inveramento sostanziale normativamente non previsto, e proprio per questo libero.482 L‟atto di Governo è pertanto quello che non impone norme universali, imperativi legali, ma stabilisce soluzioni di principio legate al caso concreto. Perché la decisione di Governo divenga politicamente vincolante, e quindi limitativa del Potere, necessita che il vincolo autoritativo sia creduto derimente tra vertenze contrastanti. E la natura di tale credenza non può che essere religiosa, ossia fondamentale per la stessa sussistenza e legittimità del Potere. In questo interstizio fondamentale della vita politica si insinua l‟istanza filosofica tesa a sostituire i

481

Ivi, pag. 200.

482

“Per essere libera l‟azione deve esserlo tanto dal movente quanto dal fine dichiarato, il quale cioè non dev‟esserne l‟effetto prevedibile. Non si vuol dire con ciò che moventi e fini non siano fattori importanti di ogni singolo atto; anzi, proprio perché ne sono i fattori determinanti, l‟azione è libera nella misura in cui è in grado di trascenderli”: H. Arendt, Loc. cit., pag. 203. E non dunque di violarli.

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fondamenti religiosi della polis con quelli razionali della Repubblica ideale, facendo della fides un instrumentum regni e dunque un‟ancilla philosophiae. L‟intento razionalistico surrettiziamente tende a far coincidere il Governo religioso con il Potere politico, stabilendo una omogeneità ineccepibile tra condizione legale e condizione esistenziale, tale che venga abolita ogni mediazione meta-politica tra la previsione razionale della condotta virtuosa e la prassi reale, la cui conformità all‟astratto modello normativo richiede l‟eliminazione della imprevedibilità propria di ogni condotta libera, con inevitabile esito politicamente totalitario. Quando la Arendt afferma che la politica necessita di uno “spazio a struttura pubblica destinato all‟apparizione degli uomini”, e che “la polis greca fu appunto quella „forma di governo‟ che forniva agli uomini uno spazio per apparire, nel quale agire, una sorta di teatro dove la libertà poteva fare la propria comparsa”, si riferisce a un “rapporto tra libertà e politica” che solo suppostamente è “immediato”,483 ma che invece è relativo a uno spazio pubblico ricavato attraverso l‟esclusione di ogni originaria mediazione socio-religiosa, senza la quale non si sarebbe determinata quella condizione di “uomini liberi” che agiscono nell‟agone politico. 484 Ed è 483

H. Arendt, Loc. cit., pagg. 206-207.

484

Va ricordato che il concetto moderno di libertà politica, come “il diritto degli uomini di riunirsi pacificamente e di presentare petizioni al governo per la riparazione di ingiustizie”, che costituisce il Primo emendamento del Bill of rights americano, nasce dall‟ideale agonale criticato da Platone, che rendeva “uguali” i membri della polis in quanto uomini pubblici, ma non stabiliva il criterio in base al quale fosse possibile stabilire il Giusto, cioè la decisione del Governo. Quando Erodoto parla della libertà politica greca come condizione di non-governo (Storia, lib. III, 80 sgg.), cioè come isonomia, indica che la  che ne nasceva per legge () prescindeva dal Governo ( ), non perché fosse una condizione di , ma in quanto la decisione di Governo non poteva sorgere dal contesto polemico se non come sua negazione dialettica, qualitativamente diversa e superiore a ogni istanza particolare o “petizione” interessata, e dunque di natura filosofica. Ma l‟esautorazione della dimensione sacrale legata tradizionalmente al Governo, rendeva anche la decisione filosofica esposta ai limiti e alle condizioni dettati dal caso concreto in contesa, per cui il rischio immanente, avvertite in più occasioni nei dialoghi platonici, a ogni decisione razionale era di rendere universale

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proprio questa identificazione suppostamente originaria tra libertà e politica a fare dello spazio politico una dimensione astratta sia dalla condizione sociale che dalla credenza religiosa fondativa della comunità, e che, assorbendole nella sua fondazione artificiale della comunità dei liberi, parallela a quella dell‟esistenza concreta, rende quello spazio avulso dalla realtà sociale e potenzialmente totalitario, essendo il Potere razionalizzato nel senso ideo-logico operativamente predisposta a creare una comunità, non già di filosofi pubblici, la conoscenza metafisica essendo per definizione iniziatica, ma di alienati infra-mondani, che riconoscono che l‟unica autorità legittima sia quella del Potere,485 come potenza del fare (). Ed è a seguito di questa riduzione della vita activa al  che si è sviluppata a tal punto l‟attività economica in età moderna da confondere la politica

una tesi particolare, e quindi di accreditare come pubblica quella sola petizione politica universalizzabile, trasformando in razionale la sua attitudine a presentarsi come ragionevole, ricandendo perciò in un‟eristica più sofisticata. Identificare perciò il “contenuto della libertà” come “partecipazione al governo della cosa pubblica o ammissione alla sfera pubblica” (ved. H. Arendt, On Revolution (1963), tr. it., Milano, 1999, pag. 29), significa avere già stabilito l‟identità della “sfera pubblica” come l‟ambito politico esclusivo, entro il quale esercitare il governo, ossia il Potere. Da qui il sofisma di concepire un  all‟interno dello spazio del non-governo, quello appunto della libertà politica, e di definirlo nei termini di una decisione razionale in senso idealistico di modello di azione, spacciando per “giusto” l‟atto di governo in tal senso razionale, cioè astrattamente universale. Ma proprio in questa tendenza ad affermare come universale in senso razionale una petizione politicamente pubblica consiste l‟azione rivoluzionaria di “liberazione” dall‟autorità, il cui esito non può che essere la pubblicizzazione di quella violenza insita nella pretesa esemplificativa del suo presupposto idealistico di fare del suo modello ideale la ragione comune a tutte le parti, ossia il nuovo spazio di “libertà” in cui si esercita il nuovo ordine razionalizzato, conforme a quell‟ideale modello politico. 485 Con una radicale inversione di senso rispetto a quello indicato da Agamennone cit. da Aristotele a chiusura del libro XII sella Metafisica. Infatti il passo ripreso dell‟Iliade vuole indicare la bontà dell‟unità della signoria aristocratca tradizionale, e non la monocrazia politica. Ved. E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, tr. it. cit., pag. 31.

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stessa con il principio di socialità, e quindi l‟ideo-logia politica con la religione civile.486 La differenza tra una volontà che vuole e una

486

La tesi sostenuta dalla Arendt, per cui “la vita scelta dal filosofo implicava un‟opposizione al , al vivere politico” (Loc. cit., pag. 211), non è corretta, in quanto, come abbiamo chiaito supra, “l‟opposizione” filosofica non era diretta “alla polis e alla sua comunità di cittadini”, come invece da lei affermato, bensì ai fondamenti mitico-religiosi della vita sociale che costituivano anche da collante religioso della vita politica, la quale per il filosofo era lo spazio fenomenologico del pensiero idealistico. La pre-condizione dell‟esistenza di un  era l‟ipotesi che a ogni esperienza umana sottostasse una unità comune, la quale fungeva da legame tra i molteplici e varii soggetti sociali, altrimenti diversi per ceto, condizione, esperienza ed età. Tale unità, per la civiltà omerica, era la religione; per la concezione socratico-platonica il logos razionale, attraverso la cui mediazione il molteplice si componeva in una unità più armonica e coerente di quella religiosa. Lo spazio ideale di tale unità logica era quello politico, nel quale ogni uomo era uguale a ogni altro. Tale uguaglianza politica, essendo ottenuta grazie alla mediazione logica, ossia ai principi costitutivi dell‟intero cosmo, costituiva la condizione migliore dell‟uomo rispetto a quella sociale e tradizionale, considerata naturale. L‟ideo-logia politica, egalitaria e razionalistca a un tempo, nasce da queste premesse idealistiche, ossia dall‟ipotesi che l‟uomo possa conseguire una condizione di unità nell‟eguaglianza con gli altri uomini entro lo spazio infra-mondano del politico. Questa credenza idealistica è stata ereditata, attraverso la mediazione del razionalismo cristiano, dalle moderne ideologie democratiche, che hanno superato la concezione greca della disparità sociale e disuguaglianza naturale degli uomini estendendo in senso universalistico la concezione creaturale di ogni uomo immagine di Dio. Se l‟unità spirituale cristiana tra gli uomini è la comune fede in Cristo, l‟unità democratica è, come quella pagana, di tipo politico, e fondata non sullo Spirito trascendente ma sull‟immanente Logos razionale. La libertà pagana è politica, intesa come “processo dell‟agire” entro lo spazio della polis, (Ivi, pag. 220) laddove quella cristiana è una libertà dalle ragioni del mondo, in quanto facoltà di dare initium a opera dell‟uomo, che nascendo introduce “qualcosa di nuovo in un mondo preesistente e che continuerà a esistere dopo la morte di ciascun individuo” (Ivi, pag. 222). Il mutuo ideologico greco fa delle moderne teorie democratiche delle utopie razionalistiche fondamentalmente pagane, in quanto basate su un concetto di libertà dell‟uomo come volontà, anziché come fede. Se l‟opera della volontà è di secondare

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possibilità che (non) può, ha assunto l‟opposizione tra la libertà e l‟oppressione in quanto entrambe omologate alla stessa attività, o dell‟uomo libero (la greca) ovvero della coscienza soggettiva (il liberum arbitrium cristiano), senza distinguere tra l‟astratta volizione soggettiva e la determinata azione sociale, nel cui rapporto la esperienza singolare dell‟uomo trova la sua storica concretezza spirituale. Eleggere uno o altro elemento a luogo preferenziale della realtà, comporta la perdita della comprensione di quella totalità concreta costituita dall‟uomo spirituale, la quale soltanto da un pensiero spiritualistico può essere conosciuta, e nel cui ambito rientra la nostra considerazione del Governo. La volontà intesa come interesse si identifica con l‟azione economica, il cui scopo utilitaristico sta alla base anche della volontà generale di Rousseau, intesa appunto come l‟interesse generale della nazione o del “popolo”. La volontà generale è quella che si oppone alla volontà (o interesse) particolare, e cioè agli interessi delle minoranze sociali e politiche.487 L‟azione politica collegata al concetto di volontà generale è quella del Potere (del più forte sul più debole), ed è pertanto esclusiva, agendo la parte per il tutto, e quindi razionale secondo il suo fine immanente, che è appunto l‟affermazione di sé come volontà generale. Questa posizione, che a partire da Rousseau attribuisce all‟azione rivoluzionaria una valenza virtuosa, per la sua abnegazione a favore

dominandolo l‟ordine necessario degli eventi, l‟opera della fede è il “miracolo”, il cui requisito è di “costituire un‟interruzione in qualche serie di eventi della natura”, sostituendo al loro “processo automatico” un “inatteso imprevisto” (Ivi, pag. 223), il quale dà inizio a un nuovo processo. Diversamente dagli eventi imprevisti della natura, che l‟ordine immanente al momentaneo disordine riporta a sistema, il miracolo dell‟uomo è un‟opera spirituale che trascende lo stesso processo storico dal quale è sorta come un unicum sistemicamente in-determinato. L‟ipotesi teorica che l„ambito avvenimenziale dei miracoli umani sia la Storia, quale processo ideale del politico, deriva dalla commistione teologica dell‟evento miracoloso cristiano e dell‟ universalismo razionalistico di origine naturalistica, che ha concepito la Storia spirituale di ogni singolo uomo quale creatura divina come una natura spirituale parallela a quella naturale. 487 Ved. H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pagg. 82-83.

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dell‟interesse generale viene solitamente considerata “etica”, mentre propriamente soltanto l‟azione di Governo è etica, poiché la sua ragionevolezza non è stabilità sulla base della sua opposizione agli interessi particolari, ma è legata al fine trascendente ogni interesse, particolare o generale, della giustizia, in cui tutti i membri sociali possono riconoscersi, in quanto coincide con l‟ordine morale della variegata convivenza sociale, e dunque della stessa astratta società politica.488 L‟ordine morale, in quanto sociale, 1) non può provenire dallo Stato ma è originario a ogni ordine ordinamento politico, il quale attraverso i suoi organi istituzionali è chiamato a difenderlo e a salvaguardarlo; 2) è un ordine oggettivo, che l‟individuo nascendo e partecipando alla vita sociale lo trova e non lo pone in essere, ma è chiamato ad osservarlo in quanto modalità di convivenza pacifica del gruppo e di comunicazione inter-personale dei membri; e quindi 3) è un ordine prescrittivo del fine, appunto, sociale che l‟uomo, in quanto membro della società, deve perseguire attraverso il proprio comportamento di relazione. Il contenuto essenziale di ogni prescrizione morale inerisce alla stessa condizione sociale dell‟uomo, ossia alla circostanza di valore antropologico che l‟uomo vive sempre accanto ad altri uomini, di cui egli deve tener conto agendo nel mondo. da qui ha origine quella “compassione” quale “reazione umana alle sofferenze degli altri” che per Rousseau caratterizzava lo stato d‟animo dell‟uomo “naturale”, quello cioè che intrattiene rapporti non ancora informati alla logica utilitaristica dell‟interesse considerato normale in ambito politico e “civile”, che perciò il Ginevrino considerava “fuori della società” e

488

Va ribadito che la “società” così come si è venuta a formarsi a partire dal sec. XVIII, come Gesellschaft, è sempre più unitaria in senso politico statuale e sempre meno stabilita secondo permanenti condizioni di status. Tuttavia, per quanto omologata in senso democratico, ripropone al suo interno una differenziazione di distinte comunità infra-sociali che ripropongono sotto mutate vesti la varietà di organismi tradizionali di convivenza spontanea, quali i ceti, le corporazioni, le confraternite religiose, etc., dotate ognuna di interna corporis deontologici che li caratterizzano in senso etico, la cui normatività, per quanto subalterna gerarchicamente alle fonti legislative statuali, ha nondimeno una funzione socializzante, se non in tutti i casi, comunque prevalentemente primaria rispetto a quella predisposta legislativamente.

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dall‟egoismo della “ragione”.489 Diverso dall‟ordine morale della società è il sentimento morale, legato alla sfera soggettiva della interiorità personale in cui si coltiva la fede religiosa. Esso è di carattere individuale e come tale varia di intensità e sensibilità legate alle possibilità e all‟educazione degli uomini, e in quanto individuale, tale sentimento varia storicamente anche per luogo e tempo, e dunque ha un valore relativo al suo referente normativo, alla credenza di riferimento assiologica. La secolarizzazione della cultura, distinguendo il Potere politico dal fondamento religioso fondativo della convivenza sociale, produce un conflitto potenziale tra morale sociale ed etica pubblica dello Stato sul fine che il Governo deve perseguire, se in difesa dell‟ordine morale della società ovvero dell‟ordine politico stabilito dallo Stato. Ciò che garantisce la libertà sociale dalla politica rivoluzionaria, così come l‟iniziativa politica riformatrice dall‟opinione religiosa reazionaria, è l‟azione di Governo, la quale, per questa essenziale ragione di salvaguardia della Giustizia, non può dipendere né dalle correnti ideologiche del momento e neppure dagli interessi patrocinati dal Potere politico. Il Governo, per poter svolgere appieno la sua funzione di garanzia, deve poter essere libero di decidere, quale organo autocratico super partes dotato di una sua originaria e inalienabile auctoritas, non soggetta a vaglio elettorale. La salvaguardia di tale autorità, in origine senatoria e patrizia, costituisce l‟interesse comune sia della società e del suo ordine morale, che dello Stato e del suo ordine politico, sicché è intorno alla garanzia della sua autonomia che andrebbero concentrati gli

489

Ved. H. Arendt, On Revolution, tr. it. cit., pag. 84. “Poiché la compassione abolisce la distanza, ossia quello spazio terreno fra gli uomini in cui si svolgono gli affari politici e si colloca l‟intero campo delle vicende umane, essa resta irrilevante e senza conseguenze dal punto di vista politico”: Ivi, pag. 91. Ma se così fosse, perché mai la compassione avrebbe provocato la croce? In realtà, proprio in quanto essa si sottrae al dialogo politico-razionale, delegittimandone il terreno di scontro e di affermazione, ne determina la reazione. Senza un avversario, non c‟è dia-logo né polemos. Assumere il prossimo come anziché contro se stessi, vuol dire eliminare la stessa ratio che presiede l‟agone politico, rinnegando la ragione stessa del mondo, il suo Bene.

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sforzi comuni, che invece sono nello Stato moderno di diritto dirottati verso la lotta per il Potere, che arriva a toccare la stessa coscienza spirituale dei singoli. Infatti, la divisione tra la morale sociale e l‟etica pubblica passa attraverso la formazione culturale e civile dei singoli, i quali troveranno il conflitto tra le due istanze morale e civile all‟interno della propria coscienza (l‟àme déchirée), determinando di conseguenza una instabilità ideale che, relativizzando ogni posizione personale, spinge l‟opinione comune a considerarla quale mera proiezione di interessi passionali, da razionalizzare portandoli a sistema, e dunque a politicizzare anche l‟ambito spirituale. Va precisato che la fine dell‟auctoritas, registrata anche dalla Arendt, non coincide con l‟estinzione di una istituzione storica come il Senato romano o ente similare, ma con la rimozione culturale della fonte morale dai fondamenti costitutivi della realtà quale mondo dotato di senso razionale. Lo Stato moderno di diritto è stato teorizzato su basi razionalistiche esclusive di ogni altro senso simbolico, e perciò tendenzialmente totalitarie. Ma la condizione di possibilità di tale esito politicamente totalitario è stata offerta dalla teologia cristiana, 490 la 490

H. Arendt in riferimento a “quello spazio dl fenomenico in cui l libertà può dispiegare il suo fascino e divenire una realtà visibile e tangibile”, quello appunto del politico, afferma che “il peso stesso dell‟intera tradizione cristiana impediva loro [a “gli uomini delle rivoluzioni del diciottesimo secolo”] di rendersi conto del fatto piuttosto ovvio che in realtà traevano da quanto facevano un piacere che era al di là della voce del dovere”: On revolution, tr. it. cit., pag. 30. In realtà, l‟idea di uno spazio di libertà predisposto dall‟uomo fuori di quello assegnatogli dalla sua condizione sociale, è stata concepita dalla teologia cristiana come la possibilità stessa della salvezza spirituale in questo mondo, per cui in questo senso la libertà greca sta alla politica come la salvezza cristiana sta alla ecclesìa. Che lo spazio politico sia stato poi occupato dallo Stato e quello soteriologico dalla Chiesa, è altro discorso. Ciò che rileva è che i costituenti americani fossero tutti di formazione culturale cristiana. Infatti “l‟esperienza di essere liberi” dei rivoluzionari moderni “era un‟esperienza nuova”, (Ibidem) non solo in relazione all‟evo di mezzo dalla caduta dell‟Impero romano all‟età moderna, ma anche rispetto all‟antichità greca e romana, in quanto se lo spazio politico ideato dai Greci costituiva una novità rispetto alla società naturale tradizionale, informata alla logica dell‟oikos, lo spazio ecclesiale in senso cristiano andava costituito in alternativa al preesistente spazio politico, informato alla logica del Potere. La fondazione della nuova società politica americana, in quanto emancipata dal Potere coloniale tradizionale, non poteva che essere ispirata dalla prospettiva cristiana di confessione riformata, che riprendeva il

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quale ha accettato storicamente il ruolo di religione di Stato, sol perché la Chiesa deteneva la posizione indiscussa di depositaria dei valori della fede, fondativi della civitas christianorum. Quando, però, la sua posizione divenne discutibile e apertamente rinnegata, il discredito del suo ruolo storico passò alla funzione teologico-politica della religione cristiana, dai razionalisti identificata come una delle tante religioni

senso originario della costituzione ecclesiale, sia pure in una chiave razionalistica fondata sui diritti dell‟uomo, in quanto essere spirituale, e in ogni caso inalienabili in quanto preesistenti al corpo politico. Ciò che invece appartiene per intero alla tradizione politica classica è lo strumento della violenza, così caro a Machiavelli e intrinseco alla concezione stessa del razionalismo politico, che ipotizza che la libertà, in quanto condizione mondana, sia instaurabile, appunto politicamente, e non, in quanto condizione spirituale, confermabile solo dalla fede. Tale ipotesi topologica della libertà come spazio oggettivo, fa storicamente degli Stati rivoluzionari dei regimi tendenzialmente monocratici dove la libertà politica è garantita dal Potere stabilito, che “costringe a essere liberi” (Rousseau), cercando di far convergere la necessità con la libertà. A questo risultato si pervenne anche attraverso la concezione storicistica, per cui “dianzi allo sguardo retrospettivo del pensiero, ogni cosa che era stata politica divenne storica”, sicché le azioni intraprese dai protagonisti furono comprese solo al loro compimento da parte di spettatori, che, rispetto ai protagonisti, si sentirono come “agenti della storia e della necessità storica, col risultato ovvio, eppure paradossale, che la necessità e non la libertà divenne la categoria principale del pensiero politico e rivoluzionario”. Ma tale necessità non era altro che il Logos del mondo pensato dal naturalismo greco, riflesso come prodotto umano, cioè trasferito nella Storia, l‟agone politico universale, la cui “verità, anche se era concepita „storicamente‟, ossia era vista come sviluppo nel tempo, e quindi non doveva necessariamente essere valida per tutti i tempi, doveva pur essere valida per tutti gli uomini”, ovvero “doveva riferirsi e corrispondere non a cittadini, fra i quali poteva esistere solo una moltitudine di opinioni, e neppure ad abitanti di una singola nazione, il cui senso della libertà era limitato dalla loro storia particolare e dalla loro esperienza nazionale [ma] doveva riferirsi all‟uomo in quanto uomo [e pertanto] doveva essere storia del mondo [interessante] i destini di tutti gli uomini”. Solo a questa condizione – di essere cioè universale – la storia acquistava “dignità filosofica” e statuto epistemologico di scienza, senza però consentire di trascendere l‟ambito ideale del politico. Infatti, “l‟idea di storia del mondo in se stessa è chiaramente di origine politica”: H. Arendt, Ivi, pagg. 52-54.

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storiche, e dai cristiani di fede come una aberrazione ideologica da cui emendarsi. Alla radice della trasformazione del cristianesimo in religione politica vi è appunto il concetto di monarchia divina, che da “principio” ( ) prende a declinarsi ideologicamente in senso di Potere ( ). Già Celso aveva ammonito circa la deriva rivoluzionaria del monoteismo cristiano, sia “nel mondo metafisico” che “nell‟ordine politico”, in quanto “distrugge i culti e le caratteristiche nazionali, e attacca contemporaneamente l‟impero romano, nel quale c‟è spazio sia per i culti, sia per le caratteristiche nazionali”. 491 Nondimeno, la liquidazione frettolosa della sua posizione critica verso il monoteismo cristiano, 492 mostra di non cogliere, dietro “l‟intreccio del problema del monoteismo giudaico-cristiano con le questioni della vita politica”, il nesso profondo sottolineato dal pagano tra politica e teologia cristiana, poiché l‟unico Dio di cui parla Celso, “è una figura metafisica” non solo per lui ma per la stessa teologia cristiana che l‟ha concepito in senso dell‟Uno metafisico, come attesta la stessa confutazione di Origene, il quale, confermando la relazione tra l‟unità imperiale romana e la nascita di Cristo sotto il dominio di Augusto, concepita da Dio per superare l‟ “ostacolo alla diffusione della dottrina di Gesù nell‟ecumene” a favore di una generale “moralità maggiore”, non fa che spostare escatologicamente la concordia universale nell‟unica legge del Lògos divino alla fine dei tempi,493 senza però qualificare la diversa ecumenicità spirituale rispetto a quella politica pretesa dai Romani come pax. Lo stesso dicasi per Eusebio, per il quale non solo “l‟impero romano significa la pace”,494 come era stata profetizzata sotto forma di “cessazione del pluralismo politico nella forma degli Stati nazionali”, ma all‟impero romano “appartiene metafisicamente il monoteismo” che per l‟appunto sarebbe “iniziato in linea di principio con la monarchia di

491

E. Peterson, Op. cit., pag. 53.

492

“In fondo, sono considerazioni politiche quelle che inducono Celso a prendere posizione contro il monoteismo cristiano”: E. Peterson, Op. cit., Ibidem. 493 Ivi, pagg. 54-55. 494

Ivi, pag. 59.

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Augusto”, realizzandosi compiutamente “al tempo di Costantino”, il quale, facendosene interprete a livello dottrinario, ha poi “imitato nello stesso tempo, attraverso la sua monarchia, la monarchia divina”, secondo la quale “all‟unico re sulla terra corrisponde l‟unico re in cielo e l‟unico nòmos e Lògos sovrano”.495 Come sottolineato da Peterson, con Origene “il problema del monoteismo non viene più visto nell‟ottica escatologica, ma sotto l‟aspetto storico e allo stesso tempo politico”, secondo un collegamento analogico per cui la fine degli Stati nazionali appare, per un verso, come “il compimento delle profezie veterotestamentarie”, e dall‟altro essa appare “nello stesso tempo, una opzione politica in favore dell‟impero romano”, con la conseguenza che, dal momento in cui “la realtà degli Stati nazionali viene collegata strettamente al politeismo”, di conseguenza “si costringe l‟impero romano nel ruolo di nemico del politeismo”, con la religione cristiana in funzione di “sostegno della politica di pace dell‟impero romano”. 496 E così, con la costituzione del trittico concettuale indissolubile di impero romano, pace e monoteismo, il theologùmenon di Eusebio opera il passaggio della fede cristiana alla ideologia della sua funzione religiosa, sicché “le idee di Eusebio [che] hanno avuto un‟enorme influenza storica, le ritroviamo ovunque nella letteratura patristica” 497 di Oriente e di Occidente, tanto che, così come già per Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Diodoro, Teodoro e Prudenzio, “anche per Orosio, l‟unità dell‟impero romano e l‟unità di Dio sono collegate fra loro”.498 Il legame tra Impero e cristianesimo, che giunge con Orosio a fare di Cristo un “cittadino romano” (civis romanus) e di Augusto un cristiano, era palesemente una costruzione ideologica tendente ad affermare appunto quella “conciliabilità tra monoteismo cristiano e impero romano” che scongiurasse il sospetto che lo sgretolamento dell‟Impero fosse una conseguenza della predicazione evangelica. 499 Il punto di crisi

495

Ivi, pag. 60.

496

Ivi, pag. 61. Ved. A. Momigliano, La caduta senza rumore di un impero nel 476 d.C. (1973), in Storia e storiografia antica, Bologna, 1987, pagg. 368 sgg. 497 Ivi, pag. 62. 498 499

Ivi, pag. 67. Ivi, pag. 69.

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di tale ideologia religiosa, che faceva della monarchia divina il riflesso terreno dell‟Impero romano e che divenne il fulcro teologico-politico dell‟arianesimo, fu il dogma cristiano della Trinità, che metteva in crisi, con la teologia di Eusebio, anche l‟unità dell‟Impero, facendo apparire il cristianesimo come una “rivoluzione sia nell‟ordine metafisico sia in quello politico, come era stato chiaramente predetto da Celso”. 500 Fu Gregorio Nazianzeno (330 ca. - 390) a fornire, nel suo terzo Discorso teologico, la dottrina dei “tre concetti di Dio” con cui viene “teologicamente spezzato il legame fra annuncio cristiano e impero romano”, secondo la quale i cristiani si riconoscono solo in quello della monarchia divina, rigettando gli altri due dell‟anarchia e della poliarchia, portatori di dissoluzione. Ma si trattava di una monarchia che non ineriva a “un‟unica persona nella divinità, perché questa porta in sé il germe del confitto, ma in una monarchia del Dio trino”, il cui concetto di unità “non ha alcun riscontro nella creatura umana”. 501 Ora, proprio quest‟ultimo è un aspetto di grande portata teologico-politica, che viene chiaramente affermato nella prima lettera a Cledonio, dove Gregorio, prendendo posizione contro la dottrina di Apollinare con cui si negava che Cristo avesse assunto un‟anima umana, sostiene che, in virtù della redenzione totale dell‟uomo, Cristo non poteva non assumere l‟uomo nella sua totalità di anima e corpo. Questa costituzione unitaria non esclude la diversità ontologica tra la dimensione temporale e visibile, e quella eterna e invisibile, ma nega solo la separatezza empirica di un uomo esclusivamente umano o esclusivamente divino. Ebbene, è la compresenza della duplice natura, umana e divina, nello stesso soggetto empirico a escludere la possibilità di pensare, alla maniera della filosofia greca, a una totale quanto esclusiva dimensione politica dell‟uomo, la cui identità reale sia il riflesso speculare del suo modello ideale, poiché l‟elemento finito e quello infinito sono inseparabili nella stessa esperienza umana ma non assimilabili l‟uno all‟altro in quanto eterogenei. Proprio la compresenza delle due nature, umana e divina, nello stesso uomo fa di ognuno una unità esistenziale ma non metafisica, come invece avviene in Dio, le cui tre persone

500 501

Ivi, pag. 70. Ivi, pag. 70.

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ipostatiche coincidono e “sono una sola e stessa cosa”. 502 Trasferire nella dimensione divina l‟unità, che la metafisica greca intendeva come corrispondenza dell‟ente all‟Essere ideale, significava, esplicitamente che essa poteva rinvenirsi come traccia imperfetta solo nell‟esistenza individuale dell‟uomo singolare, ed implicitamente che essa non fosse503 conseguibile nella sfera politica, né nei termini della pax augusta – per altro contestata da Agostino - ma neppure in quelli di una armonizzazione del collettivo entro una forma unitaria istituzionalmente coerente in senso sistemico-razionale, per cui con Gregorio lo stesso “monoteismo come problema politico” veniva distinto dal senso teologico cristiano della monarchia divina e consegnato al “principio monarchico della filosofia greca” col quale era stato “fuso” a seguito della “trasformazione ellenistica della fede giudaica in Dio”. 504 La differenza radicale ed insanabile tra la prospettiva politicistica pagana e quella spiritualistica cristiana si concentrava sulla diversa considerazione che rispettivamente si aveva dell‟uomo, e quindi della proposta circa la sua salvezza. Se infatti la sapienza pagana lo

502

Come scrive Gregorio, “noi non dividiamo l‟uomo dalla divinità, ma affermiamo uno solo e lo stesso, prima non uomo ma solo Dio e Figlio […], ma alla fine anche uomo, assunto per la nostra salvezza, passibile nella carne, impassibile nella divinità, circoscrivibile nel corpo, incircoscrivibile nello spirito, […] perché dallo stesso, uomo completo e Dio, fosse ricreato l‟intero uomo che era caduto sotto il peccato. […] Due sono infatti le nature, Dio e l‟uomo, perché anche anima e corpo sono due nature [ma ciò non significa che] in noi ci sono due uomini [bensì che] altro è ciò di cui è composto il Salvatore – dato che non sono lo stesso ciò ch‟è invisibile e ciò ch‟è visibile, ciò ch‟è fuori del tempo e ciò ch‟è soggetto al tempo -, ma non sono un altro e un altro [bensì] le due realtà sono una cosa sola per mescolanza, in quanto Dio si è fatto uomo e l‟uomo è stato reso Dio. […] Dico altro e altro, mentre per la Trinità è l‟opposto. Infatti qui sono un altro e un altro (), perché noi non avessimo a confondere le ipostasi. Non altro e altro (): infatti i tre sono una sola e stessa cosa per la divinità”: Gregorio di Nazianzo, Prima lettera a Cledonio, ed. P. Gallay, Sources Chrétiennes 208, tr. it. a cura di M. Simonetti in Il Cristo, vol. II, Milano, 1998, pagg. 327-329. 503 Agostino, Civitas Dei, III, 30. 504

E. Peterson, Op. cit., pag. 71.

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concepiva come essere sociale che solo all‟interno della vita pubblica trovava il suo congruo spazio esistenziale, la fede cristiana assumeva come rilevante la sola esperienza singolare dell‟uomo quale essere spirituale, la cui natura divina non era confinata all‟iperuraneo ma in interiore, nella propria coscienza, il luogo invisibile per definizione, e quindi quanto di più distante dalla realtà dell‟evidenza in cui si svolgeva la vita pubblica. Ciò insomma che il cristianesimo apportava nella cultura antica era il senso della personalità interiore come orizzonte alternativo a quello sociale e comune, ponendolo così in antitesi a ogni prospettive di salvezza collettiva. E pertanto, se è vero che la fede trinitaria nell‟unità divina realizzabile solo in Dio liberava ogni legame tra monarchia divina e monoteismo politico, e che la “pace, che il cristiano cerca, non viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui, il quale è „più alto di ogni ragione‟ ”, 505 ma è altrettanto vero che l‟antropologia cristiana ha ereditato l‟idea razionalistica greca dell‟uomo come essere razionale. “Se infatti è dotato di anima ma non di intelletto, dov‟è l‟uomo?”, si chiedeva anche Gregorio.506 E fu propriamente l‟anima razionale a ipotizzare come possibile l‟instaurazione di un ordine della città “nel quale il rapporto sociale” – connaturato all‟essere naturale – “pensato astrattamente e liberato dai legami personali o familiari, si definisce in termini d‟eguaglianza, d‟identità”.507 Tale ordinamento civile, sia in quanto “pensato astrattamente” come libero dai legami familiari naturali, e sia in quanto definito “in termini d‟eguaglianza e d‟identità” politica, non poteva fungere da modello comunitario dell‟uomo spirituale, concepito cristianamente come essere singolare e collegato col suo prossimo, e come tale pensato concretamente nella sua esistenza totale, la quale comprende sia la natura finita, ossia la socialità politica di pertinenza di Cesare, e sia la natura infinita, ossia la socialità agapica, di pertinenza divina. E in virtù di tale duplice natura, il metodo dialettico della filosofia greca, se poteva essere funzionale alla determinazione della

505

Ivi, pag. 72.

506

“ ”: Gregorio Nazianzo, loc. cit., pag. 328. 507 J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs, tr. it., cit., pag. 407.

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di


realtà politica, per la sua esclusività teoretica non poteva costituirsi come lo strumento concettuale al servizio della fede (sarebbe come far assistere un uomo malato da un assassino), per cui il senso trinitario del Lògos divino () andava determinato in senso spiritualistico, e non filosofico-razionalistico. Nella sua polemica con Harnack, che nell‟opera Militia Christi aveva inteso il confronto fra Stato e Chiesa in senso mondano, Peterson ribadiva che esso andava inteso in senso escatologico, ossia come “una vera e propria „lotta‟ (Kampf) tra il regno di Dio e l‟impero terreno, che aveva avuto luogo nel momento in cui il princeps romano era divenuto un Fuhrer che riuniva in sé ogni potere”.508 E ciò implicava a contrario che l‟accezione politicistica della sovranità monarchica conseguisse solo a una de-escatologizzazione del messaggio cristiano e di una sua relativa dottrina teologica intesa come “uno strumento al servizio della forza” politica.509 Ma ciò che Peterson non dice è che ogni concettualizzazione teologica, ossia la teo-logia stessa, era il prodotto di una interpretazione de-escatologica del messaggio evangelico, intesa, in senso funzionale alla sua fruizione politica, alla stregua di una rielaborazione razionalistica del mythos escatologico cristiano. Anzi a questa consapevolezza egli non solo non giunge, ma si mostra ostile a ogni tentativo di configurarla, come in occasione della polemica con Barth, che in un saggio del 1922, Das Wort Gottes als Aufgabe der Theologie, aveva sostenuto l‟impossibilità per l‟uomo di teologia di poter dire qualcosa su Dio. Peterson infatti, rispondendo al testo barthiano con uno proprio del 1925, Was ist Theologie?, ribadisce “il carattere realistico della conoscenza teologica” (der realistische Charakter der theologischen Erkenntnis), conseguente al “carattere reale della rivelazione” (Realcharakter der Offenbarung), ossia al “dato positivo” costitutivo del Lògos divino, che la parola umana trascriveva in termini razionali, e quindi anti-mitici, che Peterson intendeva

508

E. Peterson, Christus als Imperator (1936), cit. in G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, cit., pag. 156. 509 G. Zamagni, Op. cit., pag. 169.

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erroneamente come propri della concretezza della fede 510 e che invece erano intimamente filosofici nel senso greco della fattualità fenomenica. Il senso dialettico della questione, che stabiliva il discrimine tra la certezza dell‟evento cristico come fenomeno storico oggettivo, e la dimensione di fede propria della Rivelazione cristiana simbolizzata dalla passione e morte di Gesù, era pur conseguibile in termini razionalistici attraverso una loro distinzione logica, ma non era quello decisivo, dal momento che la duplice natura divino-umana coesisteva inconsutilmente all‟interno della stessa esperienza singolare dell‟uomo quale creatura spirituale, la cui fatticità storica, entro la dimensione finita del tempo, non poteva (filosoficamente) rimuovere o (politicamente) eludere la destinazione trascendente del senso della sua vita, non riducibile a quella biologica della specie, che propria la logia del discorso su Dio surrettiziamente ammetteva come pre-condizione di ogni rappresentazione teo-logica dell‟evento cristico, che proprio la fede, la stessa che il discorso razionale aveva escluso da ogni considerazione teoretica per essere scientificamente credibile, doveva invece integrare per renderlo vero in senso escatologico, facendo dunque di essa il fondamento stesso della verità di ogni discorso su Dio, e dunque anche sull‟uomo quale imago Dei. Ed è per la stessa ragione di fede che ogni discorso sull‟uomo non può circoscriversi, alla maniera pagana del pensiero greco, alla sua salvezza politica, ossia alla sua pace sociale. Si trattasse pure della monarchia universale. La differenza decisiva della visione cristiana del mondo e dell‟uomo rispetto anche al razionalismo romano di un Seneca, per il quale “il mondo è tenuto insieme non dall‟511[]imperatore romano, ma da un dio, impersonale eppure personale [che] talvolta non è altro che la razionalità del mondo”, in virtù della quale si afferma “l‟eguaglianza teorica di tutti gli uomini in quanto esseri razionali”, 512 risiede nella irriducibilità dell‟essenza e dunque dell‟esperienza umana alla sua natura razionale, la quale, seppure colleghi l‟uomo all‟universo cosmico

510 511

Ved. G. Zamagni, Op. cit., pag. 174. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 259-261.

512

A. Momigliano, Seneca tra vita politica e vita contemplativa (1950), in Id., Storia e storiografia antica, cit., pag. 338.

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come suo elemento integrativo e più rappresentativo, lo definisce soltanto nella dimensione naturalistica della necessità, non dando ragione della sua eccezionale caratteristica antropica di essere spirituale e dunque dotato di responsabilità morale o libertà (liberum arbitrium). Proprio questo carattere ontologico dell‟uomo ne impediva la definizione della sua esistenza entro l‟esclusivo orizzonte razionalistico della socialità politica, quale  , aprendolo, almeno nella cristianità d‟Occidente,513 alla prospettiva escatologica di una nuova esistenza comunitaria in termini di Civitas Dei. 6. La “pace religiosa” conseguita prima ad Augusta (1555) e poi definitivamente a Vestfalia (1648), sancendo la fine della pretesa asburgica di imporre il cattolicesimo come religione imperiale, risolse a favore del Protestantesimo la Guerra dei trent‟anni, riconoscendo la legittimità sovrana degli Stati nazionali a professare una religione territoriale. Essa, secondo Novalis, “fu conclusa secondo principii del tutto erronei ed antireligiosi, e, col proseguimento del cosiddetto

513

Se “in Oriente ci sono santi militari pregiati ed efficaci a difendere l‟impero, [dove] i monaci partecipano, spesso anche rumorosamente, alla vita politica e la rendono indistinguibile dalla vita religiosa”, “in Occidente il monachesimo è una autentica alternativa alla politica”, per cui mentre “in Oriente la religione rianima la vita dell‟impero, in Occidente la sostituisce. Per questo in Oriente non c‟è Medioevo. Se c‟è fervore di organizzazione in Occidente non è nel difendere l‟impero, ma nell‟estensione del ministero pastorale alle campagne e ai barbari”, il che comporta nel contempo che, con la conversione dei barbari invasori, nel nuovo contesto post-imperiale “è la Chiesa che assicura una continuità di appartenenza sociale a chi deve cambiare di sudditanza politica […] in una società in cui la fede religiosa è il maggiore principio di collegamento e associazione” (A. Momigliano, Storia e storiografia antica, cit., pagg. 372-374), confermando così, con la sua funzione religiosa, anche quella katechontica di “custode fondamentale del segreto dell‟ordine politico”, che Schmitt rinveniva nella sua custodia della “rappresentazione” (Repraesentation) del “Dio che si è fatto uomo nella realtà storica”, e sulla cui base si stabilisce la stessa realtà dell‟ordine politico. Ved. C. Schmitt, Roemischer Katholizismus und politische Form (19252), tr. it., Milano, 1986, pag. 47. Sull‟argomento, M. Maraviglia, La penultima guerra. Il “katéchon” nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, Milano, 2006, pagg. 88 sgg.

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Protestantesimo, si dichiarò permanente qualche cosa di assolutamente contraddittorio: ossia un Governo rivoluzionario”.514 Cosa significa un “Governo rivoluzionario”? Novalis afferma ancora che “con la Riforma finisce la Cristianità”, ossia l‟unità religiosa dell‟Europa cristiana con la divisione settaria delle diverse confessioni territoriali, e si inaugura “la nuova politica”, in virtù della quale singoli Stati potenti cercarono di prender possesso del vacante soglio universale mutato in trono. […] Nella fede si ricercò l‟origine del ristagno generale, e si sperò di superarlo con la diffusione del sapere. Dappertutto i sentimento religioso soffrì sotto le molteplici persecuzioni della sua forma tramandata, della sua personalità temporale. Il risultato del modo di pensare moderno lo si chiamò filosofia, in essa comprendendo tutto ciò che fosse contrario all‟antico, e in primo luogo, quindi, ogni idea contraria alla religione [sconsacrando pertanto] fantasia e sentimento, morale e amore dell‟arte, speranze e tradizioni. […] Un solo entusiasmo era stato generosamente lasciato al misero genere umano rendendolo indispensabile, come pietra di paragone della più alta cultura, ad ogni azionista di essa: l‟entusiasmo per questa stupenda e grandiosa filosofia, e in particolare per i suoi sacerdoti e mistagoghi [i quali cercarono] di conferire all‟antica religione un senso più aggiornato, più razionale, più corrivo facendo scomparire accuratamente ogni traccia di miracolo e di mistero [per cui] Dio fu ridotto a ozioso spettatore del grandioso e commovente spettacolo presentato dai dotti [e] il volgo fu illuminato con vera predilezione ed educato a colto entusiasmo; e sorse così una nuova corporazione europea: quella dei filantropi e degli illuministi. 515

Eppure, prosegue Novalis, la dissoluzione morale dei tempi della “incredulità” viene infrenata da un “fuoco sovraterreno” che genera “il tempo della resurrezione”, tale da potersi dire che “la vera anarchia sia l‟elemento generatore della religione [poiché] dall‟annientamento di ogni positività essa leva i suo capo glorioso come nuova fondatrice di

514

Novalis, Cristianità o Europa (1799), tr. it. a c. di M. Manacorda, Torino, 1942, pag. 9. Corsivo nostro. 515

Novalis, Op. cit., pagg. 10-15.

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mondi”.516 Due aspetti vanno considerati, a questo punto. Il primo, è che l‟azione rivoluzionaria interna alla cristianità sia stata una “provvida sventura” per la fede, in quanto dalla sua crisi si genera un nuovo percorso religioso. Il secondo, che il collante religioso sia la risposta alla crisi della civiltà, rappresentata dal razionalismo e dalla politica. Ma se così fosse, si dovrebbe ammettere che l‟ordine, essendo religioso, genera esso stesso l‟anarchia, e che pertanto esso sia intrinsecamente foriero di instabilità morale. La paradossalità, però, è solo apparente, e legata all‟equivoco uso promiscuo di “religione” e di “fede”. Infatti, se la fede si concentra nel fondamento di credenza che “Gesù è il Cristo”,517 la religione è il collante sociale di cui diceva Cicerone, e dunque essa segue le sorti terrene della forma politica che asseconda e legittima. 518 Nel nostro caso, tale forma politico-religiosa è quella della Cristianità storica, che, dopo aver riunito sotto le insegne cristiane l‟antico Impero romano, era pervenuta alla sua crisi epocale, rappresentata dalla Riforma, la quale pertanto sarebbe una rivoluzione interna alla dimensione religiosa che lascerebbe intatta la tradizionale comunità di fede cristiana, il corpus mysticum Christi. E così fu interpretata in origine dalle autorità ecclesiastiche cattoliche, che la interpretarono come una questione di ordine pubblico interno alla dimensione religiosa, che sarebbe rientrata stringendo i ranghi. La pace di Vestfalia dimostrò invece che le cose stavano diversamente, ovvero che l‟implosione della Cristianità, per i suoi stretti addentellati religiosi, era strettamente collegato alla crisi dell‟Impero cristiano. Ciò comporta che la profezia di Novalis, per il quale “con la pace, comincerà a pulsare [nei paesi europei] una nuova e più alta vita religiosa che inghiottirà presto ogni altro interesse mondano”, 519 era semplicemente un abbaglio, in quanto appunto le sorti religiose seguivano necessariamente quelle del Potere politico che servivano, e

516 517

Ivi, pag. 16. Th. Hobbes, Leviathan (1651), cap. XXXIII.

518

In tal senso ved. F. Overbech, l‟amico di Nietzsche, che nella teologia vedeva “nient‟altro che un aspetto della secolarizzazione del cristianesimo”: cit. da F. Heer, Europa madre delle rivoluzioni (19xx), tr. it., Milano, 1968, vol. II, pag. 64. 519 Novalis, Loc. cit., pagg. 18.

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pertanto sarebbero state strettamente congiunte alla rinascita degli Stati nazionali che avevano affossato l‟Impero cristiano. All‟interno di questo errore di cultura va interpretata la querelle che opporrà la lettura teologica di Peterson a quella storico-politica di Schmitt sulla eredità culturale moderna dell‟Europa. Infatti, la traduzione secolare delle formule teologiche non è altro che il riflesso universale del dogma quale “attuazione” (Vollzug) della parola di Dio, ossia la sua razionalizzazione giuridico-politica.520 Pertanto, l‟argomento trinitario opposto da Peterson alla tesi di Schmitt è interno alla dimensione religiosa e teologico-politica del razionalismo cristiano, e non inerisce alla sfera originaria e pre-razionale della fede in Cristo. E così, mentre la posizione teologica, stabilendo la correlazione con la politica determina razionalmente anche la distinzione scientifica delle due sfere disciplinari, la posizione fideistica, essendo inclusiva dell‟umano e del divino nell‟uomo, supera la scissione teoretica tra sacro e profano e quella esistenziale tra fedele e cittadino, ma anche la fonda, poiché senza fede non sarebbe né teologia e neppure legittimità filosofico-politica.521 Per rispondere alla domanda circa l‟essenza del Governo rivoluzionario, occorre comprendere i termini della traslazione dal teologico al politico, concomitante al passaggio dall‟Impero allo Stato nazionale e dalla Chiesa alle confessioni particolari. Infatti, questo collegato processo si compendia nel passaggio dalla dimensione del Governo morale (divino) a quella del Potere politico (umano). Il senso

520

Da questo punto di vista complessivo, la partizione suggerita da Maritain tra una “teologia della politica” e una “teologia politica” non risolve il problema della correlazione tra i due ambiti di conoscenza, legata alla comune fruizione delle categorie razionalistiche del metodo scientifico, che sostituiscono il principio della trascendenza, proprio della fede, in quello universale della ragione, proprio sia della teologia che della secolarizzata filosofia politica, che traduce la onnipotenza divina nei termini della sovranità legislativa statuale. Cfr. J. Maritain, in Humanism intégral, Paris, 1936, pagg. 109-111. 521

“Per atei, anarchici e scientisti positivisti ogni teologia politica – come pure ogni metafisica politica – è scientificamente liquidata da un bel pezzo, poiché teologia e metafisica in quanto scienze sono per essi da molto tempo liquidate”: C. Schmitt, Politischen Theologie II (1970), tr. it. a c. di A. Caracciolo, Milano, 1992, pag. 7.

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metafisico di questo passaggio lo si può cogliere in Aristotele allorquando afferma che “il comando spetta per natura a chi è intellettualmente più lungimirante”,[“T  ossia a chi preveda l‟evoluzione degli accadimenti secondo il piano immanente della ragione delle cose, e dunque a colui che ha maggiore immaginazione intellettuale. Ma si può pre-vedere con l‟intelligenza solo ciò che è pre-stabilito, e nessuno degli umani può pre-vedere con l‟intelligenza ciò che è pre-stabilito per natura. Solo gli dèi hanno questa facoltà, potendo solo essi essere in qualche misura onniscienti. Perché l‟uomo possa fruire di quella facoltà di preveggenza deve trasformarla in potere previsionale. E dunque il dominio consiste nella previsione dei fenomeni, ossia nella normazione e regolamentazione degli eventi secondo schemi necessari e uniformi di sviluppo, costitutivi della , che è il  della stessa esistenza delle cose, e dunque il meglio ( ).523 La “autarchia” antropologica, ossia l‟auto sufficienza dell‟uomo, consiste nel passaggio dall‟affidamento alla sapienza divina alla conoscenza diretta delle leggi cosmiche che presiedono i processi naturali, ossia nella scienza, la quale consiste nel conoscere (verum) ciò che l‟intelligenza stessa dell‟uomo pone come realtà (factum), e dunque nella loro corrispondenza (convertuntur vel reciprocantur). Rispetto alla cognizione storica, e dunque alla relatività della conoscenza agli eventi umani, il razionalismo idealistico greco introduce una pretesa di universalità del sapere filosofico che non si limita ad esaminare gli eventi fattuali, ma intende procedere alla definizione degli enti in sé, intesi come Idee, attraverso i concetti. Risalire con le parole alla essenza delle cose equivale a dominarne il senso ideale. Il processo di dominio del mondo umano dunque consiste nel razionalizzarlo in senso idealistico, eliminando il più possibile dagli eventi il loro naturale mistero. La lotta contro la potenza divina si sposta verso il mistero della natura. Tale processo di dominio razionalistico del mondo, teso ad affermare il valore universale del Logos naturale, si realizza attraverso la politica, il braccio secolare della Ragione universale subentrata al volere degli dèi. 522 523

Politica, I, 1252 a, 32-33. Ivi, 1253 a, 1-2.

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Il “politico” definito da Schmitt non è altro che il Vollzug del Logos ideale, teso a distinguere il nemico dall‟amico come il concetto logico distingue il vero dal falso, così come, per Peterson, “la teologia è l‟elongazione della Rivelazione del Logos che si compie nelle forme dell‟argomentazione concreta”.524 Il passaggio dal sacro al secolare è dunque avvenuto in origine con l‟assunzione del Logos filosofico in vece della ragione divina, e non è un fenomeno precipuamente moderno. La modernità consiste nell‟aver desacralizzato il Logos che il Cristianesimo aveva divinizzato ipostaticamente come , assumendolo per ciò-che-è, ossia per ciò che realmente appare all‟uomo: come Potere di conversione universale del Mistero divino in previsione secondo Ragione umana, in dominio politico del mondo. La modernità porta a termine la metafisica greca e la conclude con l‟apoteosi della ideo-logia del Potere totalitario, del dominio assoluto del mondo entificato. Questo passaggio è segnato dalla fine della coesistenza della Chiesa dokematica con il sacro romano Impero e l‟affermarsi degli Stati nazionali, ognuno dei quali assoluto e superiorem non recognoscens entro i suoi confini, che localizza il Potere politico sull‟ente statuale superstiziosamente idolatrato come Idea. Per quanto detto, si comprende come la politica, intesa come Potere dell‟universale emancipato dal Mistero divino, non è che l‟elemento logico della teo-logia decurtata del Theòs: ovvero il Logos emancipato (cioè universalizzato) dal fondamento di fede (cioè dal Mistero) e definito come kratos autarchico. Da qui “l‟identità strutturale dei concetti teologici e delle argomentazioni e cognizioni giuridiche”.525 Finquando persisteva la dialettica tra Chiesa e Impero, ossia finquando resisteva la comune assunzione che “omnia potestas a Deo” come atto di fede nel Cristo Re, fu possibile stabilire un rapporto organico tra la Chiesa come corpus mysticum e la Cristianità come universitas politica. Infatti i termini organologici del corpus erano ispirati dallo stesso referente divino del Cristo come Verbum caro. La crisi intervenne quando la forma storica dell‟Imperium mutò fisionomia politica a seguito della costituzione degli Stati nazionali, dove ogni “rex in regno 524 525

C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 16. C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 17.

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suo est imperator”, in concomitanza con la implosione della forma teologica della Chiesa universale a seguito della costituzione delle chiese locali, che infransero, con le rispettive e reciproche garanzie istituzionali, anche il carisma imperiale che aveva incarnato la loro stessa riconosciuta e tradizionale universalità di “societates perfectae”. La crisi della Chiesa si manifestò come fine della universalità del dogma teologico, ossia della sua legittimazione razionale come verità di fede universale, mentre la crisi dell‟Impero si produsse invece come fine dell‟universale monopolio del Potere politico. In entrambi i casi venne meno con lo jus commune l‟unità del comando, con la annessa sacertà tradizionalmente riservata alla plenitudo potestatis del princeps titolare dell‟imperium e reggitore dell‟orbis cristiano.526 Ma la crisi dell‟unità dell‟imperium coincide con la crisi della struttura gerarchica della cultura medievale, che poneva Dio al vertice della scala ascendente, e il Papa e l‟Imperatore come suoi termini mondani. La frantumazione dell‟unità imperiale, anche in senso ecclesiastico, produce l‟anarchia dell‟uguaglianza dei vari reges entro il molteplice panorama degli Stati nazionali, e dunque la condizione di conflittualità propria del metodo politico. In tal senso, la traslazione dal teologico al politico segna il passaggio dalla sovranità imperiale, caratterizzata dalla dialettica tra Governo morale e Potere politico, alla sovranità regale, caratterizzata dalla assolutezza del Potere. Nell‟ambito del dominio razionalistico del politico, ove è stata divelta la gerarchia morale dei rapporti col Potere, “la teologia”, come ha notato giustamente Schmitt, “può diventare politica altrettanto bene in una situazione caratterizzata dalla rivoluzione quanto viceversa in un‟altra caratterizzata dalla controrivoluzione”,527 poiché tali concetti sono soltanto definizioni relative al dominio contingente di una su altra parte in conflitto, “proprio delle tensioni incessantemente mutevoli”, ma non stabiliscono alcuna normazione di verità universale. E ciò comporta che “i due „regni‟ [della dottrina agostiniana] non sono più àmbiti oggettivi chiaramente distinguibili secondo delle sostanze o materie [ma] spirituale-temporale, aldilà-aldiqua, trascendenza-immanenza, idea e 526

Ved. E. Cortese, Il pensiero della sovranità nel pensiero giuridico medioevale, Roma, 1966, pagg. 10-11. 527 C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 17.

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interesse, sovrastruttura e sottostruttura si possono ancora determinare solo a partire dai soggetti in lite”, ossia a partire dalla lotta degli enti politici per il dominio, per cui “la totalità si lascia potenzialmente conseguire partendo da qualsiasi punto della disputa o da qualsiasi oggetto di contesa, dopo che le tradizionali „mura‟, cioè le istituzioni storicamente tramandate delle Chiese e degli Stati, sono state con successo poste in questione da una classe rivoluzionaria”. 528 Ma la rivoluzione del proletariato industriale, alla quale si riferisce Schmitt, non fece che trasferire la crisi dell‟imperium, ossia del monopolio del Potere politico, all‟interno dello Stato erede ideale dell‟Impero. Infranto il principio unitario, il trapasso della conflittualità in ambiti sempre più molteplici, non fa che realizzare il principio di universalità del conflitto insito nella ragione politica. Ed è questo il senso per cui “non si può definire il politico partendo dallo Stato”, come ente fenomenico, 529 ma a partire dal concetto ideale, che è modello normativo di ogni metodo politico-razionale di associazione-dissociazione di amico-nemico fruito dal Potere dello Stato. Risalire dunque alla fonte teologica dei concetti politici, senza andare all‟ , significa fare della secolarizzazione una svolta degenerativa anziché di purificazione concettuale, cercando di illustrare il tralignamento categoriale del sacro originale, e dunque “la deformazione di un archetipo teologico”, 530 attraverso il mutuo concettuale profano ma non darsi ragione della perdita del fondamento di fede, che costituisce il vero problema della modernità, ovvero il problema della verità nel nostro tempo. Aver identificato quel fondamento di fede con la rappresentazione visibile di una istituzione storica, il , ovvero con “la peculiare forma politica della Chiesa romana in quanto rappresentazione visibile nella storia universale dell‟uomo diventato Cristo nella realtà storica, che si manifesta nelle tre forme della sua pubblicità: come forma estetica nella sua grande arte, come forma giuridica nello sviluppo del suo diritto canonico e come forma di potere storico universale splendida

528 529 530

C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 18. C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 19. L‟espressione è di C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 42.

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e gloriosa”,531 costituisce questo problema. E pertanto la identificazione della fede escatologica con l‟universalità del concetto teologico, e questo con il Potere politico che lo esprime come legge ecclesiale, ossia come dogma, porta a coinvolgere la crisi di una struttura istituzionale che ha perso il suo antico carisma nella sua lotta contro lo Stato assolutistico, le cui sorti erano legate dialetticamente a quelle della Chiesa antagonista, e dunque la cui posizione perdente si è identificata con la perdita stessa della fede in Cristo in cui si riteneva incarnata. Una fede inclusiva delle differenze umane, non politicamente esclusiva delle differenze logiche, e dunque del tutto diversa dalla sua rappresentazione teo-logica. Ora è chiaro il senso katechontico svolto dalla Chiesa istituzionale nei confronti del suo antipode politico, l‟Impero, e, viceversa, il ruolo similare svolto da questo nei confronti di una Chiesa integralista e gelasiana. I due Poteri, incarnando i termini dialettici della realtà dell‟Essere pensato come Logos, erano coessenziali al mantenimento dell‟ordine storico metafisicamente giustificato. Lo stesso concetto uno-trinitario di Dio era funzionale alla rappresentazione della identità dell‟essenza trascendente idealizzata (il Christos-Logos) con la sua proiezione storico-fenomenica (la Chiesa), di cui lo Spirito Santo era il mediatore mistico della loro santa unità. Non potrebbe realizzarsi politicamente come monoteismo la Trinità divina, dunque, non perché trina ma in quanto, nell‟ordine gerarchico delle essenze, l‟unità di ogni persona ipostatica si ritrova in Dio, che appunto è Uno, e come tale è Tutto. Ciò che invece è rappresentabile di Dio è la Sua realtà umana incarnata nel Cristo. Cristo è Dio in quanto in Dio, così come la Chiesa è Cristo in quanto in Cristo. Ciò che distingue Dio da Cristo e Cristo dalla Chiesa è la differenza tra la trascendenza dell‟Unità, per la quale due sono in Uno, e la sua rappresentazione, per la quale la originaria duplicità perde la sua possibilità d‟essere in favore della sola attualità d‟essere ciò-che-è. E pertanto la Possibilità, intrinseca alla triplice essenza divina trascendente, viene esclusa dalla rappresentazione razionale della sua attualità storico-fenomenica, la cui conoscenza logicamente esclusiva è tale per cui Cristo razionalmente sia uomo e non Dio, così come il corpo mistico di Cristo sia la Chiesa e non i singoli fedeli. La rappresentazione razionale consiste dunque nella

531

C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 22 n 4.

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conversione della Possibilità della co-essenza nella unicità della esistenza dell‟ente di pensiero, ed è in virtù di questa rappresentazione razionalistica dell‟Essere divino che l‟essenza della potenza trinitaria di Dio sia potenza monocratica, e non già in quanto la traslazione politica rifletta una concezione monoteistica, come invece credeva Peterson. 532 Infatti, il carattere politico della teo-logia è implicito nel logos, e dunque nella rappresentazione razionalistica della fede trinitaria. 533 E si sa che il logos costituiva per la sapienza greca la forma rappresentativa dell‟unità naturalistica dell‟Essere, per cui la rappresentazione teologica di Dio è metodo-logicamente una rappresentazione naturalistica.534 L‟aspetto più singolare della adozione metodologica razionalistica da parte della teologia cristiana è costituito dalla assoluta rimozione della conseguenza politica del metodo scientifico nell‟ambito della conoscenza della parola di Dio. Infatti, la razionalizzazione dello spazio politico è stato sin dall‟origine greca funzionale all‟esautorazione del verticalismo olimpico, che trovava in Zeus l‟espressione regale della somma potestà sugli altri dèi, e all‟affidamento del Potere sugli uomini agli uomini stessi.535 Ma per

532

Peterson ha chiaro, nondimeno, che la “univocità concettuale” del dogma esprime il “carattere definitivo e univoco della rivelazione del Logos”: cit. da C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 84. 533 Peterson ha dunque ragione quando afferma che il monoteismo è “venuto fuori come problema politico dalla trasformazione ellenistica della fede giudaica in Dio”, cit. da C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 42. 534 In questo senso, ha ragione C. Schmitt quando afferma che “la teologia politica ha due diversi aspetti, uno teologico e uno politico [per cui] ciascuno si orienta verso i suoi specifici concetti”. E pertanto, “dal lato temporale si impone l‟ubiquità potenziale del politico, da quello spirituale l‟ubiquità del teologico in forme sempre nuove”: Id., Politischen Theologie II, tr. it. cit., pagg. 41 e 58. L‟unità all‟origine della differenza è costituita dalla comune derivazione teoretica dal Logos, che Schmitt indica come “concetto di scienza”: Ivi, pag. 79. 535 Ved. C. Schmitt, Gespraech ueber die Macht und den Zugang zum Machthaber (1954), tr. it., Milano, 2012, pagg. 14 sgg.] Questo scritto dialogico mette in evidenza come l‟uomo, liberatosi della potenza divina e della paura della natura, cerca “protezione” da altri uomini, in cambio di “obbedienza”, sicché “dal punto di

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qualificare come “umano” il rapporto di Potere, bisogna anzitutto cercare una definizione dell‟uomo, sulla base della quale addivenire alla qualificazione di quel rapporto. La nota definizione antropologica aristotelica è il concetto di animale politico parlante, che sta a fondamento assiomatico di ogni “ragionamento scientifico” sulla natura umana. Dal punto di vista cristiano, due sono le nature umane: quella di essenza divina e quella di essenza naturale. Il tertium genus è costituito proprio dalla loro compresenza, per cui, se escludiamo di riflesso dal Potere la sua derivazione divina, non rimane che quella naturalistica, ossia appunto quella “politica”. Tertium non datur. Ma l‟impossibilità di tale scissione tra le due nature umane è mostrata proprio dall‟argomento schmittiano sulla “dialettica interna del Potere umano” e la sua irresolvibilità nella “decisione”536 la quale, operando nel senso della “unità politica”, presuppone una astratta dicotomizzazione logica della realtà molteplice da cui trascegliere l‟aspetto razionalmente giusto e universalmente vero, che corrisponde alla “univocità concettuale” del dogma giuridico. Ciò comporta che la rappresentazione razionale del Potere in termini di “unità politica” o “pace” o “giuridificazione decisionistica” è dal punto di vista esistenziale del tutto astratta, e dunque impossibile da perseguire concretamente. Ma proprio per tale impossibilità l‟azione concreta del Potere, che, in quanto “essenza indivisibile della sovranità” (Hobbes), è un concetto ideale (potestas), deve essere ogni volta assistita dal concreto Governo morale (auctoritas), che considera della realtà anche l‟ingiusto e il falso come suoi elementi irrazionali ma reali. In che modo il Governo assiste il Potere? Giustificando la sua volontà, rendendolo cioè “credibile”, cioè degno di fede. Da qui la funzione religiosa del Governo, la quale, nei regimi politici razionalizzati, assolutistici, è stata sostituita dal consensus populi (democrazia), che può essere consenso attivo, conseguito con la propaganda, o passivo, ottenuto col terrore. La legittimazione razionale del Potere attraverso il consenso popolare (pactum societatis) esprime il suo carattere universale, ossia legittimo

vista umano il legame tra protezione e obbedienza rimane l‟unica spiegazione del Potere”: Ivi, pag. 17. 536 C. Schmitt, Gespraech, tr. it. cit., pagg. 22-27.

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secondo il sistema legale. La coincidenza della legittimità razionale con la legalità formale realizza nello Stato di diritto la “autarchia” dell‟ente politico sovrano che porta in atto la sua potenza, la forza efficace del Potere. Ciò comporta che la “decisione” non è mai un atto concreto del Potere, ma concreta è solo la procedura con la quale il Potere manda ad effetto, ossia attualizza, la sua volontà: la Vollzug dell‟ente politico, il diritto. Da qui l‟inevitabile dipendenza della volontà sovrana dalla sua realizzazione tecnica e del Potere dalla sua burocrazia (il clerus secolare).537 Pertanto, si può muovere a Schmitt ciò che egli rimproverava a Peterson, ossia di muoversi, con la sua teoria del puropolitico, “in una disgiunzione assolutamente astratta, nella cui conseguenza egli può trascurare ogni realtà concreta, commista di spirituale-temporale, del concreto accadere storico” 538 In tal senso, la “univocità concettuale” del decisionismo del Potere, che secondo Schmitt “trasforma l‟immediatezza del carisma in una irrazionalità in sé stessa distruttiva”,539 [in realtà opera in senso katechontico a riguardo della struttura politica razionalizzata o giuridicizzata, ossia a salvaguardia del regno di Cesare, per cui la sua adozione metodologica in ambito canonistico e teologico come “attuazione (Vollzug) della parola di Dio”, opera a salvaguardia della istituzione ecclesiastica, la Chiesa dokematica, la quale, rispetto alla  evangelica, rappresenta la Legge, non Dio.540 La Legge non è altro che il “discorso

537

Secondo A. Ehrhardt, fu Cipriano che, in opposizione alla posizione di Tertulliano, favorevole a mantenere il valore originario del carisma spontaneo del martire, introducendo la “dottrina della successione apostolica in senso stretto nella consapevolezza del laicato cristiano [compie] anche la piena organizzazione giuridica della Chiesa nella parte occidentale dell‟Impero”: cit. da C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 85. 538 C. Schmitt, Gespraech, tr. it. cit., pag. 66. 539

C. Schmitt, Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 84.

540

In questo precipuo senso, ha ragione Schmitt quando afferma che “il teologo potrebbe pronunciare considerevolmente la sua liquidazione di affari dell‟àmbito politico solo stabilendo se stesso come una grandezza politica con pretese politiche […] una pretesa, che diventa tanto più intensamente politica quanto più in alto l‟autorità teologica pretende di stare sopra il potere politico”. Proprio in quanto la

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su Dio”, ossia la teo-logia, che appunto “rende razionalmente conto della fede in Dio”.541 Ma la teo-logia a qual fine discorre su Dio se non per dare della Sua parola un significato univoco, dogmaticamente stabilito per renderlo semanticamente unitario? La te-logia definisce il discorso in termini concettualmente fissati dall‟istituzione ecclesiastica, il cui Potere ermeneutico lo stabilizza in canone diffondendolo in “forme ritualizzate” e così scongiurare il pericolo della indefinita proliferazione dei discorsi.542 La filosofia sin dall‟inizio ha proceduto metodicamente ad escludere dal discorso gli elementi negativi non afferenti alla coerenza logica degli assiomi postulatorii, e dunque il discorso logicamente condotto procede per esclusioni, è cioè esclusivo, e dunque da collante omogeneizzante di con-legamento. In questo senso il discorso filosofico svolge una intrinseca funzione religiosa. La religione è per Hegel “la coscienza della verità assoluta, ciò che deve valere come diritto e giustizia, come dovere e legge”, e pertanto deve essere “sussunta sotto la verità”, intesa come “la vera idea di Dio”. 543 La religione pertanto è identica alla verità in senso ideale-filosofico della metafisica greca, la cui ontologia naturalistica pone l‟identità dell‟Essere e del pensiero. In virtù di tale identità, il discorso teo-logico, pensando la verità di Dio, identifica la verità logica di Dio con Dio stesso, e dunque l‟istituzione religiosa che la canonizza in formule dogmatiche, ossia la Chiesa, con il Logos divino stesso. Ma proprio tale identità onto-teo-logica della religione con la Chiesa, e di questa con il

Chiesa storica si è costituita come realtà teologico-giuridica, razionalizzando il suo carisma in Potere politico, ha reso possibile, sul presupposto di “fondamentali comuni concezioni teologico-cristiane dell‟essenza dell‟uomo”, il conflitto dialettico con l‟Impero, verso il quale “il lato teologico fa valere il carattere dell‟uomo quale doppia essenza composta di spirito e materia, di anima e corpo, la mescolanza di due nature”, trasformando la questione politica della “disputa di istanze” in un conflitto di interpretazioni: Id., Politischen Theologie II, tr. it. cit., pag. 86. 541 W. Kasper, Barmherzigkeit. Grundbegriff des Evangeliums – Schluessel christlichen Lebens (2012), tr. it., Brescia, 2015 7, pag. 20. 542 M. Foucault, L’ordre du discours (1970), tr. it. Torino, 1972, pagg. 8-9. 543

Hegel, Enciclopedia, § 552, tr. it. a cura di B. Croce, Bari 1963, pag. 495.

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 di Cristo, determina la polarità dialettica del discorso religioso con il discorso politico, entrambi confluenti nella de-finizione dogmatica del controllo degli enti esistenziali idealmente equiparati a enti razionali, ossia entrambi concorrenti nel conseguimento del Potere. Infatti, “il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si ceca di impadronirsi”. 544 La materia della contesa per il Potere era la verità, della quale si cercava di ottenere il monopolio al fine di “adattare la realtà alla verità delle parole”. 545 Ma il fatto stesso che la verità potesse escludere alcuni, i perdenti, gli erranti, significava implicitamente che fosse parziale, una verità di parte, e dunque non comune anche quando uni-versale. L‟uni-verso della verità logicamente pensata, politicamente conseguita e religiosamente venerata non è dunque un orizzonte comune, ma esclusivo alla sola parte che essa conprende, tiene insieme. Ma questa religione ideo-logica non può essere quella fede morale predicata da Cristo, che sposta sulla causa prima () la volontà che il metodo logico sposta alla fine quale esito del discorso dialettico. La volontà di credere, rispetto alla volontà di sapere, ponendo la verità all‟inizio di ogni ricerca, e non alla fine, pone la verità come Mistero e non come oggetto del sapere. E in quanto Verità originaria e in sé misteriosa, che sta al di qua di ogni ricerca e al di là di ogni transeunte sapere, essa include nel suo Mistero ogni verità possibile, perché non ne dipende, inclusa la distinzione vero-falso e le sue proiezioni politiche di amico-nemico. La fede è dunque l‟orizzonte inclusivo della possibilità della stessa conoscenza, la quale conoscenza, determinando la realtà nella sua esclusiva possibilità d‟essere solo ciò che è attualmente, interviene come opera di semplificazione della 544

M. Foucault, L’ordre du discours, tr. it. cit., pag. 10. Foucault, nondimeno, ha torto nel ritenere che quello filosofico, diversamente dal mitico, “non è più il discorso legato al potere” (Ivi, pag. 14), poiché la partizione vero-falso tipica dell‟argomentazione logica semplicemente ricompone l‟ordine del discorso secondo una modalità metodica di tipo razionale e non simbolica come quella adottata dal Mito, sicché sofistica è la partizione extra-metodica e dunque arbitraria, ossia libera dalla necessità determinata dal logos. 545 L‟espressione è di A. Gehlen, Moral und Hypermora (1969), tr. it., Verona, 2001, pag. 190.

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plurivoca realtà, alla perdita della speranza della molteplice possibilità rappresentata dal Mito, quale “via di uscita della disperazione” 546 e del superamento della lotta politica nella relazione agapica della comunità mistica.547 Ora, se è vero che la “volontà di verità, come gli altri sistemi d‟esclusione, poggia su di un supporto istituzionale”, 548 la conseguenza diretta e più rilevante della emancipazione cristiana dell‟uomo dalla volontà di sapere e dal suo annesso contesto politico è la negazione della necessità del suo destino e quindi del ruolo, funzionale al Potere, della istituzione religiosa, per cui la pretesa avanzata da Hegel circa l‟unicità della verità in seno a una unica coscienza è del tutto legittima “secondo la forma” esclusiva del “sapere” e del “pensiero” logico, secondo il quale “non ci possono essere due diverse coscienze, una religiosa e una etica”, in quanto “religione ed eticità” sono concetti che “appartengono all‟intelligenza”e non all‟esperienza delle relazioni esistenziali. E pertanto, prosegue il filosofo, “spetta al contenuto religioso, come verità pura, […] sanzionare l‟eticità, che sta nella realtà empirica”, così che “la religione” sia insieme “per l‟autocoscienza” tanto il fondamento teoretico “dell‟eticità” che “la base [ideologica] dello Stato”.549 In questa corrispondente identità del concetto ideale con la realtà, interiore e statale, si compendia la condizione di universale

546

A. Gehlen, Loc. cit., pag. 197.

547

“La comunità religiosa , in quanto luogo del reciproco aiuto, aggrega alle associazioni dei clan, dei fratelli di sangue e delle tribù, ogni membro della comunità stessa. O meglio, essa lo mette al posto del compagno di clan […] da ciò deriva il comandamento della „fratellanza‟ che è specifico della comunità religiosa perché essa realizza nel modo più profondo l‟emancipazione dall‟associazione politica”: M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, cit. da A. Gehlen, Loc. cit., pag. 137. In realtà, la morale della fratellanza cristiana realizza l‟emancipazione anche dalla associazione religiosa, strettamente commista in senso funzionale alla comunità politica, come da Weber stesso riconosciuto quando afferma che “solo una forte commistione fra le comunità politiche ed etniche e la liberazione degli dèi in quanto potenze universali dalla comunità politica rende possibile la realizzazione dell‟universalità dell‟amore”: Ibidem. 548 M. Foucault, L’ordre du discours, tr. it. cit., pag. 15. 549

Hegel, Enciclopedia, § 552, tr. it. cit., pag. 495.

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libertà che fonda la legittimità del “diritto razionale”, fuori della quale non c‟è che “l‟errore mostruoso” della scissione della religione dallo Stato e la loro reciproca indifferenza. 550 Nel caso della conoscenza di Dio, ovvero dello spirito assoluto, “la separazione appare dal lato della religione”, che separa l‟autocoscienza dal contenuto della verità. Poiché tale contenuto non è naturale ma concerne la verità stessa di Dio, per cui esso è il sapere stesso di Dio come autocoscienza. Nel cattolicesimo, l‟adorazione di Dio procede dalla sua rappresentazione “come una cosa esterna”, e dunque non libera né spirituale e foriera di ogni sorta di superstizione. Dalla relazione di esteriorità con Dio deriva la esistenza di “una classe laica, che riceve il sapere della verità divina, nonché la direzione della volontà e della coscienza, dall‟esterno e da un‟altra classe; la quale anche non è giunta a sua volta al possesso di quel sapere in modo solamente spirituale [ma attraverso] una consacrazione esterna”. Come pure “la devozione” che non si rivolge direttamente a Dio ma a “immagini miracolose”, oppure “la giustificazione per le opere esterne”: “tutto ciò assoggetta lo spirito a un‟esteriorità, onde il suo concetto vien disconosciuto nel suo intimo e travisato; e il diritto e la giustizia, la moralità e la coscienza, la responsabilità e il dovere sono guasti nella loro radice”.551 Non a caso la religione cattolica è collegata con “quei governi collegati con istituzioni che si fondano sulla servitù dello spirito, - il quale dovrebbe essere giuridicamente ed eticamente libero, cioè su istituzioni del‟ingiustizia e su una condizione di corruttela e di barbarie morale”. Ma questi governi non sanno di avere una “forza nemica” che agisce “contro quella condizione di esteriorità e di dilaniamento”, la forza della libertà interiore, quella della “sapienza mondana” (Weltweisheit) per eccellenza, ossia la filosofia, la quale “rende presente la verità dello spirito [divino], l‟introduce nel mondo, e lo libera così nella sua realtà e in sé stesso”, trasformando così la “santità”, che è il contenuto morale privo di verità, in “eticità”, in moralità consapevole ed effettuale entro la società civile, ossia in “vera libertà”, intesa come “obbedienza verso

550 551

Ibidem. Ivi, pag. 496.

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la legge e le istituzioni” dello Stato, il quale “è la vera e propria ragione che si realizza”.552 La “eticità dello Stato” è dunque la moralità realizzata, la ragione universale dello spirito divino presente alla coscienza e immanente nella vita mondana: “così la saggezza diventa concreta in questa vita e fa che porti in sé stessa la sua giustificazione”. 553 Ma questa realtà morale, questa santità effettuale, questa eticità concreta insomma, non consiste nella mera “ubbidienza da prestarsi al diritto dello Stato”, che potrebbe appunto incontrare l‟opposizione del sapere filosofico. Occorre che i due elementi s‟incontrino e non restino separati, per cui il valore morale professato dalla religione deve esso stesso eticizzarsi e trasformarsi, da “religione della servitù”, o della separatezza, in religione della libertà, o dell‟unità spirituale.554 Il contrasto tra il dettato legislativo, anche il più razionale, e lo spirito religioso del paese cui va applicato, si riflette sulla distanza tra le norme astratte e “l‟attuazione della legislazione”, per cui “le leggi, in questa antitesi contro ciò che la religione ha dichiarato santo, appaiono come qualcosa di fatto dall‟uomo: esse non potrebbero, quand‟anche fossero sanzionate ed introdotte esternamente, opporre durevole resistenza alla contraddizione e agli assalti dello spirito religioso contro di loro. Così tali leggi, quand‟anche il loro contenuto fosse il vero, naufragano nella coscienza, il cui spirito è diverso dallo spirito delle leggi e non le sanziona”. E‟ dunque “una pazzia dei tempi recenti cangiare un sistema di costume corrotto e la costituzione dello

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Ivi, pagg. 497-498. Ivi, pag. 498.

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“Non giova che le leggi e l‟ordinamento dello Stato siano trasformati in organizzazione giuridica razionale, se non si abbandona nella religione il principio della servitù. Le due cose sono incomportabili tra oro: è una matta idea voler assegnar loro un dominio separato, nell‟opinione che la loro diversità se ne stia poi pacificamente, e non scoppi in contrasto e lotta. I principi della libertà giuridica possono essere soltanto astratti e superficiali, e le istituzioni di Stato derivate da essi debbono essere per sé insostenibili, quando la saggezza di quei principi sconosce tanto la religione da non sapere che i principi della ragione della realtà hanno la loro ultima e somma garanzia nella coscienza religiosa, nella sussunzione sotto la coscienza della verità assoluta”: Ivi, pag. 498.

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Stato e la legislazione, senza aver fatto una riforma”. 555 In cosa consiste dunque tale “riforma” religiosa se non nella stessa razionalizzazione del sacro nel mondano sapere filosofico, omologando i precetti morali all‟unità della forma razionale? Nella eticità, la possibilità spirituale resa presente alla coscienza razionale come norma etica, perde la sua libertà e diventa necessità. Questo divenire della libertà morale in necessità etica è opera delle istituzioni giuridiche dello Stato, le quali sono garantite dal Potere, il quale finalmente è l‟organo decisore del bene comune. Che questo Potere sia religioso o politico è superato dalla sua funzione etica, cioè pubblica, che lo costituisce come unità politica e religiosa, spirituale. E in questa unità spirituale l‟universale filosofico incontra l‟effettualità del Potere politico, la cui forza consiste dunque nella mondanizzazione della verità del Logos, ovvero nella profanazione del sacro. Eppure, nonostante il platonismo hegeliano, il movimento dialettico che contraddistingue il rapporto storico della morale cristiana con la ragione dello Stato non è mai cessato anche all‟interno dell‟ orizzonte religioso riformato, poiché il “contenuto sostanziale”, rispettivamente della fede soggettiva e del Potere universale, non è “il medesimo”, come invece credeva Hegel.556 Infatti, l‟astratta universalità della legge, incarnandosi nella soggettività della coscienza morale, non realizza se stessa, né come universalità razionale e neppure come soggettività individuale, ma rappresenta l‟altro in sé. Solo nel rapporto morale l‟altro-da-sé viene rappresentato come in sé, ossia insieme come se stesso, e dunque come altro, e come lo stesso me stesso, e dunque come prossimo. Nel caso morale non c‟è risoluzione identitaria dell‟ente nell‟Essere, ma concreta relazione esistenziale, meta-giuridica e meta-politica, in quanto non supportata da alcuna mediazione istituzionale preposta alla trans555

Così come “un ripiego è da considerare il voler separare i diritti e le leggi dalla religione, quando ci sia l‟impotenza a discendere nelle profondità dello spirito religioso e di elevare questo spirito stesso alla sua verità. Quelle garanzie sono puntelli fracidi rispetto alla coscienza dei soggetti, che debbono maneggiare le leggi nelle quali rientrano le garanzie stesse. E‟ la somma, la più profana delle contraddizioni che si possano concepire, voler legare e sottoporre la coscienza religiosa alla legislazione mondana, che essa considera come profana”: Ivi, pag. 499. 556 Ivi, pag. 500.

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formazione omologante dell‟ente al suo modello ideale. L‟altro è in questa relazione morale accolto nel suo essere-in-sé-come-sé-stesso, e pertanto accolto così-come-è e amato nella sua possibilità d‟essere. Amare l‟altro nella sua possibilità significa non giudicarlo per il suo essere-presente, e dunque non distinguere l‟essere-che-è presente dalla sua possibilità originaria, cioè dalla sua intierezza esistenziale. Tale relazione originaria, d‟altro canto, liberandosi dalla necessità istituzionalmente stabilita, libera anche dal rituale del discorso costrittivo che razionalmente la legittima, instaurando un novus ordo sentimentale e non legale, proprio ai rapporti volontari. Ma l‟adesione volontaria alla comune condizione originaria designano nient‟altro che la fede nella verità del Mito; la quale verità, nella trascrizione attualizzante della sua possibilità, viene assunta come un gioco linguistico determinativo di senso: il senso ordinato dal discorso razionale. L‟ordinamento del discorso razionale stabilito dalla filosofia corrisponde al sistema557 giuridicizzato stabilito dal Potere politico e/o religioso, ispirato a valori eticamente sovrani, e pertanto la sovranità è la sussunzione degli enti politici entro il valore ideale ma eticamente istituzionalizzato. La effettualità dello Spirito è la conditio sine qua non per la stessa leggibilità razionale del mondo, la cui realtà va dunque interpretata secondo il suo sensus historicus e non simbolico e preistorico, e perciò in base alla necessità della sua determinazione concettuale, e non aperto alla libertà della sua possibilità miticometaforica. La giustificazione razionale della necessità di tale sussunzione è la diversità degli enti empirici rispetto al valore cui vanno uni-formati; distinzione che è dis-formità negativa da ricondurre all‟ordine. La trascrizione politica di tale diversità dis-ordinata è la “pericolosità”, che per Hobbes giustifica il Potere dello Stato sull‟uomo. Dunque il superamento della “pericolosità” teoretico-politica è l‟autocoscienza filosofica, che segna il passaggio alla dimensione storica, coincidente con la mondanizzazione dello Spirito ovvero con la profanazione del sacro. La dimensione del sacro non è che la possibilità messianica dello Spirito.

557

Che “il vero effettuale” sia “solo come sistema”, è Hegel stesso ad affermarlo nella Fenomenologia, tr. it. a cura di E. De Negri, Firenze, 1973, vol. I, pag. 19.

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Che la risposta sia agapica e rivolta a comprendere l‟altro, o politica e rivolta all‟affermazione del sé che esclude l‟altro, in ogni caso il presupposto che ispira entrambe è la penìa platonica, o l‟astheneìa di Paolo (Rom., 8, 26) o ciò che Gehlen chiama Maengelwesen, ossia una fondamentale indigenza, carenza o mancanza dell‟uomo in relazione alla sua soggettività, che va dunque completata nel rapporto con l‟altro.558 Il rapporto con l‟altro è per l‟uomo la normalità, mentre la soggettività in sé è lo stato di eccezione. Ora possiamo cogliere per intero il senso dell‟affermazione di Schmitt sulla sovranità: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, 559 cioè sulle sorti dell‟uomo in quanto soggetto da normalizzare. Dalla condizione originaria dell‟uomo nasce il bisogno di un correttivo in direzione di una normalizzazione sociale, di un riempimento della sua mancanza attraverso il rapporto con gli altri uomini, di cui la il Potere è la volontà razionale e il diritto è la regolamentazione sistemicamente stabilita di tale volontà. La filosofia è la logica del Potere, e la religione l‟etica del diritto. E‟ lo stesso Schmitt ad affermare che “per la giurisprudenza lo stato di eccezione ha un significato analogo a quello che il miracolo ha per la teologia”.560 Il miracolo è dunque la condizione di auto-affermazione della soggettività umana fuori di ogni relazione normalizzata. Non la solitudine bestiale o semi-divina di cui Aristotile, ma l‟autoaffermazione della soggettività capace di emanciparsi dal suo destino socio-antropologico, legato ai vincoli della “carne” (Rom., 8, 5), e dunque di addivenire a una relazione con l‟altro di tipo meta-politico e a-razionale, fondata sull‟indeterminata possibilità d‟essere dell‟uomo messianico, che è “secondo lo Spirito”, sulla sua autonomia esistenziale

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Se l‟altro è Dio, ogni altro uomo è lo stesso Dio, e dunque da amare. La relazione con l‟uomo odiato come inimicus, o con il nemico in senso politico (hostis), stabilisce un rapporto dove Dio è assente. E solo dove Dio è assente, o sostituito con idoli, è possibile stabilire una relazione politica, di esclusione dell‟altro. Da qui l‟impossibilità per il cristiano di ogni teocrazia, che è il dominio sacralizzato della legge contro cui ha testimoniato la fede di Paolo nel Cristo liberatore dalla sua servitù (Gal.). 559 C. Schmitt, Politische Theologie (1922), tr. it. in Le categorie del “politico”, Bologna, 1972, pag. 33. 560 Ivi, pag. 61.

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poggiante sulla singolarità della sua condizione eccezionale. Ed è questo l‟orizzonte di coscienza di Kierkegaard, citato anche da Schmitt.561 “L‟ordine del profano”, afferma significativamente Benjamin, “deve essere orientato sull‟idea di felicità”, 562 la quale non è una categoria religiosa ma politica, come già notato da Tommaso, che, per la sua natura transeunte, la distingueva dalla condizione perfetta della beatitudine, e che Dante considerava aspirazione della virtù propria del monarca.563 Ma, quand‟anche percorso di dolorosa esperienza esistenziale per la coscienza eccezionale, anche l‟ordine profano “può favorire l‟avvento del regno messianico”, cioè iscriversi nel processo mistico verso la “restitutio in integrum spirituale che conduce all‟immortalità”, il cui “ritmo” del tempo naturale è appunto la felicità, il tèlos della “mondanità” della profana dimensione politica. “Il Profano non è, dunque”, per la coscienza messianica della storia, “una categoria del Regno, ma una categoria del suo più facile approssimarsi”. 564 Questa considerazione ci aiuta a comprendere la prospettiva messianica che ispira il progetto monarchico di Dante, il senso della sua esclusione di ogni utopia teocratica. L‟Impero romano, infatti, aveva costituito il percorso nichilistico di una “politica mondiale” priva di quella finalità escatologica che solo il Cristianesimo avrebbe aggiunto al suo universale ma caduco Potere, privo della “speranza” paolina nella “salvezza dalla schiavitù della corruzione”. 565 Tale salvezza per Paolo non è “la sapienza dei saggi” greci, i “sapienti secondo la carne”, cioè la “intelligenza degli intelligenti”, con la quale “il mondo non ha

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Ivi, pag. 41. W. Benjamin, Theologisch-Politisches Fragment (1920), tr. it. in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Torino, 1982, pag. 171. 563 Ved. Cap. VI, Ragione, simbolo, tragedia, pag. xy. 562

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W. Benjamin, Ibidem.

565

Ivi, pag. 496. Rom., 8, 24. Sul “parallelo stupefacente” tra la tesi di Benjamin e di s. Paolo, ha insistito molto J. Taubes, Die Politische Theologie des Paulus (1987), tr. it., Milano, 1997, pagg. 133 sgg..

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conosciuto Dio”, ma la “pazzia della predicazione” (Cor., 1, 19-26).566 In cosa consiste tale “pazzia”? Esattamente nel richiedere e sollecitare che i rapporti inter-personali siano conseguenti a una trasformazione pneumatica della identità dell‟uomo, emancipata da quella politica e naturalistica tradizionali. La nuova identità spirituale non assume più la relazione tra uomini come legame mediato dalla socialità, cioè dal legame unitivo di carattere collettivo e impersonale, ma come legame appunto personale e soggettivo, stabilito elettivamente per consapevole scelta. Una soggettività slegata dall‟impersonale rapporto di appartenenza sociale o familiare si offre all‟altro nella sua intierezza singolare, nella sua totalità spirituale unica. Il superamento del rapporto politico coincide con l‟affermazione della singolarità dello individuo personale, che stabilisce col mondo rapporti non mediati da leggi né da

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J. Taubes, attribuisce al cristianesimo la “radicalizzazione” della salvezza per mezzo della verità, che per i filosofi greci era riservata ai pochi e che per la soteriologia cristiana dev‟essere invece per tutti ( Loc. cit., pag. 150). L‟equivoco, che Taubes condivide col suo maestro Nietzsche, è di concepire in termini sociologici e orizzontali la possibilità della salvezza in senso cristiano, spirituale, che ogni uomo può intraprendere attraverso un processo di affrancamento dal suo destino naturale, universale. Lo spostamento del baricentro soteriologico dal tema etico della metafisica socratico-platonica, inerente la funzione liberatoria del Logos politico dalla schiavitù sociale, a quello morale dell‟escatologia cristiana, determina una diversa articolazione del valore discriminante, che, emancipato dal piano dei rapporti socio-economici collettivi e condotto al piano coscienziale-soggettivo, non è rimuovibile per intervento esterno, politico, e dunque intrinsecamente gerarchico e meta-politico. Ogni strutturazione morale dei rapporti umani è essenzialmente gerarchica in senso spiritualistico e aristocratica in senso carismatico, ma non in senso socio-politico. Tradotta la conversione spirituale (metanoia) in appartenenza politica (amicitia), è venuto a perdersi il motivo elettivo e carismatico costitutivo della ecclesia a favore di quello politico e burocratico tipico di una universitas. E‟ nel momento in cui, con la costituzione imperiale della Chiesa, la differenza mistico-spirituale viene intesa in senso antropologico-naturalistico aristotelico (physei) che la condizione morale soggettiva viene a perdere il suo originario connotato elettivo, e dunque ontologicamente discriminatorio, a favore di uno universale in senso teologico-politico collettivo. Il rapporto politico oggettiva la relazionalità delle parti, per cui gli hostes non sono inimici personali proprio perché il loro rapporto è oggettivo, cioè ideale, non concreto e personale. Il cattolicesimo, volendo redimere il mondo, ha finito per occuparsi di politica, brigando con Cesare, anziché delle singole anime e del loro singolare rapporto con Dio.

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istituzioni formalizzanti. Il luogo esistenziale della necessità, il contesto della comunità politica, viene trasceso a favore del luogo della libertà, il foro ecclesiale. Il rapporto politico non è mai esistenziale, ma sempre oggettivo e impersonale perché ideale. 567 Il Potere ideale, oggettivato, fatto derivare dalla volontà umana e desacralizzato, “non è in sé né buono né cattivo; è di per sé neutro; è ciò che l‟uomo fa di esso: nelle mani di un uomo buono è buono, in quelle di un uomo cattivo è cattivo”. La neutralità deriva dalla relatività del giudizio sulla sua bontà, per cui “il Potere è buono se ce l‟ho io, ed è cattivo se ce l‟ha il mio nemico”.568 Il superamento di tale relatività, e dunque della manipolazione della giustificazione del Potere a opera della retorica sofistica, conseguente alla estromissione della legittimazione divina da parte del razionalismo greco, viene tentato dalla filosofia maieutica di Socrate attraverso la definizione logica del modello etico di Giustizia ideale (), la quale, dovendo comunque essere affermata politicamente, deve mettersi nelle mani esecutive del Potere, diventando legge. La legge politica è dunque quella del Logos istituzionalizzato, e il Potere è l‟esercizio legislativo dei suoi interpreti. Questi interpreti della legge sono i potenti (, Rom, 13) di questo mondo che tengono in custodia servile i popoli; o almeno quelli non emancipati dalla Rivelazione cristica, e quindi estranei alla gloria ( ) alla quale, secondo Paolo, partecipano gli eletti nel nuovo eone cristiano. La legge, nella dimensione escatologica ebraica e quindi paolina, è fondamentalmente un patto 569 prodotto dalle potenze angeliche () che vigilano sull‟uomo e sulla sua applicazione (libro di Henoch), che opprime l‟uomo sotto il peccato, come il pedagogo che tiene in servitù l‟erede. Nella prospettiva del razionalismo politico

567

Ciò non significa che non si stabiliscano relazioni personali tra sodali di una stessa parte politica, ma che la relazione politica è fondata non su di esse ma su un criterio di appartenenza oggettivo e astratto, ideale appunto, in base al quale si è “partigiani”. Ved. C. Schmitt, Theorie des Partisanen (1963), tr. it., Milano, 2005. 568 C. Schmitt, Gespraech ueber die Macht und den Zugang zum Machthaber (1954), tr. it. Milano, 2012, pag. 32. 569 M. Buber definisce il “patto regale” del popolo ebraico con Dio “un atto giuridico-sacrale di reciprocità”: Koenigtum Gottes (1932), tr. it., Genova, 1989, pag. 141.

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greco, l‟emancipazione dal servaggio celeste si realizza attraverso la , che è lo spazio in cui si esercita la volontà del cittadino non più soggetto al Governo delle leggi divine. Nella prospettiva escatologica di Paolo, solo “Cristo rappresenta la maggiore età dei fedeli”, che in lui si liberano dalla legge e dalle potenze angeliche del mondo (Gal, 4; IV libro di Esra).570 Ed è proprio la prospettiva escatologica cristiana ad escludere di per sé ogni ideale teocratico, rappresentato dalla legge. La legge, che è un patto, nella escatologia paolina, non trova più posto nella economia della salute, sostituita dalla “promessa” (), la quale è un testamento ( ) che diventa l‟unico principio religioso e l‟unica fonte di salute (Rom, 4, 1).571 Con l‟escatologia del Cristianesimo paolino, dunque, viene culturalmente superata la dimensione politica della socialità del razionalismo greco, e confermato il monoteismo della tradizione ebraica572 in chiara antitesi polemica con il politeismo pagano, sia greco che romano. Grazie alla legittimazione della potestà divina del mondo, che nessuna legislazione terrena può surrogare, ritroviamo il senso escatologico profondo della visione paolina nella Monarchia dantesca, concepita come con-presenza di tutte le  politiche nella stessa unità mistica del Governo universale, in cui cade la contraddizione di “amare il nemico”, in quanto viene a mancare il nemico. In questo senso, la Monarchia mondiale prefigurata da Dante interrompe la conversione dialettica dell‟universitas politica in unità mistica ecclesiale, dell‟Imperium in corpus mysticum, comprendendo in sé l‟intera realtà delle loro astratte rappresentazioni storiche. Da qui la triplice presa di distanza della teologia politica dantesca: dalla Chiesa, e dalla sua ecclesiologia di età alessandrina; 573 dall‟Impero e dalla sua

570

Ved. A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. II, Prolegomeni alla storia dell’età apostolica, Messina, 1920, pagg. 165-169. 571 572

Ivi, pag. 175. Ivi, pag. 170.

573

“Per la tradizione posteriore [a Paolo] gli apostoli invece erano gli edificatori della chiesa, già resasi, nel suo concetto, autonoma dalla fantasia apocalittica della fine imminente”: A. Omodeo, Op. cit., pag. 149.

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concezione teocratica; e infine dai costituendi regni nazionali che, quali poteri intermedii mondani (gli  di Rom, 13) avrebbero dovuto tutti sottostare al Governo monarchico ( ) divinamente ispirato. Letta in chiave escatologica, la Monarchia di Dante rappresenta una visione storico-politica apocalittica interna all‟eone della Roma cristiana, analoga alla epistola che Paolo rivolse ai Romani pagani. Una apocalisse cristiana che doveva inaugurare l‟eone post-cristiano, e dunque moderno, spostato dallo sfondo giudaico della prospettiva paolina, allo sfondo della civiltà classico-pagana ereditata dal cattolicesimo romano-alessandrino. Al posto del “momento nazionale, contenuto in tutte le apocalissi”, 574 troviamo in Dante la versione imperiale, lo scenario appunto storico-culturale della Cristianità, entro il quale la predestinazione elettiva opera a livello di massa, e coincide con la universale ekklesìa dei cristiani e dei non-cristiani, che vanno insieme a costituire l‟intiera umanità redenta sotto il comune Governo monarchico. Nella prospettiva escatologica paolina, l‟universalità nazionale della legge politica viene trascesa dall‟universalismo della ragione etica. Ma la  della sapienza pagana non è sufficiente a liberare l‟uomo dal peccato originale di Adamo, consistente nella credenza razionalistica di poter fare a meno della guida di Dio, edificando, sul fondamento della sola ragione umana, una convivenza non più di natura morale ma politica, legittimata da falsi idola tribus, da religioni superstiziose giustificative del mero Potere dell‟uomo sull‟uomo. La nuova prospettiva soteriologica si costituisce come un superamento, non soltanto delle pagane idolatrie, ma della stessa filosofia politica della sapienza greca e di quella giuridica romana, fondate sull‟asservimento religioso dei popoli sottomessi alla legge come un minore al suo “pedagogo”575 protettore. Solo la Grazia ( ) può stabilire il Governo giusto, mentre invece ogni Potere produrrà soltanto un ideale di 574

A. Omodeo, Op. cit., pag. 222.

575

“Pedagogo” è qui inteso nell‟accezione antica di servo che ha in custodia il fanciullo e ne limita la libertà. “La legge è stata come un precettore per condurci a Cristo, affinché noi fossimo giustificati per la fede. ma ora che la fede è venuta, non siamo più sotto precettore; perché siete tutti figli di Dio per la fede in Gesù Cristo”: Gal, 3, 24-26.

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giustizia che lo legittimi; ideale che è proprio delle religioni pagane, tutte aventi una funzione di collante politico. A questo punto la prospettiva escatologica si allontana dalla prospettiva ecclesiologica, che storicamente si è affermata sino allo scisma luterano. Infatti, l‟escatologia paolina, diversamente dalla teologia romana, non concepisce la verità dell‟evangelo cristiano come quella unica ed eterna moralità che, in funzione religiosa, può legittimare il Potere, ossia come la vera religione, ma pur sempre tale; essa, invece, si propone di emancipare l‟uomo dal servaggio della legge, e dunque dal Potere stesso, religioso e dello Stato. Ciò vuol dire che l‟opera di contrasto delle forze anti-cristiche non sono quelle che muovono contro la Chiesa, ma quelle che muovono contro la morale evangelica. 576 Di conseguenza, il fuoco polemico dell‟escatologia paolina non è l‟Impero pagano di Roma, ma l‟Impero in quanto tale, in quanto mondo retto da leggi che sono il prodotto di potenze angeliche. 577 L‟instaurazione della

576

“Nella tradizione sinottica ciò che l‟opera dell‟uomo nemico perturba è la chiesa576 [Mt, 13, 24 ss.]: qui [in Gal.] invece ciò che si cerca di sovvertire è l‟evangelio. La parola evangelio viene ad acquistare il significato grandioso che ha nelle altre lettere paoline, non solo di predicazione, ma di opera divina, ma di momento storico supremo, quasi di costellazione che influenza il mondo, di opera miracolosa di Dio per ogni credente, ministerio di elargizione della giustizia divina, trionfo di Cristo nell‟apostolo […] infinitamente più glorioso del ministerio della legge di Mosè: e si compie come appello agli eletti nell‟imminenza del giudizio e incalza l‟apostolo con la speranza e l‟ansia dell‟imminenza del giudizio. Quest‟opera grandiosa, attuata da Dio per mezzo dell‟apostolo, e concepita come prologo del dramma escatologico Paolo vuole salvare dal sovvertimento: il concetto escatologico predomina sul concetto ecclesiastico. […] Paolo insorge non solo contro la perturbazione del proprio insegnamento evangelico, ma contro il sovvertimento dell‟evangelio di Cristo; opera divina che precorre il giudizio; vi scorge non tanto il perturbamento della chiesa quanto un tentativo di arrestare il corso della storia predisposta da Dio. Abbiamo una concezione dell‟apostolato come momento del compimento finale: non dissimile in questo dal significato storico del messaggio evangelico di Gesù”: A. Omodeo, Loc. cit., pag. 148. 577

“Ammesso nella religione giudaica come una forma attenuata di idolatria, il mondo angelico serviva a dar ragione del corso del mondo non consono a Dio […] e il sogno apocalittico escatologico aspirava all‟eliminazione di ciò che non era

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verità evangelica nel mondo, pertanto, comportava una conversione universale dalle leggi del mondo, e dunque un superamento della logica pagana di dominio. E‟ chiaro che, ai fini della destinazione escatologica della evangelizzazione delle genti, la razionalizzazione del Potere non poteva costituire una soluzione accettabile, sicché l‟esito storico della cristianizzazione religiosa dell‟Impero romano fu un sostanziale tralignamento spirituale dalla originaria soteriologia paolina, che poneva al centro di ogni considerazione del rapporto dell‟uomo sull‟uomo il carisma dell‟amore (I Cor., 13; Gal., 13)578, e dunque il superamento di ogni prospettiva eticistica. Come è stato finemente notato, in Paolo “il problema etico oscilla fra l‟affermazione di una perfezione reale e l‟esigenza di perfezione da conseguirsi per opera del fedele”.579 Ma la questione escatologica sollevata da Paolo non poteva risolversi nei termini in cui la affermò la tradizione cattolica con la neutralizzante teoria del corpus permixtum, quasi che la dimensione naturale e quella spirituale potessero separarsi nell‟esperienza esistenziale concreta dell‟uomo. Essa ineriva infatti alla libera determinazione umana di convertirsi a un modus vivendi che superasse la dipendenza dalle necessità della esistenza materiale e prendesse a concepire l‟altro uomo come solidale, anziché come rivale, a uno stesso destino di mancanza, di peccato: di essersi separati dal Governo paterno di Dio. Ogni autonomo tentativo dell‟uomo di

volere divino nel mondo, all‟eliminazione di ogni volere non consono a Dio”, cioè al dominio degli elementi del mondo: da qui il carattere diabolico della legge, emanata dagli elementi mondani. “Il Messia, sia che venisse concepito come puro uomo, o anche come potenza angelica, anche presso il cristianesimo primitivo [e non solo dunque per il giudaismo] era solamente il restauratore del governo diretto di Dio, e il suo regno era limitato e doveva infine esser trasmesso a Dio”: Ivi , pag. 170. 578 Paolo “lo esalta a massimo principio della vita in Cristo e della chiesa. Senza l‟amore vana è ogni conoscenza, arida la fede, sterile la buona opera e il martirio. L‟amore è ciò che costituisce e dà forza alla nuova chiesa.[…] I carismi intellettuali come la conoscenza e la profezia sono sintomo d‟una nostra presente imperfezione e ad essa in qualche modo sovvengono; essi verranno meno nel compimento finale quando sarà attuata la perfezione. Ma rimarranno la fede, la speranza e l‟amore: massimo di tutti l‟amore”: A. Omodeo, Loc. cit., pag. 261. 579 A. Omodeo, Loc. cit., pag. 236.

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superare questo deficit spirituale traducendolo da problema esistenziale a questione politico-sociale è destinato a fallire, in quanto l‟essenza del Governo è appunto divina, e non socio-politica o religiosa, e può rimettersi solo al Cristo. E pertanto ogni azione di contenimento tesa a ostacolare l‟instaurazione della gloria di Dio è opera di forze anticristiche (, Rom, 13) che ostacolano l‟avvento del Regno spirituale di Cristo. Nella I Cor, Paolo afferma che poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati; ma ciascuno al suo turno; […] poi verrà la fine, quando, [dopo la venuta di Cristo, questi] consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Poiché bisogna che egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi.[…] Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti (15, 22-28).

Egli, pur mantenendosi entro la tradizione apocalittica ebraica, distingue “una fase messianica col regno degli eletti – di 400 o di 1000 anni – e la fase veramente escatologica col governo diretto di Dio”. Ma l‟aspetto più rilevante è che “la risurrezione è riservata agli eletti”. 580 Ciò comporta che l‟intermezzo tra la fase messianica, in cui governa Cristo, e quella escatologica del governo di Dio, sia segnato dalla realtà della carne, dal periodo cioè in cui gli eletti risorti, sotto la guida di Cristo, preparano l‟avvento del regno finale di Dio, di cui Paolo è l‟apostolo. “Egli è il ministro ella nuova alleanza non della lettera che uccide, ma dello spirito che vivifica”, cioè di Dio stesso “in cui è la libertà”. 581 Due sono, in questa fase intermedia, i momenti salienti: il primo è costituito dalla resurrezione elettiva, il secondo dal Governo dei non eletti da parte degli eletti. Solo tale Governo elettivo può giustificare l‟attesa del Regno di Dio, ossia l‟attesa che i non eletti, gli empi, conseguano la resurrezione secondo il loro “turno”.

580

581

A. Omodeo, Loc. cit., pag. 265. A. Omodeo, Loc. cit., pag. 278.

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Se la resurrezione riguardasse la sola “carne gloriosa”, e dunque impegnasse le sole opere umane mondanamente significative, senza implicare la esistenza “santa”, ossia orientata in senso spirituale, l‟elezione sarebbe dovuta alle virtù secolari e ai carismi intellettuali di cui si gloriava la sapienza pagana, sicché riguarderebbe tutti gli eroi delle civiltà pre-cristiane e appunto pagane. Ma, come chiarisce Paolo, se “tutti muoiono in Adamo”, solo alcuni rinascono “in Cristo”, e sono perciò eletti; in quanto anticipano la finale trasfigurazione comune, fino all‟avvento della quale di essi è il Governo degli empi. La morte in senso paolino ha pertanto accanto a un significato naturalistico e materiale anche uno simbolico e spiritualistico. La morte naturale riguarda la fine del ciclo biologico caratteristico dell‟esistenza dei mortali, il cui capostipite è Adamo, macchiato del peccato originale. La morte simbolica riguarda la conversione spirituale, ed è dunque interna alla vita biologica e precedente la morte naturale. questi due tempi, in cui la rinascita spirituale incide durante il corso della vita mortale, rappresentano le due fasi della escatologia paolina: quella messianica, nella quale l‟elemento elettivo guida l‟elemento empio come l‟elemento spirituale guida l‟elemento carnale, e quella propriamente escatologica, allorquando si sarà vinta la morte fisica da parte della compiuta rinascita spirituale dell‟umanità, come della morte personale di ogni mortale nella trasfigurazione mistica finale. La fase propedeutica alla finale resurrezione universale, in cui Cristo si avvale del suo corpo mistico ecclesiale per preparare l‟avvento escatologico, è quella in cui gli eletti governano gli empi. Nell‟ambito di questa missione governamentale da parte degi eletti, interna al tempo storico, l‟organizzazione della sua struttura operativa dipende da fattori culturali, legati alla scienza ed esperienza del tempo. In ogni caso, il carattere di tale Governo elettivo, proprio perché non inerente la sola carne dell‟ “uomo esteriore” ma anche il suo “corpo pneumatico” (1 Cor, 15), costitutivo dell‟ “uomo interiore” (2 Cor, 4, 16), e pertanto ispirato dall‟autorità di Cristo, verso la cui gloria esso tende, se deve avere una proiezione universale, inerente alla salvezza spirituale di tutti gli uomini in quanto creature divine, e se deve avere un carattere monarchico in quanto relativo alla signoria univoca di Cristo, non può essere analogo a un qualunque altro Potere mondano conosciuto nel tempo profano, e dunque consistere in un meramente politico, né può somigliare ad alcun altro reggimento imperiale di tipo pagano.

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Inerendo al Governo di uomini, esso avrà certamente caratteristiche anche politiche e anche imperiali, ma il suo tratto cristiano innovativo e qualificante sarà di avere come  la salvezza in Cristo. Da queste premesse escatologiche paoline nasce l‟idea in Dante di una Monarchia universale cristiana sotto il Governo degli eletti di Cristo guidati dal carisma politico dell‟imperatore e da quello spirituale del papa, ispirati dallo Spirito Santo. In questa forma mistico-politica, in cui il cristiano si libera da ogni soggezione alle potenze intermedie per conseguire quella “prassi apocalittica” iniziata da Gesù,582 Dante intese prefigurare quel Governo unico (monarchico) e morale583 (legittimato dalla Trinità divina) che Peterson ha dichiarato di impossibile ispirazione cristiana, e che invece è intrinseco alla soteriologia escatologica professata da Paolo. 7. Il tema della monarchia cristiana fu, come è noto, oggetto di un famoso scritto di Dante Alighieri, la Monarchia, scritto tra il 1310 e il 1313, periodo della discesa di Arrigo VII in Italia, entra nel circuito della pubblicistica politica favorevole o contraria alla Chiesa e all‟Impero soltanto alla fine del 1329, dopo la morte del Poeta, oggetto di opposte considerazioni.584 Il trattato ha come oggetto la hybris tipicamente moderna dell‟uomo che ha perduto la cognizione di Dio, la cupiditas, che costituisce l‟infima variante economica della generica voluptas, il principio belluino già stigmatizzato da Cicerone nel De 582

L‟espressione “apocalittica in azione” fu usata da A. Omodeo (Loc. cit., pag. 418 n. 1) per indicare il superamento paolino dell‟antitesi giudaica dei due mondi e della sua “apocalittica astratta”, già effettuato a suo modo dall‟ellenismo. Ved. anche Ivi, pag. 427. 583 La distinzione tra eletti ed empi non rileva ai fini di una considerazione gnostica e mistagogica delle differenze tra i fedeli, ma si inscrive nella stessa natura morale del Governo monarchico cristiano, che si determina attraverso il riconoscimento delle diverse possibilità che i singoli uomini hanno di approssimarsi alla perfezione spirituale, e quindi all‟esistenza di una relativa gerarchia spirituale tra gli uomini, originaria e non determinata da contingenti ragioni sociali o politiche, in base alla quale si riconosce la loro diversa autorevolezza carismatica. 584 Ved. E. Malato, Storia della letteratura italiana, vol. I, Roma, 1995. Si cita dal vol. mon. Dante, Milano, 2015, pagg. 182 sgg.

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Amicitia, che il principe è chiamato vocazionalmente a sedare. Ma l‟amicitia cristiana evocata da Dante non è soltanto la sublimazione della societas in senso romano, ossia la condizione prossima al socius richiamata dall‟amicus della dialettca politica; è più una condizione di mera pax sociale, in quanto intrisa del valore benigno proprio del carattere morale della fraternità cristiana, quell‟ “amor che move il cielo e l‟altre stelle” che il regno materno della monarchia temporale, “propter non se habere immediate ad lucrum”, 585 stabilisce come regola universale. Cosa intenda Dante per “Monarchia temporale” (temporalis Monarchia) lo illustra all‟esordio del Libro II. “Essa è indicata come „Impero‟, e consiste in un principato unico che regni su tutti coloro che vivono nel tempo, e dunque su tutte le cose sulle quali ha potere il tempo”. 586 Che essa sia “un bene per il mondo”, va secondo Dante discusso insieme alla questione circa il ruolo assegnato al popolo romano di governarlo e a quella della diretta o trasmessa titolarità divina dell‟autorità monarchica.587 Essendo una verità che non dipenda da se stessa, dipendente da un principio logico, è necessario stabilire quale sia questo principio per farne discendere per sillogismo ogni argomento conseguente. All‟uopo vanno distinte le scienze su cui è possibile solo speculare, non essendo in nostro potere intervenire con le nostre opere, quali la matematica, la fisica e la telogia, ed altre invece che sono alla portata della nostra attività pratica, e che pertanto sono soggette tanto alla speculazione quanto funzionali all‟azione. Orbene, essendo la nostra una questione politica, e dunque soggetta al nostro controllo, anche la relativa teoria è ordinata alla sua realizzazione pratica, che ne è il suo fine. Se ne esiste uno, non può essere che il fondamento comune sul quale poggiano tutte le società civili umane, ché sarebbe stolto

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Dante, Monarchia, Libro Primo, I, 19. La versione consultata è quella della edizione critica curata da P.G. Ricci per la Edizione Nazionale delle opere di Dante, vol. V, Milano, 1965, pag. 135. 586

“Est ergo temporali Monarchia, quam dicunt „Imperium‟, unicus principatus et super omnes in tempore vel in hiis et super hiis que tempore mensurantur”: Dante, Monarchia, Ivi, II, 3-5, pag. 136. 587 Ivi, II, 6-10.

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pensarne uno per ognuna di esse. 588 L‟aristotelismo di Dante, richiamato esplicitamente a un di presso, consiste nel concepire, a fronte della varietà delle storiche società umane, un fondamento comune di natura logica, ascrivibile a principio fondamentale di ognuna di esse, per cui, pervenendo deduttivamente alla sua determinazione, saremo già a metà percorso (“plus quam dimidium laboris erit transactum”). 589 Il “principium directivum” da ricercare è il fine assegnato da Dio all‟attività del genere umano, essendo l‟agire la ragion d‟essere dell‟essenza umana. E il senso ultimo dell‟attività umana non può determinarsi attraverso i singoli uomini o le singole realtà sociali, ma soltanto considerando l‟intera umanità.590 La facoltà da considerare come rappresentativa del genere umano, al di là delle differenze specifiche e delle mancanze relative, consiste nella “potentia sive virtus intellectiva”, ossia nella attitudine a conoscere la realtà per mezzo della potenza della ragione (“per intellectum possibilem”), la quale non può dispiegarsi in atto per un singolo uomo o per singola comunità particolare, ma è necessaria la partecipazione del molteplice genere umano perché si attui.591 In particolare, la potenza razionale non è circoscritta alle forme speculative o specie universali, ma si estende all‟agire pratico, che ne diventa così il fine. Tale possibilità di agire, in materia politica, è regolato dalla prudenza, così come la possibilità di fare è regolato dall‟arte.592 La teoria di Dante è che il “proprium opus humani generis”, ossia il compito precipuo dell‟umanità, sia di “actuare semper totam potentiam intellectus possibilis”, cioè di portare ad effetto in ogni caso l‟intera potenza della ragione, sia “ad speculandum”, con la riflessione, e sia “ad operandum per suam extensionem”, adoperandosi per realizzare il suo dominio.593 Questo dichiarato intento propagativo della ragione

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Ivi, II, 11-36, pagg. 137-139. Ivi, III, 2-3, pag. 139. Ivi, III, 7-24, pagg. 139-140. Ivi, III, 40-45. Ivi, 49-55. Ivi, IV, 1-4, pag. 143.

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implicherebbe una attività del genere umano molto prossima a una dinamica di conversione in essere tipica della dialettica filosofica, e quindi una attività polemica tesa a superare le resistenze negative. E invece Dante ci avverte subito che “sedendo et quiescendo” l‟uomo si perfeziona in prudenza e sapienza, e da qui il bisogno del genere umano a persistere “in quiete sive tranquillitate pacis” per adempiere al suo compito, che “sa di divino”, e quindi di pervenire alla “pax universalis” al fine di raggiungere la sua “beatitudinem”. 594 In altri termini, l‟opus suum dell‟uomo è di predisporre la pace per dedicarsi quindi a edificare una realtà razionalizzata, secondo gli analoghi intendimenti della filosofia politica greca, trasvalutati dal senso cristiano della “pax universalis” come regno della ragione dispiegata, che costituisce lo “ultimum finem” dell‟umanità. Il senso escatologico della salvezza cristiana come metanoia spirituale viene qui convertito nel senso immanente di una realizzazione operosa nel mondo da parte delle forze guidate dall‟intelletto, supponendo che la potenza della ragione coincida con la stessa destinazione divina della specie umana. A questo punto, avendo conferito alla Politica di Aristotele una “autoritas venerabilis” non oppugnabile ma confermata per via induttiva,595 e stabilito il parallelo tra il governo dell‟animo umano diretto alla felicità e quello delle società intermedie sino agli imperi sovranazionali dirette allo stesso fine eudemonistico non solo della “recta politia”, messa in opera dal giusto Stato, ma anche di quella “obliqua” perpetrata nello Stato ingiusto, “ergo unum oportet esse regulans sive regens, et hoc „Monarchia‟ sive „Imperator‟ dici debet”, per cui “ad bene esse mundi necesse est Monarchium esse sive Imperium”.596 Ovvero il principio monarchico discende dal fine stesso immanente alla vita umana, fosse pure ridotto al bene minimale di conservarsi, poiché senza l‟unità degli intenti come del comando, esso non verrebbe conseguito: da qui la necessità di costituire un impero monarchico universale. E questo supposto fine coincide con la reductio

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Ivi, IV, 6-12, pag. 143. Ivi, V, 7-10, pag. 145. Ivi, V, 30-45, pagg. 146-147.

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ad unum della molteplice diversità, ossia appunto alla razionalizzazione del mondo. A questo punto Dante espone la sua teoria organicistica della società, asserendo che, per quanto esposto, che l‟ “ordo melior”, coincidente con la stessa razionale “forma ordinis”, debba ritrovarsi “in ipsa totalitate”, cioè nella stessa unità totale del regno, ordinato sotto l‟autorità di “unum principem”,597 il quale, in relazione all‟universo come al genere umano, è Dio, “unicum principem” a cui si deve rapportare un “unum principium”,598 coincidente con la stessa “divina bontà” creatrice di partecipare ogni sua creatura della “somma perfezione” nei limiti della “propria natura” di ogni essere.599 E pertanto il genere umano raggiunge il suo massimo grado di benessere e di felicità, “quando, secundum quod potest, Deo assimilatur”, ossia quando “maxime est unum”, cioè riesce a unificarsi secondo un unico principio, che è divino, in quanto “vera enim ratio unius in solo illo est”. Da ciò consegue inevitabilmente che “genus humanum maxime est unum, quando totum unitur in uno”, il che avviene “quando uni principi totaliter subiacet”. E allorquando ciò avviene, il genere umano “Deo assimilatur […] secundum divinam intentionem”.600 Si noti la corrispondenza tra la condizione di fatto e la condizione ideale, tale per cui il conseguimento dell‟unità politica sotto un unico Impero costituisca di per sé il suggello della volontà divina, che dunque si manifesta attraverso le opere dell‟uomo, tanto più gradiose quanto più rapportabili all‟unità divina. Se però questa pretesa corrispondenza della fattualità umana con la volontà divina, può spiegare elitticamente la genesi della molteplicità del genere umano come una conseguenza del peccato originale, ossia della imperfezione della finitezza umana, l‟equivalenza tra l‟unità del genere umano conseguita sotto uno stesso regno e il riscatto da quella imperfezione resterebbe del tutto inspiegabile dal punto di vista soteriologico se non intervenisse preventivamente a soccorso razionale la logica antica, in

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600

Ivi, VI, 10-18, pagg. 147-148. Ivi, VII, 10-11, pag. 149. Ivi, VIII, 3-6, pagg. 149-150. Ivi, VIII, 12-20, pagg. 150-151.

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virtù del cui mutuo è possibile stabilire l‟equazione tra “ordo melior” cristiano, votato alla assimilatio Deo e “forma ordinis” del costrutto razionalistico. Ciò comporta di conseguenza che a opera dell‟uomo si possa addivenire a una correzione di status che da ontologico e originario, come quello legato al peccato, diventa fisiologico e dunque contingente, legato all‟ignoranza umana delle sue “vestigia celi”. 601 Questo passaggio da uno ad altro status si realizza attraverso la trascrizione in termini razionalistici della essenza di Dio, inteso, secondo la Fisica aristotelica come Primo Mobile, quel “sole” genitore dell‟uomo impersonato appunto da “colui che tutto move” nel Paradiso dantesco, il cui “amor che move il sole e l‟altre stelle”, dovrebbe “regnare negli animi umani” già secondo Boezio.602 Che l‟uomo fosse equiparato a un prodotto celeste in senso fisico, senza altra indicazione spiritualistica, è una grave concessione al naturalismo greco, resa più conseguente nella sua remissione metafisica dall‟accenno significativo ai testi nobili della cultura greca in cui si richiama la necessità dell‟unità monarchica, ossia il passo 10, 1076a del libro XII della Metafisica di Aristotele e il verso 204 del II libro dell‟Iliade di Omero. Ma il dato più sconcertante, dal punto di vista cristiano, è la conseguente, quanto inconsapevole, risoluzione della questione della salvezza spirituale dell‟uomo al problema dell‟ottimo ordine politico. Eppure l‟ideale dell‟unità cristiana fu ben più di una “formula” quale la concepì la scuola romantica a partire da Novalis, fino al Ranke che indicò l‟Europa come una “nazione romano-germanica” unificata dall‟identità cristiana.603 O meglio, lo fu nella misura in cui concentrò il suo significato storico-culturale nella creazione della Chiesa-Impero costantiniana, rispetto alla quale “il mondo medievale occidentale non produsse alcuna soluzione politica che l‟abbia superata”. 604 Ma l‟equivoco si annida nel concepire la Civitas Dei come il prototipo della “unità negli affari politici”, alla maniera di Dante, ovvero come una

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Ivi, IX, 6, pag. 151.

602

Ivi, IX, 17 sgg., pag. 152. Boezio, De consolatione philosophiae, II, 28-30. Ved. E.H. Kantorowicz, The Problem of Medieval World Unity (1942), tr. it. in I misteri dello Stato, cit., pag. 165 sgg. 604 Ivi, pag. 167. 603

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“unione ecclesiastica”, resa impossibile dallo scisma che sanzionò la lotta ideologica apertasi nella Chiesa tra il IX e l‟XI secolo, anziché nella “visione d‟insieme” che, a detta del Kantorowicz, “era innata nella mentalità medievale”, la quale “poneva l‟intero prima delle parti”, pensando che “l‟assenza dell‟unità [fosse] una momentanea defezione che poteva essere trascurata solo perché, presto o tardi, sarebbe stata ristabilita”, andando a costituire perciò “il „mito dell‟unità‟, che Est e Ovest ugualmente condividevano”.605 Orbene, l‟essenza di tale “mito” consisteva appunto nella aspirazione alla “unità” () del molteplice, che costituiva il lascito ideo-logico più pregnante della tradizione ellenistica, e che trasmigrò – attraverso la mediazione cristiana e paolina - dal piano delle idee platonche a quello politico dell‟Imperium romano, che trovò appunto in Costantino il suo artifex. E, più esattamente, tale idealità unitaria era alla base della ratio filosofica che ne ha rielaborato i motivi fondamentali della fides evangelica nei termini di una loro rappresentazione teo-logica universale, dando corpo dottrinale alla Chiesa come ekklesìa katoliké, l‟istituzione unitaria del cristianesimo universale. In questo mutuo reciproco, per cui l‟universalismo idealistico greco diventa religioso col cristianesimo, la cui fede personale diventa religione politica romanoimperiale, consiste il paradigma teologico-politico caratteristico della civiltà liberale cristiana. La sua versione medievale, incentrandosi sul retaggio imperiale romano, concepì l‟unità cristiana come sovranità teopolitica, e cioè religiosa, quel “governo di Dio sulla terra” o “Cristianesimo applicato”, di cui parlava Novalis, 606 mentre la versione moderna, dopo l‟implosione teologica protestante, e forte delle nuove scoperte geografiche, perseguì un disegno sempre più immanentistico di segno politico, non più bilanciato dall‟unità spirituale della Chiesa romana di dottrina tomista, ma dalla coscienza soggettiva interiore di origine agostiniana. Dante appartiene indubitabilmente alla prima fase, quella appunto medievale, in cui l‟influenza razionalistica greca è tanto pregnante quanto definitiva della struttura teocratica cattolica.

605

Ivi, pag. 168.

606

Novalis, Cristianità o Europa (1799), tr. it. a c. di M. Manacorda, Torino, 1942, pagg. 24-25.

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Kantoriwicz ci avverte a non “confondere il concetto dell‟unità del mondo con l‟idea moderna dell‟unità internazionale”, in quanto “l‟unità del mondo medievale era parte dell‟escatologia cristiana e, di conseguenza, non si riferiva a questa terra e alla sua sola superficie”, per cui “il suo mito si riferiva a quell‟unità dell‟universo che abbraccia tutto lo spazio”, entro il quale “sia l‟individuo sia la comunità apparivano membri organici del cosmo”, alla cui “totalità articolata”, come abbiamo visto, apparteneva il cielo e la terra.607 Ma questa concezione che sostanziava il “mito cristiano” dell‟unità cosmica, la quale supponeva una realtà che “non era né puramente trascendente né puramente materiale”, ma una sorta di “strato d‟aria rarefatta nel quale il realismo e il sacramentalismo medievale trovavano il loro terreno comune”,608 non era che la trascrizione teologicamente rielaborata dell‟iperuraneo platonico, ossia di quella dimensione ideale in cui campeggiava il modello spiritualizzato ispirativo dello homo faber, di cui quello politico era la versione razionalmente sublimata. Un cosmo mitico che, rispetto a quello impalpabile delle idee platoniche, e diversamente da quello naturalistico moderno derivato dalla scoperta del canocchiale galileano, di cui ha parlato Whitehead,609 era stato storicizzato, secondo il modello escatologico della fede, ossia reinterpretato nelle forme di una “storia cristiana” dotata di senso teleologico immanente, che Dante individua per l‟appunto nei termini del dispiegamento della potenza dell‟intelletto divino, esattamente quel Logos della sapienza filosofica che impregnava metafisicamente l‟intera realtà cosmica e le cui leggi necessarie costituivano l‟intelaiatura connettiva della realtà universale, che doveva espandersi universalmente. Il mito del logos universale, interpretato ebraicamente come parola divina, connette la logica antica alla spiritualità cristiana, facendo della necessità insita nell‟Essere razionale la volontà (potestas) del Dio creatore, che ingiunge a ogni ente creato di assimilarsi alla sua

607 608

E.H. Kantorowicz, Op. cit., pag. 169. Ibidem.

609

A.N. Whitehead, Science and the Modern World (1926), cit. da H. Arendt, The human Condition (1958), tr. it., Milano, 2014 19, pagg. 190 sgg.

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divina causa prima, sia pure “in quantum propria natura recipere potest”. L‟aspetto “mitico” della concezione cristiana medievale del mondo, segnatamente di quello storico, risiede nella prescrizione universalistica, per la quale la “possibilità” insita nell‟intelletto, ovvero la potenza della ragione, proprio in quanto di origine e consustanzialità divina, di dispiegarsi, era di per sé indice di effettualità, sicché ogni resistenza alla sussunzione alla volontà benigna diventava indizio di renitenza diabolica. La fede escatologica che rendeva attuabile la potenza unitiva della ragione, scontrandosi con la insuperabile molteplicità della realtà concreta, trasferiva in un utopico altrove il compimento del disegno divino affidato all‟umanità, in un regno a venire che non esisteva, ma che comunque doveva essere infra-storico. Regno dunque politicamente univoco, rifacentesi alla monarchia divina, di cui l‟Imperium cristiano era la proiezione effettuale, così come la Chiesa visibile era il riflesso della Gerusalemme celeste. Da qui l‟istanza idealistica dantesca di fondare l‟armonia tra il prototipo sacro e il mondo profano, “poiché la Città del Cielo è una e indivisibile, la sua somiglianza con la terra dovrebbe rivelare anche la sua indivisibile unità dal momento che essa è l‟unità di Dio e ogni divisione o conflitto sono opera di Lucifero”.610 Tornando all‟aspetto propriamente “mitico”, ossia al finalismo escatologico all‟interno del cui orizzonte fideistico si delinea la storia del genere umano secondo la visione cristiana medievale, l‟unità spirituale, in quanto premessa ontologica di ogni elaborazione concettuale della condizione umana, costituiva una “realtà” che, per quanto non attuale, era “più autentica” per “l‟occhio spirituale” di quella “realtà di fatto” che “l‟occhio umano vedeva” come “molteplicità”.611 E lo era, più autentica, in quanto originaria rispetto alla realtà sensibile, costituita dagli enti oggetto del pensiero razionale. E pertanto il fine dell‟unità spirituale del mondo storico coincideva con il suo inizio, ossia con quell‟ divino che, in quanto totalità infinita, includeva ogni particolarità finita. Nel rapporto della unità divina e con la molteplicità creaturale della realtà empirica si sviluppa il processo

610 611

E.H. Kantorowicz, Op. cit., pag. 170. Ivi, pag. 173.

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della Storia, intesa appunto come svolgimento escatologico ad totum in uno, che è Dio. Il mito politico cristiano non era meno storico di una qualunque altra concezione ideologica, poiché alla base di ogni svolgimento razionale del disegno umano vi è un fondamento di fede ontologico che consegna alle azioni storiche il loro immanente significato finale, ma anzi la sua peculiarità consisteva nel teorizzato proposito di realizzare l‟universalità ideata dalla sapienza greca come una forma logico-spirituale concreta, ossia politica, assegnando alla fede cristiana la stessa funzione religiosa che Platone aveva assegnato alla filosofia, operando la prima “traslazione” di senso dal  platonico alla  cristiana che è all‟origine della teologia politica occidentale. L‟unità perfetta del mondo, ottenibile “solum sub Monarcha”, realizza la Giustizia al suo grado massimo (“Iustitia potissima”),612 la quale, avendo ad oggetto la considerazione dell‟altro, deve intervenire nelle relazioni sociali, per cui “contrarietatem habet in posse”,613 ossia trova resistenza nel Potere, inteso nel senso della volontà oppositiva di coloro che “non avendo fede nella verità, acconsentirono all‟iniquità” (2 Ts, 2, 10) resistendo alla Giustizia. Le forze inique sono quelle empie exousiai che, praticando l‟adikìa, conducono all‟anomia e all‟apoleia se non impedite da chi trattiene (to katechon), la cui azione in nome della Giustizia presuppone pertanto un antagonista (antikeimenos), la cui libido dominandi deve essere domata dall‟auctoritas spirituale del Governo monarchico. In questo agone, il “nemico” è l‟empio che resiste, in nome del suo ateismo, all‟unità spirituale del genere umano sotto la stessa sovranità monarchica, e dunque la sua considerazione politica è successiva alla sua considerazione mito-logica, per cui l‟antagonismo conseguente ne rappresenta solo la trascrizione razionale derivata dal principio che lo pone, e che è il fine stesso dell‟azione, la quale, conseguendo un fine universale – che è appunto l‟unità monarchica del genere umano - acquisisce anch‟essa un significato di valore universale, partecipando così di una realtà trascendente che la trasvaluta miticamente. In tale trasvalutazione mito-logica consiste

612 613

Dante, Monarchia, I, XI, 1-8, pag. 153. Ivi, XI, 30-31, pag. 154.

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l‟universalismo spiritualistico cristiano, giustificato dai fondamenti della fede e confermato dalla ragione (la “inquisitio quedam” di cui Dante). A questo punto è possibile intendere il senso del connubio di fides et ratio attuato dalla teologia cristiana come l‟universalizzazione storica del dogma dell‟Incarnazione di Cristo, quale Logos nel tempo. E‟ infatti attraverso questo paradigma teologico che si perviene al mitologema politico della Monarchia universale, quale trasvalutazione dell‟Imperium costantiniano in senso spiritualistico escatologico. Universalismo e razionalismo sono sinonimi di unitarismo, che Dante indicava come Monarchia, che è il regime teologico-politico in cui la potenza divina trova il suo referente storico nella potestà o imperium del monarca-imperatore. Dal punto di vista politico, si tratta di un regime di dispotismo organicistico, in cui la fede in Dio e la potenza dello Stato si coniugano per dare vita a una società organizzata scientificamente in cui si rinnega la concretezza della vita individuale in favore dell‟astratto generale. Di conseguenza, la rappresentazione schmittiana dell‟essenza razionale del politico come polemos non è che la trascrizione astratta, mondata di ogni tradizione morale e culturale, dell‟antagonismo teologico dal suo fondamento mitico-fideistico, senza il quale la coscienza secolarizzata perviene alla radicalizzazione di senso immanente propria della filosofia politica greca, che aveva costituito la come l‟orizzonte intrascendibile dell‟esperienza umana. Contro tale visione intellettualistica di unità sistematica in nome del centralismo metafisico della fede, per cui “il fanatismo unitario dell‟Illuminismo è non meno dispotico dell‟unità e dell‟identità della moderna democrazia”, si batterono sia le teorie anarchiche di Bakunin e di Proudhon sorte a seguito della Restaurazione, che quelle sindacalistiche di Sorel nel XX secolo, la cui teoria del Mito della violenza liberatrice si configura come “la più forte opposizione al razionalismo assoluto e alla sua dittatura”. Come riassume Schmitt, “il fondamento di quelle riflessioni sulla violenza è una teoria della vita concreta immediata, ripresa da Bergson e con l‟influsso di due anarchici, Proudhon e Bakunin, trasferita ai problemi della vita

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sociale”.614 Se ne deduce che la “forza” che sostiene il Mito è una “teoria della vita”, cioè una rappresentazione della realtà a sua volta fondata su una credenza di veridicità, una Weltanschauung, la cui “radice ultima” appunto è “la vita”,615 ossia l‟esperienza storica che viene razionalmente oggettivata in una visione del mondo stabilizzata che funge anche da modello di azione, che non può essere universale in quanto determinato dai presupposti particolari dell‟esperienza storica da cui è sorto. Da qui l‟antinomia tra la pretesa universalità di una visione del mondo e la varietà delle stesse Weltanschauungen, le quali dunque riflettono le condizioni di vita particolari che l‟hanno ispirate, che sono dunque mutevoli e accidentali. Il problema di superare tale accidentalità nella cnoscenza della realtà fu proprio della filosofia greca. Sappiamo che la pretesa della conoscenza filosofica greca fu appunto quella di legare la visione del mondo all‟universalismo scientifico, sostituendo all‟autorità della tradizione religiosa il metodo razionalistico, fondando su questo la validità della loro visione del mondo naturalistica. Orbene, come ha indicato Dilthey, “se la visione del mondo viene così innalzata ad una connessione concettuale, se questa viene fondata scientificamente e si presenta, così, con la pretesa di validità universale, allora sorge la metafisica”, intesa come “sapere universalmente valido”.616 Il criterio di validità scientifica di una visione del mondo viene dunque determinato dalla sua universalità, determinata dall‟uso metodico della ragione su cui quella visione è fondata. Ed è quel “criterio” a determinare la rappresentazione universale del mondo propria alla visione metafisica. Questa visione metafisica della realtà, in quanto fondata sulla ragione scientifica e dunque su un postulato ipotetico di verità, è sostenuta da una propria credenza fondamentale, in un suo fondamento di fede, il quale consiste nel ritenimento che la universalità della conoscenza razionalistica della realtà coincida con la totalità della realtà, ossia che il pensiero (razionale) sia (tutto) l‟Essere.

614

C. Schmitt, La teoria politica del Mito (1923), tr. it. a cura di A. Caracciolo in Id., Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, Milano, 2007, pagg. 13-14. 615 W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it., Napoli, 1998, pag. 173. 616

Ivi, pag. 191.

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Ora, una totalità che escluda dalla sua visione universale il suo opposto negativo, necessariamente si definisce per antitesi, ossia come affermazione negatrice dell‟irrazionale, ossia della vita spontanea non razionalizzata secondo sistema normativo, e dunque a-normale secondo la normalizzazione politica in senso razionalistico greco. Lo sguardo asistematico di chi giudica il regime razionalistico dal punto di vista dell‟opposizione al suo regime, lo considera una “dittatura del monismo” consistente in “una macchina militare-burocratica-polizieca nata dallo spirito razionalistico”, contro la quale va opposto “l‟uso rivoluzionario della violenza da parte delle masse [che] scaturisce invece dalla vita immediata, spesso in modo selvaggio e barbarico, ma giammai in modo sistematicamente crudele e disumano”. 617 La credenza che fonda la sostenibilità di questa visione anti-razionalistica consiste nella fede che la violenza del negativo sia preferibile a quella del regime positivo contro cui si batte, i cui ordinamento diventa l‟immagine del nemico. Tale visione dissolutoria della realtà politicamente strutturata è indicata da Sorel come un “mito”, intendendo per esso la fede nella necessità benefica della violenza anomica del negativo che vuole affermarsi come realtà positiva. Essa rappresenta il risvolto opposto e complementare all‟Essere razionalmente pensato, nella cui esclusività risiede la stessa violenza metafisica imputata al suo termine dialettico. Dal punto di vista metafisico, l‟universalità dell‟Essere razionalmente pensato come Bene cosmico, e l‟opposta universalità negativa del Kaos sono specularmente simmetriche e si richiamano indefinitamente proprio in quanto non possono costituirsi, nonostante ogni pretesa in tal senso, come totalità. Ciò comporta che la conoscenza della realtà del mondo-della-vita, qualunque sia il punto di vista prospettico, dal più particolare al più universale, non può comunque trascendere la sua ontologica finitezza e cioè temporalità o storicità. E di conseguenza, che la totalità vanamente perseguita dal sapere razionalistico, non coincide con la validità estensiva del concetto universale, che è pur sempre esclusivo del suo opposto, ma con la verità trascendente ogni finitezza e temporalità, ossia con la realtà in-finita e in-definibile di Dio. In tal senso, il Mito,

617

C. Schmitt, La teoria politica del Mito, cit., pag. 19.

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come rappresentazione del divino, non è opposto al Logos, ma lo include come la totalità include la particolarità esclusiva, e pertanto ciò che Sorel indica come “mito” non è che la rappresentazione simbolica di una credenza funzionale ai fini dell‟azione politica a determinare l‟appartenenza e l‟inimicizia. Ma proprio tale determinazione polemica costituisce il “mito” soreliano come una rappresentazione ideo-logica, una Weltanschauung, sorta dalla stessa pretesa razionalistica di de-finire la realtà finita in termini meta-temporali. Abbiamo visto come, rispetto a ogni tendenza dissolutoria, la potenza confermativa dell‟Essere-che-è si costituisce come forza katechontica, e come tale positivamente benefica per la vita stessa dell‟uomo politico. Il Mito cristiano si compone di una “letteratura leggendaria”, costituita dal Nuovo Testamento; del simbolo della croce, in cui si compendia il martirio della fede nella trascendenza della persona spirituale di fronte al mondo sensibile; del culto magistico dei processi sacramentali; della chiesa come “sede della trascendenza”; dell‟arte sacra come “organo della religiosità magica” e rappresentazione estetica della coscienza della trascendenza sulla quale si fonda la volontà religiosa cristiana di separarsi dal mondo sensibile, anche attraverso la bellezza, per collegarsi alla visione divina formulata dai neo-platonici; del clero officiante i culti e che dunque “ha la forza di produrre effetti magici”. 618 L‟elemento logico interno al Mito cristiano è l‟universalità del sacrificio mistico della Croce rappresentata dalla figura del Cristo, la cui vita e morte diventano gli estremi della esperienza spirituale paradigmatica di ogni singolo uomo e dell‟intero genere umano, ma anche i termini della opposizione drammatica entro l‟esistenza umana, intessuta della duplice natura, sensibile e divina, raffigurata dall‟arte sacra, dove la trascendenza dal mondo si manifesta attraverso la bellezza della vita. La dimensione dell‟esistenza umana in senso cristiano include così sia la sua dimensione spirituale-divina eterna che quella vita biologicosensibile finita, ed è pertanto più comprensiva del concetto naturalistico pagano di , la cui superiore declinazione culturale è in relazione alla dimensione dello spazio temporale della , e dunque interamente compresa nell‟Essere, ai margini del quale c‟è l‟ambito oscuro del niente (). 618

W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it. cit., pagg. 141-142.

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L‟esistenza umana in senso cristiano è ciò che Kierkegaard chiama la “singolarità” della persona spirituale, la quale in virtù della sua natura divina si manifesta come storia singolare, ossia la vita si determina nella condizione storica, propria soltanto all‟uomo. La Storia in senso cristiano è quella spirituale, in cui l‟uomo si manifesta nel tempo come essere finito ma si determina come essere divino, portatore di senso eterno. E se la dialettica tra la vita animale e la vita culturale dell‟uomo pagano si consuma all‟interno dell‟orizzonte razionalistico dell‟Essere di pensiero, ovvero entro la dimensione della finitezza idealizzata, l‟esistenza umana si manifesta come dramma della trascendenza del finito nell‟eterno, e quindi come scelta morale tra la necessità della vita biologica e le esigenze morali della coscienza della irresolubilità di essa nella finitezza. Pertanto, mentre la dimensione della vita in senso pagano si determina entro l‟orizzonte intrascendibile della politeia, razionalmente ispirata da un principio etico universale cui idealmente conformarsi, la dimensione della vita in senso cristiano si determina entro l‟orizzonte aperto della Storia spirituale, ispirata alla trascendenza del mondo fenomenico da parte della fede in Cristo. La vita e la morte di Cristo non è un modello di esistenza eroica cui ispirarsi emulativamente, ma rappresenta per ogni singolo uomo la possibilità di trascendere la sua naturale finitezza attraverso la fede in Dio, il Quale non è soltanto Parola (Logos) ma Mistero, ed è pertanto bel altro che un paradigma ideale al quale omologare l‟uomo in quanto  . In tal senso, l‟uomo spirituale in senso cristiano non si rimette interamente alla sua condizione politica e alla sua cultura razionale, ma la sua storia singolare, in quanto trasvalutata in senso divinamente eterno, trascende i dati della finitezza temporale. Per tale fondamentale ragione, la visione razionalistica non è quella dantesca, così come il “mito” à la Sorel non è punto assimilabile al Mito monarchico di Dante, che si basa invece su una teoria escatologica razionalizzata. Infatti, il fondamento escatologico cristiano che sottende l‟ideologia monarchica dantesca non va inteso né come “istinto vitale” che si traduce in “entusiasmo” o “decisione morale”, né tantomeno come un “criterio per stabilire se un popolo o un altro gruppo sociale ha una missione storica”,619 come poteva essere l‟appartenenza nazionale

619

C. Schmitt, La teoria politica del Mito, cit., pag. 15.

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ebraica, ma bensì va inteso come una fede unitiva nel genere umano come entità spirituale in una stessa “arca”, che poi è la stessa Chiesa di Cristo. La deformazione teologico-politica della visione dantesca è quella stessa che ha determinato la realtà della Chiesa cattolica nel tempo come “organismo di dominio”620 subordinato al monarcato del Papa, derivata dalla sua trascrizione razionalistica in termini politicoistituzionali, in conseguenza della concezione universalistica romanoalessandrina della storia spirituale dell‟uomo come “processo religioso” della umanità, ossia come cristianesimo. A questa “traslazione” ideologica fa riferimento Dante indicando l‟unità dell‟ “impero cristiano” come totalità religiosa, pensata attraverso le categorie dell‟universalismo razionalistico greco, che permarrà nel concetto panteistico di universo ancora in Cusano. Categorie che sono essenzialmente politiche, le quali già con l‟umanesimo, e ben prima della Riforma, determineranno, con la perdita dell‟ “equilibrio interno di una disposizione d‟animo unitaria”, anche l‟implosione dell‟unità del mondo cattolico vanamente perseguita dalla Chiesa cattolica e ricercata da Dante, che proprio nell‟arte produrrà, attraverso il “contrasto di trascendenza e mondanità, […] il massimo incremento degli effetti drammatici”.621 Se noi pensiamo la “trascendenza” come personalità singolare, e la “mondanità” come unità sociale, il contrasto tra la Chiesa e l‟Impero o gli Stati nazionali apparirà tutta interna alla stessa logica di dominio politico, per cui la posizione guelfa o, rispettvamente, ghibellina va intesa come alternativa all‟interna dell‟orizzonte politico, mentre entrambe sono equivalenti rispetto alla loro posizione verso la dimensine trascendente, quella appunto della singolarità spirituale dell‟uomo. E pertanto la teoria dantesca della Monarchia universale, in quanto forma istituzionale interna all’organizzazione dello spazio politico della società cristiana, può essere indifferentemente attribuita al papato o all‟impero senza perdere la sua significazione razionale di istituzione di Potere. Nel momento in cui, però, il concetto di monarchia divina viene a riferirsi, non più all‟astratta umanità universale ma alla concreta umanità dei singoli cristiani del mondo, politicamente disuniti 620

621

W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it. cit., pag. 145. Ivi, pag. 148.

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e in reciproco contrasto, ecco che la proposta escatologica compresa nello stesso mito politico unitaria acquista inevitabilmente una valenza contraria agli interessi mondani della Chiesa, la cui costituzione unitaria è relativa solo in riferimento alla disunità politica della società cristiana, la quale, ovemai pervenisse a una sua autonoma unità spirituale, renderebbe superata la stessa presenza istituzionale della Chiesa, che in principio la promuoverebbe facendosene testimone nel tempo contro la politica degli Stati ma attraverso la politica. Non potendo la Chiesa di Cristo rappresentare se stessa come unità politica, ma solo come unità sacramentale della società cristiana, il Mito di una cristianità unita sotto una stessa teo-crazia rendeva superflua la sua opera sia mondana, dialettica a quella dello Stato, e sia religiosa, dialettica alle confessioni non cattoliche. Per tali ragioni, voler prefigurare in termini reali una monarchia universale non solo relativa all‟imperio di un Cosmocratore trascendente, ma di un imperatore che soggiogasse l‟ntero mondo, era una ipotesi che spaventava la Chiesa occidentale.622 Il mito in senso soreliano interviene in termini di “criterio” di decisione per l‟azione successivamente e conseguentemente al suo proprio referente ontologico, che non è la fede escatologica cristiana nell‟unità spirituale del genere umano, ma il fondamento naturalistico dell‟uomo come animale politico e della sua esperienza esistenziale nei termini della lotta per la sopravvivenza e per il dominio. Nel momento in cui Dante acquisisce l‟unitarismo spiritualistico nei termini teologici dell‟universalismo razionalistico, è costretto a tradurre anche la sovranità monocratica di origine divina in senso naturalistico e politico. Questo, non di meno, non comporta che l‟unità spirituale in senso cristiano coincida con l‟Impero politico universale, ma soltanto che tale visione imperiale si definiva in termini strumentali – e quindi ideologici – rispetto al fine ecatologico, e quindi relativi alla sua trascrizione razionalistica. In altri termini, la visione monarchica dantesca è mitica in senso soreliano relativamente alla sua definizione di utopia politica, cioè nei soli termini della sua ideologia razionalistica, ma conserva una sua rilevanza di fede nel suo fondamento escatologico, che è pre-

622

E.H. Kantorowicz, L’unità del mondo medievale, cit., pag. 172.

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ideologico e originario, così come l‟archetipo monocratico divino è premonarchico e pre-ecclesiale. Con ciò si vuol dire che il mito politico si costituisce in senso soreliano come una forza dissolutoria e anomica, dialetticamente negativa, all‟interno dell‟orizzonte unitario della cosmologia naturalistica, la quale a sua volta, rispetto alla rappresentazione mitica della realtà, e dunque utopica, si costituisce come la visione razionalizzata e concreta. Pertanto, essendo il mito politico l‟espressione negativa dell‟ordine statale costituito, esso appare irrazionalmente dissolutorio e anomico, mentre la resistenza ad esso da parte del Potere appare katechontica. E poiché il cosmo cristiano si è andato storicamente stabilito in termini teologico-politici, la forza religiosa che si oppone alla dissoluzione anarchica della società anomica non può non aderire al Potere temporale katechontico, il quale è frammentato e plurivoco, sicché il progetto monarchico di Dante, definendosi in termini di un universalismo cosmocratico di tipo imperiale, appare inevitabilmente come un regno di Cesare di religione cristiana, in cui l‟elemento cristiano, rispetto al modello statalistico-religioso ebraico, consiste nella sua ideologia ecumenica di mutuo universalistico romano-ellenistico. Ma l‟idea di una Roma imperiale, declinata nel senso universalistico degli Hohenstaufen di “un Dio, un papa, un imperatore”, anziché nell‟accezione papale di “una sancta” dove esiste solo “un gregge e un pastore”, rappresenta pur sempre l‟unità medievale del mondo,623 ma non la stessa unità poiché, con l‟apparato concettuale della teologia politica scolastica, essa può intendersi tanto in senso di impero politico che in senso escatologico di universo religioso. La conseguenza principale, infatti, della ideologia politica nata dalla teologia cattolica è la sua dissociabilità dalla fede escatologica cristiana orignaria, tale appunto da costituirsi come una utopia, che “per Sorel [è] un prodotto dello spirito razionalistico [che] vuole controllare la vita dall‟esterno secondo uno schema meccanico”.624 Questa non è la prospettiva culturale in cui si muove Dante, che è ancora interna alla metafisica organicistica medievale, ma lo sarà a seguito della secolarizzazione, allorquando la emancipazione razionalistica della scienza dal suo fondamento di sapere ontologico 623 624

E.H. Kantorowicz, L’unità del mondo medievale, cit., pag. 174. C. Schmitt, La teoria politica del Mito, cit., pag. 16.

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trasformerà il mito teocratico cristiano della Chiesa universale in mitologia politica, in imperialismo ideologico. Ma se ciò era latente nella Weltanschauung medievale, significa che all‟interno della teologia cristiana si annidava la tensione dissolutoria dell‟unità del cosmo spiritualistico, la quale consisteva nella trascrizione della concezione dell‟individuo umano come totalità divino-umana nel concetto razionalistico di universalità del logos del pensiero pagano, con la conseguenza che la consegna evangelica della conversione delle genti venisse interpretata, anziché come conversione dei singoli uomini di buona volontà, come sussunzione universale delle nazioni entro uno stesso principio religioso (la kantiana “forma universalmente legislativa”),625 garantito dalla Chiesa sotto l‟egida del Potere politico. Questa concezione orizzontale della fede eludeva, a favore del controllo politico dei popoli, la questione essenziale della adesione al cristianesimo per fede, cioè attraverso una  spirituale che, sull‟esempio degli apostoli, trasvalutasse in senso spiritualistico e trascendente la vita socio-economica, informata alle necessità naturali della sopravvivenza della specie, in modo tale che l‟esistenza singolare come anche la vita di gruppo fossero partecipi di una nuova dimensione associativa, non di tipo politico, basate sui rapporti di forza, ma ecclesiale e basata su rapporti agapici. La norma morale in senso kantiano, infatti, non è un dovere giuridico, in quanto riguarda la coscienza singolare garantita dalla fede, e non i rapporti inter-personali garantiti dall‟istituzione politica, ossia dallo Stato, contro la quale la coscienza morale può reagire. Se nel caso della socialità politica l‟unità dei gruppi sociali particolari era garantita dal Potere regale, nel caso della comunità ecclesiale l‟unità era garantita dalla fede in Cristo. Siamo di fronte a due realtà sociali, il cui rispettivo principio di socialità è radicalmente diverso, in quanto la comunità ecclesiale è legata alla fede escatologica tendente al fine trascendente della salvezza, laddove la comunità politica è tenuta insieme dal fine immanente della sopravvivenza del gruppo. Ed è tale radicale diversità che la Chiesa di Cristo ha sempre rivendicato nei momenti di attrito contro il Potere politico che tendesse a rimuoverla. La questione dolente è che lo abbia fatto, non in quanto comunità

625

I. Kant, Critica della ragion pratica, I, I, IV, pag. 153.

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ecclesiale ma in quanto istituzione di potere, e come tale asservita a una funzione religiosa di contenimento della dissoluzione caotica dell‟unità politica, quale tendenza intrinseca a ogni formazione politica in quanto tale, cioè in quanto prodotto derivato della ragione umana, e non originario divino. E poiché tutto ciò che è umanao è finito, ossia inscritto nella edacità del tempo, anche gli organismi statuali sono destinati a perire, mentre soltanto ciò che si ispira all‟eterno può durare oltre il tempo. La superiorità noetica del cristianesimo rispetto alle altre culture religiose dell‟umanità è in questa consapevolezza dell‟eterno quale dimensione escatologica infra-umana, cioè storica, ma radicalmente diversa da ogni istanza politica di contenimento della dissoluzione endogena dell‟organismo temporale statuale. Ma se ciò è vero, la richiesta di autonomia ecclesiale dal Potere non poteva esprimersi con gli strumenti politici propri agli Stati, ma attraverso il martirio “pro libertate Ecclesiae” di cui parla Matteo d‟Acquasparta, 626 alla maniera di Gesù, avendo come fine non già l‟habeas corpus ma l‟affermazione della verità, e dunque preferendo la morte alla vita, e con ciò operando la scelta massimamente impolitica in nome della fede. Il rapporto tra fede escatologica e volontà di potenza, non è risolvibile in quello tra “cupidigia” e “giustizia”, alla maniera aristotelica trattata nell‟Etica nicomachea, citata da Dante,627 poiché non afferisce al semplice possesso o meno dei beni terreni, né pertanto la eliminazione della cupidigia dipendeva dalla “destructio” degli oggetti della passione, come sostiene lo stesso Aristotele nelle Categorie, ma dalla presenza di quella “karitas seu recta dilectio” che “delucidat” la “iustitiam”, e dunque dipendeva da un elemento spirituale ultroneo allo stesso monopolio regale dei beni terreni, per cui la efficacia della soluzione proposta da Dante di stabilire una relazione tra Giustizia e Monarcato era legata alla “possibilità”, ossia alla eventualità, dell‟esistenza di quel retto sentire nel monarca. E dunque

626 627

M. D‟Acquasparta, Sermo de potestate Papae, cit., pag. 188. Dante, Monarchia, I, XI, 45 sgg., pag. 155.

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dall‟intervento della Grazia divina. 628 Infatti, egli prosegue, la “recta dilectio” si può dimostrare a seguito della consapevolezza che la cupidigia, disprezzando l‟essenza divina dell‟uomo, può conseguire solo scopi inumani, mentre la “karitas”, spregiando proprio quei beni inumani, “querit Deum et hominem”, cioè ricerca Dio nell‟uomo, e solo a seguito della ricerca di Dio, si può giungere al bene per l‟uomo (“per consequens bonum hominis”). Il che vuol dire che la Giustizia dipende dalla carità (“karitas maxime iustitiam vigorabit et potior potius”) 629 e non dalla fruibilità dei beni, ossia dalla condizione legale di possidente, secondo il principio naturalistico dell‟etica di Spinoza per cui “tantum juris quantum potentia valet”.630 La condizione dei sudditi è condizionata dalla maggiore o minore prossimità all‟influenza del monarca, ma ciò che più rileva è che il Governo monarchico sia vicino ai valori benigni, ossia che il potere da lui esercitato sia benefico. Ma il Bene di cui tratta Dante, e che egli indica come la “causa più universale” (“causa universalior”), non è il Monarca stesso in quanto benefattore e dispensatore di felicità “inter mortales ut homines bene vivant”, la cui garanzia di giustizia è legata al monopolio del Potere, (“hostes habere non possit”) cioè alla distruzione dei nemici; infatti la sua “causa universalissima”, se fosse quella, sarebbe pur sempre circoscritta alle condizioni circostanziali e contingenti della finitezza umana, per cui la Giustizia sarebbe legata pur sempre a condizioni di fatto. Il Bene (“bonum”) di cui si fa potenziale portatore il Monarca, perché acquisti quel carattere indubitabile di Giustizia, deve congiungersi a un principio trascendente lo stesso Potere sovrano, e perciò non può concernere la felicità, ossia ciò che Kant chiama “motivo empirico”, né essere legato alla comprensione di un sillogismo,

628

“[…] Monarcha sincerissimum inter mortales iustitie possit esse subiectum. Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo, quantumcunque pauca, obnubilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque delucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo potest habere iustitia; huiusmodi est Monarcha: ergo, eo existente, iustitia potissima est vel esse potest”: Ivi, XI, 56-62, pag. 155. 629 Ivi, XI, 63-69, pag. 156. 630

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, II, 8.

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ossia alla potenza della ragione umana. Infatti la confluenza dello ius imperium sovrano e della conoscenza razionale di Dio, che Spinoza nell’Ethica (V, 42) chiama Beatitudine o Amore di Dio, produce quella “traslazione” del concetto aristotelico della potenza (),631in quello alessandrino di “potenza produttrice”, 632 in virtù del quale viene concepita la regalità monarchica come attribuzione divina al sovrano virtuoso, il cui dovere per Filone è di “ordinare ciò che è bene e vietare ciò che è male” attraverso la legge, che pertanto si identifica col re giusto quale “legge vivente”.633 Con Spinoza, la potentia divina già umanizzata dalla teologia alessandrina, “prende successivamente le vesti del conatus, che sostituisce alla metafisica dell‟ , prerogativa del grado supremo dell‟essere, il Dio aristotelico o l‟Uno plotiniano, il materialismo dell‟appetitus, vale a dire la „gioia concomitante con l‟idea di una causa esterna‟ (Ethica, III, 13 sc.), che deriva dal possesso di qualcosa in cui il soggetto s‟identifica con il proprio conatus sese conservandi, il suo desiderio vitale”.634 In realtà, come abbiamo visto, la traslazione del concetto plotiniano dell‟Uno come potenza in atto nell‟unità monarchica del genere umano è già avvenuto in Dante, per cui il supposto “realismo” della “ontologia della potenza” di Spinoza è ben lungi dal costituire una “fuoriuscita dall‟intellettualismo greco”,635 costituendo una forma di attualismo, in cui la realtà ontica in universale viene concepita come il riflesso fenomenico della realtà ontologica, con una identificazione dell‟intelletto aristotelico con la sostanza in atto come potentia, intesa razionalisticamente come l‟astratta universalità dei conati, cioè delle singole potenze in atto.

631 632

Aristotele, Metafisica, IX, I, 1046a 32. Ved. Plotino, Enneadi, V 5, 10 sgg.

633

Infatti, come afferma Filone di Alessandria, “il re che è anche legislatore deve osservare al contempo le cose umane e quelle divine, poiché senza l‟intervento di Dio le azioni dei re e dei loro sudditi non possono giungere a buon fine”, e pertanto “di necessità gli venne attribuita la suprema carica sacerdotale”: Mos. II, cit. da F. Calabi, Sovranità divina, cit., pag. 67. 634 R. Ciccarelli, Immanenza e politica in Spinoza, Roma, 2006, pag. 113. 635

Ivi, pag. 115.

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Questa omologia tra la potenza naturalistica pagana e quella spiritualistica cristiana, che è alla base della identificazione dell‟amor erga Deum con l‟amor Dei erga homines della “communi societate” del Trattato spinoziano, in cui, secondo una prospettiva totalitaria, la “salus” viene identificata con la “beatitudo” e quindi con la “libertas”, e la potenza della Moltitudo con un‟unica Mens,636 costituisce anche la premessa ontologica della teoria dell‟assolutismo monarchico. E la possibilità di tale omologia è riposta nella definizione della universalità del concetto razionale come totalità positiva, facendo sì che la realtà coincida con il pensiero dell‟Essere quale universalità degli enti, per cui la potentia diventa la ragione universale del Potere statuale, mentre la realtà inattuale dell‟Essere possibile viene razinalisticamente rimossa dalla realtà attuale come errore ovvero pensiero fantastico o mitico e della dissoluzione dell‟ordine costituito. Questo esito totalitario del razionalismo naturalistico è proprio del pensiero spinoziano, che, stabilendo “l‟equazione tra potenza e diritto”,637 intende il Governo della repubblica come Potere, ma non di quello dantesco, che non esalta alla maniera di Spinoza, ma al contrario stigmatizza, la cupiditas, considerandola non già la tenenza generosa dell‟uomo “con la quale, sotto la guida della sola ragione, si sforza di aiutare gli altri uomini per unirli a sé con un vincolo di amicizia”, 638 ma l‟impulso negativo e limitante rispetto a quello positivo e produttivo dell‟ amore, sicché l‟ordine monarchico cristianamente concepito da Dante è ben altro che un ordinamento giuridico, quale l‟imperium politico pensato da Spinoza. Questi infatti assume come fondamento della sovranità dello Stato, quale summum imperium, quello della moltitudine, e dunque l‟imperium democraticum, concependolo come il summum bonum derivato dall‟amor erga Deum collettivo, collante sociale di natura religiosa, pensando la aeternitas come potenza del numero.639 Invece, l‟amor erga Deum dantesco è tutt‟altro che la “pratica collettiva” della religio patriae spinoziana. Infatti per Dante la

636 637 638 639

Ivi, pagg. 137-141. Ivi, pag. 145. B. Spinoza, Ethica, IV, 37, 1, cit. da R. Ciccarelli, Loc. cit., pag. 152. Ivi, pag. 150.

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perfezione del genere umano non si acquisisce attraverso lo Stato ma è originaria in quanto risiede nella sua libertà, il cui “principium primum est libertas arbitrii”.640 Nondimeno, Dante pensa, per un verso, che il “iudicium” sia “liberum” quando può dirigere con la ragione l‟ “appetitum”, per cui la libertà sia il “maximum donum humane nature a Deo collatum”,641 e per altro verso che il “genus humanum […] existens sub Monarcha est potissime liberum”, in quanto solo sotto il governo monarchico il genere umano è autonomo e indipendente, essendo quello monarchico il Governo giusto di chi si adopera per rendere gli uomini buoni.642 Ma per quale ragione? La ragione della preferenza del monarca a ogni altro regime è dovuta alla sua veste di legislatore di libertà, ossia in virtù del suo servizio ai cittadini, perché essi esistano in virtù di sé stessi (“ut homines propter se sint”). E soltanto il monarca, quale legislatore, può essere “minister omnium”.643 Tutto questo non sarebbe molto diverso dal costrutto teorico spinoziano, poiché nulla vieterebbe che il Monarca legislatore dantesco non venisse concepito come la Mens collettiva spinoziana, essendo per entrambi l‟Unità ideale l‟idolum razionalistic. Ma vi è una differenza tra le due teorie politiche circa l‟ottimo Stato, che è radicale e insuperabile. Infatti, per Dante, che crede di seguire Aristotele, l‟agire politico non è costituito per fare delle leggi, ma al contrario le leggi sono fatte in vista dell‟agire politico, per cui i cittadini che vivono conformemente alle leggi non devono adattarsi al legislatore, ma è chi pone le leggi a doversi concepire allo scopo delle sue funzioni, così come insegna anche il Filosofo.644 L‟accenno dantesco è al IV libro della Politica, in

640 641

Dante, Monarchia, I, XII, 3-4, pag. 157. Ivi, 13-15, 25-26, pagg. 157-158.

642

“Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est […]; quia cum Monarcha maxime diligat homines, vult omnes homines bonos fieri: quod esse non potest apud oblique politizantes”: Ivi, XII, 34-36, 40-42, pag. 159-160. 643

Ivi, XII, 45 sgg., pagg. 160-161.

644

“Non politia ad leges, quinymo leges ad politiam ponuntur, sic secundum legem viventes non ad legislatorem ordinantur, sed magis ille ad hos, ut etiam Phylosopho placet”: Ivi, XII, 48-51, pag. 160.

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cui Aristotele chiarisce la differenza tra il potere sovrano della costituzione, e le leggi. Queste sono infatti diverse dalla costituzione, intesa come “l‟ordinamento delle cariche”, che stabilisce “il fine della comunità politica”, ossia i princìpi regolativi della legislazione politica.645 Ma è chiaro che i due pensatori intendono per la stessa parola “politia” due concetti diversi. In senso greco,  è l‟agire politico conforme a ragione, ossia secondo i princìpi stabiliti dalla costituzione. Ma esso è essenzialmente lo spazio pubblico in cui si realizza la condizione libera dell’uomo. Nella concezione cristiana, come visto, la libertà è una cndizione orignaria e divina e non è acquisibile attraverso l‟organizzazione politica. La monarchia, pertanto, non costituisce la libertà ma la conferma, quale regime politico della libertà. Ciò significa che la sua preferenza non è egata alla sua struttura istituzionale, ma questa al principio che la ispira come Ur-norm extra-giuridica, la libertà morale. In tal senso, le leggi politiche devono essere funzionali all‟autodeterminazione morale dei cittadini, alla loro libertà di giudizio razionale, e non può di contro la libertà essere conculcata da ragioni di Potere contrarie ai princìpi del libero arbitrio. E dunque è evidente che la “politia” di cui parla Dante non è la costituzione, quale legge delle leggi, di cui parla Aristotele, ma è il Governo morale della società, ossia una attività di guida della libertà umana. Ed è tale guida a produrre le leggi “ad bene esse mundi”, e non già le leggi a produrre il bene. Il bene in senso naturalistico è la necessità che regola l‟universo, e la libertà riservata all‟uomo è di conseguirne la consapevolezza attraverso la ragione, la quale è sempre e comunque ragione della necessità universale. Spinoza nella sua Ethica definisce “libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si determina ad agire da sé sola”. 646 Come insegnava Aristotele, la natura delle cose è di pervenire al compimentodi sé, alla loro perfezione attuale, e quindi di obbedire alla necessità universale di sviluppare la loro  vitale. Nell‟orizzonte naturalistico, l‟Essere è sempre idealmente unitario e fenomenicamente

645 646

Aristotele, Politica, IV, 1289a 13-19. B. Spinoza, Ethica, I, Def. VII

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molteplice. E infatti Spinoza, che riprende Aristotele, considera i fenomeni empirici solo le modalità infinite dell‟unico Essere naturale, inteso come infinita potenza attuale del dio aristotelico e spinoziano come dell‟Uno di Plotino. La potenza dispiegata è l‟universalità della possibilità in atto dell‟Essere, la cui necessità è la sua stessa esistenza. Ciò implica che il fondamento d‟essere dell‟Essere sia il suo essere stesso anziché il Nulla, sicché l‟ontologia naturalistica risolve ogni attributo dell‟Essere nella definizione del suo fondamento, ossia nella sua esistenza, che si manifesta empiricamente negli enti ( ). La caratteristica metafisica dell‟ontologia naturalistica è dunque la corrispondenza degli opposti, ossia dell‟Essere-Uno con le sue manifestazioni molteplici, i fenomeni, i quali sono l‟Uno dispiegato infinitamente. Da qui la natura dialettica del pensiero greco, che pensa distinguendo l‟Uno necessario, che sempre “è”, dall‟occasionale Molteplice, che può essere ma non è attualmente. Stabilendo la corrispondenza tra il pensiero dell‟Uno (ideale) con la realtà del Molteplice (reale), si perviene alla identità di pensiero ed Essere, di potenza ed essenza, e dunque della Mens universale-ideale con la Moltitudo empirico-reale. La potenza (conatus) della moltitudine per Spinoza è il Potere,647 che è la realtà universale o “essenza” della “forza con la quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere”.648 Nell‟orizzonte ontologico naturalistico non vi è posto per la libertà se non come coscienza della necessità, e quindi come conformità del volere al Potere. Da qui discende la ragionevolezza umana di convivere nel gruppo sociale e della coscienza individuale di conformarsi alla volontà comune. Questo olismo metafisico viene confermato, come abbiamo visto, dal Dante aristotelico e tomista, ma trasvalutato in senso escatologico nel momento in cui separa evangelicamente la dimensione del Potere politico, destinata a un Cesare, dalla dimensione del Governo morale, destinata al Monarca, il quale non può che essere un regnante universale e titolare di un unico regno spirituale, la Chiesa cattolica,

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648

B. Spinoza, Trattato politico, II, 17. B. Spinoza, Ethica, III, 7.

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che è il vero archetipo del “genus humanum”. 649 Ciò comporta che seppure la potenza divina si manifesti nella vita comune dell‟umanità, questa non de-finisce la totale realtà divina, ma soltanto la sua manifestazione naturale e finita, la quale, per conseguire il suo fine di salvezza, e dunque il compimento della sua essenza spirituale, necessita di un Governo ispirato da Dio, quello di Cristo, prototipo dello Spirito divino incarnato (Verbum caro). Dante, stabilendo il primato del Governo morale di Cristo sul Potere politico dei Cesari, conferma surrettiziamente il ruolo prioritario della Chiesa pneumatica, intesa come comunità cristiana degli uomini di fede, sull‟unità politica dei cittadini quali membri dello Stato. Con la conseguenza che, mentre la costituzione della comunità politica è soggetta a infinite variazioni contingenti, legate alle condizioni naturali o culturali dei popoli, l‟unità monarchica condenda propugnata da Dante è conseguente alla condizione morale originaria dell‟umanità quale creatura di Dio, e non suppone l‟imperium per essere costituita, come invece la cittadinanza politica.In tal senso, l‟universalismo della Monarchia dantesca è riferita, non già all‟impero di un Potere mondiale, ma bensì alla universale condizione umana di libertà, per cui il Governo universale non è altro che l‟amministrazione della grazia di Dio elargita alla umanità, ossia la libertà morale degli uomini. L‟umanità di cui parla Dante, il “genus humanum”, non è la humanitas romana, che nasce dalla societas, intesa come “iuris communio”, 650 il cui concetto politico oppone l‟homo humanus, civilizzato dalla “incorporazione della paideia assunta dai Greci”, all‟homo barbarus, privo di eruditio et institutio in bonas artes.651 Il concetto dantesco di umanità è propriamente cristiano, perché sta a indicare una condizione

649

Dante, affermando l‟anteriorità temporale degli imperatori sui papi, seguiva la lezione dei canonisti “dualisti”, che affermavano la diretta derivazione divina del potere imperiale, ma superava sia la loro dottrina dell‟equilibio dei due poteri universali, che divenne quella degli anticurialisti, come pure l‟ipotesi ierocratica che essi contestavano. Ved. E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, cit. pagg. 276 sgg. 650 Cicerone, Respublica, 2.26. 651

Ved. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it., Milano, 19xx, pag. 41.

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pre-civile di libertà congenita che la convivenza sociale deve perfezionare ma non istituire, e che consiste in una qualità morale, quella di discernere secondo ragione, che egli, secondo la tradizione teologica cristiana, chiama “liberum arbitrium”. Ragione e libertà diventano dunque sinonimi in Dante, sicché la condizione originaria dell‟uomo pre-civile non ha niente di paragonabile alla condizione ferina hobbesiana o a quella barbarica greca e romana. E poiché la “cupiditas ipsa sola sit corruptiva iudicii et iustitie prepeditiva”, ed avendo il Monarca “nullam cupiditatis occasionem inter mortales”, ne consegue che, in quanto legislatore, “inter ceteros iudicium et iustitiam potissime habere potest”, e dunque è il miglior depositario del “disponere alios”, cioè di governare, quale titolare della “dispositio mundi”, cioè della legittimazione morale a regnare.652 Governare gli uomini significa dirigerli verso la perfezione della loro essenza spirituale (“propriam similitudinem”), distraendoli dalla “cupiditas”, che invece è la loro imperfezione naturalistica. Pertanto il Governo morale dell‟umanità cristiana consiste nel far emergere la “possibilità” insita nella natura divina dell‟uomo nei rapporti con gli altri uomini, al fine di conseguire la perfezione di sé, e cioè la salvezza spirituale, e non la potenza mondana. E dunque il Governo dell‟umanità non può essere attribuito a un qualunque rex in virtù delle sue qualità politiche, ma soltanto al Monarca che, in virtù delle sue qualità morali, “potest esse optime dispositus ad regendum”. Il Governo non si esercita attraverso la “lex” particolare, intesa come “regula directiva vite”, la quale varia di numero e contenuto in dipendenza delle particolarità contestuali alle situazioni dei singoli gruppi umani, ma, interessando il “genus humanum”, deve esplicarsi attraverso una norma universale, valida per tutti, che abbia per fine la pace. 653 Ora saggiamo tutta la portata della notazione di A. d‟Ors, ricordata da Schmitt, 654 circa l‟infausta “disgrazia” della traduzione di Cicerone del termine greco di

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Dante, Monarchia, I, XIII, 31-37 e 42-44, pagg. 162-163.

653

“Ut humanum genus secundum sua comunia, que omnibus competunt, ab eo regatur et comuni regula gubernetur ad pacem”: Ivi, XIV, 26, 33-35, pag. 164. 654 C. Schmitt, Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, tr. it., Vicenza, 2005, pag. 169.

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nomos in quello romano di lex, che è appunto il termine adoperato da Dante per esprimere ciò che non può essere il contenuto di una “lex”, determinata sempre dalle condizioni particolari che l‟hanno ispirata e quindi soggetta a mutazioni. Diversamente, l‟azione di Governo riguarda la decisione circa il meglio, che è “unum”, tra molte possibili opzioni, che sono “plura”. Ma solo quella giusta è la decisione migliore, con la quale l‟atto di Governo diventa “acceptabilissimum” a Dio.655 Per comprendere l‟essenza dell‟atto di governo occorre riandare alla differenza tra la potenza divina, infinita, e quella umana, finita. La stessa esigenza di una guida morale da parte del Monarca si basa sulla consapevolezza che l‟universalizzazione della cupiditas individuale nella forza del Potere non può identificare il “genus humanum” con Dio, proprio perché Dio non è un ente naturale, sia pure eccelso, ma una realtà spirituale e quindi trascendente ogni finitezza, sia pure quella dell‟unità ideale, perciò non può essere assimilato a una essenza concettuale. Trascendere la dimensione ideale signfca porsi su di un piano noetico ed esistenziale diverso da quello naturalistico riflesso nelle idee attraverso la ragione, ossia su un piano intuitivo, che è quello della fede, che sia in grado di cogliere la totalità, intu-endola oltre il fenomeno particolare. Ciò vuol dire che la conoscenza intuitiva non equivale alla conoscenza ideale, ossia a quella razionale, che conosce il modello perfetto di ciò che è sensibile e dunque imperfetto. L‟intuizione dell‟uomo come essere spirituale non è la conoscenza attraverso di esso, che è imperfetto, della perfezione umana quale suo modello ideale. Conoscere l‟uomo come essere spirituale significa propriamente trascendere la sua finitezza naturale, e quindi ogni sua determinazione razionae, per cogliere attraverso di essa la sua essenza divina ed eterna, appunto spirituale, la quale, diversamente delle differenti determinazioni empiriche di ognuno, è comune a ogni essere umano. E pertanto ciò che rende gli uomini un “genus” è qualcosa che non inerisce la specie naturale, ma è un carattere trascendente della sua esistenza che consiste nel “liberum arbitrum”, ovvero nella possibilità umana e solo umana di trascendere la proria finitezza naturale e partecipare dell‟essenza divina, che non è ideale ma spirituale. Il termne di “spirituale” sta dunque ad indicare il piano esistenziale dell‟uomo che

655

Dante, Monarchia, I, XIV, 51-52, pag. 165.

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trascende la sua finitezza naturale. Che lo spirito non sia una facoltà dell‟anima, quale era pensata essere la ragione dai greci, lo attesta la stessa destinazione dell‟intuizione spirituale, che è unitiva e tesa a unire nella charitas la molteplice particolarità naturale degli uomini, anziché dividere, come opera la ragione dialettica, il dato sensibile concreto da quello ideale astratto. L‟intuizine spirituale coglie invece l‟esistenza concreta dell‟uomo, la sua duplice fisionomia ontologica, che per un verso lo destina alla finitezza della carne e dunque alla molteplicità della sua natura animale, e dall‟altro lo partecipa dell‟essenza spirituale divina, nella quale ogni particolarità diventa espressione particolare dell‟unico Tutto, che è appunto Dio. L‟equivoco che ha portato a ritenere che l‟unità spirituale fosse omologanile all‟universalità del concetto della conoscenza ideale risiede nell‟aver indicato lo Spirito incarnato, il Cristo, come Logos, cioè come un Ente di ragione, facendo di Lui una Idea. Orbene, se l‟essenza naturalisticamente pensata è sempre positiva in quanto attuale, l‟essenza divina è intrinsecamente negativa rispetto alla positività del datodi natura conosciuto dalla ragione, in quanto al centro della realtà esistenziale del Cristo c‟è la morte, ossia quella alterità rispetto all‟essere-che-è che il pensiero razionalistico pone all‟inizio e alla fine del‟esistenza. Invece, nella dimensione cristiana della esistenza umana, la centralità della conoscenza è impegnata dalla morte, ossia dalla consapevolezza della finitezza della vita naturale e di ogni sua determinazione reale. Se pertanto lo scopo della conoscenza razionale è di spostare indefinitamente i termini della edacità della vita umana, costruendo un mondo stabile rispetto alla età dei singoli e delle generazioni, lottando contro la spinta distruttiva del tempo, il fine della intuizione spirituale è di pervenire all‟esperienza dell‟eterno attraverso il trascendimento della realtà finita. Trascendere la finitezza della vita naturale significa pensare l‟uomo e la sua esperienza comune come destinata alla morte e dunque a orientarsi già in vita come esseri spirituali, eterni. Ma esattamente questa conoscenza negativa rispetto alla positività della realtà fenomenica ed empirica, fa della intuizione spirituale il luogo di elezione della alterità rispetto al piano della contraddittorietà proprio della ragione e della vita politica; il luogo della comunione ecclesiale, in cui gli uomini si incontrano e si riconoscono come creature divine simili al Cristo, che diventa il paradigma esistenziale di ogni esperienza umana in senso spirituale,

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ovvero della singolarità, e quindi del rapporto dell‟Uno storico con Dio, che è l‟Uno eterno; esperienza singolare che, essendo spirituale, è diversa da quella politica della vita sociale, che pertiene al rapporto con Cesare, cioè con la dimensione del Potere. Per quanto attiene al piano politico, la morte in croce di Cristo testimonia della insuperabile finitezza umana, e dunque della dipendenza dell‟uomo storico dal Potere di Cesare. A questo punto non ci è difficile comprendere come l‟ipotesi di un Potere asservito al fine escatologico della salvezza spirituale fosse una lusinga latente nella comunità cristiana soggetta a Cesare. Ed è questo il senso profondo dell‟idea di un Impero cristiano in cui confluisse nelle stesse mani il Potere politico esercitato sui cittadini e il Governo morale esercitato sugli esseri spirituali. 656 Ma l‟ipotesi di un Monarca che assommi in sé, nel suo ministero, sia l‟esercizio del Potere politico che l‟amministrazione del Governo spirituale doveva presupporre che le due dimensioni, spiritule e politica, potessero tradursi in due termini dialettici vicendevolmente opposti in quanto entrambi interni a una stessa dimensione unitaria di verità, la quale fosse essa stessa formalmente determinabile al pari delle due forme ideali antitetiche, rispettivamente, del Potere, la cui forma ideale è lo Stato, e del Governo, la cui forma ideale è la Chiesa. L‟idea monarchica di Dante è appunto quelladi unificare in una stessa realtà esistenziale la comunità spirituale cristiana e quella politica. Questa ipotesi teocratica presumeva dunque l‟omologia delle due forme da sintetizzare o da giustapporre, la quale omologia era resa possibile dalla solita identità razionalistica della

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Questa tentazione risale secondo Barth a quando “la cristianità volle essere qualcosa di più del popolo pellegrinante nel deserto, dell‟uccello solitario sul tetto. Essa non volle più patire. Sotto il pretesto del bene dell‟umanità essa aveva d eciso di mettersi a suo agio. […]”. E risuona in tutto il loro drammatico appello la domanda cruciale: “Perché questo cristianesimo ha voluto conservarsi in vita a spese dell‟evangelo, invece di lasciar accadere che fossero le forze dell‟evangelo a farlo vivere? Ciò che adesso capita al cristianesimo è solo la quietanza per la grande menzogna di cui si è rs chiaramente colpevole su tutta la linea, a partire dalla fatale era costantiniana”: K. Barth, Das Evangelium in der Gegenwart (1935), cit. da G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, Bologna, 2012, pagg. 9-10.

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totalità con la universalità, ossia con la confusione concettuale di ciò che è l‟unità spirituale e mistica, con l‟unità logica di tutti gli enti empirici, i quali formano idealmente una totalità astratta da ogni concreta singolarità ontica. La vera e unica totalità è invece solo di ordine spirituale, in quanto essa comprende la stessa entità sia in senso della singolarità empirica che nel senso della unità divina, che è lo Spirito, il quale si rifrange restando lo stesso in ogni uomo storico. Diversamente, l‟unità logica è la somma ideale delle singole parti empiriche concepite di numero infinito, e tale per cui la loro universalità o infinitezza sia assumibile come ideale unitaria totalità, laquale, però, resta pur sempre ideale, anche se riferita a enti reali. In questo modo la Moltitudo di Spinoza poteva concepirsi come Un popolo e Un ente politico. E allo stesso modo era stato possibile alla nazione ebraica di rappresentarsi come il popolo di Dio, facendo di Dio l‟equivalente etnico-religioso di una categoria ideale. Per la concezione cristiana, invece, Dio non è un ente di pensiero, e dunque non è concepibile come un metafisico contenitore religioso, per cui il rapporto con Lui non può essere inteso in senso servile, alla stregua di un rapporto giuridico, senza conformarlo alla stessa essenza logica che consente il rapporto dialettico servo-padrone. Infatti, ciò che rapporta la potentia oboedientialis del servo alla voluntas potentiae del signore è la Potentia come principio razionale e dunque di socialità, informato al criterio dell‟ordine cosmico come obbedienza alla necessità (lex naturalis), e dunque della pax societatis come obbedienza al Potere (lex civilis). La Potentia () come legge universale e cosmica si manifesta nella realtà come relazione polemica, in quanto la sua essenza ontologica, il suo Essere, si determina attraverso la negazione del suo opposto, la debolezza. Non esiste alcuna forza che non si eserciti su una correlativa debolezza, e dunque nessuna signoria se non verso una servitù. In questo senso originario, il Potere stabilisce un rapporto di forze, e pertanto è intrinsecamente polemico, e dunque non può garantire la pace se non nei termini di una negazione della guerra.Affermare la pace, ossia negare la guerra, significa esercitare un Potere sul più debole, asservire, dominare, comportarsi da Dominus. Il Potere politico () si manifesta come dominio del più forte sul più debole.

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Radicalmente diverso è l‟esercizio del Governo morale (), il quale presuppone, come principio di socialità, non già la relazione pacificatrice relativa a una condizione ontologicamente polemica (), ma la libertà, il cui senso profondo è di emanciparsi dal rapporto servile, e dunque dalla stessa condizione ostativa alla espressione di sé attraverso la parola, il , la cui radice greca  è la stessa di  (= pacificare), ossia pervenire alla sospensione del conflitto, alla pacificazione o calma. Ma tale condizione, proprio perché relativa alla convivenza sociale come relazione politica, e dunque polemica, è sempre precaria perché attinente in ogni caso al Potere. in tal senso, il è l‟esercizio del  spostato sul piano del , cioè sul piano dia-logico razionale, del confronto dia-lettico. Attraverso questo confronto di senso razionale, ossia attraverso un ragionamento, si piò giungere alla verità, ossia alla condizione privativa di dialogo e dunque di conflitto. Anche il termine greco di verità () ha la stessa radice  di  con l‟alfa privativa che indica appunto, non tanto la dimenticanza, quanto il superamento della relazione dia-lettica e della condizione umana determinata dal polemos, quella appunto politica. Il topos della verità non è lo spazio politico, l‟agone polemico; neppure quello dia-lettico del ragionamento filosofico, ma è il luogo noetico in cui la parola ( ) non ha più ragione di esistenza, in quanto luogo orignario e archetipico precedente ogni divisione polemica, ogni rapporto di determinazione e negazione. Questo luogo originario precedente la parola dotata di senso logico è quello in cui prevale il senso unitario del racconto, comprensivo e inclusivo delle sue determinazioni e negazioni: il luogo, cioè, del Mito (). L‟agire sulla base del senso mitico ( ) è il , che non è solo il raccontare, ma anche il deliberare, il proporre cioè una ordinanza interna alla narrazione, alla riflessione con se stesso. Questa deliberazione è atto normativo diverso dalla de-cisione, ossia dalla scelta operata attraverso la distinzione di ciò che è da ciò che non-è logicamente sostenibile e dunque eticamente accettabile. Ma soprattutto inerisce una sfera mito-poietica che è originaria rispetto a quella del logos, che la presuppone come il tutto presuppone le parti. E dunque la narrazione dotata di senso logico, determinativa e negativa insieme dell‟unitario racconto mitico, costitituisce una sua successiva elaborazione razionale (), ossia è una mito-logia.

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Nel riferimento al contesto sociale, la decisione del Potere politico () è conseguente alla deliberazione di Governo (), quale sua determinazione operativa. Ed è in questa fondamentale differenza il senso della distinzione tra l‟Imperium della prospettiva costantiniana e federiciana, e la Monarchia proposta da Dante, per il quale “esse unum” è la “radix” dell‟ “esse bonum”657 . Il destino delle due dimensioni ontologiche, la politica e la spirituale, è di non poter essere dialettizzabili in senso logico poiché non afferiscono alla stessa sfera di esistenza, ma nel contempo esse sono inscindibilmente unite nella stessa esperienza umana, che perciò le riflette drammaticamente nella vita concreta di ogni uomo. Partendo dall‟unità singolare dell‟uomo, la sua proiezione universale si riflette in ambito sociale come “concordia”, intesa come “uniformis motus plurium voluntatum”, la cui radice è la “unità delle volontà”, che dunque è sinonimo di concordia.658 Dalla omogenea considerazione della voluntas individuale con la “unitatem voluntatum”, ossia con la “concordia”, è possibile per Dante stabilire una analogia tra la singolarità umana, l‟unità familiare e del consorzio civile e l‟unità dello stesso genere umano,659 sicché la volontà umana viene assimilata alla libertà politica e intesa alla stregua di un “pouvoir faire ce que l‟on doit vouloir”,660 dove “l‟accento”, come giustamente notato dalla Arendt, “è su pouvoir”, ossia “sulla capacità di fare”.661 Il fare è una attitudine legata alla possibilità di realizzare la volontà in un‟azione produttiva. Identificare la volontà col suo supposto prodotto, significa fare della prima una determinazione astratta e dell‟azione produttiva l‟unica realtà oggettiva della libertà dell‟attore. Ma è vero il contrario. Infatti, la volontà è l‟unico elemento concreto riferibile al soggetto agente,

657 658

Dante, Monarchia, I, XV, 8-9, pag. 166. Ivi, XV, 20-23, pag. 167.

659

“[…] Sicut homo optime se habens et quantum ad animam et quantum ad corpus est concordia quedam, et similiter domus, civitas et regnum, sic totum genus humanum; ergo genus humanum optime se habens ab unitate que est in voluntatibus dependet”: Ivi, XV, 38-42 pag. 168. 660 Montesquieu, Esprit des lois, XI, 3; tr. it., Torino, 1965, vol. I, pag. 273. 661

H. Arendt, Between Past and Future, tr. it. cit., pag. 215.

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dipendendo soltanto da lui, laddove l‟azione che mette in atto il proponimento della volontà ha una realtà oggettiva in quanto rientrante in un orizzonte simblico-culturale di natura sociale, e dunque di valore collettivo. In questo senso, la libertà di fare è una qualità dell‟azione socializzata, e come tale astratta dalla volontà dell‟attore agente, ossia dalla concretezza della fonte esistenziale dell‟opera umana. E dunque la considerazione della libertà del fare è già interna all‟orizzonte di senso politico, cioè del Potere, e non pertiene alla determinazione della voluntas singolare in quanto tale. L‟equivoco “disastroso che l‟equazione tra libertà e facoltà volitiva ha avuto sulla politica teorica”, di cui parla la Arendt, non nasce “dal conflitto tra l‟io che vuole e l‟io che agisce”,662 ma dal supposto superamento di tale conflitto attraverso la risoluzione dell‟un termine nell‟altro, tale da concepire, alla maniera spinoziana, una Mente collettiva che giunga all‟unità delle singole volontà individuali, e quindi a un Potere sovrano che le determina secondo la sua esclusiva volontà di potenza. Questo concetto di Potere sovrano non risale al pensiero politico moderno, a Rousseau, ma appunto all‟ideale monarchico di Dante interpretato in senso statalistico,663 mentre è vero che “in senso politico, l‟identificazione di libertà e sovranità è forse la conseguenza più deleteria dell‟equazione operata dalla filosofia tra libertà e libero arbitrio”, 664 ma “l‟illusione” di una “sovranità delle società politiche” non nasce dal fatto che “sulla terra non esiste l’uomo, bensì esistono gli uomini”, come crede la Arendt, ma dal fatto che la sovranità politica, intesa come esercizio del Potere sulla “volontà comune di un gruppo organizzato”, e la sovranità morale, ossia “la volontà individuale con cui io costringo me stesso”, 665 non sono equiparabili, in quanto pertengono a sfere esistenziali ontologicamente diverse e non omologabii, cioè riducibili ad un unico concetto. Infatti, l‟esercizio del Potere politico è un fare che presuppone

662

Ivi, pag. 216. Ved. a proposito della “introduzione di un ateggiamento poietico nel dominio della praxis” Ch. Taylor, The secular Age (2007), tr. it., Milano, 2009, pagg. 151 sgg., che però non menziona le posizioni analoghe della Arendt. 663 H. Kelsen, Loc. cit., pag. 116. Ved. infra. 664 665

Ivi, pag. 218. Ivi, pag. 219.

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il polemos, ossia un rapporto antagonistico ed escludente, e inerisce perciò la sfera della convivenza sociale e riguarda la mediazione delle volontà singolari attraverso forme direttive e decisorie di carattere istituzionale e normativamente cogenti. Viceversa, l‟esercizio della volontà come “liberum arbitruim” riguarda la sfera della moralità, ossia quel Governo della possibilità che, attraverso la persuasione del dialogo interiore, il , si perviene alla deliberazione comportamentale. Mentre la decisione del Potere riguarda la sua paritaria efficacia erga omnes, con cui si impegna la volontà (di ciascuno) per il futuro (comune), la deliberazione di Governo non stabilisce un modello di comportamento astrattamente uniforme, cioè una fattispecie legale, ma un principio di azione. La differenza consiste nella circostanza per cui, mentre la fattispecie legale universale astrae dalla concreta volontà dell‟attore quale soggetto ideale, il principio morale ha come riferimento esclusivo il télos dell‟azione, e dunque la voluntas agendi in quanto intenzione individuale dell‟uomo concreto. La considerazione legale della “libertà” in senso politico assume come reale la sola dimensione dell‟esistenza collettiva dell‟uomo socializzato, ossia la esclusiva sfera della politica, quale spazio dei rapporti naturali dello  . Rispetto a tale spazio collettivo, che suppone come sappiamo il rapporto polemico tra enti sociali molteplici, la dimensione singolare diventa astratta, o astrattamente equivalente alla totalità sociale, mentre invece è la sola concreta in quanto comprensiva esistenzialmente di quella totalità originaria e moralmente drammatica di naturalità e spiritualità costitutiva del singolo uomo. Solo il singolo è pertanto una totalità, e giammai l‟ente collettivo, cioè l‟astratto universo ideale, che è sempre intrinsecamente molteplice e polemico, e perciò abbisognevole di pace. La dimensione della esistenza, in quanto totalità comprensiva delle differenze ontologiche in cui si determina la conoscenza razionale, non è una sfera categoriale, e dunque non è riducibile a una idea ma costituisce una unità originaria di spirito e materia a partire dalla quale si perviene a ogni determinazione del mondo e quindi ogni conoscenza della realtà. Ciò vuol dire che la singolarità dell‟esistenza umana, ovvero il singolo uomo concreto, vive la realtà del mondo plurale, che è esterno alla sua coscienza ed esperienza originaria, in quanto, non solo lo determina attraverso la sua coscienza razionale, come sostiene ogni idealismo, né solo lo esperisce attraverso la sua coscienza sensibile,

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come sostiene ogni empirismo, ma lo patisce in virtù della sua coscienza spirituale, la quale sostiene il peso della differenza della duplice natura umana, e che fa di lui un homo patiens. Proprio perché duplice, l‟essenza umana soffre il dramma dell‟esistenza, lacerata dalla tensione tra le due forze che la abitano, vettorialmente contrastanti, l‟una verso la necessità, che è la legge della vita naturale, l‟altra verso la libertà, che è il segno della trascendenza della realtà materiale. La necessità rappresenta il richiamo umano della specie, esigente la conservazione e la riproduzione della vita biologica, e perciò abbisognevole di una organizzazione economica e politica che stabilisca in senso favorevole all‟uomo un rapporto con la natura nel suo complesso, dal clima all‟equilibrio con le altre specie e alla convivenza sociale. La libertà rappresenta la capacità precipuamente umana di trascendere la realtà del molteplice e riportarsi all‟unità originaria col Tutto, di cui ogni spirito singolare è particola di totalità. Tale trascendimento è ciò che Scheler chiama la capacità umana di “emancipazione esistenziale da ciò che è organico”. 666 Ma l‟organicità dell‟uomo è la convivenza sociale organizzata politicamente secondo determinate forme di cultura. Ciò vuol dire che la “funzione” dell‟uomo “libero” di costituire un “mondo” di “oggetti”, di cui parla Scheler, non è “conoscitiva” solo in senso strettamente teoretico, e cioè relativa a una conoscenza metafisica, ma inerisce a una esperienza cognitiva più ampia perché inclusiva di quel patimento che è il sentimento proprio dell‟esistenza umana in quanto impregnata di trascendenza. Non a caso Scheler, a proposito della “apertura al mondo” da parte dell‟uomo, parla

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Ossia “di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la „vita‟ e con quanto essa abbraccia, e quindi altresì dal legame con la propria „intelligenza‟ ancora sottomessa alla tendenza. Un essere „spirituale‟ non più legato alla tendenza e all‟ambiente, ne è „libero‟, e perciò „aperto al mondo‟; un essere siffatto possiede un suo „mondo‟, ed è altresì capace di trasformare quei centri di „resistenza‟ e di reazione del suo ambiente, che originariamente anch‟egli possiede (i soli per l‟animale che vi è immerso extaticamente) in „oggetti‟”, e in tal senso “lo spirito „è‟ un‟entità vivente capace della più completa oggettivazione”: M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928), tr. it., Roma, 1997, pag. 144.

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del “dramma umano”.667 Il rapporto drammatico che vive l‟uomo in quanto animale razionale e dunque politico, e insieme come essere spirituale e dunque consapevole della finitezza di ogni proponimento umano, consiste nella relazione di socialità, cioè nel rapporto con l‟altro, nella convivenza di ogni livello, dalla famiglia allo Stato. In questo senso, ogni istituzione umana è funzionale a un rapporto di socialità, e costituisce pertanto una forza di resistenza alla libera determinazione dell‟uomo, rappresentata dalla libertà delle volontà altrui. Ma le libertà altrui non si presentano mai all‟esperienza singolare della propria libertà come forze impersonali, ma sempre come “volontà di potenza”, cioè come azioni ostative dotate di un certo grado di potere. Ciò vuol dire di converso che alla coscienza singolare che tende a trascendere le determinate e concrete resistenze ambientali, la volontà ostativa si rappresenta come Potere, ossia come una struttura impersonale dalla cui potenza egli è escluso. Il senso di esclusione, che caratterizza il rapporto politico, costituisce la traccia psicologica di una condizione esistenziale di opposizione all‟Essere dell‟ente, alla situazione di ciò-che-è potente, e dunque alla possibilità attuale. E dunque la libertà singolare esperendosi come vita confliggente con altre vite, si vive come dramma dell‟esistenza politica, ovvero della convivenza all‟interno di un campo di forze dinamiche regolate da vincoli di potere. Il “dare a Cesare” del Vangelo significa appunto riconoscere nel Potere politico il luogo di esercizio della forza umana in funzione della sopravvivenza biologica. Il luogo della “carne” dominato dalla necessità della condizione naturale. Questo riconoscimento, però, è possibie soltanto nel momento in cui la coscienza si trasferisce dal piano politico dell‟esistenza umana, al piano ultroneo della coscienza spirituale, la quale de-finisce l‟esperienza conflittiva del politico nei termini della sua finitezza e della propria in-finitezza, ossia atraverso la consapevolezza della rispettiva differenza. Il perdono del Cristo in croce a coloro che “non sanno ciò che fanno”, non è riferito alla incongruità dello scopo politico dell‟agire dei suoi carnefici, i quali “sanno” come fare per negare la libertà di Gesù a professare la sua fede. Il “sapere” cui allude Cristo è propriamente la conoscenza della differenza, ignota alla coscienza pagana non convertita. La conversio o  della

667

Ivi, pag. 145.

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coscienza consiste proprio nel passaggio dal livello politico (della vita organica, segnata dalla necessità) a quello spirituale (della esistenza singolare, segnata dalla libertà). Il punto di displuvio tra le due dimensioni coscienziali è caratterizzato dalla “angoscia”, intesa quale estrema  della “coscienza infelice” che esperisce il “dramma” della esistenza umana. Tale dramma umano segna il confine della vita biologica, che è anche il limes della stessa vita politica, quello appunto della finitezza della condizione umana, contrassegnata dalla morte. La morte è il limite oltre il quale si perviene al non-essere rispetto all‟essere della vita, e cioè della convivenza sociale contrassegnata dalle regole del Potere. La morte è dunque anche il limite del Potere stesso, oltre il quale esso è in-potente, ossia non ha la forza di tradurre la sua possibilità in effetto attuale. Oltre la soglia del Potere c‟è la dimensione della possibilità, ossia di ciò che non è attuale, e perciò potenziale, e come tale libero. La morte è il varco che segna il passaggio dalla necessità alla libertà, cioè dalla attualità alla possibilità. Dalla prospettiva della libertà-possibilità, la morte è l‟accesso alla coscienza spirituale. Dalla prospettiva della necessità.attualità, invece, la morte segna il confine della potenza umana, e dunque del Potere, che è potere di determinare la possibilità come attualità. Da qui l‟idea greca della potenza come , come forza determinatrice di attualità dell‟Essere. La sapienza pagana è paga dell‟attualità dell‟Essere. Essa si appaga della sola dimensione d‟essere dello spazio politico, all‟interno del quale l‟esperienza umana esperisce la sola dimensione dell‟attualità, quella fenomenica degli enti che hanno varcato la soglia del niente. Quella stessa che la coscienza spirituale varca per morire alla vita organica e raggiungere la sua unione mistica col Tutto. Questa realtà meta-politica e misticamente unitaria governata dallo Spirito è la Chiesa cattolica, la realtà differente rispetto a quella costituita dallo Stato, il cui imperium confina con la vita bio-politica. La corrispondenza storica dell‟unità spirituale del “genus humanum” all‟Imperium politico dell‟orbe cristianizzato, e la loro reciproca confusione, è l‟immagine utopica della Monarchia di Dante, in cui l‟Uno divino, che si è manifestato nel Cristo unigenito, si rappresenta nell‟unità politico-spirituale del genere umano attraverso la figura del Monarca, simbolo storico del Cristo-re. La questione che a questo punto va posta è se l‟auctoritas esercitata dal Monarca sia la stessa che nasce dalla “razionalizzazione del Potere

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politico, che consiste nel „trasformare‟ la forza in legge, il fatto in diritto, e che mette capo a una auctoritas dotata delle prerogative dell‟assolutezza (vale a dire: dell‟indipendenza dalla persona fisica che l‟incarna, e dunque dell‟impersonalità) e dell‟indivisibilità”.668 La risposta è negativa, in quanto il Governo monarchico non è la “summa legibusque soluta potestas” di cui trattava Bodin, non essendo quella del Monarca una legislazione indipendente dai fondamenti soteriologici della potestas divina, i cui atti siano “universitates sufficientes et superiorem non recognoscentes” (Bartolo di Sassoferrato), né tampoco esso è diretto a stabilire un “diritto”, ossia un criterio universale e astratto di giustizia, essendo il principio caritativo della relazionalità cristana sempre pietoso, ossia relativo al caso concreto, che ha per soggetto il singolo e non un tipo legale. Infine, la cn-fusione dei “due corpi del re” nella stessa figura presuppone una regalità carismatica fondata sulla santità, anziché sulla potenza, e tale che la sua efficacia sia commisurata non tanto al suo Potere (Herrschaft), e dunque alla correlativa obbligazione legale dei destinatari, quanto al grado di libera adesione che il Governo riesca a ispirare. Questa adesione, poiché è in principio libera, non è un mero consenso legato alla legittimità della forza esercitata dal Potere; consenso che, in quanto intrinseco al principio di legittimità può anche essere supposto. Essa implica una relazione con l‟auctoritas del Governo che, diversamente dalla passività della oboedientia, è di tipo attivo, ossia partecipativo, ispirato al principio di fedeltà al sovrano, e che possiamo indicare come fidelitas, parola che ha la stessa radice di fides. La fidelitas al sovrano non si può presumere né stabilire normativamente per legge, ma essa è costitutiva della stessa possibilità dell‟esercizio del Governo. In tal senso, non è il pactum societatis hobbesiano a vincolare reciprocamente i sudditi al Monarca, né è la sua forza a costringerli al suo servizio, ma soltanto la prerogativa carismatica che nasce dal riconoscimento comune. La formula della fedeltà al Governo per adesione comune non significa che il riconoscimento sia spontaneo da parte di tutti i sudditi, ma occorre “lucem correctionis effundere”, cioè adoperarsi come l‟illuminato della caverna platonica a diffondere la luce emendativa

668

G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Torino, 2013 2, pag. 314.

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della verità, per liberare l‟umanità dalle sue stesse catene del pregiudizio (“ad ostendendum genus humanum liberum a iugo ipsorum”), rappresentati dagli stessi vincoli opposti da re e principi inconsapevoli, che perciò vanno rimossi. (“ad dirumpendum vincula ignorantiae regum atque principum talium”).669 Ed è questo elemento di insuperabile aleatorietà che caratterizza la Monarchia storica di Dante sia dalla Chiesa che dal Giorno del Giudizio, e di converso la figura del Monarca da quella del Papa e del Cristo della Parusia. La Monarchia, se non è l‟Impero costantiniano, non è neppure la Chiesa, ma la confluenza del carisma spirituale con l‟esercizio del Potere, 670 subordinato però in quanto di pertinenza dei prìncipi vassalli, adibiti alle mansioni operative “tanquam intellectus practicus ad conclusionem operativam”.671 Ciò significa che la Monarchia è costituita non solo di soggetti spirituali ma anche da un corpo politico che è amministrato nelle forme congrue al dominio delle pulsioni naturali degli uomini, quella “cupiditas” che provocò la “scissuram” della “tunica inconsutilis” di Cristo rappresentata dalla “Monarchia perfetta” sotto il divo Augusto.672 Ciò che comunque più rileva in questa rappresentazione teorica è, per un verso, la (ritenuta possibile) corrispondenza idealistica tra modello ideale di Monarchia imperiale e realtà storica, e, per altro verso, la supposizione della vigenza immanente del fondamento di fede cristiana quale principio escatologico dell‟azione politica. L‟una e l‟altra supposizione esprimono in forme diverse la stessa logica della necessità, ovvero della necessaria corrispondenza del pensiero all‟Essere, tipica del razionalismo greco e mutuata dalla teologia romano-alessandrina e quindi aristotelico-tomista, per la quale

669

Dante, Monarchia, II, I, 25-28, pag. 173.

670

“Veritas autem questionis patere potest non solum lumine rationis humane, sed etiam radio divine auctoritatis: que duo cum simul ad unum concurrunt, celum et terram simul assentire necesse est”: Dante, Monarchia, II, I, 25-26, pag. 173. 671 Dante, Monarchia, I, XIV, 38-41, pag. 173. 672

Dante, Monarchia, I, XVI, 14-15 e 6-7, pagg. 169 e 168.] Ed è per tale divina

ragione che egli intende glorificare Cesare e il suo popolo conquistatore. [Dante, Monarchia, II, I, 19-20, pag. 172. 309


“voluntas et volitum in Deo sit idem”.673 In virtù di tale principio, il fondamento ontologico di fede, che sta alla base di ogni conseguente sua elaborazione logica, ossia di ogni determinazione razionale, fonda altresì, appunto per necessaria corrispondenza del pensiero all‟Essere, anche la realtà ontica, ossia il mondo storico-sociale. E si deve propriamente a tale supposizione, da un lato, lo sviluppo della scienza come sapere mito-logico, e dall‟altro la secolarizzazione della cultura moderna sulla falsariga di quella greca a partire dal V secolo a. C. Infatti, così come la topologia del politico ha esautorato il sapere ontologico da ogni fondamento fideistico originariamente mitico, parimenti il sapere moderno si è emancipato dal suo fondamento cristologico per comprendere in sé, ossia nelle proprie ragioni sistemiche, quella fides che era l‟ di ogni successiva elaborazione razionale del mondo, cioè al principio di ogni determinazione, come l‟Uno in-determinato. Il razionalismo moderno operò in senso analogo al razionalismo aristotelico, che ritenne superflua per la scienza l‟ipotesi dell‟Idea platonica. Solo che nel caso della metafisica cristiana, l‟ideale era la cristo-logia, il cui modello antropologico fondava la concezione cristiana della socialità storica, compresa quella dantesca. La elaborazione razionalistica della teo-logia cristiana, liberando il sapere scientifico dal suo fondamento di fede escatologico, ne ha conservato l‟impianto universalistico, e con esso la prospettiva di una communitas universalis secolarizzata a guida tecnocratica, preconizzata dal positivismo. L‟equivalente post-moderno del disegno teo-cratico dantesco secolarizzato è la società capitalistica, che riflette sia l‟universalismo antropologico del cristianesimo ellenistico, che l‟imperialismo della teologia politica del cattolicesimo romano. E tanto la Monarchia sacrale dantesca, quanto il Mercato economico smithiano sono concepiti come la realizzazione di un disegno provvidenziale, al cospetto della necessità del quale ogni resistenza delle nazioni e ogni refrattarietà di popolo a piegarsi al Potere, risultano vani (“sunt inania”), andando contro la volontà di Dio e del suo Cristo (“adversus Dominum et adversus Cristum eius”).674

673 674

Dante, Monarchia, II, II, 28-29, pag. 175. Dante, Monarchia, II, I, 1-23, pagg. 171-172.

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Questa posizione razionalistica, che concepisce “il diritto umano come l‟immagine della stessa volontà divina”, per cui “la volontà di Dio va considerata il vero diritto della società umana”, 675 elude il problema della realtà del male nella storia dell‟uomo, considerando inessenziale ciò che caratterizza la sensibilità escatologica cristiana rispetto all‟esclusivo esito politico dell‟efficacia del Potere, ossia la salvezza di ogni singolo uomo. Al pari della considerazione di un risutato politico, il fine soteriologico che anima il processo provvidenziale dell‟umanità viene delocalizzato sull‟esito pratico della costituzione dell‟unità imperiale, già tentata dai romani quali inconsapevoli pedine della volontà divina, spostando sull‟onore militare il valore virtuoso accordato originariamente alla libertà, per cui “cum honor sit premium virtutis et omnis prelatio sit honor, omnis prelatio virtutis est premium”.676 La preminenza accordata alla sfera politica dell‟imperium è conseguente alla stessa premessa idealistica del rispecchiamento pratico del modello teorico, mentre l‟universalismo razionalistico consente quella proiezione della unità singolare nella unità del molteplice costituita dall‟Impero monarchico, di cui quello romano diventa il nobile prototipo. Esso infatti fu un vero “miracolo divino”, se per esso si intende con Tommaso quanto avvenga “preter ordinem in rebus comuniter”. E poiché “spetta soltanto a Dio fare miracoli, […] quanto di miracoloso avvenga in favore di alcuno è alla volontà di Dio che va di diritto attribuito, in passato come al presente”. 677 In altri termini, quanto dovesse avvenire ancora in similitudine di quanto avvenne ai tempi dei Romani, ossia la costituzione di un impero universale, andrebbe interpretato come per volontà divina.

675 676

Dante, Monarchia, II, II, 32-38, pag. 175. Ivi, II, III, 6-8, pag. 176.

677

“Soli Deo competere miracula operari, […] cum in favorem alicuius portenditur, nefas est dicere illud, cui sic favetur, non esse a Deo tanquam beneplacitum sibi provisum”, e dato che “romanum Imperium ad sui perfectionem miraculorum suffragio est adiutum; ergo a Deo volitum; et per consequens de iure fuit et est”: Dante, Monarchia, II, IV, 4-6, 11-13, 14-16, pagg. 182-183.

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L‟aspetto più significativo di questo mutuo mitologico della fondazione e delle vicissitudini di Roma è l‟incorporamento della fabula civilis tipicamente pagana entro la dimensione escatologica cristiana, accreditando surrettiziamente, col mito fondativo, anche l‟uso politico della religione, stabilendo un duplice piano di considerazione, elitticamente sospeso tra l‟eterogenesi dei fini circa la costituzione universale della prima Roma, funzionale al cattolicesimo cristiano, interpretazione che smentisce la lettura agostiniana della mitologia romana come compendio idolatrico pagano, e il programma di una novella monarchia universale come inveramento cristiano del prototipo romano, il cui progetto ad condendum rappresenta una critica implicita alla seconda Roma costantiniana, quella appunto papale, che per Dante non ha realizzato il disegno provvidenziale dell‟Impero universale cristiano. La prospettiva dantesca di una Provvidenza che agisca per fini reconditi ignoti agli stessi eroi che ne sono lo strumento temporale, rappresenta il prototipo di quella filosofia della storia che si sviluppa attraverso un processo criptico della volontà divina che, agendo all‟insaputa degli uomini, non riesce a giustificare l‟esigenza della conversione dei cuori dei singoli credenti, travolti loro malgrado dal moto incontenibile e perciò fatale di quella che, nella trascrizione razionalistica della Provvidenza secolarizzata, sarà la hegeliana “astuzia della ragione”. La “traslazione” (Uebertragung) dell‟universo teologico in quello politico non è il frutto di una tendenza eretica che fruisce di categorie del sacro in ambito allotrio profano, ma è inscritta all‟interno del processo mitologico della rielaborazione razionalistica dei fondamenti della metafisica ellenistico-cristiana, ispirata dalla logica interna che la sostiene, ossia da quella “necessità” naturalistica dalla quale la fede cristica ha cercato di emancipare la coscienza umana nel segno della “libertà” spirituale. La stessa trascrizione in chiave universale dell‟ “interesse” a motivo dell‟agire del genere umano, operato dall‟ideologia capitalistica, è una rielaborazione del pricipio cristiano della “misericordia” quale fondamento di relazione inter-personale. Ciò vuol significare che il metodo () di razionalizzazione concettuali delle pulsioni dei moventi umani e dei sentimenti nelle relazioni, ne determina, con la loro apertura funzionale, anche la loro neutra fungibilità, per cui ogni traslazione di senso ideale implica una rimozione dei contenuti fondamentali dei concetti, cioè l‟ “oblio” (verbogenheit) dei fondamenti

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di fede che sostengono il logos di ogni mito-logia, in cui consiste la rielaborazione del Mito. Poiché il senso significativo del logos è pre-costituito dal suo fondamento di senso, la rielaborazione concettuale del senso originario comporta la previa astrazione del significante (logos) dal suo significato originario (fondamento), per cui la neutra fruibilità concettuale del logos razionalizzato, ossia astratto dal suo fondamento di senso e reso assoluto, implica la rimozione di quel fondamento significativo. Questa operazione teoretica, in cui consiste il pensiero filosofico, avviene separando il discorso razionale dal suo fondamento mitico.  (= Mito) è lo Spirito () che sta () all‟inizio () e da cui muove il  il dire, cioè a partire dal quale ha senso la parola usata nella comunicazione abituale che fonda il senso comune, ossia l‟, ciò che proviene () dal fondamento spirituale () del senso originario del significato che consente agli uomini di comunicare stando insieme. Ogni fondamento di senso comune è contestuale, cioè fondato su un orizzonte di senso che pre-esiste al dialogo ( ). Senza tale fondamento di senso, non c‟è dia-logo, ma semplice dire, il cui senso va attribuito a un nuovo fondamento. La traslazione concettuale del senso delle parole comporta la loro astrazione dal fondamento contestuale di senso originario, cioè la loro neutralizzazione etica, che teoreticamente avviene emancipando il dal suo, obliandone il senso. Oblio () come deposizione (la radice di  è la stessa di  = smetto, depongo) del senso divino originario () della parola. Tale de-posizione, o trans-lazione, del senso originario del , trasforma il processo del dire, cioè il ragionamento, in un dato concettuale, cioè in un astratto ente universale, il , quale prodotto stabilito, epistemico, che si regge su se stesso. Un  che si regge da sé, non ha bisogno del dia-logante, ma lo esclude. Tale esclusione dall‟ambito dialogico dell‟altro da sé coincide esistenzialmente con la scelta politica, che è la proiezione effettuale della determinazione logica per negazione (omnia determinatio est negatio). Stabilito per fede che all‟inizio e alla fine della realtà esistenziale dell‟uomo sta il Cristo, ogni traslazione di senso dei concetti della sapienza greca in ambito cristiano comporta l‟oblio del loro senso metafisico originario, ossia presuppone quel processo di razionalizzazione dei fondamenti del Mito pagano originario, senza il quale i  filosofici non sono tecnicamente fruibili nel nuovo 313


orizzonte di senso cristo-logico. E dunque la nuova assunzione di senso cristiano della sapienza filosofica greca doveva contraddittoriamente includerla neutralizzandola di ogni implicazione naturalistica arcaica, e insieme escluderla come tecnica a sé stante di conoscenza della realtà, stabilendo per principio la sua inadeguatezza teoretica in senso escatologico. Ma il senso escatologico, posto all‟inizio del discorso teologico in cui rientrava la fruizione tecnica della filosofia, costituiva una premessa fideistica che, commisurata alla ragione del , appariva mitica non diversamente da come era apparsa la rappresentazione del mondo alla filosofia greca. La capacità privativa dell‟uomo di rimuovere la propria esperienza spirituale dal contesto della sua vita organica è del tutto analoga alla possibilità di astrarre la propria coscienza dai suoi fondamenti di fede, attraverso un processo di razionalizzazione della realtà. Ma tale analogia in negativo, che si basa sulla simile emancipazione della coscienza dalle sue condizioni originarie, non comporta alcuna similitudine in positivo, poiché gli esiti di tali rispettive operazioni sono del tutto difformi. Infatti, l‟astrazione razionalistica, emancipando la coscienza dai suoi fndamenti di fede, la isola in una soggettività solipsistica, rimuovibile soltanto alla condizione di interpretare se stessa come l‟astratta unità di una realtà molteplice, facendo quindi della coscienza trascndentale l‟unità dell‟essere ideale in cui sussumere la molteplicità degli enti reali. Diversamente da ciò, l‟emancipazione della coscienza singolare dai dati della coscienza sensibile, e quindi dal contesto esistenziale della sua condizione storica, le consente di congiungersi spiritualmente al Tutto, ossia a quella vera unità spirituale rispetto alla quale eternità l‟unità storico-sociale è precaria e, in quanto fondata eticamente su una mitologia pagana, idolatricamente falsa. L‟esito imperialistico della teologia politica cristiana ha queste fondamentali ragioni, per cui la fides cristiana è stata trascritta nei termini della ratio del , ossia come presupposto mitico della sua rappresentazione razionalistica, concependo pertando la dottrina cristica dell‟amore in una cristo-logia, dalla quale è stato possibile rimuovere la parte fideistica per consegnare al sapere razionalizzato le sue categorie teologiche secolarizzate. Naturalmente anche la traslatio concettuale dal piano etico-politico a quello mitico comporta una alterazione del senso originario delle categorie ideali. Si prenda il caso del principio della “utilitas” espressa

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nell‟opera De inventione di Cicerone, per cui “semper ad utilitatem rei publice leges interpretande sunt” (I, 68), citato da Dante, la cui definizione del diritto come “ius realis et personalis hominis ad homenem proportio, que servata hominum servat societatem, et corrupta corrumpit”,678 non soltanto non coincide con la descrizione “per notitiam utendi” del Digesto, ma neanche con l‟esprit ermeneutico che anima l‟esegesi romana, la quale intende il “bonum comune” e il relativo “finis societatis”, come salvaguardia dello Stato e non certo della “hominis ad hominem proportio”, per cui il “finis iuris” in senso romanistico di “bonum rei publice” non è lo stesso bene soteriologico dei cristiani, che vedono lo Stato come strumento e non come fine per l‟uomo. Pensare che Dante criticasse la mondanità della Chiesa romana per mettere al suo posto lo Stato sarebbe certamente incongruo, ma soprattutto sbagliato, e l‟errore nascerebbe dalla indebita identificazione del “romanus populus” con il “genus humanum”, e la romana “pax” con la cristiana “libertas”, da cui l‟identità tra la “gloria” romana con la “salus” del genere umano.679 Eppure tale incongruità è presente nel testo dantesco, proprio perché la fruizione anfibologica delle stesse categorie giuridiche provoca un complessivo sincretismo teorico che rende ambigua l‟esegesi del testo in un duplice possibile senso, aperto tanto alla riabilitazione dell‟Impero romano (in senso anti-agostiniano), che all‟inveramento del suo principio imperiale (in funzione mitopoietica cristiana), e pertanto il riferimento alla fattualità dei “signa exteriora” per la determinazione della “intentio ex electione” di chi agisce non è punto risolutiva, come invece vorrebbe Dante.680 Infatti, gli stessi gesti caritatevoli di Gesù - e dei successivi martiri della fede cristiana – possono essere intesi come manifestazione visibile della radicale bontà divina, da chi ha fede in Lui, e viceversa come pericolose minacce all‟ordine religioso dello Stato da parte dei suoi detrattori e avversari all‟interno della logica esclusiva dell‟orizzonte politico, senza che Gesù, com‟è noto, abbia mai pensato di costituirsi esplicitamente ed intenzionalmente come parte polemica in senso politico.

678 679

680

Dante, Monarchia, II, V, 2-4, pag. 184. Ivi, 20- 25, pagg. 185-186. Ivi, 28-29, pag. 186.

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Ora, si dà il caso che Dante, alla stregua della tradizione teologica cristiana, si sia posto oggettivamente all‟interno dell‟orizzonte politico, ossia all‟interno di quella necessità metafisica che caratterizza l‟orizzonte di sapere naturalistico greco, rispetto al quale la prospettiva spiritualistica della fede cristiana è “follia”. Il punto di mediazione tra i due universi di senso, rispettvamente pagano e cristiano, è costituito dall‟universalismo razionalistico, che la teologia cristiana ha adottato come  all‟interno del proprio orizzonte di fede escatologica. In altri termini, la teologia cristiana ha adottato l‟insania pagana come remedium logicum all‟ineffabilità teoretica della nuova prospettiva spriitualistica emancipatasi dalla tradizione ebraica, verso la quale si è posta come una rielaborazione di tipo filosofico. L‟adozione dell‟insania consiste nella ricezione del principio razionalistico di universalità come legge di verità, alla maniera della scienza naturalistica profana, identificandolo con il proprio principio di verità, che è la totalità singolare di ogni essere umano quale creatura spirituale, di cui ognuna, in quanto singolarità spirituale, rappresenta, per la gnosi razionale, un mistero. In tal senso, dal punto di vista spiritualistico cristiano, la verità ha per oggetto il mistero dell‟homo spiritualis ( ), e non l‟ente dell‟Essere, per cui la verità in senso cristiano non può essere mai oggettiva e universale ma sempre e solo soggettiva in quanto singolare. Ciò comporta che la conoscenza dell‟uomo in quanto creatura spirituale non può essere affrontata con le categorie della metafisica greca, ossia con l‟onto-logia dell‟Essere-che-è in quanto fenomeno, poiché la conoscenza spirituale non riguarda la sequenza causale degli adesso (Jetzt) presenti alla coscienza in cui si scompone la temporalità della storia fattuale, ma inerisce alla relazione simbolica che i “signa” stabiliscono in quanto eventi fattuali (“exteriora”) con la dimensione dell‟eterno, rispetto alla quale la realtà degli enti non è necessariamente quella che appare attualmente, ma è la realtà possibile. In tal senso la categoria con la quale vanno interpretati gli eventi simbolici della realtà spirituale è quella della Possibilità, che è la modalità propria dell‟Essere spirituale. La caratteristica dell‟Essere-possibile consiste nella sua stessa possibilità d‟essere ciò che non è attualmente in essere come ente fenomenico, ossia la sua totalità, in virtù della quale ogni determinazione attuale della sua possibilità d‟essere ciò-che-è rimanda ogni volta alla possibilità d‟essere altro da ciò che è, e quindi al suo non-essere ciò che appare. Ciò vuol dire

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che la Possibilità è quella categoria del pensiero attraverso la quale si perviene alla conoscenza dell‟Essere-possibile, ovvero del Tutto. Tale Tutto, diversamente dall‟Universale del concetto razionale, non consiste nell‟unità in-definita degli enti fenomenici conosciuti nella loro attualità fattuale; non consiste, cioè, nel modello ideale perfetto in cui si rispecchiano tutti gli enti fattuali imperfetti. Il Tutto consiste invece nella in-finita possibilità d‟essere di ciò che non-è attuale, ma appunto possibile, richiamata simbolicamente dall‟ente in quanto Essere-che-è attuale o fenomeno. Il richiamo simbolico a ciò che non è attuale attraverso ciò che lo è, lo abbiamo indicato col termine di , che consiste nella corrispondenza mnemonica che le parole che indicano gli enti fenomenici evocano delle cose attraverso l‟immaginazione simbolica. L‟orizzonte di senso immaginifico all‟interno del quale si comprende la possibiità d‟essere del Tutto è il Mito, da cui ha origine ogni possibile determinazione di senso dell‟Essere, la quale si costituisce come una sua rielaborazione (traductio) razionale, ovvero come una mito-logia. Ed è appunto attraverso la lettura categoriale della Possibilità che Dante ha interpretato i “signa exteriora” della storia romana come eventi dotati di senso teologico. Un senso, dunque, non univoco, ma simbolico, che trascende i fenomeni stessi, liberandoli dalla loro necessità fatuale e consegnandoli alla loro Possibilità, che dunque perviene alla coscienza come sentimento di libertà dal destino. Proprio in quanto tensione trascendente la fattualità del destino che determina la libertà, l‟essenza costitutiva della Possibilità è intimamente tragica. Nella tragedia infatti la Possibilità dell‟Essere di determinarsi in una piuttosto che in altra fattualità si rappresenta come una decisione tra il campo morale e quello dell‟utile, che pur con-possibili non sono dialettizzabili in termini hegeliani ma co-esistono all‟interno della Possibiità come rimando di ogni determinazione finita al Tutto in-finito che la trascende e che, permanendo nella sua negativa possibilità, rimane un mistero per la gnosi determinativa. Questo mistero che immane sull‟ente determinato come Essere-attuale e lo pervade provoca nella coscienza spirituale il sentimento tragico dell‟angoscia della finitezza della condizione umana come esistenza storica. Senza tale sentimento tragico non si comprenderebbe la possibilità di una trascrizione attualizzante del senso degli eventi dell‟Impero romano da parte di Dante, significativi nella sua epoca. La rielaborazione in chiave simbolica degli

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eventi fattuali richiama infatti la loro fruibilità significativa all‟interno di un universo di senso non originario, entro il quale vengono trasvalutati ermeneuticamente. La credibilità esegetica di tale nuova trascrizione semantica è legata alla stessa fede nei fondamenti ermeneutici che la sorreggono, in virtù dei quali la traslatio legittima razionalmente il suo impianto rappresentativo. Di conseguenza, il presupposto di credibilità di ogni rappresentazione simbolica della realtà è costituito dalla fede nella sua verità, cioè da una credenza pre-giudiziale, che l‟Essere così e non altrimenti determinato sia il Tutto. Ma poiché qualunque determinazione dell‟Essere comporta una negazione della sua possibilità di libertà, il passaggio () da una ad altra determinazione d‟essere rappresenza tragicamente la tensione maieutica tra le forze che trattengono ( ) il senso originario, e le forze che evergono da quel senso originario, per cui l‟esito di ogni “traslazione” (Uebertragung) è sempre sospeso tra la confermazione nella fede () antica e la sua deiezione () razionalistica verso il senso rinnovato da un nuovo paradigma di fede. Le rappresentazioni che riescono a contenere entrambe le tensioni rendendole vicendevolmente rappresentative in virtù della compiutezza del reciproco richiamo simbolico, sono dette “classiche”, in quanto riflettono consapevolmente al loro interno la tragedia dell‟Essere, sospeso tra le opposte tensioni della necessità e della libertà. In esse si compendia appunto l‟eterno processo del divenire ( ) del Tutto da una ad altra determinazioe, di cui ogni rappresentazione epocale non è che una variazione mito-logica sul tema, ossia una letteraria digressione () sullo stesso paradigma epocale. Ogni rappresentazione consapevole di un‟epoca, nello stesso tempo in cui la determina anche la nega in relazioneal Tutto, che rimane incognito. L‟ineffabilità di Dio rimanda esattamente al Suo Mistero come in-finitezza del Tutto. Il logos apofantico, cioè determinativo, nell‟atto in cui determina la realtà di ciò che è, può negarla in relazione al Tutto, ovvero può negare il Tutto in relazione all‟Essere-che-è, all‟ente fenomenico. In questa possibilità si declina la decisione metafisica in senso ontologico ovvero in senso trascendentale. Ma la decisione è possibile in quanto la Possibilità è costitutiva dell‟Essere totale, ossia del Tutto. Allorquando la decisione metafisica è nel senso dell‟ontologia, cioè della rappresentazione dell‟Essere nei termini dell‟Essereche-è, cioè dell‟ente, l‟orizzonte entro il quale si determina la

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Possibilità è essenzialmente naturalistico. Viceversa, se la decisione metafisica si orienta verso una rappresentazione dell‟Essere determinato come negazione del Tutto, allora la Possibilità si declina in termini di rimando all‟in-effabile perché in-determinato. Nel primo caso, in cui l‟Essere possibile è esclusivamente l‟ente fenomenico, la conoscenza dei fenomeni si determina nella loro relazione etiologica. In tal caso, l‟ diventa la ragione della relazione tra i fenomeni, la causa del loro processo fenomenico. Il nesso causale, astratto dalla originaria fenomenologia in cui si è manifestato e reso universale si assume come legge di movimento (), la cui caratteristica gnoseologica è la ripetitività, grazie alla quale si può pervenire alla prevedibilità dei processi.  Nell‟altro caso, in cui la Possibilità incombe sull‟attualità dell‟adesso come senso di incompiutezza della realtà, la conoscenza dei fenomeni si stabilisce nel loro rimando al Tutto, ossia alla loro relazione archetipa orignaria. In questo caso, il referente non è normativo, in quanto ogni evento è in sé significativo in quanto rimanda al Tutto, all‟indeterminato, e dunque al Mistero della sua possibile determinazione. Il fenomeno, in quanto e-viene dal Tutto, cioè dal Mistero, è, nel suo stesso apparire, misterioso, e perciò conoscibile soltanto in relazione all‟ da cui pro-viene. Se noi indichiamo come Dio l‟infinita Possibilità dell‟Essere di manifestarsi, e dunque la realtà in-finita del Tutto, e dunque non solo la sua attualità, ogni manifestazione del Tutto rimanda al Tutto, quale “traccia” (Jaspers) della Sua trascendenza, e pertanto ogni discorso sull‟Essere è un parlare di Dio (). Rispetto al concetto greco di Physis, il Dio cristiano non è soltanto tutto l‟Essere, ma è l‟Essere-Tutto, compresa la Possibilità non manifestatasi nell‟attualità di ciò-che-è adesso. E pertanto, se l‟Essere naturalistico “è” ciò che “appare”, per cui tutto l‟Essere è tutto ciò che appare, l‟universalità dell‟apparenza ontica, l‟Essere in senso cristiano è solo un segno fenomenico della in-finita Possibilità d‟Essere di Dio, ossia la traccia del Mistero che incombe su ogni essente. In tal senso, ogni rappresentazione ontica è un rimando simbolico alla trascendenza di Dio, al Mistero della sua in-finita Possibilità, sicché senza tale rimando trascendentale, ogni evento perde il suo significato simbolico, che ne garantisce la sua realtà. La “fede” () in Dio non è altro che la “cura” (Sorge) di questa relazione simbolica col Tutto. 

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Ogni rappresentazione allegorica dell‟Essere si sviluppa da un paradigma mitico, da cui procede ogni determinazione apofantica come mito-logia. L‟unità di tale Essere è la sua universalità, che Platone chiama Idea, all‟interno della quale si manifesta il senso razionale di ogni ente che vi appare, di ogni fenomeno, e che costituisce il paradigma ontologico della relazione tra enti omologhi, ossia la ragione () della loro ec-sistenza. Tale paradigma ideale non è che la forma universale dell‟Essere-che-è, cioè dell‟ente, per cui la loro corrispondenza di senso razionale coincide con la esclusione logica di quanto non vi corrisponde, e cioè è escluso dall‟orizzonte di senso razionale che costituisce l‟unità ideale del paradigma categoriale. Ma proprio l‟esclusione logica di ciò che non-è razionale e interno a quel paradigma apofantico, ammette la possibilità di altre relazioni di senso interne ad altre unità categoriali. Ora, il passaggio () da un orizzonte di senso a un altro non pricede spontaneamente per partenogenesi, ma costituisce il movimento dialettico delle forze katechontiche di resistenza e, rispettivamente, maiutiche di emancipazione che si manifestano nella realtà temporale come il polemos che divide il dal suo. L‟essenza metafisica del polemos è dunque la manifestazione reale, nel tempo, del passaggio () da uno ad altro orizzonte di senso dominante in un‟epoca e dunque costitutivo del suo paradigma di senso comune. La possibilità di tale dominante determnazione di senso comune riflessa in termini politici è il Potere. La coscienza storica che si limita alla dimensione inerente la fenomenolgia del Potere e delle sue istituzioni storiche (lo Stato, l‟Impero, i partiti politici, le formazioni economico-sociali, etc.) produce una storiografia etico-politica o socioeconomica, la quale può dare ragione delle dinamiche costtutive della realtà in divenire, evidenziandole attraverso una rapresentazione per nessi di varia causalità entro una sequenza temporale diacronica, assimilata a quella del racconto mitico o di quello fantastico, ma caratterizzata rispetto ad essi dal “principio di realtà”, ossia dal fondamento di credenza della equivalenza del narrato che è stato con ciò che è attualmente nel pensiero, secondo il presupposto metafisico greco dell‟identità dell‟Essere e del pensiero. La conseguenza inevitabile di tale assunto è la riduzione e la convertibilità del diverso allo stesso, per cui o le distinzioni categoriali, essendo interne all‟unità della Storia, quale realtà spirituale, finiscono per risolversi nell‟Uno

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immobile, non dando ragione della molteplicità degli enti empirici, ovvero, assumendo la molteplicità degli enti come la realtà cui va riportato il pensiero, questo si traduce in infinità delle categorie, senza un distinto criterio unitario. Solo mantenendo la distinzione si evitano gli esiti opposti del misticismo e dell‟irrazionalismo, e si può stabilire una relazione di verità tra dimensioni diverse che liberi gli elementi dalla necessità di una logica tautologica (più o meno cruenta o “sublime”) e salvaguardi la realtà storica dalla sua manipolabilità assoluta degli enti neutralizzati da una loro astratta considerazione di omogeneità priva di qualità specifica, ossia di storicità, consentendone la stessa conoscenza. Infatti, solo ciò che permane nel suo essere non è disponibile ma solo conoscibile. La “vera” conoscenza non muta l‟essere delle cose ma lo salvaguardia. La esclusiva dimensione immanentistica, riducendo a prassi anche i valori trascendenti, affida ai fenomeni tutta la realtà possibile, schiacciando nel presente tutta la realtà possibile, negando così sia il passato come presupposto condizionale dell‟azione attuale, sia il futuro come libertà dal destino e utopia soteriologica, pervenendo alla negazionedella storicità, poiché, anche in senso antropologico, l‟eterno presente è la condizione propria dello stato di natura, che concentra l‟intendimento umano al successo attuale, negando l‟Anerkennung indispensabie all‟ordine sociale. Voledo eliminare il confitto, ossia la diversità, assimilando il diverso allo stesso, lo si trasferisce, il conflitto, all‟interno dell‟astratta identità ontologica, producendo per interna contraddizione il suo polo dialettico, il suo molteplice. Solo nella permanenza del diverso in se stesso è possibile stabilire con esso una relazione armonica, cioè una mediazione, che non si risolva in una riduzione logica allo stesso, all‟ente più forte, storicamente instabile perché impossibile ontologicamente. Da qui la precarietà di ogni regime politico, di cui la dialettica hegeliana servo-padrone costituisce il modello ideale di rapporto non mediato tra entità logicamente omogeneizzate, tra le quali non può sussistere che opposizione che non si risolva in quella neutralizzazione dell‟altro e assimilazione al sé più forte chiamata “pacificazione politica”, che è il nome attribuito alla violenza metafisica e sociale per l‟assimilazione. Ma finquando il rapporto si stabilisca tra realtà diverse solo logicamente assimilate e tese al dominio reciproco, il polemos sarà inevitabile,al di là di ogni tregua. La “vera” pace è la mediazione nella diversità, cioè la co-esistenza essenziale o libertà, che

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è libertà spirituale ed esistenziae dalla necessità naturale. Le logiche autoreferenziali e i loro sistemi socio-politici chiusi, tendono a concepire l‟Essere o il Molteplice come Tutto, riducendo l‟uno all‟altro, al dominio di Sé. L‟esito nichilistico di tale prospettiva metafisicosociologica è inevitabile poiché si fonda sul concetto che l‟Altro sia Niente. Non ci sono più eventi nell‟Uno, né più “ragioni” nel Molteplice, ma “tutto” ciò che è, è relativo al fondamento che si pone come Essere ovvero come Divenire. In tale decisione fideistica si radica la nietzscheiana “volontà di potenza” come chiusura ermetica in un esclusivo eone storico, negando “l‟esistenza di un mondo diverso”, per cui “l‟essenza dell‟essere si esaurisce nel processo temporale che appare alla nostra coscienza”. Ma invece, “per costruire una metafisica della storia è indispensabile il presupposto che lo „storico‟ immetta nell‟eternità e si radica nell‟eternità”, quale “dramma che si compie nell‟eternità”, come afferma Berdjaev, secondo il quale “la storia non è altro che una profondissima iterazione tra l‟eternità e il tempo, l‟irrompere ininterrotto dell‟eternità nel tempo”. Essa “si compie non solo nel tempo e non solo presupponendo il tempo senza il quale non esisterebbe, ma è anche la lotta ininterrotta dell‟eterno con il temporale”.681  Se volessimo indicare in termini filosofici tale “lotta” non potremmo che stabilire una relazione dialettica tra opposti, metre invece l‟immagine vuole esprimere la modalità propria della tensione della libertà morale, che aspira a superare la condizione della finitezza, e dunque della necessità, in considerazione, non già della forma ideale che quella finitezza rispecchia nel senso del modello perfetto, ma dell‟eternità di ciò che non ha forma determinata, e che perciò è “totalmente altro” rispetto a ogni finitezza e a ogni rapporto tra enti finiti. Ciò che è altro rispetto al sé è il prossimo, ma ciò che è altro rispetto a ogni sé, è Dio. E dunque, se la modalità del rapporto inter-personale informato alla dialettica del Sé contro l‟Altro è la politica quale logica del polemos, la modalità informata al criterio “totalmente altro” da quello esclusivo dell‟inseità e della alterità è quella caritativa o della misericordia, in cui non c‟è scelta partigiana tra i due opposti, reciprocamente convertibili in Sé e il Altro,

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N. Berdjaev, Il senso della storia (1923), tr. it ., Milano, 1977, pag. 62.

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ma mediazione di entrambi al cospetto di ciò che li comprende entrambi nel Tutto di cui sono parte. Che il Tutto sia inteso come Natura o l‟universo fisico della materia, esclude l‟alterità dello Spirito che vi trascende; se come Tutto intendessimo il solo Spirito, cioè Dio, negheremmo la stessa esistenzialità umana e il senso della “lotta” storica del tempo e dell‟eterno. Il Tutto, pertando, non può che essere il (senso del) divino nel (la dimensione del)l‟umano, l‟evento storico dell‟Incarnazione del Cristo dello Spirito eterno nell‟uomo finito. Ora, di questo evento temporale ed eterno non può dar conto la ragione, ossia la logica delle relazioni finite, e dunque una teo-logia quale “discorso su Dio che rende razionalmente conto della fede in Dio”.682 Essa, infatti, come ogni sistema razionale non può dare ragione della fede nei suoi fondamenti se non confutandoli, rielaborandoli in forme secolarizzate e facendo della fede stessa un Mito extra-sistemico, una “religione”, cioè un credo funzionale alla “consolazione e giustificazione del mondo”, secondo la definizione che Marx ne diede nella Critica della filosofia del diritto di Hegel. Una definizione che aveva colto l‟essenza della “religione” come Mito, in cui converge, insieme alla “giustificazione” razionale del mondo, la “consolazione” della sua rappresentazione, ma non l‟essenza della fede, la quale fonda ontologicamente qualunque rappresentazione della realtà. Questa fede non può essere confutata perché costituisce l‟ fondamentale e pre-razionale di ogni possibile rappresentazione del mondo, senza il quale la stessa realtà non avrebbe alcuna possibilità di essere. E dunque questa fede fondamentale coincide con la stessa originaria Possibilità d‟essere di ogni Essere e di ogni sua rappresentazione. Eliminando dall‟orizzonte teoretico questo fondamento originario, il logos filosofico si determna come ente () presente alla coscienza, a esclusione di ogni altra sua possibilità d‟essere, che viene rimossa come niente, rappresentando della realtà una sequenza fenomenica in cui la ragione vorrebbe si compendiasse il Tutto. Ma proprio nell‟orizzonte di questa pretesa teoretica si definisce razionalmente la realtà come mondo conoscibile, non nel senso della sua possibilità ma nel senso appunto della sua determinazione razionale, esclusiva di ciò che per la ragione è

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W. Kasper, Barmherzigkeit. Grundbegriff des Evangeliums – Schluessel christlichen Lebens (2012), tr. it., Brescia, 2015 7, pag. 20.

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non-essere, cioè niente. Se l‟Essere è la presenza della vita, il niente esistenziale è l‟assenza della morte. La rappresentazione razionalistica del mondo costituisce una realtà d‟Essere fondata sulla rimozione della morte. La rappresentazione di questa realtà fenomenica esclusivamente presente alla coscienza attuale costituisce il mondo della Storia, quale fenomenologia dell‟eterno presente, ossia del divenire pensato come Essere. In questa intrinseca e insuperabile contraddizione si infrange ogni sistema rappresentativo del mondo razionalmente costruito, entro il quale l‟esistenza umana è rappresentata come un dramma narrativo, oggetto di narrazione, in cui tutta la tensione esistenziale si compendia nella lotta per la stessa esistenza, senza un fine escatologico. In questo senso si può dire perciò che la rappresentazione razionalistica della Storia umana si costituisca attraverso la riduzione della tragedia dell‟esistenza dell‟uomo che anela a trascendere la sua finitezza naturale, in un dramma di relazioni sociali inscritte nel topos dell‟orizzonte etico-politico dello Stato, del quale la storiografia è la sua memoria cosciente, la sua coscienza storica. La narratio storica, per il suo carattere avvenimenziale, è sempre frammentaria, come una trama eternamente in rifacimento. I singoli eventi, considerati nella loro assolutezza fenomenica, sono meri “fatti” astratti dalla loro considerazione ideale. Nell‟orizzonte di senso eticopolitico, le forme ideali di tale considerazione sono relative alla sussistenza dell‟organismo statuale, e alle sue ragioni viene ridotto il loro senso proprio, espressivo di una totalità meta-empirica, legata alla essenza spirituale dell‟uomo, che è trascendente la realtà avvenimenziale. In tal senso, la civiltà etico-politica concepita dai Greci, emancipando il topos della vita politica dal senso unitario dell‟esistenza umana, edifica una cultura della socialità astratta dai suoi fondamenti spirituali archetipi, di senso unitario. La deiezione () razionalistica dai fondamenti spirituali della vita produce quella angoscia esistenziale, che è il portato storico della discessio metafisica tipica della civiltà politica. L‟errore di Rousseau, di Marx e di tutti i teorici democratici, fu quello di concepire il superamento della frattura politica dell‟uomo spirituale ricostituendo una forma perfezionata di socialità all‟interno dell‟orizzonte politico, ossia dell‟antropologia del naturalismo greco. Ma questo assunto naturalistico fu adottato dalla stessa teologia cristiana, allorquando, con Agostino, concepì il destino imperiale di Roma in funzione della cristianizzazione del mondo antico, legando con ciò l‟escatologia della

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redenzione spirituale, anziché alla salvezza dell‟uomo dalla socialità politica, alla rinascita spirituale attraverso la politica, pensando quindi il rapporto con Dio nei termini di una teo-logia, ossia di un discorso filosofico su Dio, inteso come oggetto di pensiero, come ente. E poiché il logos del Theos è la stessa ratio con la quale si è pensata la realtà politica, ecco le origini delle intime implicazioni politiche del discorso teologico, che caratterizzano anche la teoria monarchica di Dante, che nel Convivio indica Aristotele come “lo Filosofo” in grado di soddisfare la brama di sapere della umana nobiltà di cuore, quale eccelso esponente della “nobilissima perfezione” che è la conoscenza scientifica, e non Gesù e la sua predicazione morale. Infatti, come il Poeta asserisce all‟esordio del I trattato, “la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade”.683 In questo senso strutturale, ogni possibile distanza ideologica intrapresa dal progetto monarchico di Dante dalla coeva visione che della politica aveva la Chiesa e la parte guelfa che la sosteneva, va inteso pur sempre come una variante interna a uno stesso fondamentale orizzonte teologico comune anche alla parte ghibellina. E ciò in conseguenza della ritenuta intrascendibilità dell‟orizzonte ontologico greco. Proprio nel II Trattato del Convivio Dante, assegnando la priorità, tra i “quattro sensi” in cui è possibile interpretare le “scritture”, al “litterale” (sull‟ “allegorico”, “secondo che per li poeti è usato”, che “è quello che si nasconde sotto „l manto di queste favole” in cui consisterebbe la finzione poetica, intesa appunto come “veritade ascosa sotto bella menzogna”; al senso “morale” usato didascalicamente dai teologi per commentare le Scritture; e infine dal senso “anagogico, cioè sovrasenso”, in cui il valore simbolico trasvaluta nel senso della fede quello letterale), conferma il fondamento razionale della realtà, “nella cui sentenzia li altri sono inchiusi” (I 8, 15), ossia attraverso il cui significato è possibile derivare tutti gli altri, facendo pertando dell‟universo filosofico tracciato dall‟ontologia naturalistica greca la dimesione della pienezza comprensiva di ogni possibile derivazione ulteriore. Se infatti il senso della realtà è tutto “inchiuso” nel suo significato razionale, è nei suoi termini che vanno trascritti ogni conoscenza e ogni sentimento di fede.

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Dante, Convivio, in Opere minori, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, t. II, Napoli-Milano, 1988.

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Termini che, concentrando la realtà nella sola dimensione ontica del presente storico, possono recuperare il passato, il “principio mortifero del tempo”,684 entro la sola memoria, attraverso il ricordo, senza poter ammettere quel fondamento escatologico della storia spirituale avanzato dal Cristanesimo come orizzonte di senso inclusivo della morte, ossia di quel non essere più che permane nell‟Essere come sua possibilità inattuale, partecipe allo stesso titolo dell‟attualità contingente all‟unità temporale del Tutto di cui è parte astratta. La conseguenza della reductio della narratio razionalistica della Storia umana a dramma è conseguente alla rappresentazione del destino dell‟uomo a una lotta (polemos) tra volontà opposte, solo una delle quali è eticamente giusta in quanto razionale. Strappando agli dèi il destino umano attraverso l‟uso della ragione, la tragedia antica si risolve nel dramma umanistico moderno, dove le forze in lizza sono tutte interne alla dimensione politica. Questo passaggio dalla dimensione tragica a quella drammatica della vita, in cui l‟uomo non combatte più contro il volere degli dèi ma contro la volontà opposta di altri uomini, è tutto interno a una cosmo-logia che ignora il sentimento della libertà morale, introdotto dal Cristianesimo, per il quale il mondo umano non è che l‟espressione, magari elaborata e raffinata, della finitezza storica, che la coscienza morale cerca di trascendere in considerazione di ciò che è eterno e appartiene perciò solo a Dio, edi cui l‟uomo non può disporre. Solo dal sentimento morale della libertà di trascendere la finitezza storica l‟uomo può prendere coscienza del proprio destino, che “si basa sulla libertà”, la quale “per sua essenza è un principio tragico” ignoto al mondo antico,685 in base al quale la sua coscienza sceglie di partecipare della verità di Dio invece che della legge degli uomini, informata alla ragion di Stato. Tale scelta morale, nondimeno, presuppone una unità originaria premondana e pre-istorica che non può identificarsi con alcuna fondazione mitologico-politica, che pone, per arbitraria convenzione postulatoria, l‟Essere come ente originario, a partire dal quale procede e si sviluppa ogni discorso di senso razionale, necessariamente fattuale. Ma in questa necessaria fattualità, che pone come reale esclusivamente il razionale, si consuma l‟intero processo antropologico della ontologia naturalistica 684 685

Così chiama il passato N. Berdjaev, in Loc. cit., pag. 66. N. Berdjaev, Ivi, pag. 70.

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greca, priva di quella possibilità che libera l‟uomo e la sua coscienza morale dal suo destino cosmico, rendendolo espressione dell‟eterno, imago Dei. La visione naturalistica immerge l‟uomo nella necessità di un mondo che, sia pure da lui stesso edificato, è privo affatto di libertà: quello della politica, che si illude di costruire un regno di libertà dalla dipendenza divina con gli stessi strumenti che stabiliscono il dominio degli dèi, quelli della ragione naturalistica, sulla quale si basa quella scienza che Dante saluta come lo strumento per eccellenza della “nobilissima perfezione” del genere umano, e con il cui metodo viene concepito dai filosofi pagani lo Stato ideale. E in alternativa al quale Gesù predica la formazione della Chiesa quale comunità del “libero amore dell‟uomo verso Dio”, di cui parla il Grande Inquisitore, facendo dell‟uomo storico un essere “bipolare”, non più esposto alla sola necessità politica ma altresì libero nel suo rapporto con Dio, che la ragione politica tende a rimuovere.686 In realtà la costituzione del topos politico e della sua pretesa universalità di valore razonale, non è il frutto di una “dimenticanza”, di un “oblio” metafisico, ma sorge dal deliberato proposito di costruire un mondo intieramente umano retto dalle sole leggi di ragione, che solo leggi di dominio sulle quali si fonda l‟Imperium romano evocato da Dante come modello storico della sua monarchia universale. Il correttivo al mero esercizio del dominium politico non è morale e interpretato dai martiri della fede cristiana, ma razionale, è l‟ideale etico, il principio universale d‟azione a cui si immola Socrate, e che Dante riporta nel suo trattato come “libertà della patria”, all‟onore della quale eroi pagani come Muzio, i Deci e Catone hanno sacrificato la propria vita, e altri come Bruto persino i propri figli traditori.687 La “dignità” etica

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“L‟uomo fu e resta durante tutto il corso della storia un essere bipolare comunicante cn due mondi, col mondo supremo divino che egli rispecchia in se stesso, il mondo libero, e col ondo materiale-naturae nel quale l‟uomo è immerso, del quale egli condivide il destino e che in molti modi agisce sull‟uomo e lo lega mani e piedi, tanto che la sua coscienza si ottenebra, dimentica la sua origine superiore e il suo essere partecipe della realtà spirituale suprema […].”: N. Berdjaev, Loc. cit., pag. 71. 687 Dante, Monarchia, II, V, 72-90, pagg. 188-189.

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dell‟Impero coincide per Dante come per Cicerone con lo stesso “finis iuris”, ossia con l‟affermazione di quel diritto universale che è il fine proprio dello Stato come ideale, poiché come è inconcepibile pensare all‟uomo senza riferirsi all‟animale, o alla sanità degli uomini senza l‟idea di salute, così “inpossibile est iuris finem querere sine iure”. E dal momento che a ogni fine corrisponde una e una sola realtà, è impossibile che due cose mirino veracemente allo stesso fine, e dunque una delle due è “inutile” (“quod alterum scilicet esset frustra”).688 Il fine dello Stato “est comune bonum”,689 e questo “bene comune” non può essere conseguito che dallo Stato stesso. La polemica statalistica verso ogni pretesa allotria della Chiesa è il portato sociologico dello stesso principio razionalistico della esclusione della legittimità di uno dei due termini che avanzino la stessa pretesa di veridicità, decretata per via sillogistica dalla affermazione storico-fattuale della potenza del popolo romano, che sottomettendo il mondo ha conseguito lo stesso fine del diritto, legittimando per via empirica, in virtù cioè della propria affermazione politico-militare, si è attribuita la dignità del suo Impero.690 La portata morale di questo principio di effettività è devastante, in quanto delega gli uomini a servire un destino di potenza - e rispettiva sottomissione - del quale si fa responsabile Dio, che assume sotto altre spoglie, più arbitrarie e imponderabili,691 lo stesso ruolo che la sapienza antica attribuiva al Fato naturalistico, che esalta la forza fisica degli eroi e umilia la debolezza dei pavidi imbelli. La natura infatti costituisce anche per Dante un ordinamento inviolabile dall‟uomo, “de iure servatur” in quanto “in providendo non deficit ab hominis providentia”, dispensatrice com‟è di quel bene che è il portato non migliorabile della sua stessa causa.692 Il bene naturale consiste nello stesso ordine giuridico fissato dalla natura “cum respectu suarum facultatum”, per cui violare il diritto vale quanto violare l‟ordine naturale che ne è a fondamento, essendo i due termini “inseparabilmente congiunti”. Il popolo romano, “ad imperandum fuit a

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Ivi, 110-127 , pagg. 191-192. Ivi, 148-149, pag. 193. Ivi, 110-118, pag. 191. Ivi, VII, 1-3, pag. 196. Ivi, VI, 1-3, pag. 193.

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natura”, si presenta storicamente come il custode dell‟ordine. E poiché l‟ordine naturale fu voluto da Dio, la sua perfezione anche morale non può essere messa in discussione.693 Si chiude il sillogismo, specificando il compito dell‟uomo riferendolo al suo ruolo naturale di “medium necessarium ad finem nature universalem”, che è appunto l‟ordine giuridico, il quale peraltro, non potendo essere conseguito “per unum hominem”, viene realizzato assegnando da parte della natura a “una moltitudine d‟uomini incarichi diversi”, coordinati allo stesso fine. Da qui la destinazione di alcuni uomini o di interi popoli a dominare o a essere dominati, secondo quanto riporta Aristotele nella sua Politica, in cui il ruolo delle parti viene ricordato non solo come utile ma anche giusto.694 Ed è quanto predetto da Giove, evocato da Virgilio nel IV libro dell‟Eneide, per il popolo romano, il quale appunto “subiciendo sibi orbem de iure ad Imperium venit”.695 La correlazione storica del iustum col factum, che è implicita nella identità metafisica del factum col verum quale presupposto dell‟ontologia greca, viene però radicalmente smentita dall‟esperienza cristiana a partire dalla passione di Cristo, che è l‟evento storico più reale dell‟umanità quanto il più ingiusto, a partire dal quale si dispiega una fenomenologia storica fondata su categorie spirituali che, assegnando un grande significato escatologico a realtà fenomeniche inattuali, risultano negative rispetto alla positività di quelle razionalistiche greche, basate sulla esclusiva rilevanza teoretica del fattuale. Infatti la prospettiva cristiana ribalta la visuale noetica greca, assegnando all‟altroda-ciò-che appare un valore d‟essere superiore a quello di ciò che attualmente è. Un valore di verità che, restando invisibile alla logica del Potere, rimane inaccessibile alla cognizione di Pilato, rappresentante dell‟Imperium romano per antonomasia. Dante dunque un teorico pagano? No, in quanto da cristiano egli ammette l‟insufficienza della ragione umana di fronte ad eventi superiori all‟esperienza comune o singolare, alla cui bisogna soccorre la fede, che perviene “de gratia spetiali” a cogliere, “aut expresse, aut per signum”, la

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Ivi, VI, 10-15, 19-22, pagg. 193 e 194. Ivi, VI, 26-36, pagg. 194-195. Ivi, VI, 51-60, pag. 195.

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volontà divina.696 I signa vanno interpretati, certo, ma l‟aleatrietà del responso cade alorquando è la volontà di un popolo a imporsi su ogni altre simile impresa, la conquista del mondo, tentata da Assiri, Egiziani, Persiani e Macedoni ma perseguita favorevolmente solo dai Romani, che “prevalsero sugli altri popoli per decreto divino, ottenendo perciò di diritto l‟Impero da Dio”.697 Il caso dei Romani è regolato in grande dalla stessa misteriosa ragione per cui il responso divino in un duello cada sul vincitore, il cui esito non è legato alla sola forza o fortuna del primario, ma al valore di giustizia attribuito al combattimento non proposto e accettato per odio o per bassa rivalsa, ma solo a derimere un confitto non altrimenti risolvibile, in cui conta dunque “lo spirito” con cui si affronta la contesa, in quanto condiviso dalle parti, più che l‟esito stesso casuale. Dante, richiamando il gesto del “generoso” Pirro di liberare i prigionieri romani senza alcun compenso, a esempio di giusta contesa, accosta Hera alla Divina Provvidenza,698 identificando la pagana e cieca Fortuna col misterioso disegno soteriologico cristiano, comprova la speciosità della fruizione dell‟universo concettuale antico in ambito teorico cristiano, costituendo un tipico esempio di quella “traslazione” (Uebertragung) di senso che verrà a sua volta eseguita dal pensiero moderno a partire dai paradigmi teologici, essi stessi pregni di elementi concettuali pagani, che quella traslazione riporterà in auge attualizzandoli alla funzionalità nel nuovo contesto storico-culturale. La visione di Dante intedeva proporre una nuova sintesi etico-politica a fondamento religioso, che fosse a un tempo “espressione di una convinzione scientifica, che scorgeva in uno Stato mondiale monarchco la salvezza dell‟umanità”, e offrisse “a tutto il mondo occidentale diviso nei due campi nemici del papato e dell‟impero”699 un modello lungimirate di “pace” che fosse incentrato su fondamenta religiose cristiane, e tale da consentire all‟Europa cristianizzata di rappresentare il proprio destino

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Ivi, VII, 20-34, pagg. 196-197. Ivi, VIII, 76-78, pagg. 203-204. Ivi, IX, 46-47, pag. 206.

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H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri (1905), tr. it., Bologna, 1974, pag. 19.

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storico nei termini di una missione imperiale di civilizzazione universale che superasse le inevitabili lacerazioni intestine dei molteplici popoli che la compongono, divisi per lingua, interessi e tradizioni, ma congiunti da un passato comune a da una comune identità religiosa che sul passato imperiale ha trovato la sua legittimazione storica. A posteriori, pensando alle secolari divisioni dei popoli europei, sempre alla ricerca di una identità comune meta-politica, possiamo constatare la portata profetica della visione dantesca, che individuava nel binomio di cultura e religione una espressione secolarizzata di quella sintesi teologica di fede e ragione che le intelligenze più avvertite del suo tempo già preconizzavano essere molto problematica entro la polarizzazione del conflitto istituzionale Chiesa vs.Impero. Infatti ognuno dei due antagonisti aspirava a quel fine universale che, in nome rispettivamente della fede e della ragione, volevano porre a fondamento della convivenza comune. In questo senso, la Monarchia proposta da Dante acquistava significato non soltanto eticopolitico ma anche e soprattutto metafisico-religioso di organismo storicoculturale disposto al fine di realizzare universalmente l‟unità misticosociale delle due nature umane, costitutiva dell‟antropologia cristiana; unità che la Chiesa esprimeva per il versante mistico e l‟Impero per quello socio-politico, e che la comune aspirazione universalistica rendeva incompatibilmente antagonistica. L‟intento di Dante è quello di offrire un nuovo paradigma universale che, a partire dalla tradizione romana, ritrovi un omologo senso politico internazionale, legato – e in ciò la sfumatura cristiana – non a una mera volontà di potenza, ma a un “diritto” fondato sulla missione redentrice della religione cristiana, che la potenza militare non farebbe che confermare empiricamente ma inscritto nel destino originario di Roma, città universale ‟, divenuta col Cristianesimo strumento della missione evangelizzazatrice della Chiesa di Cristo. E infatti, negli ultimi due capitoli del Libro II, Dante, dopo aver trattato l‟argomento del saggio “per rationes”, intende proporlo “ex nunc ex principiis fidei cristiane”.700 In virtù della sua fede, il cristiano deve ammettere, egli afferma dunque, che Cristo, nascendo uomo imperante Roma, intese sanzionare che quello di Augusto fosse un “iustum

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Dante, Monarchia, II, X, 1-3, pag. 212.

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edictum”.701 La giustezza del diritto romano non è pertanto soltanto politico-militare, di carattere cioè naturalistico, ma soprattutto di natura trascendente, avendo la passione di Cristo redento anche il diritto di Roma dal suo peccato originale di essere dottrina di uno Stato pagano e idolatrico. L‟unione mistica con il Potere di Cesare fu definita con le parole di Cristo riportate da Giovanni, dove il Redentore annuncia che “ogni cosa è compiuta”, e, come chiosa Dante, “ubi consummatum est, nichil restat agendum”, 702 non c‟è altro da compiere. Il compimento stesso della “punitio” romana a Gesù, non è una semplice “pena iniuriam inferenti”, la ritorsione a un malfatto, ma una sanzione legittima inferta “ab habente iurisdictionem puniendi”.703 Ciò comporta che non ha ragion d‟essere la riprovazione del comportamento romano da parte di “coloro che si fingono figli della Chiesa”, in quanto fu lo stesso Sponsale ad ammetterlo accettandolo dal Potere di Roma dall‟inizio alla fine della sua testimonianza terrena (“militia”).704 Il Libro III è intieramente dedicato alla “inquisitio” circa l‟origine della “auctoritas” di chi “de iure Monarcha mundi est”, ovvero se “immediate a Deo dependeat an ab aliquo Dei vicario vel ministro”.705 Per risolvere la “questio”, Dante intende partire da un “principium” da cui far discendere ogni altra affermazione logica, e lo individua nella “irrefragabilis veritas” per cui “quod nature intentioni repugnat Deus nolit”, da cui consegue che “Deus finem nature vult”, e dunque con l‟esclusione dell‟ipotesi opposta per cui “si finis nature impediri potest – quod potest – de necessitate sequitur quod Deus finem nature non vult”.706 Il fondamento naturalistico a partire dal quale si dispiega la questione del Potere in Dante, condiziona inevitabilmente l‟argomento in senso prevalentemente razionalistico, assumendosi l‟autorità di Aristotele in vece del pensiero stesso, alla guisa, però stigmatizzata, dei Decretali che anteponevano alla fede in Cristo la tradizione della Chiesa.

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Ivi, 29-38, pag. 214. Ivi, XI, 16-18, pag. 215. Ivi, 19-21, pag. 215. Ivi, 36-39, pag. 217. Dante, Monarchia, III, I, 24-27, pag. 221. Ivi, III, II, 2-7, 18-19, 28-30, pagg. 221-225.

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Si parte dalla individuazione dei possibili obiettori (Papa, teologi, decretalisti),707 per concentrarsi sugli “asserentes auctoritatem Imperii ad auctoritate Ecclesie dependere vult”,708 per poi distinguere chi asserisca il falso per ignoranza, formale o sostanziale, del vero, da chi commetta volontario e consapevole errore dottrinale per proprio vantaggio. Coi primi ci si deve comportare come coi folli che vaneggiano, mentre coi secondi come fossero tiranni usurpatori del bene comune.709 Ora, la Chiesa e l‟Impero, afferma Dante non possono essere paragonati a due astri, come vorrebbero i fautori dell‟allegorica rappresentazione del sole e della luna di cui il Genesi, in quanto i due poteri (“regimina”) sono stati concepiti come indicatori (“directiva”) per conseguire determinati fini, la cui direzione non sarebbe stata necessaria se l‟uomo fosse stato innocente, e dunque vanno considerati come “remedia contra infirmitatem peccati”,710 né può avere alcun senso accostare il regno spirituale alla “luce” del sole e questa alla “autorità” papale, essendo “res diverse subiecto et ratione”.711 Ed eliminate altre allegorie, quali la filiazone di Levi e Giuda da Giacobbe,712 l‟investitura e la deposizione di Saul,713 l‟offerta dei Magi,714 il potere conferito da Cristo a Pietro, secondo Matteo e Giovanni, di legare e sciogliere in terra come in cielo,715 giunge al testo del Vangelo di Luca dove si tratta delle “due spade” che Pietro ha offerto a Cristo. Di fronte al testo letterale, altrove esaltato come base imprescindibile di ogni disquisizione, Dante, non potendolo negare, cerca di sminuirne il senso allegorico più evidente e diretto, opponendo alla sua credibilità il carattere “de more” irriflessivo dell‟Apostolo (“festina et inpremeditata presumptio”), attestato a suo dire “non solum fidei sinceritas”, ma anche dalla sua “puritas et simplicitas naturalis”, per cui, 707 708

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Ivi, III, III, pag. 224-231. Ivi, III, IV, 1-2, pag. 231. Ivi, III, IV, 45- 50, pag. 236. Ivi, III, IV, 67- 71, pagg. 237-238. Ibidem, 91-100, pagg. 239-240. Ivi, III, V, 1- 23, pagg. 240-242. Ivi, III, VI, 1- 32, pagg. 242-245. Ivi, III, VII, 1- 32, pagg. 245-247. Ivi, III, VIII, 1- 47, pagg. 248-251.

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conclude liquidatoriamente, “cum de duobus gladiis loquebatur, intentione simplici respondebat ad Cristum”.716 Tesi debole quanto blasfema, che antepone alla fiducia di Cristo una supposta superiore consapevolezza umana sulle qualità del primo Apostolo, ma soprattutto fuorviante, in quanto elude la questione essenziale. Infatti, la premessa adotta da Dante a giustificazione dei due poteri, li pone sullo stesso piano valoriale, per cui “sicut Ecclesia suum habet fundamentum, sic et Imperium suum”, così che se il fondamento della Chiesa è Gesù Cristo, “Imperii vero fundamentum ius humanum est”,717 rendendo non solo extra legem ma anche extra ordinem l‟evento cristico nelle vicende umane, il cui senso escatologico è di manifestare la finitezza di ogni ordinamento umano fondato su rapporti naturali, si tratti della famiglia o dell‟Impero, che sono forme di socialità guidate dal mero principio della conservazione, ossia dal criterio intrascendibile della potenza () o affermazione di sé (voluntas), che è l‟ambito proprio regolato dallo ius humanum, razionalizzazione di quello naturalis. La ragione umana, informata al pricipio della conservazione del mondo da essa edificato, mira alla immortalità mnestica delle gesta eroiche o della politeia, ma non agisce al fine della salvezza dell‟anima, della santità, che assume a criterio di azione e di pensiero la realtà eterna, e quindi il fondamento divino che sostiene tutte le cose, compreso il Potere di Cesare. La questione essenziale è se la Chiesa di Cristo sia una istituzione storica, transeunte come ogni altra edificata dall‟uomo, ovvero sia il luogo simbolico di una socialità umana non informata al criterio di potenza e di auto-conservazione, ma a al principio della carità fraterna e dell‟amore di Dio in nome di Cristo, la cui affermazione implica il “gladium” riferito da Matteo (X, 34-35), ossia la tensione con l‟altro principio, quello naturalistico rappresentato dal Potere. In considerazione di tale alterità, le “spade” storicamente sono “due”, come duplice è la natura divino-umana dell‟Uomo. Ora, “Imperium est iurisdictio omnem temporalem iurisdictionem ambitu suo comprehendens”, e dunque l‟Imperatore che la detiene in sua funzione “permutare non potest”, ovvero “non può trasferirla ad altri” senza venir meno al suo ufficio, che è la sua stessa

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Ivi, III, IX, 40-43, 76-77, pagg. 253 e 255. Ivi, III, X, 29-34,, pag. 258.

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ragion d‟essere, e quindi Costantino non aveva facoltà di trasferirla, per gratitudine al papa Silvestro, “per modum alienationis”, alla Chiesa, la quale peraltro “omnino indisposta erat ad temporalia recipienda per preceptum prohibitivum expressum” evangelicamente, e quindi “recipere non poterat […] per modum possessionis”.718 Pertanto, la traslazione dei beni avrebbe potuto interessare una quota patrimoniale dell‟Impero, a favore dei poveri custoditi dalla Chiesa, ma non l‟Impero in quanto tale, “cuius unitas divisionem non patitur”.719 Quanto infine all‟incoronazione di Carlo Magno come imperatore da parte di Adriano, Dante liquida questo inoppugnabile evento storico negandone il significato metaforico, asserendo che “usurpatio iuris non facit ius”. Infatti, anche Ottone depose Benedetto ed elevò a papa Leone, senza che ciò alterasse l‟autorità della Chiesa.720 A questo proposito torna l‟argomento teologico di Peterson, sopra riferito, in quanto la costituzione ontologica trinitaria di Dio contrasta con la logica unitaria della filosofia greca, che presiede l‟argomento filo-imperiale di Dante; la stessa che stabilisce che “omnia que sunt unius generis reducunt ad unum”. Ed infatti, secondo quanto riferisce Aristotele nella Metafisica, quella unità “est mensura omnium que sub illo genere sunt”; e dal momento che “omnes homines sunt unius generis: ergo debent reduci ad unum, tamquam ad mensuram omnium eorum”.721 Orbene, questo costrutto sillogistico, pur potendosi male adattare a trascrivere i dogmi teologici della fede cristiana in senso politico, non costituirebbe, di per sé e in generale, uno strumento concettuale incogruo alla stessa fruizione teologico-politica se non incontrasse un insormontabile ostacolo al suo uso metodologico nella natura non-unitaria, ma duplice, dell‟Uomo. Questi, infatti, diversamente dalla triplice persona divina, non è riducibile, come la Trinità, alla realtà di Dio, proprio perché l‟uomo, diversamente da Dio, non è unicamente essere spirituale, ma anche animale. Ne consegue che la logica unitaria, che tratta razionalmente dell‟animale politico-sociale, non può, alla stessa guisa, considerare la realtà dell‟uomo quale persona spirituale. Solo

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Ivi, III, X, 46-55, pagg. 258 e 259; ved. Inferno, XXVII, 94-95. Ibidem, 65-66, 71-77, pagg. 259 e 260. Ibidem, 81-93, pagg. 260-261. Ivi, III, XI, 2-5, pag. 261.

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rimuovendo tale natura spirituale dell‟uomo, può applicarsi agli affari umani, la logica unitaria del pensiero filosofico greco, che considera l‟uomo unico non nel senso cristiano della “singolarità” dell‟esistenza personale, ma nel senso idealmente unitario della specie antropologica dello  . Diversamente da quella greca, la visione cristiana introduce nell‟orizzonte esistenziale dell‟uomo un‟altra appartenenza da quella politica, il cui referente normativo non è quello naturalistico-sociologico della specie, il cui fine razionale primario, che presiede ogni costrutto etico, è la sopravvivenza biologica, attraverso la sussistenza dello Stato, ma quello spiritualistico-soteriologico della singolare libertà del rapporto con Dio, attraverso la fede in Cristo. Se la forza che presiede alla sussistenza dello Stato è il Potere, con la sua esclusiva ratio politica, la forza che fonda il rapporto con Dio è la fede spirituale in ciò che trascende la dimensione naturale della vita temporale e si trasvaluta di senso eterno. Questo passaggio () dalla dimensione della finitezza, regolata dalle leggi politiche della vita collettiva, a quella dell‟esistenza spirituale della storia singolare di ogni uomo, segna la differenza tra la dipendenza dalla necessità della situazione umana storico-contingente e la libertà della scelta morale nel senso dell‟eterno, la cui legislazione non è punto quella del diritto statuale o storico, ma quella della giustizia divina, regolata secondo criteri sapienziali non determinabii razionalmente a priori, e dunque misteriosi. Ma proprio l‟ammissione del Mistero divino entro le vicende umane rende il ragionamento sillogistico pro-fanum, prescrittivo, ma non veritativo. E la consapevolezza che la verità umana coincida con la realtà del Mistero divino, sposta i termini del ragionamento metafisico dal piano dell‟Essere, proprio del discorso filosofico, che presiede ai costrutti giuridici e alle forme politiche, a quello del Non-Essere, rovesciando così la prospettiva dell‟ontologia greca. In tal senso, se la logica è la tecnica del pensiero onto-logico, non può esserlo di quello teandrico. La logica esclude il diverso, lo coglie come l‟ “altro”, il “nemico”, il “negativo”, mentre invece il pensiero teandrico è inclusivo della diversità, dell‟altro, in quanto rapporta ogni ente fenomenico alla sua origine creaturale, e dunque al Mistero di Dio, che tutto con-prende. In tal senso, nella considerazione delle reciproche “relationes superpositionis” tra il Papa e l‟Imperatore la “mensura” non può essere “alia” rispetto alla considerazioni che siano entrambi “homines”, uniti cioè “per formam substantialem”, che è condizione

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prioritaria rispetto a ogni successiva “ratio spetie” legata al loro ruolo autoritativo. E proprio “in quantum homines, [Papa et Imperator] habent reduci ad unum [metrum in suo genere]”,722 altrimenti ogni riferimento terzo, “ad aliud”, ossia considerare che “aliud est esse hominem, et aliud est esse patrem et dominum”, implica a sua volta una relazione subordinativa tra “auctoritas” maggiore e minore, riferita dunque a un potenziale o attuale conflitto. E proprio in considerazione che il papato e l‟impero sono in una relazione autoritativa (“cum sint relativa”), dovranno ricondursi a una unità autoritativa omogenea alla loro ma superiore alle loro differenze specifiche (“reduci habebunt ad aliquod unum in quo reperiatur ipse respectus superpositionis absque differentialibs aliis”).723 Ma questa autorità terza e superiore non può essere divina, ma solo umanamente potente, e dunque relativa alle potenze storiche che vi si riferirebbero in senso politico. Sicché, solo in quanto “homines”, ossia creature di Dio, le parti altrimenti distinte e divise, possono ritrovarsi nell‟unità spirituale del comune “fattore” divino, la quale precede ogni succedanea distinzione polemica, e financo relazione amicale o misericordiosa. Ciò implica che non è la condizione storica, il loro relativo essere-ciò-che- contingentemente sono, a costituire l‟unità delle loro differenze specifiche, ma bensì ciò che non sono, ciò che non si trovano ad essere, in quella determinata situazione storica. E dunque solo rimuovendo l‟attualità in considerazione della possibilità, si può ritrovare l‟unità attraverso il superamento del diverso nell‟uguaglianza delle possibilità d‟essere ciò che attualmente non si è – cioè se stessi – e di essere altro. La considerazione dell‟alterità, invece della inseità, è il tratto essenziale della posizione morale, la quale si afferma appunto stabilendo la possibilità di porsi nella condizione dell‟altro. Tale posizione invertita deve prescindere dall‟attualità d‟essere, e dunque anche dal ruolo storico ricoperto in quanto autorità secolare, a favore della possibilità (d‟essere colui che non si è attualmente). Fuori di tale possibilità, non c‟è eguaglianza e dunque interscambiabilità (non dei ruoli specifici, razionalmente determinati, ma) delle condizioni esistenziali.

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Ivi, III, XI, 5-35, pagg. 261-262. Ivi, III, XI, 51-57, pag. 264.

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L‟ontologia è la logica dell‟Essere, di ciò-che-è, e l‟Essere di ciò che è è la condizione naturale. In tal senso, Essere è identico a Natura, così che la logica dell‟Essere è la ragione naturalistica, determinativa della posizione ontica degli enti naturali. Anche la Natura è una, e dunque la condizione naturale è unitaria nel suo senso proprio. Ciò significa che, dal punto di vista naturalistico, l‟uomo è Uomo come elemento di specie, nella sua generalità antropologica. E in questo senso viene considerato dalla filosofia politica greca, le cui distinzioni accidentali ineriscono sempre a elementi contingenti, che non alterano la omogenea fisionomia naturale degli enti. Dal punto di vista spiritualistico, invece, non sono gli accidentalia a essere rimossi in considerazione dell‟unità ontologica degli enti naturali, ma la stessa condizione naturale che discrimina in senso accidentale, per cui non è rimuovendo la condizione di Imperatore o, rispettivamente, di Papa, a far conseguire la loro condizione di eguaglianza e quindi di interscambiabilità dei ruoli. E dunque non negando l‟autorità papale che quella imperiale potrà costituirsi come autorità comune; ossia, non attraverso la posizione politica di esclusione dell‟altro si potrà affermare la propria ragione quale verità comune. Infatti attraverso la posizione di sé, e la correlativa negazione dell‟altro, si giunge sempre e solo ad affermare il sé come altro, ma non a comprendere l‟altro nel sé. Per conseguire una unità dei diversi, occorre negare la propria inseità attraverso la negazione dell‟altrui alterità, ovvero negare la propria alterità rispetto all‟altro affermando l‟alterità dell‟altro come la propria alterità. Nel caso specifico, vuol dire che solo negando la proria autorità papale o imperiale si può giungere a negare l‟autorità dell‟altra parte, e in questa remissine comune conseguire una condizione di paritaria appartenenza a una unità comprensiva di entrambe in cui riconoscersi uguali, ossia ugualmente liberi dalla reciproca autorità. Se noi vediamo nel Cristo tale unità comprensiva di ogni singolarità umana, abbiamo l‟idea di ciò che sia la in senso evangelico di unità spirituale degli uomini di fede. Che tale sia la Chiesa storica, è difficile ammettere. Ma come ammettere la superiorità di un ente imperiale il cui potere sopravanzi quello religioso? Solo indicando in Dio l‟unica autorità

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superiore a quella dell‟Imperatore, rendendo cioè l‟autorità divina omogenea a quella umana, facendola “a Deo immediate dependere”.724 E come stabilire che l‟autorità imperiale non dipenda da quella ecclesiale? Affermando che l‟Impero avesse una sua propria ragion d‟essere (“totam suam virtutem”) già prima che la Chiesa fosse stata fondata e diffondesse la sua missione mondana (“Ecclesia non existente aut non virtuante”), per cui la derivazione morale non può stablirsi senza una filiazione temporale (“ergo Ecclesia non est causa virtutis Imperii”), e dunque non è possibile stabilire un rapporto etiologico tra le due autorità (“et per consequens nec auctoritatis, cum idem sit virtus et auctoritas eius”).725 In questo caso, Dante accoglie la logica assimilazione della causa formale a quella materiale, altrove negata,726 stabilendo un nesso essenziale tra tempo profano ed evento escatologico da lui stesso escluso concependo, da credente, la posteriorità dell‟evento cristico come la ragione del mondo precedente la nascita storica di Gesù. Inoltre, come Dante ha ammesso, se il Potere del principe non ha una germinazione propria, e dunque non è disponibile se non nei termini concessi dal suo uso proprio, cioè coerente ai fini superiori del Governo (“auctoritas principalis non est principis nisi ad usum”), il suo esercizio è derivato da chi glielo conferisce (“quia nullus princeps se ipsum auctorizare potest”).727 Ma, essendo anche quello imperiale, e non solo quello papale, un potere mondano, avente i limiti della sua natura finita,728 deve essere conferito da un potere superiore a quello di un uomo, e pertanto anche allo stesso potere imperiale, ma pur sempre in qualche modo umano. E l‟unica potestà insieme divina e umana è quella del Cristo, che appunto affidò direttamente a Pietro, e non a un Cesare politico, l‟autorità divina

724 725

Ivi, III, XII, 8-10, pag. 266. Ibidem, 10-16, pag. 266.

726

“Nam aliud est „auctoritas‟ et aliud „nativitas‟, subiecto et ratione”: Ivi, III, V, 11-13, pag. 241. 727

Ivi, III, VII, 26-27, pag. 247.

728

“Non enim posset facere terram ascendere sursum, nec ignem descendere deorsum per officium sibi commissum”: Ibidem, 19-20, pag. 246.

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di “sciogliere e legare le cose del mondo”, ossia di governare, e non di esercitare un Potere alternativo o superiore a quello del principe politico. Ciò ha tre conseguenze, fra esse collegate. Una è quella di dover considerare il solo Governo morale come emanazione divina, per cui è la sua derivazione trascendente a costituire la base imprescindibile di ogni Potere politico e secolare; l‟altra conseguenza è quella di considerare il Potere una condizione transeunte e accidentale, in quanto del tutto umana, che soltanto la sua correlazione al Governo morale di origine divina può legittimare in funzione di quel Governo. La terza conseguenza è che ogni pretesa di autonmia avanzata dal Potere nei confronti del Governo deve presumere una sua autofondazione, ossia una legittimazione razionale all‟autoconsistenza che agisca come se la Rivelazione di Dio nel Cristo non fosse avvenuta. Questa ipotesi, di immaginare un mondo storico governabile etsi Deus non daretur, costituisce l‟orizznte teorico-politico di ogni razionalismo, antico come moderno. Con la differenza capitale che, nel mondo antico, la Rivelazione non era avvenuta, e il fondaento religioso dal quale il razionalismo greco si era emancipato era di carattere idolatrico e puramente tradizionale.Viceversa, nel mondo cristianizzato moderno, l‟ipotesi razionalistca agisce non a confutazione di confuse e contraddittorie credenze cosmologiche, ma della stessa Verità, cioè di quel Mistero a partire dal quale ha senso ogni ricerca del senso della vita in generale e segnatamente dell‟esperienza umana. Se dunque il movimento filosofico antico segna un trapasso teoretico dalla contemplazione dell‟Essere (o Natura) alla sua determinazione razionale, il razionalismo moderno non ha potuto far altro che tradurre in cifre positive, cioè in forme oggettive, le intuizioni spirituali del trascendente Mistero. Ma mentre il passaggio all‟Essere, nel pensiero antico, lo costituiva come qualcosa che-è, come ente, a partire dall’indeterminato Niente, e dunque come accrescimento (incrementum) ontologico, nel pensiero moderno il movimento essenziale, partendo dal Mistero divino rivelato, muove non dal Niente ma dal Tutto, cioè dalla pienezza () della Verità, rispetto alla quale ogni determinazione positiva (determinatio) è una reductio del  divino, una mancanza () di Verità, che produce una negatio della realtà di Dio, ossia ateismo.  Le conseguenze di tale moderna regressione noetica dalla pienezza della Verità, che è perfezione () di sapere e certezza del suo fondamento (), a un pensiero che ne è privo, kenotico, e

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dunque meramente ipotetico e destinato ad essere empiricamente confutato, risultano disastrose dal punto di vista dal punto di vista della costituzione politica, in quanto ne risolvono la questione nei termini del solo Potere (auctoritas), privo del Governo morale di origine divina. Ma proprio la affermazione di questo Governo ostacola e impedisce la dissoluzione dell‟unità spirituale, e dunque, con l‟affermazione di sé come negazione dell‟altro, il dominio del polemos interno all‟ordine sociale stabilito. In questo senso, la forza di detterenza morale della fede nel Governo divino della Storia umana consiste nel trattenerla ( = trattengo) nel suo fine escatologico lottando contro le forze maligne della dissoluzione sociale (). Considerato ciò, l‟ordine naturale delle cose non corrisponde all‟ordine spirituale della vita umana, la quale perciò deve essere governata secondo principii e modalità non naturalistici. Se infatti l‟ordine naturale fosse bastevole alla vita umana, non avrebbe senso per l‟uomo darsi una costituzione politica diversa da quella della naturale socialità ferina. Ma proprio perché tale ferina condizione naturale non rappresenta per l‟uomo una accettabile condizione esistenziale, egli provvede ad allontanarsene per costruire un mondo secondo le sue aspirazioni spirituali. A questo punto, la questione che sorge è la seguente. Gli strumenti per edificare tale realtà mondana, dando per scontato che siano di tipo latamente “razionale”, come lo è ogni risposta umana al della vita, sono essi informati alla stessa razionalità che presiede alla vita della Natura? In altri termini, i costrutti scientifici della filosofia naturalistica greca sono gli stessi di quelli che regolano il governo della esistenza sociale umana? La questione, com‟è noto, sorse a suo tempo entro il dibattito sullo storicismo, ma nei termini impropri di una opzione esclusiva tra un sapere “ideografico” e uno invece “nomotetico”, come se la fisionomia dell‟uomo fosse antropologicamente diversa da quella di ogni altra specie vivente, e non spiritualmente, inducendo erroneamente a ritenere che l‟essere umano in quanto tale fosse naturalmente diverso da ogni altro essere vivente. Questa credenza antropologica viene continuamente smentita da riscontri empirici che testimoniano quanto rappresentanti delle altre specie biologiche terrestri possano essere assimilate ai comportamenti umani.

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In realtà, la diversità dell‟uomo rispetto alle altre specie viventi non inerisce agli scopi naturalistici della vita biologica, che per tutti i viventi è di sopravvivere, e neppure alle modalità di organizzazione sistematica della produzione e distribuzione delle risorse utilizzate a quello scopo, quanto alla possibilità tutta umana di trascendere la dimensione naturalstica della vita biologica protesa allo scopo della sopravvivenza, assegnando alla propria esistenza una destinazione singolare di carattere spirituale. Spirituale, dunque, è quel carattere della vita umana che trascende la dimensione biologica dell‟esperienza collettiva o sociale, e che fa di quella vita umana una esistenza singolare. Ciò vuol dire che l‟esistenza singolare dell‟uomo spirituale non è separabile dalla vita biologica della sua esperienza sociale, ma che rispetto a questa esperienza la esistenza spirituale è qualitativamente diversa, ossia appartiene a un “altro Regno” rispetto a quello politico-sociale di Cesare. L‟ipotesi ingenua di costituire un consorzio di vita civile che sia insieme sociale e spirituale, per la irriducibile diversità delle rispettive condizioni di esistenza, non può che risolversi o in una socializzazione della vita spirituale singolare, ovvero nella negazione misticistica di ogni socialità in nome della singolarità spirituale. Entrambi gli esiti totalitarii costituiscono una violenza semplificazione della realtà umana nel senso della unilaterale ed esclusiva considerazione della sua dimensione naturale o, rispettivamente, spirituale, e tale da pretendere di costringere l‟una alla impossibile risoluzione nell‟altra. Da tale impossibilità sorge, con la violenza, anche la inevitabile precarietà della organizzazione di una vita umana astrattamente concepita, ossia astratta dalla sua concretezza sociale ed esistenziale. Nella dimensione di vita umana naturalisticamente sociale, reale è la dimensione politica della esistenza dell‟ uomo, entro la quale non è la Verità divina a decidere delle sue sorti terrene, ma la forza del Potere politico, che è nelle mani di Cesare, e non di Dio. L‟uomo spirituale che trascura tale realtà muore trafitto dalla spada. La spada del Potere domina la realtà politica, decidendo delle sorti collettive degli uomini come ente naturale. Il Potere deve difendersi dalla minaccia rappresentata da Socrate e da Gesù e da Galilei, e da quanti come loro ne ostacolano la sua affermazione di realtà. Il Potere è ciò che appare, poiché il suo Essere è tutto nella sua affermazione d‟esistenza. L‟Essere del Potere coincide ontologicamente con la sua attualità, cioè con la sua

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fenomenicità ontica. L‟Essere del Potere è nel suo apparire come ente. L‟Essere che può apparire come ente, è potente.Il Potere è la forza di apparire come ciò-che-è, di poter essere. Il Potere è il poter essere ciò che è. Diversa dalla forza del Potere è la possibilità che ha l‟uomo di costituirsi come esistenza singolare spirituale, estranea alla dimensione della socialità politica, quella in cui appunto si esercita la forza del Potere. Chiamandosi fuori dalla dimensione politica, l‟uomo singolare afferma la sua libertà spirituale, nel cui ambito di verità il Potere non ha forza alcuna, trattandosi di un altro Regno, governato da Dio, che ne è custode. Ora, trattandosi di due Regni che insistono sulla stessa umanità, sia pure diversamente considerata, essi non sono separati nella esperienza dell‟uomo, quale essere sociale e persona singlare, ma sono distinti per valore e considerazione morale. Questo è il punto decisivo in cui si infrage tanto il discorso teorico di Dante quanto la teologia del suo tempo. Infatti, entrambe le posizioni intendono stabilire, rispettivamente, un ordine gerarchico relativo a due orizzonti di vita umana che hanno dimensioni valoriali diverse e non commensurabili, poiché l‟orizzonte politico-sociale inerisce alla dimensione della temporalità naturale della vita biologica, mentre l‟orizzonte spirituale concerne la dimensione della vita eterna, che non ha rapporto con l‟esistenza terrena. Vincere una guerra contro le forze avverse della natura, fisica o politica che sia, ubbidisce alla stessa logica di affrontamento dell‟ideale nemico. Ci si difende da ciò che minaccia la propria esistenza naturale, si tratti della pioggia come della spada, di un fulmine come di un cannone, di una valanga come di un esercito. E‟ il principio della alterità che domina i rapporti di forza tra tendenze opposte. Il pensiero che riconosce tale alterità e ne stabilisce le ragioni, è la logica, in virtù della quale si determinano concettualmente le opposizioni. La fenomenologia storica in cui si manifestano le opposizioni tra gli uomini è la vita politica dei gruppi sociali costituiti, cioè non spontanei e occasionali e perciò privi di una organizzazione di Potere. Diverso dalla logica del riconoscimento dell‟altro come tale è il pensiero che ricerca la con-vivenza dell‟altro come sé, assumendolo in considerazione della sua singolarità spirituale, e non già della sua appartenenza politica in quanto membro naturale di un gruppo sociale.

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Tale pensiero non tende alla determinazione delle opposizioni interne alla vita naturale degli uomini come esseri bio-psichici, ma degli elementi di contiguità spirituale tra esseri singolari dotati di una storia spirituale anch‟essa singolare, e dunque esterna ai processi sociopolitica della vita umana collettiva. Nel primo caso, la logica presiede a una istanza di organizzazione in senso naturale dell‟esistenza umana, il cui ordine stabilisce un sistema politico, il cui processo è funzionale a quella esistenza naturale o sussistenza. Nel secondo caso, la ragione umana tende a superare le differenze di appartenenza naturale dei gruppi umani, in considerazione del comune destino spirituale dei singoli uomini come esseri spirituali, dotati di una esistenza storica o singolarità. Il rapporto tra le condizioni di vita naturale dei gruppi sociali umani, e le esistenze singolari degli uomini come esseri spirituali non può essere di natura politica, inerente cioè alla sussistenza delle forze economiche tra i singoli e tra gruppi, ma di natura religiosa, ossia inerente alla vicenda spirituale dell‟uomo, della sua storia. Le civiltà pre-cristiane concepirono la religione come legame sociale della dimensione di vita politica, nella quale si faceva risolvere l‟intera esperienza esistenziale dell‟uomo, inteso esclusivamente come animale razionale. In queste società olistiche, la cultura era religiosa in quanto servente l‟unità politica dei gruppi sociali, ma non nel senso della considerazione della esistenza spirituale dei singoli uomini, poiché la singolarità stessa non veniva riconosciuta che come appartenenza a gruppi naturali, ossia come unità funzionale all‟economia della loro sopravvivenza biologica. La civiltà greca, scoprendo le leggi della logica naturalistica, le applicò sia per la rappresentazione cosmologica della Natura, indicata come l‟Essere stesso del pensiero, e sia alla dimensione sociale organizzata come , cioè come esercizio razionalmente regolato della volontà dei gruppi umani appartenenti alla . Per la sua valenza tecnicamente polivalente, la filosofia greca fu sin dalle origini precipuamente politica, teoreticamente funzionale cioè alla regolamentazione razionale della vita sociale, alla sua razionalizzazione. Per il riconosciuto carattere universale del pensiero filosofico, l‟applicazione tecnica dei suoi metodi razionalizzatori in ambiti istituzionali sempre più estesi dell‟organizzazione della vita

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sociale diede vita a quella civiltà razionalistica europea che per la sua posizione georafica occidentale rispetto alla Grecia, finì per distinguerla rispetto a quelle che si svilupparono tendenzialmente a oriente di quella greca.  Con la nascita del Cristianesimo, prese vita una nuova concezione della religione, compresa quella ebraica dal cui ceppo germogliò la predicazione di Gesù di Nazareth, il quale insegnò a distinguere le ragioni politiche legate alla convivenza sociale, da quelle spirituali conseguenti alla dimensione coscienziale dell‟uomo.Rispetto alla concezione latamente filosofica, il pensiero spiritualistico di Gesù non tese a razionalizzare le differenze fra gli uomini in quanto membri di gruppi sociali naturali, ma a indicare la stessa matrice divina di ogni essere umano come singolarità pneumatica e non meramente corporea. Attraverso la distinzione del regno di Cesare, dominato dalla logica divisiva del Potere, dal regno di Dio, in cui vigeva la regola dell‟amore fraterno di ogni singolo uomo n quanto creatura dello stesso Padre divino, Gesù rivoluzionò la concezione antropologica delle culture tradizionali antiche, ponendo alla sua origine archetipa l‟ , ossia l‟unità mistica del genere umano, e non il , cioè la guerra dell‟unità politica particolare contro altre unità sociali in lotta per il dominio economico della natura. L‟unità mistica fra gli uomini, proprio perché li emancipava spiritualmente da ogni dipendenza di retaggio naturalistic, li costituva come esseri moralmente liberi, ossia interiormente indipendenti dal dominio del Potere politico sui loro gruppi sociali di appartenenza. La definizione dei limiti del Potere politico alla dimensione naturale degli uomini quali enti collettivi, provocò un confine al suo fino ad allora incontrastato, se non dagli dèi celesti, dominio che era interno allo stesso orizzonte sociale e dunque umano, che lo strinse in una duplice morsa, celeste e terrena, dalla quale non si liberò più, inaugurando lo stesso corso dell‟esperienza complessiva dell‟umanità. La questione del Potere, nasce dunque strettamente con il Cristianesimo, che introdusse nella vita sociale degli uomini il concetto della libertà come limite spirituale al dominio politico dell‟uomo forte sui più deboli, portandola come istanza spirituale all‟interno della dimensione religiosa, fino ad allora intesa come sanzione divina funzionale all‟ordine politico, e dunque all‟asservimento umano al Potere. L‟esaltazione della realtà spirituale, e quindi della possibilità dell‟uomo di emanciparsi dalla

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condizione politica come destinatario di una missine redentrice metastorica, presagiva una forma di socialità fondata su un criterio apolitic, agapico, in virtù del quale non è la legge umana, ispirata alle vicende della Natura, a regolamentare l‟esperienza umana, ma una legge superiore a quella del Potere, la cui forza non era nella efficace vigenza della forza sociale, ma bensì nella possibilità di rivolgersi all‟istanza superiore divina, imperscrutabile e inattingibie da parte di qualunque rituale magico o apotropaico, e perciò essenzialmente misteriosa, ossia dagli esiti incerti. La volontà di Dio, diversamente dalle aspettative della Natura, essendo imponderabile, non era legiferabile similmente alla volontà del Potere, che si rivolgeva astrattaente a tutti i subalterni, ma si determinava ad personam, considerando cioè le ragioni singlari di ogni uomo, che era chiamato ad attenervisi in ragione della sua sola fede, che consisteva nella volontaria adesione ai precetti divini. L‟aspetto volontaristico faceva della fede cristiana una forza interiore radicalmente diversa da quella del Potere, che aveva bisogno di apparati coercitivi. La fede, proprio perché forza interiore della volontà, poteva trasformare la condizione morale dell‟uomo socialmente più debole, rendendolo capace di salvare la sua vita dal destino della condizione naturale comune. Senza alcun bisogno di misurarsi con la forza del Potere, la forza della fede non rappresentava una rivolta politica ma una rivoluzione spirituale, una , che poneva all‟inizio della esperienza esistenziale dell‟uomo non una fondazione politica, cioè una costituzione collettiva, ma una creazione spirituale, cioè una storia singolare. La trasvalutazione della storia umana, da silloge di vicende memorabili di eroi eponimi, ad eventi singolari e irripetibili di fede, ridisegna il senso della vita in termini radicalmente diversi rispetto alle mitiche res gestae di potenti guerrieri e legislatori, mettondo in evidenza la realtà interiore degli umili e degli ultimi, impossibilitati dalle circostanze avverse della loro inferiore condizione socio-politica ad affermare ciò-che-sono, testimoniando – alla stregua dello stesso Figlio di Dio fattosi Uomo -, la sola forza interiore della loro fede nella possibilità di essere veramente se stessi in un altrove rispetto al presente regno di Cesare. Attraverso la fede in Dio, l‟uomo spirituale testimonia il principio di possibilità, alternativo a quello ontologico dell‟attualità, considerato dalla metafisica greca come l‟unico reale. La fede cristiana nella possibilità d’essere amplia la prospettiva metafisica

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della ontologia naturalistica greca, introducendo nel senso della esperienza umana una teleologia della salvezza spirituale molto diversa dal finalismo economicistico della sussistenza socio-politica dei gruppi umani, e dalla connessa logica del dominio delle “sorgenti della vita”. Non più dunque storia di eroi politici, ma di martiri della fede, il cui movente esistenziale non è l‟eclatanza terrena del gesto memorabile, ma la anonima santità dell‟azione buona, ignota agli uomini ma non a Dio, che la giudicherà premandola nel Suo regno celeste. Nella nuova prospettiva esistenziale introdotta da Cristianesimo, i valori etico-politici perdono la loro assoluta pregnanza naturalistica, diventando accidentali e transeunti al cospetto della trascendente esperienza spirituale della storia personale di ogni uomo, la quale diventa così l‟orizzonte singolare della stessa verità, anch‟essa singolare e unica, e pertanto in-definibile da una legislazione regolativa di eventi pre-vedibili e comuni. La verità singolare diventa il risvolto esistenziale del Mistero divino, della imponderabile volontà di Dio, la Provvidenza, che, diversamente dalla pagana necessità del Fato, in quanto Spirito libero “soffia dove vuole”. In considerazione della condizione spirituale dell‟uomo, ognuno provvisto di una sua storia che ne traccia un suo singolare destino, il rapporto tra gli uomini non può consistere e risolversi in una relazione politica, cioè di confliggenti forze sociali regolate dal Potere dominante su tutte loro, ma deve estendersi a una giurisdizione diversa da quella statuale, in cui decisivi non solo i comandi del Potere normativizzati erga omnes, ma le deliberazioni di una autorità carismatica di Governo che le emani una tantum nei singoli casi concreti. La sapienza giuridica romana aveva previsto una assemblea degli ottimati, il Senato, con funzioni consultive, ma solo con la creazione cristiana di una élite nell‟ambito ecclesiale la funzione carismatica di Governo ha perduto il suo originario carattere socio-economico, legato al modello autoritativo paterno, per acquisirne uno precipuamente consiliare basato sul modello apostolico. Le vicende storiche della Chiesa cattolica hanno intrecciato il ruolo carismatico dell‟autorità ecclesiastica con le funzioni autoritative del Potere secolare, ma quell‟ibrido connubio, per quanto increscioso e perverso, non ha cancellato le distinzioni essenziali stabilite da Gesù e testimoniate dai Vangeli apostolici, per cui ogni statuizione umana che li neghi di principio o di fatto incontrerà sempre la resistenza incoercibile della

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coscienza spirituale degli uomini di fede e di buona volontà che la ribadiranno in gloriam Dei.  In che rapporto stanno le due distinte funzioni del Potere e del Governo nella teoria monarchica di Dante? Che Cesare fosse legittimato all‟esercizio del Potere, per Dante era fuor di dubbio,729 così come era convinto che la Chiesa non avesse tale legittimazione. Infatti, “si a Deo recepisset”, o l‟avrebbe ricevuta “per legem divinam”, oppure per via di legge naturale, dal momento che “quod a natura recipitur a Deo recipitur”, anche se non vale la reciproca. E poiché la Chiesa non è un “effectus nature, sed Dei […] manifestum est quod ei natura legem non dedit”. 730 Ma, poiché nelle Scritture non se ne fa menzione, essa non la ricevette neppure “per [legem] divinam”, così come non le è stata affidata dall‟Imperatore o “ab assensu omnium vel prevalentium”.731 Interessante notare che tra le fonti della legittimazione al Potere, Dante annoveri, oltre la Natura e Dio anche la volontà popolare, nella quale, per S. Tommaso, risiederebbe il “potere costituente” degli Stati, del quale i re sarebbero solo reggenti (“vices gerens multitudinis”).732 Dante aggira la tesi tomista, per la quale il potere spirituale ai papi discenderebbe non dalla Chiesa ma direttamente da Dio, essendo essi vicari di Cristo e non della istituzione umana, e integrandola la capovolge, mettendo l‟Imperatore, in materia di autorità secolare, nella stessa ma speculare posizione del Papa come gerente della potestà spirituale riconosciuta alla Chiesa, che figura esserne la depositaria. La natura della Chiesa, afferma infatti Dante, non è di esercitare il Potere, che Cristo rifiutò rispondendo a Pilato, ma di seguire il Suo esempio, per cui essa non può attribuirlo a sua volta all‟autorità secolare. 733 E se dunque il Potere secolare “ab auctoritate summi Pontificis non causari”, esso “ab ipso Dei vicario non dependet”, e perciò deve provenire

729 730 731 732 733

Monarchia, III, XII, 24 sgg., pagg. 266-267. Ivi, III, XIII, 7-15, pag. 268. Ivi, III, XIII, 16, 33-34, pagg. 268 e 269. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, 90, 3. Ivi, III, XIV, 9-33, pagg. 270-271.

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direttamente da Dio “ex consequenti”. 734 E‟ un sillogismo, ossia la ragione umana, a determinare l‟origine del Potere secolare, le cui determinazioni sono pertanto affidate alla stessa umana ragione, e non a inviolabili precetti divini. Il fondamento razionale del Potere politico, teorizzato da Dante, ripropone in termini moderni e nell‟ambito della civiltà cristiana, le stesse modalità formali e finali che hanno presieduto e giustificato nell‟ambito della cultura greca del IV sec. a. C. la costituzione topologica della antica, la cui sfera di legittimità razionale coincide con la parallela esautorazione dell‟autorità morale della tradizione religiosa da ogni pretesa di incidenza politica in conseguenza e in virtù del Governo sociale. Per meglio dire, il Potere politico, costituendosi nei termini di una comunità parallela a quella sociale, nella quale le regole tradizionali della vita sociale venivanoesautorate di ogni rilevanza pubblica a favore di una isonomia razionalmente e non tradizionalmente vigente, fondava una socialità, ovvero una modalità di convivenza sociale, stabilita per decreto di ragione, ossia per sola volontà umana dei cittadini membri della polis. In questo senso, la novella comunità politica si stabiliva e regolava esclusivamente per volontà dei cittadini, fuori da ogni ngerenza tradizionale e divina, ossia appunto da ogni pregressa esperienza morale di Governo della società. La politica (razionalistica) si fonda dunque sulla emancipazione dalla morale, rappresentata dalla tradizione religiosa custodita dalla aristocrazia sociale. Esautorando da ogni ruolo politico l‟aristocrazia sociale e la tradizione religiosa da essa custodita sotto forma di Governo morale della società, la nuova classe politica razionalistica, cioè legittimata dalla ragione, sostituisce la funzione aristocratica del Governo sociale con la funzione decisionistica del Potere politico da parte di operatori investiti per consenso dei concittadini al loro ruolo pubblico. Dante non nega le prerogative ecclesiali designate da Dio ai suoi vicari terreni, ma assegna loro una funzione spirituale nettamente distinta da quella inerente all‟amministrazione del Potere secolare, secondo quanto stabilito da Cristo stesso. L‟aspetto che nondimeno degenera il messaggio evangelico in senso divaricatore rispetto alla orignaria distinzione è la esautorazione dei fondamenti morali della vita umana

734

Ivi, III, XV, 2-5, pagg. 271-272.

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dall‟ambito del Potere civile. Mentre infatti la predicazione di Cristo era nel senso della dissociazione della morale dalla religione quale forza connettiva funzionale al Potere politico secolare, che attraverso di essa veniva sacralizzato, la teoria razionalistica del Potere politico lo costituisce come indipendente e separato dalla morale e perciò autoreferente e auto-nomo alla stessa stregua del pensiero filosofico rispetto alla tradizione mitica. nello stesso senso, la realtà politica veniva a costituirsi, analogamente alla rappresentazione filosofica del mondo, come una realtà assoluta, non soggetta ad alcun vincolo tradizionale di esperienza morale o religiosa, fosse legata alla volontà dell‟aristocrazia sociale o a quella superna degli dèi. Il sofisma implicito in ogni argomento filosofico è la supposta coincidenza dell‟Essere oggetto del pensiero con l‟Essere in senso ontologico, per cui anche nel nostro caso il Potere imperiale trova nella sua ragione concettuale la sua realtà necessaria e deontologica. E poiché ogni realtà fattuale, ossia naturale e umana, proviene da Dio, l‟affermazione della realtà di fatto, come il ricordato duello, immagine della conquista bellica, risulta prova ordalica della volontà divina. La quale, peraltro, e questa è ammissione interessante, non si esaurisce nella realtà di fatto o naturale, per cui la ragione umana può ricavarla attraverso il sillogismo, ex consequenti, rendendo esplicito ciò che Dio non ha graziosamente inteso rivelarci. Cosa inferisce la ragione? Che l‟uomo sia il “medium” tra i “due emisferi” della realtà totale, essendo composto di anima eterna e di corpo corruttibile, per cui “necesse est hominem sapere utranque naturam”, partecipando così al suo “duplice fine” provvidenziale: quello della “beatitudine in vita” presso il “paradiso terrestre”, cui si giunge “per phylosophica documenta”, e quello della “beatitudine eterna”, che consiste nella “fruizione divini aspectus”, per conseguire la quale non bastano “le umane virtù morali e intellettuali”, ma vi si giunge “per documenta spiritualia que humanam rationem trascendut”, per cui necessita all‟uomo che operi “secundum virtutes theologicas” della “fede, speranza e carità”, l‟ausilio imprescindibile della “illuminazione divina”, l‟unica che possa condurre l‟uomo al “paradiso celeste”. 735 Fini diversi cui si giunge “per diversa media”. La prima “beatitudine” si

735

Ivi, III, XV, 18-38, pagg. 272-273.

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consegue, come abbiamo visto, “per via filosofica”. Ma ciò che più interessa è che lo strumento che a tal fine terreno Dante adotta, mutuandolo dalla antica sapienza dei filosofi pagani, è a noi fornito “ab humana ratione”, ossia da quel patrimonio di pensiero pre-cristiano contro il quale la predicazione evangelica ha dovuto sostenere una lotta strenua per affermare quei principi di “verità soprannaturale” che lo Spirito Santo, i profeti, il Cristo, i suoi discepoli e gli apologisti hanno rivelato all‟umanità.736 Ma tanto il patrimonio di saggezza filosofica che quello di verità spirituale, sarebbero rimasti inefficaci per la “humana cupiditas” senza l‟intervento di una forza raffrenante la “vagante bestialità” degli uomini. Tale azione katechontica viene esercitata congiuntamente, sia pure con fini diversi in ragione della rispettiva natura, tanto dalla guida del Sommo Pontefice, “qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam ecternam”, che dall‟Imperatore, “qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret”. E mentre la guida pontificale tende alla beatitudine eterna degli spiriti, la guida secolare del romano Principe tende a garantire al genere umano di “stare in pace” nel godimento della libertà sedando le allettive della cupidigia. 737 Ciò vuol dire che sia l‟obiettivo terreno che il fine celeste non sono conseguibili naturalmente dagli uomini, i quali sono per natura predisposti a sopraffarsi reciprocamente, soccombendo alla loro istintiva cupidigia. Ma questa antropologia pessimistica parte dall‟assunto che l‟essere umano abbia un fondamento di natura, sul quale incide sia la verità di ragione che quella spirituale. Ciò vuol dire che la posizione mediana dell‟uomo tra i due emisferi temporale ed eterno non è garantita né dalla natura né da Dio, ma è puramente potenziale e suscettibile di pervenire a realtà solo grazie alla guida terrena del Papa e dell‟Imperatore, che evidentemente sono gli unici a godere di quella posizione mediana in quanto direttamente ispirati da Dio. Ma se così fosse, come potrebbe l‟uomo affidarsi alla ragione naturale per conseguire sia il fine terreno (naturalmente non garantito) e sia il fine trascendente (conseguibile solo a seguito della Rivelazione e

736

737

Ibidem, 39-43, pag. 274. Ibidem, 50-55, pag. 274.

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dell‟opera dei testimoni della fede). Se basterebbe questa considerazione a revocare in dubbio l‟ipotesi della sufficienza assegnata alla ragione umana per i fini terreni, ancora più decisiva è la riserva circa la congruità dello strumento naturale, la ragione appunto, nello stabilire la destinazione, le modalità e le forme della salvezza spirituale dell‟uomo. Infatti, se la stessa ragione naturale non è servita all‟uomo per superare duraturamente la sua condizione ferina, tanto che la “pace” rimane ancora un obiettivo condendo, e la Rivelazione, pur necessaria a far rinascere il nuovo Adamo dalle ceneri del peccato originale, non è servita a redimerlo, come può dipendere anche la redenzione spirituale dalla “pace” politica garantita dall‟Imperatore? Il quale diventa, nella prospettiva politologica dantesca, l‟alter ego, quale mediatore naturale designato direttamente da Dio, del Cristo mediatore spirituale. Con la differenza di non poco rilievo che la destinazione spirituale è costata al Figlio di Dio la passione in croce, nonostante l‟annuncio profetico e scritturale, mentre la designazione del Potere politico, scaturita per deduzione logica dalla mente umana, la stessa che non ha saputo riconoscere il Cristo e l‟ha condannato a morte, comporta da sempre incontrastato riconoscimento universale e unanime gloria mondana. Disparità troppo evidente per essere sottaciuta dalla stessa foga apologetica del fautore fiorentino, il quale, dopo aver ribadito di “aver raggiunto la meta agognata”, avendo esposto la “enucleata veritas” circa la funzione del Monarca necessaria “ad bene esse mundi”, ammonisce il Cesare cristiano con quella “reverentia” dovuta a Pietro quale “primogenitus filius debet uti ad patrem” perché, essendo stato designato da Colui che solo è “prefectus” e “omnium spiritualium et temporalium gubernator”, lo illumini nella espletazione del suo “offitium”.738 In gni caso, al di là del formale rispetto reverenziale per il Vicario di Cristo, la proposta ideologica di Dante anticipa in ambito cattolico la dissoluzione dell‟unità sincretistica della dogmatica cattolica con la filosofia greca, in nome di quella tradizione imperiale romana che proprio la Chiesa costantiniana ed ellenistica aveva inteso riconvertire al disegno escatologico cristiano quale occasione provvidenziale della

738

Ibidem, 74-86, pag. 275.

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universalizzazione del messaggio evangelico. Ma proprio la considerazione politica del tema della evangelizzazione, quale proposito di conversione collettiva di intere nazioni, anziché di singole anime, travisando il senso originario del messaggio cristiano, ha offerto l‟adito alla prospettiva secolaristica della dissoluzione teologica che Dante conduce alle sue più coerenti conseguenze teoriche, assegnando a Cesare una funzione di contenimento katechontico dell‟anomia sociale, altrimenti inevitabile in considerazione della natura originariamente polemica della convivenza umana. Da questa originaria condizione naturalistica, riabilitata teoricamente da Dante, consegue il primato politico di Cesare su ogni prospettiva spiritualistica, la quale, per il suo carattere deontologico e meramente desiderativo, incontra il suo limite strutturale sul fondamento ontologico della natura dell‟animale politico uomo. il creazionismo cristiano, conservando all‟uomo un ruolo, sì dominante, ma entro però una struttura omogenea di sua sostanziale dipendenza dalla Natura, ne inscrive il destino terreno entro le coordinate naturalistiche del pensiero politologico greco, rispetto al quale l‟innesto fideistico crstiano apparve, a partire dall‟umanesimo, una superfetazione teologica non essenziale, e perciò rimuovibile al fine di ricondurre alla originaria purezza classica il genuino pensiero antico. In tal senso, la tradizione romanistica, che la teologia politica agostiniana aveva connesso funzionalmente al disegno provvidenziale, sollevandola, diversamente dal persistente stigma anti-ebraico della cultura cristiana, dalla responsabilità delle persecuzioni dei martiri della fede, tornava con Dante a costituire la conditio sine qua non della pacificazione universale interna all’orbe cristiano, e pertanto assumendo una importanza, non più solamente funzionale al disegno escatologico cristiano, ma finalistica e necessaria peciò alla stessa possibilità storica della sua realizzazione effettuale. La trasformazione dello strumento politico imperiale nel fine della pacificazione universale del mondo cristianizzato, ripropone in chiave moderna quella tipica rielaborazione del Mito cosmogonico operata

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dalla filosofia greca739 a premessa teoretica della definizione dell‟orizzonte politico come realtà antropologica ontologicamente intrascendibile dell‟esperienza umana, portando in evidenzia, al di là di ogni espicita intenzione di Dante, le conseguenze ideologiche del riduzionismo teologico romano-alessandrino della predicazione spiritualistica di Cristo a religione dello Stato cristiano, un ossimoro la cui contradictio in adjecto esautorava di ogni portata metafisica ed esistenziale la distinzione tra la realtà di Cesare e la verità di Dio sulla quale si basò invece il messaggio evangelico, conducendo di conseguenza la Chiesa e lo Stato a scontrarsi come rivali per l‟egemonia nel mondo cristianizzato. Una rivalità tutta politica che aveva come posta il Potere. Se l‟autorità ecclesiale aveva buon gioco di vantare su quella secolare il fine escatologico della predicazione cristiana, il Potere statale aveva a sua volta ragione nel difendere le sue prerogative politiche entro l‟orizzonte mondano che la Chiesa stessa aveva eletto come campo fenomenologico delle sue ascendenze spirituali. L‟esito culturale di questo scontro epocale, che dall‟editto di Costantino è giunto sino all‟avvento dei totalitarismi del XX secolo precedenti la seconda Guerra mondiale, è stato la consumazione, dopo la sua plurimillenaria esaltazione, della prospettiva metafisica storicistica dell‟esperienza dell‟uomo come animale politico, pensata dal razionalismo greco e universalizzata dalla teologia cristiana, che quel pensiero ha reso “cattolico”. Come la Trinità rappresentata dal Masaccio, la teofania dantesca di un Impero cristiano era supposta poggiasse sulla terra, sulla regalità politica, la cui immagine “fosse puramente umana e di cui l‟uomo, puro e semplice, fosse centro e misura”, sia pure “in tutte le sue relazioni con Dio e l‟universo, con il diritto, la società e la città, la natura, la conoscenza e la fede”.740 Ma proprio a tale esigenza di integrale 739

“La storia della filosofia greca va considerata quale processo di progressiva razionalizzazione dell‟originaria concezione religiosa del mondo, basata sul mito”: W. Jaeger, Paideia (1944), Milano, 2011, pag. 287. 740 E.H. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology (1957), tr. it., Torino, 1989, cap. VIII, “La regalità antropocentrica: Dante”, pag. 387.

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“humana civilitas” non potevasi costituire una figura sovrana di un “quasi nocchiero” che non fosse stata concepita “a perfezione della universale religione de la umana spezie [il cui] officio per eccellenza Imperio è chiamato […] però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento […] E così a chi questo officio è posto è chiamato Imperadore […] e quello che esso dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito, e ogni altro comandamento da quello di costui prender vigore e autoritade”. Infatti, “lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice”. Ed essendo risaputo che “quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di esse conviene essere regolante, ovvero reggente, e tutte l‟altre rette e regolate”. 741 La “universale religione” del genere umano di cui parla Dante, ossia il Cristianesimo, necessita di uno strumento terreno che, pur limitatamente alle possibilità insite alla ragione umana, segnatamente quelle di natura morale, sia guidato funzionalmente alla bisogna. Ed è a tal fine universalistico che necessita la figura dell‟Imperatre quale “cavalcatore de la umana volontade”.742 Considerando però che la volontà umana non è, come quella divina, onnipotente, essa abbisogna dell‟assistenza provvidenziale di Chi opera “colà dove si puote”, ragion per cui l‟Imperatore non può rappresentare il solo Potere dello Stato, secondo la pur riferita dottrina aristotelica, e dunque la teoria del cristiano Dante “va interpretata in senso cristiano”. 743 In un senso, cioè, comprensivo della duplice natura umana, naturale e divina, che la sovranità imperiale non può compiutamente rappresentare extra officium suum. Pertanto, l‟accenno in chiusa alla paternità papale non è un mero omaggio retorico dell‟autorità secolare dell‟Imperatore all‟autorità spirituale del successore di Pietro, ma, sia pure alquanto maldestramente, implica una indispensabile correlazione tra fides et ratio che, concentrata sul solo

741

Dante, Convivio, Lib. IV, IV. Corsivo nostro. Dante riprende il termine “nocchiero” dalla tradizione patristica, che indica Cristo come . Ved. p. es. Atanasio, Contro i pagani, 40, 14 e, in riferimento all‟imperatore cristiano, Eusebio, Vita di Costantino, IV, XIV, 1. 742 Dante, Convivio, Lib. IV, IX, 10. 743

V. Frosini, Kelsen e Dante (1965), Introd. a H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pag. XVII.

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versante ecclesiale, sfocia in una assurda, e per Dante insostenibile, negazione della ragion pratica, ossia della stessa volontà etica dell‟uomo in quanto animale politico ovvero razionale. Questa identità antropologica, retaggio del pensiero filosofico-politico classico, assunta quale sostrato orignario e ontologico, della natura umana, costituisce per Dante la legittimazione, attraverso la considerazione della Natura, e dunque anche di quella umana, come creazione divina, della funzione del filosofo (laico ma cristiano) entro l’ambito della civiltà cristiana, essendo la realtà naturale dell‟uomo tutt‟una con le sue facoltà razionali, che dunque non possono essere estromesse a favore di una esclusiva considerazione della parte spirituale dell‟uomo integrale. A ben considerare, l‟esaltazione dell‟ufficio imperiale non è concepita ad exludendum dell‟ufficio papale, ma semmai in senso integrativo. Il carattere apologetico del trattato a favore della funzione imperiale va rapportato alla determinazione opposta da parte ecclesiale di sminuirlo in senso meramente servente, privandolo cioè di quella dignità morale derivantele dalla originaria duplice costituzione della persona umana, e che soltanto l‟autonomia dall‟autorità ecclesiastica poteva garantire. Come giustamente notato a proprosito da Frosini, non vi è, dunque, secondo Dante, un parallelismo tra Stato e Chiesa, come potè concepirlo il liberalismo ottocentesco […]; ma non vi può nemeno essere contraddizione di funzioni tra i due organismi, poiché ognuno di essi dovrebbe procedere in una dimensione diversa, orizzntale per l‟uno, verticale per l‟altro, e il punto d‟incidenza fra i due, si potrebbe quasi dire il punto di fusione, è nella persona umana. 744

Tal “punto di fusione”, per le sue caratteristiche composite, non può coincidere, come invece crede Frosini, con un ideale di humana civilitas [che] costituisce il corrispettivo della politéia aristotelica [che sia] l‟attributo proprio dell‟uomo, il quale, nella sua vita terrena, deve essere necessariamente cive, per distinguersi dagli animali e

744

V. Frosini, Loc. cit., pag. XXIII.

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dagli angeli, gli uni privi di ragione e perciò incapaci di libertà, gli altri 745 perfettamente liberi perché perfettamente ragionevoli .

Infatti, il “corrispettivo” cristiano alla civitas classica e pagana non può essere la polis greca pensata secondo il modello aristotelico, ma bensì un organismo che, per un verso, incarni e perpetui l‟universalismo giuridico della civiltà di Roma, sede imperiale, e per l‟altro verso rappresenti e realizzi la missione spiritualistica universale della Chiesa cristiana, che non a caso nella stessa Roma imperiale ha la sua sede storica. Il “corrispettivo” romano e cristiano dl modello greco classico è appunto la Monarchia imperiale della civiltà cattolico-romana, sintesi di sapienza giuridica e potenza politica romane, e di spiritualità cristianocattolica. In tal senso, Dante non è, secondo la definizione del Frosini, un “umanista politico”, come poteva esserlo Cicerone o Machiavelli, ma un umanista cristiano, e dunque aperto al trascendente non in senso meramente appositivo, alla maniera di Carlo Magno o di Napoleone, né meramente oppositivo, alla maniera degli Hohenstaufen di Svevia o di Filippo il Bello di Francia o di Enrico VII di Lussemburgo, che tante speranze aveva acceso in Dante, per intenderci, ma nel senso precipuo

745

Ibidem, pagg. XXIII-XXIV. Anche E.H. Kantorowicz attribuisce a Dante una accezione aristotelico-naturalistica del termine di “humana civilitas”, riponendo “sotto il medesimo denominatore paradiso terrestre e paradiso celeste, come i due fini dell‟umanità”: Id., I due corpi del Re, cit., pagg. 181-182. Ma resta difficile stabilire in Dante un quid pro quo tra i due fini. Infatti, il “re”, cioè l‟aristotelico governo paterno (Pol. 1259b), è la “testa del regno”, cioè il capo morale, del corpo politico, che, come i membri della famiglia, liberamente lo riconosce tale. Vi è quindi tra il capo morale che detiene il Governo del corpo politico, e questo corpo un rapporto carismatico simile a quello del vescovo con la sua Chiesa, il cui modello trascendente è Cristo, “sposo della Chiesa, capo del corpo mistico e corpo mistico egli stesso”: Ivi, pag. 187. L‟omologia tra il corpo mistico e il corpo civico si stabilì mercè il concetto di unità ideale (non spirituale) del molteplice empirico, e la conseguente razionalistica identità, non necessaria né implicita all‟accezione trascendente spiritualistica. Il principio identitario o del rispecchiamento dell‟ideale col reale è razionalistico e di origine idealistica, ma fu il naturalismo aristotelico che gli assegnò una accezione sociologico-politica che s‟impose intellettualmente a seguito della ricezione teologica nel De regimine principum, e che identificò il Governo morale (auctoritas regalis) col Potere politico (dominium politicum). L‟unità carismatica diventa unione giuridica e il corpus mysticum del popolo è quello “raccolto e ridotto ad uno dal diritto”: Ivi, pag. 192.

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della visione cristologica dell‟unità concreta di natura e di spirito nella stessa ed unica persona umana. In base alla quale visione, giusta la considerazione del Peterson, non si sarebbe potuto procedere a quella riduttiva traslazione di senso secolaristica, che invece storicamente procedette nella teoria politica moderna, come notato da Schmitt. E procedette per la stessa ragione per la quale Dante si rivolse all‟autorità del magistero antico per perorare la sua causa futura, ossia per il ritenimento pregiudiziale che l‟uomo fosse anzitutto e originariamente animale politico e, in quanto dotato di parola, razionale, e che solo a seguito della predicazione cristiana egli abbia potuto assumere un connotato spirituale. Tale credenza antropologica, sopravvissuta alla fine dell‟Impero romano, operando un sincretismo tra la fede nella realtà spirituale dell‟uomo e l‟antico naturalismo razionalistico pagano, ha concepito la visione cristiana come una superfetazione idealistica di carattere mitico, che poteva essere asportata come la scorza dal gheriglio, lasciando intatta la classica concezione fondamentale, quella unicamente vera e rapportabile alla nostra tradizione scientifica della vita politica. Di tale strumentazione concettuale si è avvalso anche Dante per giustificare, a colpi di sillogismi, la razionalità di un fondamento di fede, inteso come credenza religiosa e non come premessa fondamentale di ogni ragionamento onto-logico. Premessa creativa, e tutta umana, del senso della realtà, altrimenti in-possibile in ambito naturalistico, nel cui orizzonte non c‟è trascendimento della vita biologica ma solamente lotta e sopraffazione per la vita stessa. Considerare, alla maniera antica, l‟esperienza umana come una variante razionale della comune esperienza delle altre specie naturali, faceva del Cristianesimo una variante tra le culture umane di tipo religioso, e niente più, assorbendo il suo principio di Verità nel vortice diveniente del nichilismo storico, che rendeva il senso cristiano dell‟eterno una superficiale superstizione fideistica, casualmente giunta, per una serie di fortunose circostanze occasionali, a offrire un senso complessivo della storia umana, altrimenti in sé assente. E una volta giunto all‟obiettivo storico di averla affermata, il Cristianesimo doveva approntare i mezzi naturali per conservarla, e dunque organizzarsi in potenza imperiale universale. Da qui la teoria dantesca della Monarchia cristiana, la quale, concepita, sulla falsariga dell‟Impero romano, nei termini di una entità di Potere universale legittimato dalla religione cristiana, rappresenterebbe un sine nomine monstrum ancora più terrificante della

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Chiesa romana, perché intrinsecamente totalitario in senso politico contemporaneo. Ma l‟intrinseco aspetto mostruoso del progetto teorico dantesco non riposa sulla opportunità di una pace universale tra i popoli, che rimane l‟auspicio morale sempre attuale della civiltà cristiana, bensì nell‟universalismo razionalistico di una costituzione politica accentrata su una unica fonte sovrana di Potere. Infatti, è il concetto del Potere che di per sé, astratto dalla realtà concreta delle condizioni sociali degli uguali subalterni, delinea una prospettiva volontaristica di un dominio politico di carattere decisionistico, che tende a produrre le condizioni della sua affermazione a scapito di ogni resistenza culturale, religiosa e morale, esautorando di principio ogni forma tradizionale di Governo carismatico della società, esercitato dalle locali aristocrazie storiche, tradizionali mediatrici dei princìpi valoriali di socialità. Il Potere, di per sé, una volta assiso sui soli suoi assoluti fondamenti di legittimazione razionale, trascrive nelle sue cifre omologanti di dominio esclusivamente politico ogni raltà qualitativamente diversa, assumendola in funzione di quel dominio stesso, che diventa perciò strumento e fine del suo esercizio. Una organizzazione di Potere mondiale, intieramente lasciata alla sovranità della volontà umana, avrebbe sicuramente carattere demoniaco, fagocitante per principio e per prassi, curate soltanto della propria egemonica espansione. Un Potere siffatto, emancipato razionalisticamente da ogni fondamento di fede trascendente la propria efficace potenza pratica, concepito alla stregua della proiezione politica della volontà di una soggettività teoretica assolutizzata, per il suo carattere puramente ed essenzialmente naturalistico, non potrebbe giammai essere rappresentativo di una visione del mondo escatologica di ispirazione cristiana. E pertanto dobbiamo ben penetrare nell‟intendimento di Dante, per poter distinguere tra il fine che egli intenzionalmente persegue di una stabilizzazione ecumenica del mondo, e gli strumenti concettuali da lui utilizzati in senso funzionale al disegno di una universale cristianizzazione dell‟umanità. Strumenti concettuali, legati ai limiti della finitezza della ragione umana, che però non devono inficiare, in cosiderazione della loro insufficienza, travisandolo, il senso spirituale della sua prospettiva cristiana, “coartando” la sua “scrittura” letterale in guisa simile a quella in cui soleva applicarsi, secondo il

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Poeta, l‟Acquasparta, e stigmatizzata nel Paradiso.746 Una considerazione preliminare in ogni caso va fatta, ossia che l‟intenzione di Dante non era quella di una erudita riabilitazione, in chiave più o meno teologica, di antiche teorie politiche, ma di “intemptatas ab aliis ostendere veritates”,747 ossia di proporre al mondo “verità” inusitate, originali, e dunque profetiche, sia pure nei termini di quell‟aristotelismo che, minacciando la cultura cristiana del tempo di nuovo naturalismo pagano, veniva anche da Dante rivisitato in chiave ermeneutica cristiana, come già dai maggiori teologi coevi, quali Bonaventura e, soprattutto, Tommaso, preoccupato di rendere la filosofia del Greco più conforme alla tradizione cristiana che storicamente fedele.748 In questo senso, anche Dante ricerca un dialogo con gli auctores della paganità classica per fruire della loro riconosciuta autorità morale e scientifica al fine di tracciare un confine di civiltà insuperabile da parte di qualsivoglia sconsiderata politica pontificia di egemonia universale tendente, come quelle di Bonifacio VIII e di Celestino V, a “indebolire l‟Impero che teneva lontano l‟Anticristo”, opponendosi in funzione katechontica alla dissoluzione dell‟ordine costituito. 749 Il concetto d‟ordine non è relativo alla sola forma giuridico-istituzionale della società cristiana, ma imprescindibilmente anche e contestualmente alla forma morale-spirituale della coscienza collettiva. Così come la Trinità, vien in mente di dire, è consustanziale in ogni suo atto da parte di ogni singla Persona, parimenti l‟opera umana, in virtù della duplice natura dell‟uomo, deve tener conto di ogni elemento della sua comune essenza originaria. Non potrebbe, dunque, sussistere la parte spirituale senza l‟ordine civile, né questo senza il fine della salvezza spirituale dell‟uomo eterno. se ciò è chiaro, emerge con nitidezza anche il senso della destinazione unitaria, mono-archica, della città terrena cristianamente ispirata; che non vuol dire ordinata gerarchicamente a favore di una delle due autorità, spirituale e secolare, ma in senso

746 747

Dante, Paradiso, XI, 37-39; XII, 124-126. Dante, Monarchia, Lib. I, I, 11, pag. 134.

748

Ved. H. de Lubac, La posterité spirituelle de Joachim de Flore, tr. it. cit., vol. I, pag. 173. 749 Ivi, pag. 171.

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convergente e armonico tra le due potestà, entrambe destinate da Dio a favore dell‟umanità, per cui il loro dissidio contravviene al disegno provvidenziale, a detrimento complessivo dell‟uomo. E come la sapienza giuridica romana aveva inserito nella sua l‟esperienza teoretica greca, inverandola in una superiore consapevolezza dell‟ordine politico cittadino in quello imperiale, così la sapienza cristiana doveva ereditare quella imperiale romana in vista della superiore creazione dell‟ordine cattolico, inverando spiritualmente l‟idea d‟Impero pagana nel cristiano ideale di Monarchia universale. Combattere, dunque, l‟ordine naturale, preesistente alla stessa Rivelazione, che aveva caratterizzato la cultura classica, significava minare la soglia minimale di quella cività antica sulla quale la Provvidenza aveva ritenuto fondare la stessa realtà evangelica facendovi nascere il Cristo redentore. Questa barbarie caotica, che il dissidio del papato contro l‟Impero e gli Stati sovrani particolari alimentava e favoriva, andava contro il disegno provvidenziale e pertanto andava denunciata e combattuta, a favore della potenza katechontica dell‟Imperatore cristiano. La posizione ghibellina di Dante va intesa non in senso puramente politico, favorevole all‟autonomia cittadina o statuale contro l‟ingerenza papale, come se fosse una posizione partigiana occasionalmente assunta per reversibili ragioni contingenti, ma va intesa nel più profondo significato, legato alla costituzione di un ordine mondiale garante della pace tra tutte le forze interne alla società cristiana. Non solo, dunque, pace come ordine politico-militare garantito dal Potere, ma pacificazione religiosa degli animi, in considerazione della comune destinazione spirituale di tutti gli uomini di fede cristiana. Ciò vuol dire che sia la Chiesa, che nel papa trova il suo referente autorevole più alto, ma che esprime una realtà varia e complessa di cui la funzone apostolica rappresenta l‟unità simbolica, che l‟Impero, struttura che nell‟Imperatore ha il suo vertice istituzionale ma che comprende in sé una molteplicità di realtà politiche minori che ne dipendono, sono enti mondani solo idealmente elementari ed unitarii, ma storicamente complessi, ognuno dei quali comprensivo di una articolazione particolare che costituisce la sua esperienza esistenziale concreta e non eliminabile. Sicché, da una parte, la Chiesa, una apostolica e cattolica, deve poter includere in sé anche le realtà morali e intellettuali cristiane, e quindi ecclesiali, non classificabili strettamente in senso ortodosso alla linea teologica della Curia e alla sua costituzione

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e direzione ecclesiastica; dall‟altra parte, l‟Impero, in considerazione della sua stessa estensione universale, non potrebbe non tener conto delle realtà locali particolari in cui si estende la sua comprensiva giurisdizione, evitando perciò di soffocarle, privandole della tradizionale fisionomia culturale e potenziale consistenza politica. In tal modo, sia la Chiesa che l‟Impero troverebbero il sostegno, e non l‟avversione, delle forze minori locali, che nel magistero spirituale e nella direzione politica troverebbero il loro motivo di solidarietà e di difesa comune, e da tale comunanza spirituale e di forze sorgerebbe la realtà unitaria della Monarchia, assommante il Potere politico dell‟Impero e il Governo morale della Chiesa. Non è difficile rinvenire in questo disegno teologico-politico avveniristico una eco profetica del “tempo sotto la spirituale intelligenza” annunciato da Gioachino da Fiore. A tale conato profetico si deve l‟annuncio dantesco delle cose inusitate all‟esordio del Monarchia, come la stessa chiusa del trattato, col suo accenno alla riverenza filiale dovuta dal Potere imperiale al Governo del padre spirituale. Entrambi dovrebbero, anziché contendersi mutualmente la rispettiva autorità, cooperare armoniosamente per realizzare in terra il fine comune impersonato da Cristo, che rappresenta l‟unità eternamente vivente di vita attiva e vita contemplativa. La coesistenza dei due elementi, naturale spirituale, impedisce il dominio di uno sull‟altro, come pure il passaggio progressivo di uno ad altro “stato” ontologico del mondo, per cui il Monarca dantesco non rappresenta una autorità terza rispetto al papa e all‟imperatore pagano, ma intende costituirsi come la loro unità concorde. Tale “concordantia ex veteribus et novis historiis” è una traslazione in chiave filosoficopolitica della “assignatio concordiae duorum testamentorum” della Expositio in Apocalypsim e, ancor di più, del Liber concordiae novi ac veteris testamenti di Gioachino, in cui similmente al “calabrese abate Gioacchino, di spirito profetico, dotato”,750 Dante procede a una “lettura di una storia „moderna‟ attraverso una storia antica”,751 [condotta con lo strumento della ragione e l‟ausilio della fede, secondo uno “spirito di intelligenza” in cui il senso simbolico-anagogico poggiava sempre su 750 751

Dante, Paradiso, XII, 139-141. H. de Lubac, Loc. cit., pag. 57.

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fondamenti letterali. L‟esito di tale rilettura della civiltà classicocristiana è la prefigurazione di una condizione futura dell‟umanità, ovvero, come direbbe Gioachino, di un “terzo stato”, in cui si giungerà alla organica stabilizzazione dell‟ordine politico e di quello religioso, dopo la frattura dell‟organicismo classico operata dalla predicazione cristiana, e il periodo di transizione dell‟età costantiniana. La nuova età, compiendo la pacificazione universale col superamento di ogni discordia tra Stato e Chiesa, realizzerà nel tempo lo spirito del “Vangelo eterno” dell‟Apocalisse di Giovanni dopo l‟ “ultimus Antichristus”, che però non abita nella “sinagoga dei superbi”, ma nella stessa Roma apostolica. I due capi, spirituale e secolare, della nuova Monarchia universale sono la trasfigurazione dei due angeli dell‟Apocalisse (14, 17-18) posti a salvaguardia, l‟uno, della dolcezza mosaica e, l‟altro, della vendetta di Elia.752 Rispetto alla rappresentazione “in termini generali e soprattutto negativi” della “pace e della verità” che regneranno per Gioachino “su tutta la terra”,753 la “giustizia perfetta” e “la libertà piena” preconizzate invece da Dante hanno una fisionomia positiva e mondana, rappresentata in chiave storico-politica moderna, dove il diritto terreno prende il posto della contemplazione mistica auspicata dagli “spirituali”. Il nuovo assetto monarchico universale prefigurato dal Fiorentino non è dunque quel “regno dello Spirito” annunciato da Giachino, e che avrebbe incontrato, se riproposto, gli anatemi teologici delle maggiori dottrine ortodosse del suo tempo, ma è un regno infra-storico che avrebbe compiuto però la storia cristiana, nel senso del processo logico della sua fenomenologia terrena. E proprio questo carattere mondano e storico della prospettiva escatologica dantesca, le dà una connotazione tipicamente ideologica, e dunque utopica, che sposta il “grande sabato” del “novissimum tempus” dal piano strettamente spirituale, entro il quale era stato concepito dalla tradizione teologica cristiana, al piano dell‟ordine giuridico che nella tradizione romanistica aveva trovato il suo punto di coagulo con l‟escatologia cristiana. Ed è la stessa prospettiva infra-storica del disegno teologico-politico dantesco a disegnare per primo il nuovo orizzonte della civiltà cristiana nei 752 753

H. de Lubac, Loc. cit., pagg. 65-66. Ivi, pag. 66.

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moderni termini politicistici che resteranno topici nella cultura secolarizzata dell‟Occidente, che all‟avvento messianico della “Parusia” sostituirà il rivoluzionario regno post-istorico della “libertà” dal Potere, ormai deprivato di ogni finalismo spiritualmente escatologico e quindi non più giustificato dalla fede religiosa che lo legittimava. Rispetto all‟ “agostinismo politico” professato dai teologi di Bonifacio VIII come l‟Acquasparta, tendente alla “temporalizzazione del potere spirituale, trasformato in un potere supertemporale”, 754 l‟ideologia dantesca si pone sul fronte opposto, dove il concetto di Chiesa, intesa come repubblica cristiana, viene sostituito con quello di Monarchia, intesa come regno cristologicamente unitario, anche se non univoco, della concordia dei due poteri-nature umani. Ma anche rispetto alla cristianità concepita dagli spirituali “in typo Mariae”, la visione imperiale dantesca conserva, nel suo tratto cristologico molto accentuato, una forza suggestiva tenacemente umanistica. L‟umanesimo, che costituisce l‟espressione secolaristica della posizione cristocentrica della fede cristiana, è l‟orizzonte culturale dell‟età moderna, in quanto età della ragione, ossia dominata dal principio razionalistico per cui soltanto il factum sia verum. E i facta sono il mondo, i prodotti dello homo faber. Essere in mundo significa “essere disponibile”. Un prodotto è “disponibile” in quanto suscettivo di modificazione, di alterazione, ossia oggetto della umana volontà. L‟Umanesimo è l‟esaltazione della voluntas come forza progettuale del mondo, della “storia” umana. Storicismo e umanesimo sono aspetti comuni allo stesso orizzonte di coscienza moderno. Il mondo umano è fatto dalle cose prodotte dall‟uomo, e il mondo-dellecose è quello in cui vige la ragione produttiva di esse, il fine mondano della vita umana. La realtà mondana è quella ripulita (munda) di ogni rivestimento metafisico ultraterreno, divino. La ragione delle cose del mondo umano è la politeia, così che la storia dell‟uomo, concepita come sviluppo temporale di vicende umane legate ai rapporti di produzione, è la narrazione di quei processi produttivi di cose, affrancati da ogni motivazione soggettiva. La ragione, come pensiero sistematico delle cose del mondo come enti oggettivi e reali, è l‟orizzonte di coscienza diverso da quello della fede,

754

H. de Lubac, Loc. cit., pag. 79.

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che è pensiero di ciò che non è nel mondo e che per il mondo è niente, non-ente. Il niente è l‟in-finito e l‟in-determinato che è nella soggettività che per la storia razionalistica è irrilevante, proprio in quanto in-visibile, in interiore homine. Non ha senso, ossia è privo di fine, un pensiero di ciò che non appare alla vista, che non è un fenomeno mondano. La mondanità ab-solutizzata da ogni relazione col mondo della in-apparenza è l‟area delle relazioni politiche, entro la quale l‟uomo cerca e lotta per ottenere un suo spazio di visibilità oggettiva. Lo spazio politico è quello delle relazioni oggettive, tra oggetti fisicamente apparenti e dotati di volontà, esseri volenti. La volontà dell‟uomo razionale e dunque politico si esprime con la parola (logos). Il pensiero logico è quello che disputa sulla ragione delle cose prodotte dall‟uomo. Storicismo, razionalismo e umanesimo sono aspetti della stessa visione del mondo come realtà del tempo dell‟uomo. L‟incarnazione dell‟Infinito divino nell‟uomo ha sacralizzato le vicende umane, in un duplice senso. Nel senso della riduzione identitaria della eterna esperienza umana a storia profana, cioè a relazioni politiche, ovvero nel senso della relativizzazione del mondo dell‟homo faber alla sua dimensione finita e transeunte. Il primo senso, appartiene precipuamente alla civiltà greca, che concepisce l‟attività politica come l‟orizzonte esistenziale della immortalità memorabile, alternativo a quello, ritenuto fantastico dalla ragione logica, della narrazione epica del Mito. Il secondo senso appartiene, invece, alla concezione spiritualistica cristiana, per i quale il mondo è penetrato dallo spirito (pneuma) divino che lo ha creato come Suo prodotto, e perciò indisponibile dall‟uomo. Rispetto all‟Impero di Roma, voluto da Dio per i Suoi disegni, la Monarchia cristiana sarebbe il prodotto consapevole dell‟uomo artifex mundi ispirato da Dio. Nel caso dell‟unificazione romana del mondo, l‟uomo è agito dalla volontà divina, pur credendo di servire il solo potere di Roma. Nel secondo caso, invece, l‟uomo sa di servire Dio operando con la propria cosciente volontà di potenza. La differenza è sostanziale. Infatti, nel primo caso, ogni rivolta a Dio sarebbe, in quanto inconsapevole, impossibile, per cui l‟uomo pagano, per quanto potente verso gli altri uomini, era soggiogato dal suo stesso destino di pedina involontaria della Provvidenza divina. Nell‟altro caso, invece, l‟adesione consapevole al disegno provvidenziale implica la fede nella giustezza della volontà divina, ossia la libertà di credere in Dio. Ciò

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vuol dire che l‟ignoranza di Dio è la condizione essenziale per servirLo, mentre la Sua conoscenza comporta il rischio di tradirLo. Dio, incarnandosi, introduce nella coscienza umana il senso del peccato e la libertà di redimerlo attraverso la libera fede in Lui. Il senso del peccato è la coscienza non soltanto della possibilità che l‟ente non sia l‟Essere, ma anche e soprattutto che l‟unità mondiale degli enti non sia tutto l‟Essere, in quanto l‟Essere stesso non è il Tutto, che è Dio. La conoscenza di Dio coincide dunque con la coscienza del Niente come realtà più comprensiva dell‟Essere, da cui questo è estratto. Ma tale maggiore comprensibilità, a sua volta, non è una unità maggiore di enti fenomenici, ossia il cosmo celeste, con gli astri che man mano che vengono scoperti aggiungono elementi a quella unità. In termini di vicende umane, l‟allargamento del Potere politico di Roma, non soltanto trovava limite nella realtà degli altri imperi o nazioni non sottomesse, ma, quand‟anche fosse esteso all‟intero globo terrestre, l‟Impero romano non avrebbe mai potuto coincidere con l‟esperienza dell‟umanità, e per la semplice ragione che anche esso è un prodotto umano, e come tale transeunte. Per superare questo limite naturalistico, Dante, e prima di lui Agostino, intese l‟Impero romano come esso stesso provvidenziale, e dunque legato al disegno profetico dell‟avvento del Cristo, nato appunto durante il dominio di Roma su gran parte del mondo. In tal modo, anche l‟esperienza imperiale potè essere eternizzata inscrivendola nel disegno escatologico divino, mondandola di ogni concreta determinazione religiosa originaria, allotria e pagana. Ma questa rielaborazione della mitologia pagana in chiave cristologica, non è altro che una razionalizzazione della storia umana narrata dal Mito, sicché la stessa teologia della storia cristiana è la riprensa in chiave universale del programma della filosofia greca di confutare il Mito attraverso il Logos, che nel caso cristiano è appunto quello del Cristo. In tal senso, l‟espansione universale del Cristianesimo, quale fede nel Logos cristico, coincide con la razionalizzazione del mondo, di cui la Monarchia dantesca è la forma imperiale perfetta, cioè non più pagana e dunque inconsapevolmente transitoria, ma consapevolmente cristiana e dunque razionalmente coerente col progetto provvidenziale, divinamente eterno. La realtà storica della Monarchia cristiana universale, costituita sull‟accordo del Papa con l‟Imperatore, non è altro che il riflesso temporale, sul piano politico-razionale, della mistica riconciliazione

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(Versoehnung) dell‟Uomo con Dio, del Figlio (rappresentato da Dante coll‟Imperatore) col Padre (il Papa), e del tempo storico con l‟eternità, dopo la estraneazione (Entausserung) dell‟età della Chiesa in lotta con l‟Impero. Essa inaugura l‟eone del , della vera storia dell‟Uomo come Storia escatologica della Sua immagine umana (), l‟età dell‟ “umanesimo integrale”, annunciato dai Salmi (CXXII, 1): “Ecce quam bonum et quam iocundum habitare fratres in unum”. 755 In questo “Stato mondiale monarchico”,756 governato da un solo principe secondo un unico principio comune a tutta l‟umanità, viene inclusa anche l‟esperienza storica della civiltà greca, il suo ideale razionalistico universale, realizzato dal Cristianesimo per mezzo della scienza giuridica romana. Erede ideale e storico dell‟Imperium Romanum fu il Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca. Il contrasto politico tra Stato e Chiesa, nella cultura medievale, poggiava sulle rispettive differenze circa la rilevanza assegnata alla vita terrena rispetto a quella spirituale, che costituiva anche la ragione della opposizione tra Cristianeimoe antichità. La conseguenza della svalutazione cristiana dello Stato a favore dell‟ordine divino predisposto per la salvezza dell‟uomo fu la “rivalutazione dell‟individuo in rapporto allo Stato”, che comportò la creazione di una sfera di diritto individuale libera dall‟influenza statuale, inizialmente soltanto di contenuto religioso, che però, aiutata dalla concezione giuridica germano-individualistica, si allargò in quella sfera di indistruttibili e innati diritti dell‟uomo, che il giusnaturalismo del‟età moderna proclamò . L‟influsso dell‟antichità sullo sviluppo dela dottrina medievale dello Stato si manifesta in primo luogo nell‟idea di una unitaria signoria mondiale abbracciante tutti i popoli, che il declinante impero romano aveva lasciato come eredità al Medioevo.757

La rilevanza assegnata alla persona individuale anche in campo politico, comportò da parte cattolica che, a fronte della tradizionale e classica preferenza del regime monarchico, questo venisse temperato dalla

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757

Cit. da Dante, Monarchia, Lib. I, XVI, 23-24, pag. 169. H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pag. 19. H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pag. 23.

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elezione popolare, che costituendo il popolo come deputato al giudizio sul buon governo regale, lo faceva depositario della sua legittimità, e quindi vox Dei. Se pertanto in materia spirituale era la Chiesa che aveva la prerogativa di interpretare, con l‟assistenza della Grazia, la ragione divina, in materia politica tale spettanza toccava al popolo, il cui giudizio invece nulla contava sulla vita della Chiesa, di cui pure faceva parte in quanto “corpo mistico” dei battezzati.758 L‟aspetto singolare di tale teoria politica tomista è, non tanto l‟indiretta potestà regale attribuita dal Papa, quanto la reggenza del Potere da parte del principe, che rende il suo esercizio un mandato fiduciario multiplo, sia da parte del Papa che da parte del popolo. In questi termini il Potere, e per esso lo Stato, “entra a servizio della Chiesa”, 759 anche se tale servizio non si esaurisce “completamente” in funzione del potere spirituale. Infatti, il rapporto che il Potere del principe cristiano stabilisce finalistcamente e mantiene operativamente col popolo, ne determina la sua natura profana, legata ai bisogni precipui della collettività in materia di sicurezza. Ciò comporta che, se per un verso il Potere, concorrendo alla “beatitdine celeste”, ha il compito di comandare quanto necessario a tal fine soteriologico e stabilito dall‟autorità spirituale, e dunque di essere al servizio della Chiesa, per altro verso lo stesso Potere ha il dovere di servire il popolo soccorrendne nei suoi bisogni materiali e terreni, non rientranti tra quelli spiritualmente garantiti dalla Chiesa. Ma proprio questo doppio mandato fiduciario consente al Potere di mediare tra le disinte istanze umane, quella volta alla salvezza, e quella volta alla sicurezza. In questo senso, la teoria tomista, volendo subordinare doppiamente il Potere regale alla Chiesa e al popolo, rende la sua duplice funzione il centro dell‟incontro reale tra la Chiesa e il popolo, esaltando così la centralità della vita politica nella società cristiana. Una

758

“Il fine della vita onesta che qui viviamo è la beatitudine celeste; perciò rientra nei compiti del re curare la vita onesta della moltitudine, perché concorre al conseguimento della beatitudine celeste, comandando le cose che portano alla beatitudine celeste e proibendo, per quanto è possibile, quelle che le sono contrarie. Quale sia poi la via della vera beatitudine, e quali siano le cose che la ostacolano, si conosce dalla legge divina, il cui insegnamento rientra nel compito dei sacerdoti”: S. Tommaso, De Regimine Principum, tr. it. cit., pag. 63. 759 H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pagg. 28-29.

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volta determinatasi in età moderna l‟eclisse dell‟autorità ecclesiastca sul Potere, il rapporto con la fonte di legittimazione democratica è diventato unico e decisivo, basandosi su di esso la teoria contrattualistica degli Stati nazionali.760 Il contrattualismo trasforma il rapporto originariamente fiduciario e mistico tra il Papa e l‟Imperatore, stabilito sull‟analogia della traslazione della missione evangelizzatrice da Cristo a Pietro, dall‟Apostolo ai suoi successori, in un rapporto formalizzato che vede come parti il gerente del Potere e il suo depositario. Stabilito che il depositum potestarile è la volontà del popolo, il concessionario del Potere sovrano lo deve interpretare secondandone i termini fiduciarii, la cui identità con il mandato divino ai Papi è solo supposta ma non necessaria ai fini della validità formale della traslatio potestatis di natura politica, sicché, venuta meno la fides religiosa, e dunque secolarizzato il rapporto fiduciario tra il principe e il suo popolo, la forma legale del rapporto diventa decisiva ai fini della sua legittimazione appunto politica. Il trionfo della relazione politica nella cultura sociale e religiosa dell‟Europa cristiana moderna, ha in questi presupposti teologici la sua origine. L‟aspetto più rilevante del predominio moderno del politico sul religioso è la radicale differenza tra il concetto di conversione, proprio della sfera mistica della fede, e quello di subiezione, che sostanzia il rapporto dei sudditi co Potere. Infatti, mentre la conversione è atto individuale e legato al libero convincimento della coscienza morale dell‟uomo, la subiezione è legata alla debolezza del sottomesso al più forte che lo domina. Il primo rapporto, soggettivo e libero, è reversibile venendo meno il sentimento morale della fede, mentre l‟altro rapporto è irriversibile e indipendente dalla volontà dei subordinati, la cui libertà cessa con la costituzione del patto politico. Aver introdotto una clausola rescissoria all‟interno del patto politico tra popolo e principe, rendendo quel patto collegato a un vincolo di libertà di carattere morale, lo ha destinato, sul versante del Potere, a una consacrazione morale originariamente di carattere religioso, e sul versante dei governati a una condizione di labilità rivoluzionaria. Con la conseguenza che il Potere secolare, consacrato dal consenso popolare, diventa assoluto e

760

H. Kelsen, Die Staatslehre des Dante Alighieri, tr. it. cit., pag. 34.

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superiorem non recognoscentem, similmente alla ratio emancipata dalla fides che, diventando fondamento di sé, trova in se stessa le sue ragioni finali. Quest‟esito nichilistico del Potere secolare, conseguente alla traslazione del senso teologico-politico originario, è dovuto essenzialmente alla ricezione delle teorie aristoteliche in ambito cristiano del Governo sociale come Potere politico, il cui fine etico di ogni cittadino è lo stesso di quello sociale di natura razionale-universale. Recepita così in ambito teologico la prospettiva naturalistica, la monarchia universale diventa la proiezione in termini di regime politico della reductio ad unum del molteplice empirico nell‟unità del concetto razionale. Per analogia, il regime monarchico che vige tra gli animali è preferibile anche tra gli uomini, sicché per Engelberto di Admont (1250ca.-1327), autore di una teoria cristiana della monarchia mondiale intitolata De ortu et fine imperii romani, anche “l‟interesse (bonum) dei singoli regni sta in rapporto con l‟interesse dell‟imperium universale, come l‟interesse privato con quello pubblico”. 761 Da queste premesse discende l‟ipotesi che fosse possibile costruire una felicitas gentium identificata alla beatitudo communis, ovvero una condizione di felicità collettiva, stabilita sulla base di fondamenti razionali, tradizionalmente identificata con la virtus. Tale status perfectionis humanae vitae era conseguibile solo attraverso al costituzione di un impero universale che, “mediante ordine subjectionis”, fosse in grado di affermare e imporre coattivamente lo jus naturale che precede ogni diritto positivo dei popoli particolari, il quale ha la stessa validità per tutte le nazioni, cristiane o pagane che siano. 762 Imperialismo politico e universalismo religioso vengono coniugati dal principium unitatis della metafisica greca, la cui vigenza in ambito teologico cristiano condiziona la stessa prospettiva politica, facendone il corrispettivo terreno dell‟amore che è la forza universale che “tutto move”. Questo “rispecchiamento” del divino nell‟umano è il senso profondo della traslazione secolaristica dei concetto teologici in ambito politico. La prospettiva teologico-politica unitaria, che costituisce il “supremo principio ordinatore” sia del macrocosmo che del microcosmo 761 762

H. Kelsen, Loc. cit.., pag. 42. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 44.

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medievale,763 ha alterato il significato più profondo del sentimento cristiano della carità verso la vicenda spirituale di ogni uomo singolo, che è ognuno a suo modo e sua possibilità imago Dei. Nella prospettiva universalistica, propria della logica del razionalismo naturalistico greco, la astratta considerazione dell‟unità ideale dell‟umanità e della formazione politica statuale provoca la perdita dell‟elemento più innovativo della visione del mondo cristiana, appunto la singolarità dell‟esperienza umana, che consente al sentimento caritatevole di manifestarsi nella sua concretezza sia umana che teologale. La polemica cristica contro le leggi e l‟atteggiamento legalistico farisaico, sottintendeva la differenza tra un approccio astratto ai comandamenti di Dio e un approccio concreto alla considerazione divina attraverso l‟amore verso le Sue creature. La differenza radicale dei due approcci viene annullata dallo strumentale apparato teoretico mutuato dalla tradizione filosofica greca, che produce una rappresentazione dell‟unità cristiana del mondo in termini di sudditanza politica al Potere divino o imperiale, concependo pertanto il Regno di Cristo come un regnum concorrente e rivale a quello di Cesare. Nel campo etico, infatti, l‟analogia naturalistica tra mondo materiale e mondo morale crea l‟idea che l‟unità sia “la radice dell‟esistenza del bene”, così come “l‟esistenza della molteplicità sia la sorgente dell‟esistenza del male”, pertanto, in campo politico, “lotta e discordia sono l‟espressione della molteplicità, mentre l‟unità significa pace, concordia e tranquillità”.764 La “prima causa omnium”, cioè Dio, in cui risiede per Tommaso anche il “summum bonum”, diventa, nella prospettiva razionalistica in cui si muove la teologia cristiana del tempo, il sommo Legislatore, fornito di una Sua volontà, per cui, secondo

763

H. Kelsen, Loc. cit., pag. 48.

764

H. Kelsen, Loc. cit., pag. 50. “Ens enim natura praecedit unum, unum vero bonum; maxime enim ens maxime est unum, et maxime unum est maxime bonum; et quanto aliquid a maxime ente elogantur tanto et ad esse unum, et per consequens ad esse bonum”, per cui “omnis concordia dependet ab unitate que est in voluntatibus; genus humanum optime se habens est quedam concordia; nam, sicut unus homo optime se habens et quantum ad animam et quantum ad corpus est concordia quedam, et similiter domus, civitas et regnum, sic totus genus humanum; ergo genus humanum optime se habens ab unitate que est in voluntatibus dependet”: Dante, Monarchia, I, XV, 1-6, 35-42, pagg. 166 e 168.

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Agostino, “lex aeterna est ratio divina vel voluntas Dei” (Contra Faustum), e secondo Tommaso “est aliqua lex aeterna, ratio videlicet gubernativa totius universi in mente divina existens” (Summa Theologia). Ciò che comporta che la Natura divenga lo strumento della volontà di Dio, così come la logica, che è la tecnica per conoscere la ratio mundi, è lo strumento concettuale per conoscere Dio. Razionalismo e naturalismo sono intimanente legati come la conoscenza al suo ogggetto, per cui, stabilito che la lex naturalis sia il modello dello jus humanum, anche Dante fa della legge naturale, e quindi della ratio che la costituisce, il fondamento dello Stato, stabilendo che il diritto sia “realis et personalis hominis ad hominem proportio, quae servata hominum servat societatem, et corrupta corrumpit”. 765 Il che vuol dire che i rapporti inter-personali e quelli sociali sono omologati a quelli reali, ossia legati a una condizione oggettiva e naturale, che spinge sia la natura (inconsciamente) che lo spirito (consapevolmente) verso la loro causa prima, ovvero Dio, che è il Bene supremo e il Legislatore dell‟universo e del mondo umano. La differenza tra il principio polemico, che regola i rapporti naturali tra gli uomini, compresi quelli politici, e il principio caritativo, che inaugura una nuova consapevolezza della esistenza umana, viene nella visione teologico-naturalistica medievale del tutto annullata, a favore inevitabilmente di una cosmologia e antropologia che trovano nel modello classico il suo paradigma sapienziale, anziché la sua “follia”. E dunque il Male che deriva dai rapporti naturali diventa, nella prospettiva cristologica medievale, “privatio boni” (Tommaso) o “amor perversus, inordinatus” (Agostino), ossia inserito nella condizione di bene alla quale comunque appartiene in quanto previsto da Dio. Questa prospettiva teologica comprensiva, se ha il merito di assumere l‟alterità del male all‟interno del processo finalistico benigno della Provvidenza, rimuove del tutto la questione della conversione (metanoia) dei cuori, ossia del passaggio dal piano della finitezza, in cui si muovono le vicende umane, a quello dell‟eternità, in cui ha senso la rinuncia a partecipare alla lotta biologica per la sopravvivenza del più forte, che caratterizza anche la lotta politica tra gli uomini, ossia la vita

765

Cit. da H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 52-54.

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nel regno di Cesare. Se cristianizzare il regno di Cesare avesse voluto dire sosttuire al principe pagano un principe cristiano, allora non avrebbe avuto senso la passione di Cristo quale principe di un “altro” Regno, non concorrente con quello di Cesare, dove vige la legge della salvezza, ossia del Governo della gustizia, e non quella del dominio sul più debole, ossia del Potere del diritto. Rispetto al Governo divino, o ispirato da Dio, il Potere politico si rivolge dunque erga omnes, a prescindere cioè dalla singolarità dei destinatari delle norme ordinamentali del diritto sovrano, per cui, sul terreno della astratta vigenza del Potere, è irrilevante la condizione personale del soggetto passivo della legge, la quale si applica come se gli uomini fossero tutti uguali di fronte ad essa. La supposizione dell‟uguaglianza, che è una fictio juris essenziale alla efficienza dello stesso comando sovrano, diventa condizione reale all‟interno della rappresentazione giuridica della realtà, la quale è a sua volta la proiezione dei rapporti formali stabiliti dal topos politico, ossia dalla convenzione razionalistica per cui i membri sociali perdono la loro specificità concreta per divenire soggetti paritari nell‟agone dei rapporti politici. Ora, la universalizzazione di tali rapporti in senso imperiale deve poter astrarre dalle condizioni concrete di tutti gli uomini sottoposti al Potere monarchico, ossia deve poter esercitare una forza coattiva proporzionata al raggio di azione della volontà dell‟Imperatore, che deve sottomettere ogni altra forza oppositiva. E qui sorge un ulteriore problema rispetto all‟analogia col potere divino. Se infatti la potenza divina avesse voluto costringere anche gli uomini a servire ai suoi fini, non li avrebbe forniti di libero arbitrio, né avrebbe richiesto la loro disponibilità ad amare il prossimo anziché utilizzarlo a fini di conservazione di sé. Come non ha senso salvare un animale, sprovvisto di libero arbitrio, dal proprio destino biologico, così non ha senso destinare l‟uomo, che è provvisto del senso della libertà morale, a un destino meramente biologico. Eppure è proprio a questa reductio che tende il Potere uniformante del diritto universale, il quale, rispetto alla storia personale dell‟uomo, può risultare moralmente una summa iniuria, così come fu la crocefissione di Gesù, la cui alterità morale rispetto al diritto romano non poteva essere considerata dalla giustizia omologatrice vigente erga omnes. Di fronte alla singolarità, che è eccezionale per il diritto ma che che è invece normale per la giustizia divina, il Potere o deve ammettere la sua

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ingiustizia, ovvero la sua impotenza morale, riconoscendo l‟autorità di un altro potere, che appunto ha giurisdizione morale, ovvero deve retrocedere dall‟esercizio della sua volontà iniqua, ammetterendo la sua impotenza volitiva. In ogni caso, tale riconoscimento implica l‟ammissione della propria limitazione, della propria falsa universalità, e dunque della impossibilità che essa sia coincidente con il Tutto, ossia con quella stessa umanità unitaria sulla quale esso vorrebe monarchicamente dominare. L‟evento cristico, manifestando alla coscienza dell‟uomo tale impossibilità, lo salva dal Potere di Cesare. Non contrapponendogli una resistenza di altro omologo Potere, ma de-finendolo come esperienza naturale, inferior rispetto alla coscienza spirituale dell‟uomo, creatura divina e non solo biologica della Natura. E la diversità, così come non si può sussumere sotto una stessa categoria ideale, non si può sottomettere al Potere politico. Da qui la opportunità morale di un Governo spirituale (justitia) dell‟uomo, che tenga conto imprescindibilmente della sua libertà, che è l‟essenza del fondamento morale dell‟uomo spirituale, ma che costituisce l‟oggetto polemico della statuizione normativa di ogni ordinamento legale, che si fonda appunto sul Potere costrittivo della volontà. La “pace” di cui parla Dante può essere garantita dall‟Impero non solo nei termini di una regolamentazione giuridica dei rapporti sociali finalizzata alla preservazione dell‟assetto politico (ordinatur ad felicitatem), cioè a uno scopo terreno, economico ed eudemonistico, sia pure esteso a un  universale, comprensivo di tutta l‟umanità. Occorre a complemento dell‟ordine civile la disposizione “secondo lo vero” di una “umana civilitade”, appunto quella justitia che non può originarsi spontaneamente, per natura, ma deve procacciarsi, come abbiamo visto, con “l‟aiutorio d‟alcuno” che sia riuscito a superare la dimensione naturale raggiungendo l‟equilibrio spirituale. In tal senso, la “forza” politica del Potere statale è “cagione instrumentale” della volontà divina, che ne è la “fons pietatis”, trasformatrice dell‟impero pagano in un “pium imperium”, la Monarchia, fondata, al pari della Chiesa, “su una rivelazione divina”. 766 Che, però, il fine della natura umana, di costituirsi in società politica, non sia sufficiente a conseguire la virtus in senso soteriologico, rende la “pax” politica una condizione

766

H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 68-70.

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indispensabile, ma non sufficiente, a conseguire la “salus consociatae multitudinis”, secondo l‟espressione di Tommaso, 767 per la quale necessita immancabilmente il “bonum”, cioè l‟idea del bene, la justitia. E dunque, accanto alla forza materiale del Potere, per conseguire il senso vero di quella “pax”, abbisogna l‟opera del Governo giusto, che destini la “tranquillitas in qua et populi proficiunt et utilitas gentium custoditur”,768 a un fine escatologico, meta-politico, che non è il mero  aristotelico, ma quello stato di “perfezione” tipicamente cristiano consistente nella “beatitudime vitae aeternae”.769 Da qui la necessità di due auctoritates, relative alla “duplex vita” in cui è immerso l‟esistenza umana: una auctroritas politica, di natura eticopolitica, costituita dal Potere, e l‟altra spirituale, di natura misticopolitica, costituita dal Governo. Il problema che ne nasce è come il Potere, che “mediante ordine subjectionis” si adopera per la “salus et felicutas omnium”, si rapporti al Governo, il cui ufficio è di commisurare lo “status perfectionis humanae vitae” alla condizione di chi è “perfectus”, dalla quale il “minus perfecti non possit fieri perfectus”. Orbene, questa pur necessaria “subalternatio secundum gradum” del meno dotato al più dotato, non può essere giuridicizzata alla stregua di un rapporto obbligazionario di subalternità legale a un dominus, originato da un contratto. Tale dipendenza infatti è di natura volontaristica, e può essere stabilita solo sul fondamento di un rapporto carismatico, che presume l‟esistenza di una comune fede tra le parti in rapporto mistico, che non è richiesta in alcun modo per la costituzione e la efficacia del rapporto giuridico, compreso il sinallagma politico. Se infatti il pactum civilis suppone la dazione della sovranità popolare al Potere, in cambio della sua protezione, il rapporto carismatico è del tutto libero, e sussiste solo in quanto l‟autorità carismatica venga riconosciuta da chi volontariamente vi si sottoponga. Inoltre, se la ratio del rapporto giuridico è formalmente nel mutuo vantaggio delle parti contraenti, la destinazione dell‟esercizio del Governo trova la sua

767

Tommaso, De Regimine Principum, I, 2, tr. it. cit., pag. 19.

768

Marsilio da Padova, Introduzione al Defensor pacis, cit. da H. Kelsen, Loc. cit., pag. 75. 769 H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 79-80.

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legittimazione morale nel servizio stesso, e dunque nel vantaggio altrui e non proprio. E in virtù di questo fine altruistico l‟auctoritas del Governo è morale, concernente “una sfera libera dallo Stato, in cui l‟autorità dello Stato non ha per nulla giuridicamente potere sui singoli”.770 Ed è proprio l‟ammissione di questa zona franca dal Potere politico, altrimenti totalitario, che si definisce teoricamente, in ambito teologico-politico cristiano, la forma ideale di regime caratterizzante la civiltà liberale dell‟Europa cristiana. Rispetto allo Stato antico, la cui unità era stabilita dal Potere in quanto era stata logicamente rimossa ogni altra autorità morale, la concezione dello Stato giuridico cattolica reintroduce il fondamento morale dellautorità politica, affiancado al Potere l‟autorevolezza carismatica del Governo spirituale della Chiesa. Il contrasto tra le due auctoritates nasce dal presupposto di entrambe che ognuna godesse della prerogativa di esercitarsi universalmente, per cui sia lo Stato che la Chiesa insistevano sulla stessa collettività, considerata rispettivamente come una entità politica, ovvero come una spirituale. Ma, accogliendo la teoria tomistica del vincolo regale al popolo sovrano, ai fini eudemonistici della sussistenza dello Stato come corpo politico, il riconoscimento morale della Chiesa cattolica perdette ogni efficacia pratica, sicché in prosieguo, con la frantumazione dell‟unità imperiale e la costituzione degli Stati nazionali, la sua giurisdizione morale andò restringendosi al solo apparato ecclesiastico, mentre andò affermandosi in sua vece il consenso democratico al Potere. L‟ascendenza morale della Chiesa, e così il suo Governo spirituale, perdettero progressivamente di autorità a seguito della scomposizione dell‟Impero, in conseguenza cioè della estinzione del concetto romano-cattolico di Imperium a favore del concetto greco di Potere politico, che presupponeva costitutivamente l‟assenza dallo Stato di un fondamento pre-razionale, morale e tradizionale. Ed è appunto l‟identità del Potere politico col Governo (già religiosamente sancito da una autorità morale, e poi sostituito col consenso democratico, parlamentare o plebiscitario) a produrre il moderno Stato assolutistico di diritto, antesignano dello Stato totalitario. D‟altro canto, l‟identità della Chiesa col corpo mistico cristiano, finì per mal conciliare l‟aspetto volontaristico della fede

770

H. Kelsen, Loc. cit., pag. 84.

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singolare con l‟appartenenza formale a una confessione religiosa, sicché la giuridicizzazione dei rapporti col Potere nazionale finì per restringersi al rapporto tra il solo ente ecclesiastico e lo Stato politico, al quale furono abbandonate le sorti mondane del popolo di Dio. All‟origine del contrasto tra Chiesa e Stato ci fu dunque il principio universalistico della potestà, conteso tra i due poteri. Ma l‟esito infausto per la Chiesa fu segnato dal pregiudizio naturalistico, condiviso come abbiamo veduto anche da Dante, secondo il quale la “potentia sive virtus intellectiva” per essere compiutamente conseguita necessita della realtà della “moltitudine del genere umano”, cioè della società razionalmente istituita, per cui solo nello Stato l‟uomo singolo può raggiungere il suo fine più alto. Finquando lo Stato coincide con l‟Imperium sullo stesso genere umano civilizzato in senso cristiano, la “umana civilitade” consegue nel contempo la “vita felice” terrena e il fine soteriologico spirituale. Ma quando lo Stato prende a fondarsi sul solo Potere della forza politica, e quindi sul consenso popolare, il principio del “cuius regio, eius religio” capovolge la gerarchia delle fonti della legittimità, mettendo al primo posto la sovranità secolare, che divenne, in virtù di ciò che era stata la teoria del diretto mandato divino, superiorem non recognoscentem.771 L‟idea che la perfezione umana sia un prodotto sociale, anche nella rielaborazione cristiana adottata da Dante, è una visione naturalistica, che assume il colettivo come l‟unica realtà antropologica dell‟uomo. Se ciò fosse vero, non si comprenderebbe il bisogno di costituire una ekklesìa di fedeli, la quale differisce dalla comunità sociale in quanto, fondata sulla la libera adesione dei membri, deve servire alla salvezza di ognuno di essi. Questo fine soteriolgico non può essere quello dello Stato, il cui scopo è quello di mantenere l‟unità politica del gruppo e di rafforzarla a scapito di altre consimili. La salvezza dell‟anima individuale non può che essere salvezza singolare, e non collettiva, cioè politica. A questo scopo

771

E‟ appena il caso di aggiungere che la critica delle opposizioni democratiche ai regimi totalitarii si appuntò sulla titolarità della sovranità, che risiederebbe nel popolo anziché nel principe assolutista, ma non si appuntò sulla esclusività del Potere. Ma proprio l‟esautorazione del Governo morale produce la concezione politicistica totalitaria, entro la quale si inscrive a pieno titolo ogni frma di democrazia moderna fautrice del Potere sovrano al popolo.

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economico è predisposto lo Stato, mentre la Chiesa tende alla salvezza dei singoli uomini, in quanto creature divine, nn in quanto membri di un consorzio politico e statuale. La corrispondenza simmetrica tra Chiesa e Impero si infrange contro la logica particolaristica degli Stati nazionali, che dunque secolarizzano la propria identità storica facendo del Potere lo stesso scopo del Governo. In tal senso, la preservazione dell‟Impero universale era nell‟interesse stesso della missione della Chiesa, così come la costituzione di una Monarchia cristiana era interesse comune alle due distinte ma collegate autorità di origine divina. Ma un‟altra, decisiva, differenza insorge contro le pretese uniformatrici della politica razionalistica tra le due auctoritates, legata alla impossibilità di rendere “virtuosi” i fedeli, i quali, a differenza dei “subditi” dal Potere, non possono essere costretti dal buon Governo a essere migliori, ma solo dalla libera scelta morale, a seguito non di una sottomissione ma bensì di una conversione. La pretesa avanzata dal Potere statuale di convertire i sudditi al credo ideologico posto a fondamento etico dello Stato attraverso una costrittiva quanto estrinseca e legalistica unitas in voluntatibus, costituisce una indebilita identificazione dell‟istanza morale, per definizione libera e volontaria, con il dovere giuridico di sottomettersi all‟autorità politica, sicché anche la classica differenza tra le costituzioni politiche e le loro relative degenerazioni ( perde di significato essenziale rispetto alla vera differenza tra i regimi liberali, che ammettono il Governo morale come correttivo carismatico al Potere politico, e i regimi illiberali, che assommano nelle stesse funzioni politiche il Potere al Governo, sia pure istituzionalmente distinti. Da quanto detto supra, le teorie politiche, e le relative teologie da cui originariamente promanano, che, come quella ricordata di S. Tommaso, affermano la fonte del Potere risiedere nel popolo, supposto depositario della sovranità, si dicono “democratiche”, mentre invece le teorie che, come quella di tertulliano ripresa da Dante, affermano l‟origine divina del Potere,772 stabilendo così una sua teleologica complementarietà col

772

“L‟imperatore è grande proprio perché è subordinato al cielo: infatti, anche egli appartiene a Colui al quale appartiene il cielo e qualsiasi altra creatura. Egli è imperatore grazie a colui in ragione del quale è anche uomo, prima che imperatore;

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Governo morale dell‟autorità carismatica della Chiesa, esercitata al fine di affermare la libertà della coscienza singolare dei cittadini, si dicono “liberali”. Da questo punto di vista essenziale, conta molto più la previsione, interna alla struttura istituzionale dello Stato, dell‟autorità del Governo morale, che l‟articolazione bilanciata degli organi del solo Potere politico. Solo infatti il duplex ordo delle due diverse ma armoniche auctoritates può garantire l‟unica forma ordinis che sia anche totalis, e che Dante indica nella Monarchia, che costituisce dunque l‟ordo totalis ‟, in quanto “genus humanum maxime Deo adsimilatur quando maxime est unum”.773 L‟Imperatore, in quanto sommo rappresentante di tale unità e in quanto “minister omnium”, 774 rappresenta un “ufficio, che comporta non soltanto diritti ma anche doveri”.775 Una sorta di Cancelleria imperiale di cui egli sia il rappresentante unitario. Ma ciò che più conta non è tanto l‟articolazione interna di tale Potere, ma che l‟ “officio imperiale” sia “da Dio a certo termine finito”.776 Cioè, in quanto opera umana, anche il sommo ufficio dell‟Imperatore deve trovare un limite, non solo nel diritto, anch‟esso umano,777 ma primieramente nella volontà divina, espressa nelle Scritture e interpretata dall‟autorità spirituale. Infatti, il Potere che pure si auto-regolamentasse, comunque non sarebbe soggetto che a se stesso. La caratteristca del Potere monarchico totale, rispetto al mero Potere imperiale classico, quello romano, è di servire consapevolmente il disegno divino, il quale non coincide con il “bene comune”, inteso come eudemonistica felicitas terrena, ma consiste nella salus animae. Se Dio avesse inteso incaricare il Potere di tale fine soteriologico, non avrebbe fondato la Chiesa di Pietro, alla quale figura morale il potere di Cesare

il suo potere gli viene dalla stessa origine del suo spirito”: Tertulliano, Apologeticus Adversus Gentes pro Christianis, XXX, 1-4. 773 774 775 776

Dante, Monarchia, I, VIII, 12-13, pag. 150. Ved. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 95. Dante, Monarchia, I, XII, 54, pag. 160. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 106. Dante, Convivio, libro IV, IX, 2.

777

Come afferma Kelsen, “a Dante tutta la pienezza del potere dell‟imperium appare vincolata giuridicamente”: H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 110-111.

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deve inchinarsi in devozione filiale. 778 La salvezza non può essere genericamente umana, ossia non riguarda la sopravvivenza della specie o il ben essere di una collettività, sia pure universale, ma inerisce l‟anima individuale dell‟uomo singolare. Un potere imperiale, che non sia la semplice riedizione di quello pagano, ma si sostanzi della destinazione divina secondo la fede cristiana, deve poter includere nella sua costituzione morarchica il Governo spirituale, che il papa esercita in quanto rappresentante della Chiesa di Cristo, di cui la collettività è il corpo mistico. In tal senso, del comprensivo Imperium monarchico, il Potere rappresenta la sola jurisdictio, che “omnem temporalem jurisdictionem ambito suo comprehendens”, ossia l‟autorità legislativa e giudisdizionale, che riguarda il solo ambito degli affari temporali regolati dalla legge.779 Ma l‟Imperium non è solo questo Potere. Esso, che unitate Monarchiae consistente, “sta al di sopra dell‟imperatore” e che pertanto “non coincide con la persona del monarca”,780 comprende anche il Governo spirituale, il quale può, nel caso del tralignamento del principe cristiano dai suoi doveri, esercitare il suo jus resistendi. Perciò solo, “la somma di queste qualità dell‟imperium”, non consente di equipararlo, come invece vorrebbe Kelsen, a quanto “la moderna dottrina dello Stato indica come sovranità”.781 Il concetto che rende l‟idea che Dante ha dell‟Imperium monarchico è invece quello della “concordia” tra le due distinte e diverse auctoritates imperiali del Potere e del Governo. In questo senso precipuo ha ragione Erikson a rifiutare la identificazione del concetto teologico di Trinità con quello secolare di Potere politico, ma è pur vero, come sostenuto da Schmitt, che storicamente tale traslazione concettuale è interventuta,e ciò a seguito della concezione razionalistica dell‟universalità assimilata dalla teologia cattolica. Eppure Dante è chiaro nel precisare che il Potere temporale non deriva la sua “virtus” dal potere spirituale, in quanto essa consiste nella sua propria “auctoritas”, ossia nella funzione del Potere stesso, il quale

778 779 780 781

Dante, Monarchia, III, XV, 83-84, pag. 275. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 113. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 115. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 116. Ved. supra.

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nondimeno, riceve dal potere spirituale infuso dal Papa la luce della grazia, “ut virtuosius operetur”,782 cioè affinché il suo ufficio politico (la jurisdictio nel senso lato chiarito) venisse svolto in considerazione del fine trascendente testimoniato dall‟autorità ecclesiale. La “concordia” è dunque l‟atteggiamento congiunto delle due auctoritates convergente, sia pure con mezzi diversi, allo stesso fine comune, imposto dalla duplice natura dell‟uomo. A questo punto possiamo en intendere tale duplicità in relazione alle diverse sia pur congiunte funzioni del Potere e del Govero. Il primo, predisposto alla statuizione giuridica avente ad oggetto la totalità del popolo di Dio in quanto ente socio-politico, abbisognevole di una organizzazione giuridicoistituzionale che ne salvaguardi l‟esistenza biologica stessa; il secondo, invece, dedito alla amministrazione della giustizia, la quale tenga conto del caso singolare costituito da ogni vicenda umana, avente in sé una sua verità. Ciò vuol dire che, se la virtù civica consiste nella predisposizione da parte del Potere di una regolamentazione generale e astratta dei comportamenti sociali degli uomini, in quanto con-viventi all‟interno di uno stesso gruppo socializzato e politicamente strutturato secondo norme di diritto comune valevoli erga omnes, la virtù morale consiste nel governo della forza sociale, e dunque nella moderazione dei potenti nei confronti dei più deboli, del “prossimo”. Se la politeia greca regolamentava la giustizia retributiva mercé l‟isonomia, la quale astraendo dalle concrete situazioni personali dei cittadini li considerava uguali di fronte al Potere, la charitas cristana assumeva come rilevante proprio la condizione personale dei singoli cittadini, adattando ad essa la relativa condizione sociale. In materia di affari di Stato, laddove il Potere politico tende, per sua stessa natura conservativa, a stabilire con gli altri organismi politici un rapporto conflittuale, la ratio del Governo è di considerare anche le entità collettive minori come comunità umane da preservare di fronte alla forza soverchiante del Potere, e non già solo come enti politici avversari e da sottomettere. In altri termini, il Governo morale è quello che considera rilevante nel rapporto tra le parti la alterità rispetto alla ipseità, ovvero la concreta prossimità, che è propria dell‟atteggiamento

782

Dante, Monarchia, III, IV, 91-95, pag. 239. Ved. H. Kelsen, Loc. cit., pag. 123.

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caritatevole, rispetto alla astratta generalità, propria della previsione di legge. La diversa prospettiva in cui si pongono, rispettivamente, il Potere politico e il Governo morale, rispecchia il diverso fondamento noetico delle relative posizioni. Quello del Potere è un fondamento razionale che considera valida, e dunque necessaria, la statuizione di diritto logicamente universale, mentre il fondamento proprio del Governo è di carattere sentimentale, nel senso che privilegia la considerazione del cimento dell‟uomo in rapporto al destino che gli è toccato in sorte. Nel caso del Potere, il fondamento veritativo è di essenza teoretica, la cui unità, come ha ben considerato Hegel, è vuota senza il molteplice, cioè senza la collettività del gruppo sociale. Viceversa, l‟unità considerata dal punto di vista della sensibilità morale, non è quella stabilita dalla legge, ma è l‟amore, che agisce conformemente al principio della libera determinazione della responsabilità pratica (liberum arbitrium). Infatti, “l‟attività pratica agisce liberamente, senza l‟unione di un opposto e senza essere da questo determinata”, e pertanto, come spiega Hegel, “l‟unità pratica viene affermata con il togliere interamente l‟opposto”,783 ossia l‟unità attraverso l‟amore del prossimo, si consegue nella diversa considerazione dell‟altro rispetto alla dicotomia politica amico-nemico, discriminato grazie alla logica esclusivistica del verofalso. Se nel rapporto logico-politico l‟altro è inteso come ni-ente opposto all‟Essere del Potere, nel rapporto caritatevole, l‟altro è inteso come prossimo, e dunque come tale considerabile nella sua umana totalità: di membro sociale e di singolarità spirituale. A seguito di tale totale considerazione dell‟esistenza umana, l‟azione di Governo non può essere meramente politico-razionale, come quella propria del Potere, ma deve contemperare il senso universale del diritto con il sentimento mistico-morale di giustizia verso la considerazione della singolarità del caso umano concreto. E se l‟unità politica conduce all‟Impero, l‟unità spirituale conduce alla Chiesa; da qui la necessità di una “concordia” tra l‟azione dell‟Imperatore e quella del Papa, i quali rappresentano, ciascuno a suo modo, le due nature dell‟uomo, la cui unità concorde conduce a Dio, del Quale sia l‟Imperatore che il Papa sono vicarii.

783

Hegel, Frammento di sistema, tr. it. cit., pag. 525.

382


La Monarchia, a sua volta, costituendo l‟unità organica di tale nature, e delle relative autorità che rappresentano, si propone come la realizzazione della cornice topografica entro la quale si manifesta e si sviluppa la consapevole esperienza storica dell‟uomo cristiano. In tal senso, la Monarchia cristiana prefigura la Storia stessa della cristianità sotto l‟aspetto mistico-politico. Sicuramente “è il Cristianesimo che fonda con le sue tendenze cosmopolitiche conquistatrici del mondo, l‟idea di una organizzazione universale dell‟umanità”,784 ma è altrettanto vero che l‟unità mondiale ottenuta attraverso la fede in un unico Dio è qualcosa di qualitativamente diverso da una unità politica otteuta a seguito di una conquista militare, per cui sia il concetto giuridico romano di “genus humanum”, che il “principium unitatis” ereditato dalle visioni filosofiche cosmopolitiche stoiche e ciniche, non raggiungono mai, come invece la concezione cristiana, quella concretezza e attenzione verso il destino singolare degli uomini che inducono a piegare in senso umanistico le strutture istituzionali del Potere allestite per il dominio dell‟uomo sull‟uomo. Proprio la umanistica reductio ad unum cristiana poteva far convergere su una idea mistica dell‟ uomo l‟istanza di un Potere universale legittimato da un carisma divino, e dunque sostenuto da un Governo spirituale. Questo duplice presupposto deve fare intendere come il progetto di società cristiana propugnato da Dante non fosse riducibile a una mera costituzione di un impero politico universale, e neppure a uno Stato mondiale ecclesiastico, essendo l‟uno concorrente all‟altro nella titolarità del primato unitario. L‟originalità del progetto monarchico di Dante consiste nel superamento di ogni concezione medievale basata, come quella tomista, sulla translatio imperii, a favore di una prospettiva che, per la sua natura cristiana, eludeva in radice ogni possibile contenzioso di carattere nazionalitario, come pure di supremazia politico-militare tra le diverse nazioni europee. Infatti, l‟idea di una Monarchia mistico-politica aveva il suo punto di forza sul fondamento di una antropologia che, come quella cristiana, concepiva l‟uomo come un fine trascendente, e dunque la storia umana come una vicenda escatologica, più complessa e comprensiva di un processo politico, sia pure quello del grandioso

784

H. Kelsen, Loc. cit., pag. 145.

383


Impero romano.785 La “romanità” dantesca era quella della civiltà giuridica786 e della potenza militare, ma la Roma di Dante è quella cristiana dell‟unità religiosa di tutte le genti. 787 La diversità tra le due prospettive non era di ordine geografico, tale che l‟impero storico fosse

785

In tal senso, è radicalmente sbagliata l‟affermazione che “la concezione della identità della nuova monarchia con quella antica era in Dante così naturale da non fargli pensare affatto ad una particolare giustificazione di essa”, considerando che “la continuità temporale dela sua Monarchia con l‟impero mondiale romano è per lui un fatto ben saldo” e dunque “Dante identifica la sua Monarchia storicamente con l‟imperium romanum”: H. Kelsen, Loc. cit., pagg. 150 e 151. Il progetto monarchico di Dante era completamente diverso dall‟Imperium romanum, se è vero che “la monarchia universale di Dante è di origine divina”: Ivi, pag. 153. 786 La “rinascita del diritto romano” risale al sec. XII, durante il quale, in occasione delle lotte per le investiture, si sviluppò una dotta giurisprudenza col relativo sviluppo del metodo scientifico, da cui nascerà quello storico-filologico moderno e che diede impulso a un diritto secolare di carattere universale. In ambito canonistico, occorre attendere, nella stessa Bologna dove Irnerio insegnava diritto romano, il Decretum Graziani del 1140 per avere un corpus juris di carattere universale, decisamente superatore delle raccolte di diritto ecclesiastico e che diede impulso alla rinascita romanistica, a sua volta influenzandola. Ved. E.H. Kantorowicz, Kingship under the Impact of Scientific Jurisprudence (1961), tr. it. in I misteri dello Stato, cit. pagg. 37 sgg. 787 L‟istanza unitaria, in campo teoretico, era schiettamente metafisica e teologica, mentre la tendenza alla separazione scientifica delle varie branche rispecchia una esigenza critica legata alla diatriba con il milieu ecclesiastico, contro il quale il metodo filosofico costituiva uno strumento polemico per contrastare le posizioni teologiche. Com‟è noto, Dante deplorò “il maledetto fiore c‟ha disviate le pecore e li agni”, cioè il gregge cristiano, e che “ha fatto lupo del pastore”, cioè il dissidio tra la Chiesa e l‟Impero, in ragione del quale “l‟Evangelio e i dottor magni son derelitti” (Paradiso, IX, 133 sgg.), a favore dei “Decretali”, ossia dei giuristi canonisti, il cui prestigio soppiantò quello antico dei teologi e dei letterati. (Ved. E.H. Kantorowicz, Op. cit., pagg. 40-41.) In questo contesto polemico, la proposta intellettuale di Dante, membro della militia letterata o doctoralis, di una unità monarchica mistico-politica, assume un valore simbolico di grande rilievo, in quanto riconferma la priorità del fondamento unitario, sia di ogni creazione umana e divina, che della conoscenza stessa.

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meno inclusivo dell‟intero genere umano, ma di ordine spirituale, per cui solo il presupposto di una Chiesa universale poteva costituire il fondamento “divino” di una monarchia mondiale mistico-politica, la cui sovranità si esercita “sopra tutto ciò che è soggetto alla misura del tempo”,788 e la cui durata imprescrittibile giunge dunque sino alla fine dei tempi. Il rapporto con l‟Impero romano, pertanto, non è meramente quantitativo, per terre annesse e tempo di durata, ma qualitativo, essendo solo la Monarchia cristiana la forma, insieme sacra e terrena, di vita compiutamente civile in quanto veramente umana. Rispetto a tale lungimirante configurazione di un regno mistico-politico nel quale ogni uomo, pur diverso per cultura e nazionaità, potesse ritenersi membro, ogni programma politico a sfondo nazionalistico appare limitato e inferiore alla stessa pax romana, in quanto fomite di quel pernicioso particolarismo stigmatizzato da Dante come “principio del mal della cittade”,789 che spinge uomini e popoli in preda al polemos. Ma un‟altra essenziale ragione divideva le due prospettive. Una ragione di ordine schiettamente politico. Infatti, la teoria tomista della sovranità popolare trasferita al principe, che ne è pertanto reggente, era di derivazione romanistica. Infatti, “il diritto, trasmesso dal Digesto, dal Codice e dalle Istituzioni di Giustiniano, sostenne la dottrina che l‟imperium, originariamente conferito al populus Romanus e alla sua maiestas, fosse stato trasmesso dal popolo all‟imperatore”. Tesi che si prestava a essere interpretata, dagli imperiali, come un mandato fiduciario definitivo del popolo al detentore del Potere supremo, e dai curialisti per sostenere che il principe non fosse che un “suddito del popolo”, che deteneva “sempre e imprescrittibilmente” la sovranità. Ma ciò che più rileva è che “il principio della sovranità popolare fu pronunciato durante la lotta per le investiture”, diventando il sostrato comune alle ideologie del XII secolo. 790 L‟affermazione, dunque, della diretta derivazione divina dell‟imperium, rinnovata da Dante dopo il

788

Dante, Monarchia, I, II, 3-5, pag. 136.

789

“Sempre la confusione delle persone / principio fu del mal della cittade / come del corpo il cibo che s‟appone”: Dante, Paradiso, XVI, 67 sgg. 790

E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, cit. pagg. 48-49.

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precedente del Barbarossa, costituiva una implicita sanzione di sacralità a una funzione che non avrebbe dovuto semplicemente assolvere a delle incombenze politiche, ma che rivestiva un superiore carattere carismatico, e che d‟altro canto inibiva la deriva assolutistica espressa dal brocardo per cui “Quod principi placuit, legis habet vigorem”, stabilendo che la “potestas regia est a Deo”, e dunque che la lex cui il principe doveva attenersi era quella divina, immodificabile ed eterna, e non quella del populus. La tesi dell‟origine popolare del potere servì ai glossatori come Graziano, Bartolo, Baldo, Accursio e Giovanni di Parigi ad accreditare, sulla base della credenza dell‟eternità dell‟Impero romano, che “semper est”, l‟idea che “populus non moritur”. Nel caso dell‟Impero, l‟eternità era fondata, “per un verso, sull‟interpretazione data da Gerolamo della visione di Daniele delle quattro Monarchie, l‟ultima delle quali, quella dei romani, era destinata a continuare fino alla fine del mondo”, e per altro verso dalla versione originata da s. Tommaso, “secondo cui la quarta monarchia era stata seguita da una quinta, quella di Cristo, „il vero signore e monarca del mondo‟, il cui primo vicario era stato, anche se inconsapevolmente, l‟imperatore Augusto”. Nel caso del popolo, la sua eternità era basata sulla sua forma ideale, per cui “quando la forma di una cosa non muta, si dice che sia la cosa stessa a non mutare” (Baldo). Dal combinato disposto della continuità trascendente dell‟Impero con la continuità immanente della volontà popolare si giunse alla teoria che l‟imperium del principe derivasse dall‟ “effetto congiunto dell‟azione del Dio eterno e del popolo perpetuo”, espresso dalla formula coniata da Giovanni di Parigi, “populo faciente et Deo inspirante”. Questa tesi, per la parte filosofica relativa alla sovranità popolare, fu ispirata dal commento di Averroè all‟Etica nicomachea, in cui si afferma che “quod rex est a populi voluntate, sed cum est rex, ut dominetur, est naturale”, derivandone la conseguente teoria per cui “attraverso il popolo che lo eleggeva il re governava „per natura‟, mentre l‟elezione stessa di un certo individuo o di un casato reale era determinata da Dio come causa remota e ispirata „per grazia‟ ”. Ovvero, “Dio ha stabilito l‟impero dai cieli, per autorità, mentre il popolo romano dalla terra, per ministero”.791

791

E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit. pagg. 250-254.

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L‟interferenza tra i due mandanti non sarebbe sorta in quanto la stessa designazione popolare erada considerarsi prescritta da Dio alla stregua di un avvenimento naturale, incluso nella creazione e dunque a essa conforme. Ma l‟idea di una sovranità “naturale” era quanto di più lontano dal concetto del Potere come dominio politico di un principe sul popolo, fondato su un principio razionale. Infatti, la sfera politica, proprio in quanto sfera razionale, si costituva in alternativa alla spontaneità dei processi naturali, finalizzati non già, come quelli politici, al bene comune, bensì alla mera sopravvivenza della realtà biologica. Il finalismo etico della politeia affermava il superamento razionale dell‟interesse particolare della dimensione economica del bios in vista dell‟interesse generale e comune, appunto razionale. Ciò comportava che l‟armonia predisposta dalla natura era qualitativamente diversa da quella predisposta dall‟opera umana, sicché, se ogni processo naturale, mirando alla conservazione del bios, ammetteva la selezione dell‟energia più forte a scapito della più debole, i processi interni alla sfera politica presumevano una sinergia funzionale al disegno teleologico prescritto dalla ragione, che doveva necessariamente essere superiore all‟interesse particolare di ogni cittadino. L‟analogia tra l‟interesse generale della Natura e quello dello Stato era solo estrinseca e apparente, per la sola circostanza che l‟attività umana avesse un disegno orientativo dell‟azione, che variava per cultura locale ed esperienza personale, incommensurabile con lo sforzo di adattamento per la vita degli elementi naturali, per cui, se le leggi cosmiche erano razionali, lo erano in un senso molto diverso da quello umano, non essendo spontaneoe predeterminato nell‟uomo il processo di razionalizzazione della sua esistenza, ma richiedeva una attività culturale che non coincideva con la sola esperienza di vita ma implicava un metodo di conoscenza razionale della realtà, fuzionale all‟azione. Questo modello astratto di azione razionale per i Greci era l‟Ideale etico, il cui valore assiologico era ritenuto universale. Orbene, il destino escatologico che Dio aveva riservato all‟umanità non poteva essere assimilato a un disegno naturale, ma neppure propriamente a un disegno politico. Infatti, sia il finalismo particolaristico naturale che quello politico generale presupponevano che la loro affermazione avvenisse a scapito della negazione di quanto li contrastasse, ossia, rispettivamente, il più debole e il nemico. Ciò significa che la loro universalità era di natura esclusiva dell‟altro-da-sé,

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ossia fndata sul principio polemico dell‟affermazione del sé, dell‟autoconservazione, si trattasse dell‟organismo biologico o di quello politico. La designazione popolare del rex poteva dunque essere considerata “naturale” solo in relazione alla circostanza che ogni popolo avesse un dominus che lo guidasse, ma non ogni popolo, e relativo re, aveva una missione divina, come il popolo romano e i suoi imperatori. Questo carattere di eccezionalità riservato alla storia di Roma, già di per sé la faceva apparire come extra naturam e dunque provvidenziale. E ciò implicava che da quella vicenda eccezionale bisognasse partire per decifrare il senso soteriologico del disegno divino nella storia. Di conseguenza, si ritenne che “la lex regia contenente i diritti inalienabili del popolo e proclamante così la perpetuità della maiestas populi romani, non fosse indirizzata alla sola Roma [ma] fosse naturalmente applicabile in senso universale alle condizioni di tutti i regna e di tutti i popoli, e infatti fece la propria comparsa nei testi giuridici di tutti i paesi europei [e] quindi, a ogni regnum e a ogni popolo era giuridicamente riconosciuta la continuità del popolo romano e la perpetuità della sua maiestas”.792 Ma tale applicazione “in senso universale” di un principio storicamente determinato come la maiestas populi romani era un portato del naturalismo razionalistico greco, che stabiliva l‟analogia tra un fenomeno umano, e dunque storico-politico, con un fenomeno fisico-naturale, e non trovava una sua giustificazione in ambito soteriologico se non assumendo l‟assoluta conformità della natura spirituale dell‟uomo a quella naturale, tale che l‟estensione universale dei dati relativi alla prima, potesse analogicamente assumersi anche per quelli della seconda, per cu, se tutti i regna avevano naturalmente il loro rex, ogni rex serviva la missione divina. Ma l‟esistenza di un solo popolo egemone sugli altri, quello di Roma, e di un solo793 imperatore romano posto a dominio del mondo, confutavano tale pretesa analogia. Questa considerazione, insieme a quella della posteriore fondazione della Chiesa accanto all‟esistente Impero romano, avrebbero dovuto far riflettere sulla essenziale diversità intercorrente tra la forma etico-politica dell‟Imperium e la realtà mistico-politica della Monarchia auspicata da Dante. 792 793

E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 255 e 256. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 259-261.

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L‟Impero, infatti, si costituiva per annessioni territoriali, ossia per espansione del Potere su popoli sottomessi militarmente. Questa politica espansionistica di un popolo e uno Stato egemoni poteva essere compatibile con la sussistenza di popoli e strutture politiche e religioni locali, diversi da quelli di Roma, in modo tale che la forma di dominio imperiale non si identificasse con le forme di dominio locali, ma fossero mutuamente compatibili attraverso il reciproco riconoscimento dei ruoli e delle rispettive forze che li determinavano in rapporto del loro rispettivo Potere. In questo senso, la pax romana consisteva in un rapporto di Potere che prescindeva da ogni finalismo che motivasse l‟azione delle parti in contesa, cioè dei popoli in conflitto politico. Diversamente, la Chiesa cattolica si costituiva a seguito della conversione dei singoli fedeli alla fede cristiana, ossia in conseguenza di una appartenenza spirituale a una realtà extra- e meta-politica che non li rigardava in quanto membri di una comunità socio-politica ma in quanto singolari creature divine aventi una coscienza morale. L‟unità ecclesiale, rispetto a quella imperiale, era essenzialmente diversa e non idealmente compatibile, in quanto l‟appartenenza alla Chiesa conseguiva alla volontà di una scelta morale, laddove l‟appartenenza all‟Impero conseguiva a un subìto rapporto impari di forza. L‟appartenenza alla Chiesa non poteva dunque mai essere di carattere “naturale”, assimilabile a una condizione socio-economico-politica, ma sempre e solo di carattere morale, cioè frutto di libertà di coscienza. La diversità della Chiesa rispetto all‟Impero consisteva nella sua diversa modalità di appartenenza, spirituale e non politica, libera e non coatta. La loro coesistenza entro uno stesso orizzonte esistenziale era resa possibile dalla loro stessa diversità, la quale, così come motivava la loro giustapposizione, era all‟origine del conflitto istituzionale che caratterizzava il sistema liberale europeo. Superare tale conflitto comportava il superamento anche della reciproca diversità tra Chiesa e Stato.ed è a partire da questo proponimento che è possibie comprendere il disegno monarchico dantesco. Allorquando Baldo, nei suoi Consilia, trattando della durata dei regni, asserisce che “lo Stato non può morire e continua ad esistere anche a

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prescindere dai re”,794 indica una ipotesi euristica basata sulle nozioni della fisica aristotelica che è funzionale al piano giuridico su cui si muovono i rapporti politici, ma non pertinente al piano soteriologico che interessa il destino escatologico dell‟umanità. Per cui quando egli, glossando l‟atto della pace di Costanza del 1183, afferma che “quia quod universale est non potest morte perire, sicut homo in genere non moritur”,795 sostiene una tesi naturalistica, utile a giustificare razionalmente la perpetuità dei corpi collettivi e l‟immortalità dei concetti giuridici, ma che rischia di travisare il senso spirituale della immortalità dell‟uomo, come anche il senso del rapporto, non certo giuridicizzabile, tra la autorità spirituale e il dominio politico. Infatti, per quanto si ritenesse insuperabile la difformità tra una “finzione” giuridica e un “concetto filosofico”, “dal punto di vista linguistico e contenutistico, non è facile distinguere le persone „fittizie‟ o „intellettuali‟ dei giuristi dagli universali che i nominalisti usavano chiamare fictiones intellectuales”, che si estendevano anche a designare l‟eidos di una comunità, “che era distinto dalla città materiale considerata in un certo momento e staccato sia dai cittadini viventi di volta in volta entro le mura [e] sia dalle pietre che formavano queste stesse mura”, sicché “di fatto, le personificazioni giuridiche di città e paesi non erano per nulla identiche alle loro auguste antenate del culto classico [ma] invece, erano creazioni filosofiche appartenenti al dominio della speculazione”, con le quali i giuristi associavano in senso sinonimo l‟universale filosofico greco con l‟universitas giuridica romanistica, identificando un ente ideale con un ente collettivo, facendo dire a Bartolo che “il mondo intero è una specie di universitas”, per cui, “populus proprie non dicitur homines, sed hominum collectio in unum corpus mysticum, et abstractive assumptum, cuius significatio est inventa per intellectum”. E pertanto un regnum che comprenda in sé la totalità degli uomini e delle cose, è assimilabile a una “persona universalis”, il cui dominus è l‟imperatore quale “signore del 794

Baldo, Consilia III, 159, n. 5, cit. da E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 257. 795 “Ciò che è universale non può estinguersi morendo, così come la morte dell‟uomo non estingue la specie umana”: Baldo, Liber de pace Constantiae, cit. da E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 258.

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mondo”.796 Solo tra “personae” in senso giuridico è possibile infatti stabilire un rapporto di dominio, e dunque la prima traslatio del senso esistenziale nel senso giuridico della vita di enti umani collettivi non è una operazione intellettuale della secolarizzazione moderna, ma avviene già all‟interno del nominalismo teologico medievale, che pensa la realtà umana per entia astratti, personae giuridiche e genera naturalistici. In questa dis-soluzione della duplex esperienza umana, si consuma la resa intellettuale dello spiritualismo cristiano alla antica sapienza pagana, con le cui categorie si pensala stessa Chiesa universale che da “universits fidelium” diventa a tutti gli effetti una universitas giuridica, in cui convergono “la concezione organologica di corpus mysticum da una parte, e degli apellativi antropomorfici della Chiesa come mater e sponsa dall‟altra”. Una universitas personificata di una immaginaria persona repraesentata o ficta, che in Tommaso diverrà, come già in Agostino, “figura veritatis”, tanto che Baldo potè glossare che “la finzione imita la natura” ed essa, più in generale, “ha quindi luogo ove può aver luogo la verità”.797 Sulla distinzione tomista tra corpo umano, in cui “gli arti sono presenti tutti contemporaneamente” (sunt omnia simul), e corpus mysticum di Cristo, che comprende non soltanto coloro che vivevano simultaneamente nell‟oikumene ecclesiastica ed entro lo spazio universale, ma comprendeva anche tutti i membri passati e futuri, attuali e potenziali che si susseguivano continuamente gli uni agli altri nel tempo universale, [per cui il corpo mistico ecclesiastico] abbraccia quindi non solo coloro che attualmente fanno parte del gregge dei fedeli, ma anche coloro che potrebberopotenzialmente farvi parte o chi vi entrerà in futuro”, [estendendosi] sia alle generazioni future dei cristiani non ancora nati, sia alle schiere dei pagani, ebrei o maomettani, non ancora battezzati,

796

E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 259-261.

797

E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 262-263. La cit. di Tommaso è dalla Summa theol., III, q. 55, a. 4; di Agostino da De quaestionibus Evangelistarum, II, c. 51; di Baldo, a Dig. 17.2.3, n. 2, e 1.7.16, dove, riprendendo Aristotile, Fisica, II, 2, 194a. 21 scrive che “fictio ergo imitatur naturam. Ergo fictio habet locum, ubi potest habere locum veritas”.

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in quanto il corpo mistico di Cristo, vale a dire la Chiesa, cresce non solo 798 per natura ma anche per grazia .

La concezione ecclesiale tomista del corpus mysticum servì da modello ideale per ogni definizione di universitas o di populus, per cui Baldo, nel citato Liber de pace Constantiae, definisce l‟Impero come una “magna universitas” la quale “omnes fideles imperii in se complecitur tam praesentis aetatis quam successivae posteritatis”. 799 Questa definizione, estendendo alla universitas politica l‟accezione teologica di corpus mysticum, superava la visione organologica dello Stato quale pluralità di persone simul cohabitantes, stabilendo una dissociazione tra l‟unità empirica e la “totalità” del corpo politico (totum quoddam), ma nel contempo manteneva la distintinzione rispetto al corpo ecclesiale. 800 Si costituiva pertanto una figura ibrida di persona mystica concepita al di fuori di uno spazio storico ma pur sempre nel tempo storico, in cui le due rappresentazioni dell‟unità, quella esistenziale e la politica, tendono a fondersi nel concetto giuridico di universitas, dove il carattere perpetuo del populus viene esteso dall‟intero corpo politico ai suoi singoli componenti.801 E ogni qualvolta la Chiesa era indotta a definire la sua condizione storica, anche al fine di ribadire la sua posizione spirituale di fronte alle pretese del Potere politico, ricorreva a questa immagine giuridica, la quale, dovendola distinguere dalla persona

798 799

E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 264 e 265. Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 266.

800

Innocenzo III (1198-1216) mise in crisi la pretesa imperiale della christomimesis riservando ai soli vescovi il privilegio della consacrazione con il crisma e sul capo, negata al principe, che veniva unto sulle braccia e sulle spalle per una sorta di “esorcismo appena sublimato a salvaguardia contro gli spiriti maligni”, in quanto solo Cristo aveva ricevuto l‟unzione del capo da parte dello Spirito Santo. Al principe dunque “era espressamente negata la somiglianza a Cristo e il carattere di christus Domini”, per cui “il pontefice romano appare qui il primo promotore di quel „secolarismo‟ che la Santa Sede per altri versi si affannava a combattere” a favore di un principio ierocratico: E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, cit. pagg. 274 e 275. 801 Ivi, pagg. 268 e 269.

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giuridica dello Stato, riduceva l‟unità inclusiva ed escatologica del corpus mysticum nei termini di una realtà oggettiva e artificiale, la cui totalità era circoscritta nella sua stessa rappresentazione giuridica, che era il simulacro della irrappresentabile unità mistica. Per distinguere queste due rappresentazioni della Chiesa di Cristo, abbiamo indicato come Chiesa dokematica la sua rappresentazione nominalisticogiuridica, e di Chiesa pneumatica la sua rappresentazione misticoescatologica. Aver designato Cristo come titolare dei diritti giuridici ecclesiali spinse papi come Gregorio VII, Innocenzo III e Innocenzo IV a rivendicazioni politiche sull‟Impero in quanto vicarii di Cristo, producendo, attraverso una empia finzione cristocentrica, un travisamento esiziale del senso spirituale del regnum Christi. Ma il vizio occulto di tale travisamento giuridico era il naturalismo, filtrato nella cultura medievale sia a opera della ricezione filosofico-aristotelica che della rinascita romanisticogiustinianea, che fornirono, ognuna per sua parte, al razionalismo teolgico gli strumenti metodico-intellettuali utili a fronteggiare il pericolo di una declinazione in chiave nazionale e dunque particolaristica, del principio dell‟Imperium in termini di sovranità regale, costitutivamente opposta ad ogni ingerenza esterna alla sua pretesa assolutezza territoriale. L‟inserzione del principio territoriale all‟interno dell‟ecumene imperiale conferiva al Potere regale particolare un carattere inevitabilmente polemico, e dunque contrario alla antica pax romana, ma gli conferiva anche una accezione politica e fisica che destituiva di ogni presupposto metafisico l‟identità cristiana, pur comunemente ammessa. Questa declinazione politicistico-giuridica della realtà dei poteri universali della cristianità produsse la conseguente alterazione della fisionomia spirituale del corpo mistico cristiano, costituito di persone reali e di singole esistenze concrete, che nella lettura politico-giuridica delle relazioni fra le due autorità sovrane della cristianità vennero considerate alla stregua di enti collettivi astratti, e dunque di finzioni intellettuali, rispetto alle quali i singoli esseri umani, con le loro storie e i loro dolori, assumevano il valore di mera materia informe. La cd. “secolarizzazione” della cultura europea, prima ancora di essere un orizzonte culturale strutturato secondo coordinate intellettuali metodicamente razionalizzate, era costituito da uno scenario esistenziale entro il quale le singole esistenze umane si muovevano e agivano in

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funzione di queste astratte direttive politico-giuridiche sovraordinate a quelle singole esistenze, che dovevano costituire l‟unica vera realtà della vita spirituale dell‟uomo. La kénosis divina rappresentata dalla crocefissione di Cristo assumeva nel mondo cristianizzato dalla Chiesa una dimensione universale, che coinvolgeva tutti gli uomini coinvolti dalla cristianizzazione dell‟Impero attraverso la romanizzazione della fede cristiana, il cui esito temporale fu la sua secolarizzazione in termini religiosi. La fede cristiana, divenuta religione imperiale, depura l‟antica idea pagana di Imperium di ogni destinazione terrena, conferendole una missione escatologica che l‟ideale romano non poteva avere senza l‟innesto cristiano. Ma, nel contempo, tale purificazione sacramentale dell‟antico ideale imperiale ne esalta la potenza umanistica, assegnandole un compito divino che la cristologia neo-testamentaria conteneva entro i limiti di una provvidenzialità relegata ai fondamenti della fede vetero-testamentali, e che la trascrizione politico-giuridica del Potere neo-imperiale relegava ai primordi ormai lontani della memoria collettiva. La coscienza cristiana, divenuta coscienza universale comune e identità collettiva, muoveva al Potere imperiale quella riserva di ragione che il martirio di Cristo aveva destinato alla testimonianza della Verità, e che il popolo cristiano, divenuto adulto, ora rivendicava in termini di giustizia mondana; in quei termini secolaristici che Cristo aveva deliberatamente evitato di porsi per non confondere il Suo col regno di Cesare. E‟ difficile non cogliere in questo processo di secolarizzazione dello spirito cristiano originario interpretato dalla Chiesa romana i segni di una deriva degenerativa che, dopo l‟esperienza francescana, non poteva essere corretta all‟interno dell‟universo teologico della sua rappresentazione dokematica, della quale la struttura ecclesiastica era la forma giuridico-burocratica oggettivata. In questo senso, il disegno monarchico di Dante costituisce il tentativo, avanzato all‟interno della Chiesa pneumatica, di una riforma cristiana che interpretasse il senso deviato di quella secolarizzazione nei termini di uno squilibrio accidentale indotto da un travisamento ermeneutico, da un errore di cultura, che implicava il ruolo degenerato del Papato e dei suoi interessi curiali, ma non la Chiesa pneumatica, entro la quale Dante concepiva la stessa potestà secolare dei principi cristiani.

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9. La unità patrimoniale indistinta dell‟asse ereditario del “padre e del figlio”, propria del diritto successorio, acquistò valore metaforico anche nell‟istituto politico della “corporation per successione, in cui predecessore e successore apparivano come la stessa persona nei confronti dell‟ufficio o della carica personificata”. Il patrimonio politico, inteso come una “persona”, faceva della corona della monarchia ereditaria un astratto ente giuridicizzato, il regno, il cui corpo politico dei sudditi fu concepito alla stregua del corpus mysticum ecclesiale, col quale finì presto per identificarsi.802 Questa corrispondenza metaforico-concettuale tra un ente immateriale, ma comprensivo di una indefinita realtà esistenziale, e un ente politico, il cui elemento sovra-personale (la corona) era legato alle sorti storiche di una dinastia, fa sì che la determinazione territoriale, presuntiva di una appartenenza politica, fosse equiparata all‟appartenenza ecclesiale, con la decisiva e insuperabile differenza che, mentre la prima appartenenza, quella politica, era il presupposto logico della sua rappresentanza regale, per cui ogni suddito del regno era un ente politico creato dal Potere sovrano stesso, l‟appartenenza ecclesiale non poteva essere presupposta ma era una condizione derivata dalla libera credenza del fedele. La commistione coincidente dei due emisferi simbolici della Chiesa e dello Stato negli stessi termini concettuali di enti giuridici è all‟origine dell‟irresolubile conflitto delle due autorità universali, che pretendevano di esercitarsi sullo stesso patrimonio ereditario, sia pure totale nel caso della Chiesa e in quota nel caso della terra regni appartenente ad coronam. Ciò comportava che gli enti ecclesiastici assumessero una fisionomia giuridico-istituzionale inevitabilmente simile a quella degli enti politici 803 e insuperabilmente diversa dalla

802

E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 290-291. Il diritto feudale si diffuse dall‟XI sec. anche negli Stati della Chiesa, la quale assunse vieppiù una struttura imperiale, tanto che la stessa tradizionale professio fidei dei vescovi prescritta dal Liber Diurnus si trasformò in un iuramentum fidelitatis di carattere amministrativo al papatus romanus e al monarca pro tempore, secondo quanto canonicamente stabilito dal Liber Extra di Gregorio IX (1234), nel quale “la parola „fede‟ era scomparsa del tutto”. Il giuramento vassallatico feudale ecclesiasticizzato “ritornò sotto nuove vesti allo Stato laico come giuramento d‟ufficio vincolante il re e i suoi funzionari a proteggere un‟impersonale istituzione 803

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comunità ecclesiale dei fedeli. In questo precipuo senso, la “secolarizzazione” della cultura cristiana coincide con la stessa giuridicizzazione della realtà della Chiesa in termini appunto secolaristici e dunque politici, rinunciando all‟ “universalismo della conversione” per assumere “come suo fine il soggiogamento e la sottomissione dei non credenti sotto il potere di un ordine dominante che si dedica alla lotta per la fede come dovere fondamentale, anziché la redenzione dei vinti”,804 per cui giuridicizzazione, secolarizzazione e politicizzazione sono sinonimi, indicanti uno stesso processo culturale di omologazione razionalistica della teologia cristiana. Questo processo complessivo disegna l‟orizzonte culturale europeo di ciò che in termini sociologici si dispiega come progressiva razionalizzazione del mondo occidentale, col passaggio dall‟ “etica ascetica” alla sua relativizzazione e diferenziazione in senso organico propria della sua dimensione “professionale”, per la quale “i rapporti umani di potere che ne risultano sono relazioni di autorità volute da Dio, e il loro ripudio o l‟avanzamento di istanze diverse da quelle corrispondenti all‟ordine stabilito viene considerato frutto di alterigia, contrario a Dio e alla tradizione sacra”.805 Nondimeno, se l‟etica professionale tradizionalistica medievale riposava sul presupposto generale del “carattere puramente personalistico dei rapporti di potere economici e politici – per cui la giustizia, e prima ancora il Governo, è un cosmo di rapporti personali di sottomissione, dominato dall‟arbitrio e dalla grazia, dall‟ira e dall‟amore, ma in primo luogo dalla reciproca pietà di coloro che detengono il Potere, per cui si possono far valere postulati etici, allo stesso modo in cui si fanno valere in qualunque altro genere di relazioni personali” -, la razionalizzazione dell‟etica nel senso del “dovere professionale” fa sì che il rapporto si oggettivizzi svolgendosi “senza riguardo alla persona”, “sine ira et studio”, ovvero

che „mai muore‟, la Corona”, intesa “come entità distinta dalla persona del re”. Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pagg. 298-307. 804

M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (1922), tr. it., Milano (1961) 1968, vol. I, pag. 581. Weber si riferisce all‟antico Islam, ma il concetto è lo stesso anche per il caso del Cristianesimo. 805 Ivi, pag. 585.

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“senza ira e quindi senza amore, senza arbitrio e senza grazia, come semplice dovere professionale e non in forza di particolari relazioni personali” da parte dell‟homo politicus, “tanto più quanto più agisce rigorosamente in conformità alle regole razionali del moderno ordinamento di Potere”.806 Orbene, il senso teologico-politico complessivo di questo epocale fenomeno di razionalizzazione, non solo della cultura ma anche del mondo delle relazioni umane e delle istituzioni sociali, è segnato dal passaggio da una concezione governativa a una potestativa dell‟autorità (sia etico-religiosa che sociopolitica), col progressivo spostamento del baricentro ideale dell‟imperium dall‟auctoritas del Governo spirituale alla potestas del Potere politico, con la conseguente relativa esautorazione della dimensione escatologica del sacro e la sua incorporazione entro una teleologia tutta immanente all‟esercizio razionale del Potere autoreferente, secondo una modalità già intervenuta nella civiltà greca del IV sec. a. C., ma questa volta su una scala universale.807 La dimensione pubblica della comunità politica, intesa come universitas o corpus mysticum, si concentrò sulla “sovranità” regale, il cui esercizio concreto da parte del re, il suo Potere, venne inteso come rappresentativo anche del Governo, che virtualmente riguardava una prerogativa della Corona, ossia dell‟intero corpo politico, che oltre al re comprendeva i pari, i vassalli in genere, i Comuni e, dove esisteva, il Parlamento. L‟effettualità della sovranità, ossia il Potere, sia esso regale o anche parlamentare, avrebbe potuto assommare e dunque comprendere i contenuti ideali del Governo interpretandone la ratio, ossia comportandosi “secondo ragione” (rationabiliter). La condotta razionale del Potere equivaleva all‟esercizio del Governo, che dunque poteva coincidere effettualmente con la volontà sovrana quando questa si manifestava sulla base di regole astratte e generali, le leges, il cui conforme ossequio dava all‟agente una fisionomia impersonale. L‟equazione tra Potere virtuoso, Governo razionale e legalità costituiva

806

Ivi, pag. 587.

807

Il prodotto estremizzato di questa razionaizzazione è il totalitarismo dei regimi politici novecenteschi dell‟Europa cristiana.

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il circolo sistemico della dimensione pubblica che comprendeva l‟attività dello Stato di diritto, il cui modello ideale era costituito da una fictio juris, l‟universitas della Corona, che assunse su di sé le prerogative morali originariamente assegnate per decreto divino al Governo spirituale dell‟Imperium, esautorandolo progressivamente anche da ogni vincolo di rapporto giuridico-religioso con la Chiesa. La sostituzione del Governo morale con la razionaità dell‟esercizio del Potere è il presupposto, non solo della razionalizzazione della vita sociale attraverso la sua progressiva politicizzazione e dipendnza dal Potere statuale, ma dello stesso Stato ideo-logico totalitario. Infatti, se all‟interno dell‟orizzonte della fede cristiana è stato sempre possibile, al di là delle particolari vicende storiche del papato, mantenere, in virtù della dimensione escatologica di quella fede, la distinzione tra la Chiesa dokematica, espressione della gestione temporale della Curia romana, e la Chiesa pneumatica, rappresentativa del compus mysticum Christi, la razionalizzazione del Potere sovrano, emancipandosi da ogni riferimento moralmente vincolante al Governo spirituale tradizionalmente ecclesiastico, ha creato i presupposti dell‟identificazione legittimante della astratta forma ideale di Stato con la vita concreta del populus, assumendolo come un ente collettivo di ragione, facendo della sua persona ficta l‟oggetto dell‟esercizio razionale del Potere. Questa spersonalizzazione del Potere razionalizzato costituisce la negazione più radicale della Weltanschauung ispirata dalla fede cristiana, anche se deriva, come abbiamo visto, dalla secolarizzazione dell‟orizzonte di pensiero teologico-politico formulato dalla cultura canonistica propria della Chiesa dokematica. Sta di fatto, nondimeno, che mentre “la Corona senza il re era incompleta e priva di capacità”, per cui, per riprendere la tesi unionista di Bacone, “aliud est distinctio, aliud separatio”,808 in materia spirituale, la fede nella sola Chiesa dokematica sarebbe un peccato di idolatria, confondendo l‟unità mistica con una empirica creazione umana, transeunte, per cui la separatio per fede da determinate vicende umane, non solo si rende possibile senza con ciò negare la Chiesa pneumatica, ma vivifica la fede in Cristo di nuovo alito divinamente

808

E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 313-314.

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ispirato, come nessuna filosofia può fare nei confronti dello Stato, in quanto l‟istanza spirituale implica, secondo l‟insegnamento di Gesù, un rapporto del fedele con Dio, e non con la Legge di una istituzione, sia pure sacralizzata. In questo senso, se la ragion di Stato ha potuto essere assunta, dopo l‟esautorazione del Governo etico, come l‟etica stessa del Potere, non può sussistere altra etica per la Chiesa che quella originaria e incoercibile evangelica, che trascende sempre ogni statuizione religiosa oggettiva e ogni formula dogmatica ecclesiastica. E dunque, se il monopolio del Potere è la prerogativa dello Stato assolutista razionalizzato, il monopolio ermeneutico della Verità, preteso dalla Chiesa dokematica, è una pretesa assolutamente irrazionale, proprio in quanto l‟essenza della Verità è la fede stessa nel suo Mistero, e non nelle formule della Ragione, contro la cui venerazione idolatrica si è immolato il carisma agapico di Cristo. La Chiesa romana, riesumando l‟organismo giuridico-burocratico imperiale, trasformava, mercé l‟ortodossia teologica di ascendenza alessandrina, l‟unità mistica di ogni essere spirituale che coesiste con la diversità singolare di ogni essere personale in una unità politica giuridicamente determinata, assumendo la sua realtà mistica, cioè Cristo, nei termini di un ente giuridico razionalmente pensato come forma istituzionale, la Chiesa cattolica, fornendola di tutte i caratteri e gli attributi divini propri del Figlio di Dio, pensato come Logos. Era storicamente inevitabile che una siffatta rappresentazione giuridicopolitica dell‟unità mistica ingenerasse una tensione eversiva interna alla stessa determinazione unitaria logicamente esclusiva e dunque polemica, che atraversa l‟intera storia della Chiesa dokematica, concepita alla stregua di un Imperium ecclesiale. A fronte di tale pretesa unitaria, la struttura policentrica delle concrete chiese locali, quali comunità spirituali e di culto, deriva dalla diversa articolazione socio-culturale della ricezione storica del messaggio evangelico, per cui la garanzia di ortodossia da parte di una autorità ecclesiastica imperiale doveva presupporre una unità di senso esclusiva di ogni difformità di versioni particolari, che la fede, quale esperienza del rapporto della coscienza singolare con Dio, di per sé non ha, né presuppone. E dunque solo l‟assunzione, arbitraria e dunquecontingente, e delle forme giuridiche della tradizione romanstica e del metodo di analisi del pensiero razionalistico della tradizione filosofica greca, poteva concepire il corpus mysticum dell‟unità dei

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fedeli come un ente ideale di pensiero logico, trasformando di conseguenza ogni concreta comunità ecclesiale in una astratta determinazione particellare dell‟universitas giuridica cristiana, al di fuori di ogni considerazione esistenziale. Entro l‟orizzonte di pensiero teologico-politico della Chiesa dokematica, era spontanea la dicotomia tra lo status regni dell‟ente ecclesiastico giuridicamente rappresentato, la cui persona stabiliva rapporti diplomatici e conflittuali con altri enti giuridico-politici storici, e lo status Ecclesiae in senso mistico, nella quale si riconoscevano anche i polemisti e i nemici politici della Chiesa dokematica in cui il papa administrat ut rex.809 Va da sé che solo l‟universitas della Chiesa dokematica, creatura umana, poteva definirsi come “naturale” e perciò moritura, laddove il corpus mysticum Christi era l‟unica realtà veramente divina ed “eterna”. La conseguenza più significativa di questa duplice articolazione ecclesiale riguarda la diversa fisionomia ideale del Governo delle rispettive realtà comunitarie. Nel caso, infatti, della Chiesa dokematica a struttura imperiale, fu possibile costruire intorno alla figura del Papare un apparato di Potere, accentratore ed esclusivo, non diverso da quello politico, ma anzi come abbiamo visto, esso stesso fungente da modello giuridico-istituzionale per gli organismi statuali nascenti nell‟Europa medievale. Diversamente, sia per il carattere essenzialmente libero dell‟intima adesione spirituale alle chiese locali, che per la loro spontanea definizione comunitaria, la loro concreta esperienza esistenziale esigeva un Governo di tipo carismatico inevitabilmente personale, e quindi soggetto allo spontaneo riconoscimento dei fedeli alla loro guida spirituale. Ovviamente, i due

809

I canonisti, non soltanto elaborarono una dottrina che faceva figurare il vescovo come “tutore o guardiano della propria chiesa”, ma, essendo la Chiesa equiparata alla respublica, per godere dell‟istituto della restitutio in integrum, era rappresentata “come un minorenne”, sia pure in contraddizione con la sua natura di sponsa. In seguito la dottrina della perpetua minorità della Chiesa fu “trasferita alla Corona”, compresa nella massima fiscale per cui “Nullum tempus currit contra regem”. In tal modo, attraverso la loro comune considerazione come corporation, si creò un coordinamento logico-giuridico tra “corona” ed “ecclesia”. Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 321-324.

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ruoli potevano coesistere nella stessa funzione pastorale, ma è altrettanto certo che la guida carismatica della concreta comunità ecclesiale ha rappresentato anche per la Chiesa istituzionale un elemento imprescindibile per la stessa costruzione storica della tradizione cristiana, che nella beatificazione e santificazione delle personalità più eccezionali trovava i formali momenti di riconoscimento ufficiale. Ciò comprova che il viatico alla santità, per quanto contraddeto dalla gestione politica della Chiesa istituzionale, rimane l‟elemento coesivo spiritualmente più significativo del corpus mysticum dando ad esso il carattere soteriologicamente identitario, senza il quale la vicenda storica della Chiesa istituzionale avrebbe già da tempo trovato il suo naturale epilogo politico. In questo senso, la Chiesa pneumatica, all‟interno della quale si sviluppano i processi spirituali di significato escatologico, costituisce, rispetto alla tendenza mondanamente dissolutoria della terrena Chiesa istituzionale, la forza katechontica che ne impedisce la deriva anti-cristica, evitando la sua completa omologazione all‟ Imperium cesareo. La maggiore e più significativa traslazione concettuale operata dalla teologia cattolica all‟ideologia politica ha interessato il rispecchiamento dell‟unità spirituale in Cristo nell‟uguaglianza di ogni suddito di fronte al Potere dello Stato, equiparando l‟unità mistica in Cristo all‟uniformità di trattamento di fronte alla legge. Concependo la figura sovrana del Papa, sulla falsariga di quella imperiale romana, la teologia cattolica ha assunto il pricipio naturalistico della logica filosoficogiuridica, che considera gli enti reali come proiezioni accidentali del modello ideale, considerando razionale la condotta conforme al modello, creduto naturale. Ciò implica l‟uguaglianza degli enti mondani, e quindi la loro perfetta interscambiabilità logica. Trattandosi però di esseri umani, la loro astratta equiparazione logica a enti naturali, omologandoli ai membri di ogni altra specie biologica, omette di considerare ciò che per la coscienza cristiana è essenziale, ossia la loro natura spirituale, in virtù della quale ogni uomo è una singolarità morale che sviluppa, mercè il libero arbitrio, una storia esistenziale. Questa storia non può essere considerata rilevante dal Potere dominante, la cui prerogativa di dominio sussiste sul presupposto che ogni uomo sia ugualmente sottoposto alle sue leggi, valevoli erga omnes, ossia che ogni uomo sia uguale di fronte al Potere.

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L‟uguaglianza dei sudditi è la condizione di esercizio della sua supremazia. Il Potere, assumendo come rilevante ai fini del dominio l‟uguaglianza naturale degli uomini, prende in considerazione la sola natura biologica dell‟uomo, e dunque i suoi bisogni naturali, controllando le “sorgenti della vita”, ossia si esplica amministrandole nella convivenza sociale. E pertanto, l‟oggetto del Potere, qualunque siano le forme e i modi in cui storicamente si esprime, è il dominio sull‟uomo attraverso l‟amministrazione dei suoi bisogni naturali, utili alla sua vita biologica. Il dominio del Potere politico socialmente razionalizzato in istituzioni giuridiche da forma allo Stato di diritto, il cui modello teorico costituisce la forma ideale di Potere. L‟elemento spirituale dell‟uomo, rilevato dal Cristianesimo come consustanziale alla natura biologica dell‟ homo politicus, non può essere amministrato direttamente dal Potere, in quanto non pertinente ai dati naturali della sua vita individuale e collettiva, ma solo indirettamente, attraverso la razionalizzazione del sacro in senso funzionale alla vita sociale politicamente dominata. Razionalizzare il sacro significa oggettivarlo, farne un ente di natura rappresentabile fisicamente, e fornirlo perciò di intermediari col Potere. L‟essenza politica della religione ha fatto di questa uno strumento di controllo della sfera invisibile della coscienza umana, dominata dalla paura dell‟inconoscibile. Portandolo alla conoscenza, la religione consentiva al Potere di dominare la paura umana ai suoi fini politici. Anche la filosofia, contemplando l‟invisibile, lo rappresenta attraverso la parola, la cui tecnica evocativa diventa strumento di controllo eidetico da parte del dialettico. La lotta sostenuta dalla filosofia contro la mitologia verteva appunto sul controllo dell‟invisibile, del ni-ente, che abitava in un luogo meta-fisico. Portare in evidenza il ni-ente equivaeva a trasformarlo in ente, in prodotto del pensiero, dandogli una de-finizione, un limite che lo rendeva anche esteticamente rappresentabile e dunque rendendolo necessario entro un sistema di pensiero. Ciò che è il Potere per il dominio politico della società, è la Necessità per il dominio teoretico dell‟Essere. Entrambi, Potere e Necessità, stabiliscono un rapporto di con-fusione della molteplice realtà degli enti rispettivamente dominanti nell‟unità della loro posizione esclusiva, per cui ogni ente, umano o naturale, sussiste solo in quanto riconosciuto

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come esistente dal modello ideale o, rispettivamente, politico che lo pone in essere. Ciò che il concetto pone, e dunque la posizione concettuale, il Potere dispone attraverso le sue istituzioni giuridiche, le quali assumono come reali eventi altrimenti in-esistenti. La trasformazione di un ni-ente in un ente è operazione comune alla religione, alla filosofia e al diritto, le cui figure intellettuali, trascritte simbolicamente in forme plastiche, sono l‟oggetto estetico dell‟arte, la quale consiste appunto nel dar corpo sensibile all‟invisibile di cui trattano la religione, la filosofia e il diritto. La caratteristica comune a queste tre, o quattro, discipline teoriche è la reductio ad unitatem del molteplice, e dunque la loro astratta rappresentanzione della realtà in divenire in modelli ideali corrispondenti. La corrispondenza di ogni ente particolare al suo modello ideale è la condizione della sua stessa riconoscibilità reale. Ciò che la corrispondenza è in senso ideale, è la appartenenza in senso politico, che consiste appunto nella riduzione del diverso allo stesso. La reductio operata sia dalla corrispondenza ideale che dalla appartenenza politica, agisce esclusivamente su una realtà concretamente molteplice rendendola semplicemente omogenea, ossia rendendo semplice la sua complessità eliminando da ogni ente diverso la sua diversità, che per l‟uomo è la sua singolarità spirituale. Nell‟opera di semplificazione ontologico-politico-giuridica consiste la violenza del Potere, il quale domina la molteplice realtà concreta imponendole l‟unità del suo astratto modello ideale come razionalmente necessario alla esistenza dell‟ente, e dunque facendo della Necessità la Dea, la Legge di natura e l‟Istituto sociale della stessa vita umana. La predicazione di Gesù interviene a scardinare l‟Essere dai perni della Necessità nei quali l‟aveva affiso il pensiero razionalistico antico, che escludeva dalla sua antropologia proprio ciò che per la visione cristiana è l‟essenza precipua e originaria dell‟uomo, la Libertà, in cui consiste l‟unicità e irripetibilità della sua esistenza singolare, in quanto essere spirituale, e non naturale. La natura umana, spiritualmente trasfigurata, poneva la singolarità dell‟uomo come l‟elemento divino di Verità custodito in interiore homine, che il Potere non considerava e le religioni politicizzate negligevano a favore degli astratti modelli legalistici di morale pubblica. Rappresentando il “Regno di Dio” come un luogo inaccessibile al Potere, Gesù emancipava il singolo uomo dalla necessità sia della

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specie biologica che dalla natura artificiale della condizione politica, rendendolo, non più un mero ente di ragione, ma una creatura divina avente in sé il suo fine spirituale, la fede nella Libertà dello Spirito, cioè in Dio, e dunque non disponibile a servire da strumento di un fine, naturale o collettivo che fosse, astratto dalla sua stessa concreta esistenza spirituale. Ponendo l‟uomo come una duplice realtà, che trovava in Cesare la sua completezza biologica, e in Dio la sua completezza spirituale, la concezione cristiana mnava alla radice l‟unità metafisica sulla quale si reggeva il Potere, consistente nella identità logicamente necessaria della Ragione umana con l‟Essere naturale, pensando la prima non più come una totalità ma come una possibilità, togliendole così il dominio ontologico del mondo, e il secondo come una creazione divina al servizio (della salvezza) dell‟uomo, privandola così del suo carisma sacrale. Scardinata dai suoi postulati ontologici razionalistici, l‟esistenza dell‟uomo si libera dal destino metafisico della Necessità e del Potere, disponendosi a una modalità di convivenza inter-personale, non più fondata sul riconoscimento polemico dell‟altro come polo dialettico del sé, ma bensì sulla volontaria adesione alla esistenza dell‟altro come il fine stesso della propria, unite nell‟amore comune al Cristo. L‟unità ecclesiale in Cristo diventava un modus vivendi radicalmente diverso da quello politico costituito dal Potere, che poteva controllare e infierire sulla carne dell‟uomo, ma era del tutto impotente a regnare sull‟intima e divina Libertà. Il Governo della comunità ecclesiale non poteva somigliare al Potere politico, poiché si rivolgeva alle singole anime, non alla collettività convivente dei corpi, sicché le due autorità dovevano avere una natura diversa e una amministrazione distinta. La loro distinzione non era paragonabile a quella tra Corona e Sovrano, poiché ineriva ad aspetti ontologicamente diversi dell‟umana esistenza, e non logicamente distinti, sicché non era neppure possibile porli in rapporto dialetticopolemico, come invece storicamente è avvenuto tra la Chiesa e lo Stato. Ma quello che ora maggiormente importa è fissare la differenza tra Potere e Governo. Infatti storicamente la politeia ha potuto soppiantare il Governo tradizionalmente legato ai valori della Weltanschauung mitologica in virtù della razionalizzazione della vita sociale in termini politici, semplòificando quindi la vita comunitaria alla sola relazione dei rapporti legali, fissati imperativamente da una autorità di Potere

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creata ad hoc da un patto civile tra cittadini eguali, costituitisi tali non perché lo fossero realmente, nella loro vita sociale, ma in virtù di una statuizione di legge (isonomia), che trasformava la loro identità tradizionale in una nuova, appunto politica. Costituzione dello spazio politico pubblico, semplificazione dei rapporti sociali e sostituzione della legalità con la normazione tradizionale sono elementi di uno stesso processo storico di razionalizzazione del mondo antico. Parimenti, razionalizzazione del mondo, ed esautorazione della funzione del Governo morale con quella del Potere legale, sono aspetti simmetrici e corrispettivi della costituzione della topologia del politico. Storicamente, la forma istituzionale che meglio realizza una struttura razionale di Potere donandole una sofisticata fisionomia giuridica supportata eticamente da una forte legittimazione religiosa è la Chiesa imperiale di Roma, erede diretta dell‟antico Imperium romanum, la quale ha funto da modello ideale dello Stato laico, che essa stessa ha concepito come la sua proiezione secolare e il polo dialettico della sua azione politica universale. Inutile aggiungere che la Chiesa di cui si parla è la Chiesa dokematica, ispirata al principio razionalistico dell‟unità religiosa, in cui l‟ideale della “dignità” imperitura del papato prende il posto di Dio eterno,810 e

810

Il principio giuridico della dignitas che, a differenza della titolarità degli individui fisici “nunquam perit”, fu coniata dal papa Alessandro III all‟inizio del sec. XIII, e incluso nel Liber Extra di Gregorio IX come Quoniam abbas e quindi confermato da Innocenzo IV nel suo Apparatus alle Decretali. Infine Bonifacio VIII, inserendolo nel suo Liber Sextus, lo estese come fictio juris razionale alla Santa Sede quale dignità del papatus che, come l‟imperium e la stessa dignitas, “non moritur”. Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 331-332. Come a suo tempo sottolineato da Baldo, “l‟impertatore può morire nella persona, ma la dignità in sé, o l‟imperium, è immortale, proprio come il sommo pontefice muore, mentre il sommo pontificato non può morire”. E dunque, anche nel caso della Chiesa, come in quello similare dell‟Impero o della Corona, “è evidente che il valore della perpetuità non era più centrato essenzialmente sulla divinità, né sull‟immortale idea di giustizia o in quella di diritto, quanto piuttosto sull‟universitas e sulla dignitas, entrambe immortali”: Ivi, pag. 341. Tale dottrina

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non la Chiesa pneumatica, ispirata al principio della fede soteriologica nella “santità” eterna. Il predominio storico dell‟una sull‟altra rappresentazione ecclesiale è conseguente all‟adozione preferenziale del carattere universale e quindi razionalistico-politico della conversione cristiana, estesa a interi popoli e alle nazioni comprese nei confini dell‟Imero romano, sul carattere elettivo della metanoia individuale, la quale non comporta una mera adesione esteriore ai culti cristiani e quindi alla loro considerazione prettamente religiosa, ma implicava e coinvolgeva un cambiamento radicale dei modi di vita tradizionali. Diventando una religione di Stato, il cristianesimo diventa instrumentum regni, anche se esercitato da parte della stessa Chiesa istituzionale. Infatti, fu la Chiesa che da corpus mysticum, secondo quanto sancito dal dogma contenuto nella bolla di Bonifacio VIII Unam Sanctam del 1302, assunse carattere corporativo (corporation), diventando una universitas, ossia un ente giuridico che nella sua persona idealis comprendeva beni, terre e uffici religiosi (collegia) e così alimentando la sostituzione della dignitas con il corpus, che anche per la Chiesa assunse un carattere politico, ossia uno statuto omologo a quello inerente agli affari mondani dei regni secolari. Il passaggio dalla dignitas al corpus politicus non segna soltanto una traslazione nomenclatoria del gergo giuridico canonistico a quello laicale, ma indic il processo di idealizzazione in senso politico delle concrete comunità sociali, le quali persero così la loro tradizionale fisionomia culturale e religiosa particolare, per assumerne una astratta e generale, inclusa nell‟organismo politico per mera sussunzione razionale. La conseguente impersonalità del Potere, esercitato ex officio su un corpo politico anonimo, si poteva logicamente affermare ed effettualmente esercitare solo a scapito del rapporto personale e carismatico tra i maggiorenti e le popolazioni autoctone, ossia a detrimento della forza dei Governi locali in cui si articolava il sistema feudale. Il rex e la lex andarono sempre insieme. Ma ciò che va in ogni caso tenuto presente è che la trascrizione in termini razionalistici della realtà trascendente la finitezza delle cose mortali, non servì a liberare la

canonistica fu poi trasferita nel sec. XIV “alla sfera secolare, agli imperatori e ai re”: Ivi, pag. 344.

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realtà materiale della vita umana dalle catene della necessità, ma viceversa a collegare a quelle catene, ossia al destino, anche la libertà spirituale dell‟uomo insegnata dalla predicazione evangelica. E ciò che doveva rimanere estranea alla dimensione terrena e alle sue logiche di dominio, finì per rappresentare una forma solenne di legittimazione religiosa del Potere politico, alla cui razionalizzazione veniva conferito un crisma di divina trascendenza, che priettava nell‟ ideale quella fede destinata allo spirituale. In campo strettamente ecclesiologico, l‟oggettivazione teologicogiuridica della stessa realtà della Chiesa di Cristo in istituzione storica papale, produsse la sostituzione del alla mistica  ispirata da Gesù, cioè un idolum tribus alla concreta comunità di fede, con la conseguente declinazione dell‟ispirazione cristiana al trascendente in termini di mondana perpetuità istituzionale, secondo i classici moduli pagani.811 Ciò provocò una possibile interscambiabilità tra la figura del pontefice e quella dell‟imperatore che trovò nel 1062, all‟inizio delle lotte delle investiture, in Pier Damiani il suo più lucido teorico.812 Ma fu in Baldo che si giunse alla identificazione della dignitas quale persona intellectualis, ossia del concetto giuridico, con la dignitas quale persona publica, ossia col corpo politico, e pertanto alla identità del corpus politicus col Rex, ossia lo Stato, di cui il re empirico e mortale è lo strumento incarnato ella sua dignitas, cioè del suo

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Come si riporta in una collezione del sec. XII di definizioni legali desunte dalle Istituzioni, “c‟è solo una cosa umana a essere sacra: le leggi; e c‟è un‟altra cosa divina a essere sacra: tutto ciò che riguarda la Chiesa”, con l‟ientificazione tra la volontà legalizzata del Potere sacralizzato dello Stato sovrano e la secolarizzazione dei beni ecclesiastici, che diventavano instrumenta separata, non in senso sacramentale di Cristo, ma in senso profano di un ente mondano. Cit. da E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, cit. pag. 57. 812 “Si trattava di una presa di posizione di carattere politico a livello quasi cosmico e che proponeva che i due poteri universali fossero incorporati l‟uno nell‟altro allo stesso modo in cui l‟ufficio regale e quello sacerdotale erano stati ridotti ad unità e quasi vicendevolmente “incorporati” nel divino modello dei due poteri, Cristo”: E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 376. La “confusione”, che però non era semplicemente “terminologica”, tra “corpo mistico di Cristo” e “corpo mistico della Chiesa”, si produsse soprattutto nella Chiesa: Ivi, pag. 384.

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princièpio o essenza ideale. e così la distinzione ideale e l‟unione reale dei “due Corpi del Re” hanno dato luogo al dogma dell‟Incarnazione politica, una incarnazione noetica della dignitas o del corpo politico, e quindi una nuova versione secolarizzata dell‟unione ipostatica della prima e della seconda persona, della dignitas e del rex”.813 La rappresentazione giuridico-concettuale della scorporazione della dignitas dalla figura reale del re, e della sua incorporazione nella figura ideale del Re, si rese possibile mercè la mediazione del modello idealistico della realtà come proiezione del pensiero, filtrato attraverso la cristologia cattolica e la rilettura in chiave canonica della tradizione romanistica dei giuristi italiani. L‟idea della Chiesa come il corpus mysticum Christi, canonizzata dalla bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII nel 1302, che servì efficacemente il papa “come arma nella lotta mortale che lo contrappose a Filippo il Bello re di Francia”, 814 trasformando il “corpo eucaristico” dei fedeli nel corpo politico della cristianità, inaugura concettualmente il processo di secolarizzazione della Chiesa, in quanto “santificava il corpus Christi juridicum, la gigantesca amministrazione giuridico-economica su cui si fondava l‟Ecclesia militans”, collocando “la Chiesa come corpo politico, o come organismo politico-giuridico sul medesimo piano dei corpi giuridici laici che stavano allora cominciando ad affermarsi come entità autosufficienti”,815 accreditando nel contempo la sfera politica come il

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E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 381. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 168.

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Già intorno al 1200, Simone di Tournai – che non fu il solo - aveva identificato il “corpo spirituale” di Cristo con il corpo “collettivo” inteso come “collegio ecclesiastico”: Ivi, pagg. 169-170. Il trapasso dal senso spirituale al senso sociologico del “corpo” cristiano avviene, come affermato nel testo, attraverso la mediazione concettuale razionalistica di tipo filosofico-giuridico, incrociando la tradizione romanistica con quella ellenistica. “In questa nuova teorizzazione dei „Due Corpi del Signore‟ [possiamo] riconoscere il precedente più preciso dei „Due Corpi del Re‟.[…] In questa evoluzione Tommaso gioca un ruolo chiave [col] sostituire, direttamente, il linguagio liturgico con quello giuridico”, per cui il corpus Christi è diventato persona mystica, ossia corpus iuridicum, il corpo politico, una astrazione sociologico-giuridica, la “corporazione di Cristo”: Ivi, pagg. 171 e 173 sgg.

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luogo elettivo di ogni realtà storica cristiana. Con la traslazione dell‟unità sacramentale in unità politica (tota politia christiana) si opera la fondamentale metabasi dell‟idea di cristiano regno della Libertà in profano regno della Necessità, prototipo di ogni altra razionalizzazione politica entro la civiltà europea.816 Non tenendo in debito conto l‟origine teologico-politica del processo di progressiva secolarizzazione della cultura europea, e le sue articolazioni modali, non si potrà giungere a comprendere neppure la questione fondamentale che idealmente la caratterizza sul piano etico-politico, ossia la risoluzione di ogni posizione razionale, propugnatrice di Libertà, intesa come emancipazione dell‟Essere dal suo fondamento di fede pre-razionale, nel suo opposto effettuale, la Necessità, congiunta a ogni processo di razionalizzazione del mondo, e conseguente alla stessa concezione idealistico-platonica dell‟Essere come modello universale dell‟ente, tale che la sua proiezione ideale (la Chiesa, la dignitas, la Società, lo Stato, la Nazione, la Classe, il Partito, il Mercato) ne determinasse la vera realtà, appunto ideo-logica e ipostatica, con il relativo feticismo idolatrico e le sue “alcinesche seduzioni” sociologiche. Infatti, la traslazione concettuale dal campo teologico a quello giuridico-politico fu resa possibile in conseguenza della fruizione congiunta degli stessi strumenti teoretici mutuati da parte della teologia cristiana dalla tradizione ellenistica, e quindi diffusi come paradigmi intellettuali nella

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“Nella misura in cui la Chiesa fu interpretata come un‟entità politica simile ad ogni altro corpo giuridico laico, anche la nozione di corpus mysticum andò assumendo contenuti politici laici”: Ivi, pag. 174. “La nobile concezione del corpus mysticum , dopo aver perso granparte del suo significato trascendente ed essere stata politicizzata e, per molti versi, secolarizzata dalla stessa Chiesa, divenne facile preda del mondo intellettuale dei politici, dei giuristi e degli studiosi in procinto di sviluppare nuove ideologie per i nascenti Stati territoriali e laici [inducendoli] ad una non superficiale appropriazione della terminologia non solo del diritto romano, ma anche di quello canonico e della teologia in generale”, fino a giungere, con Vincenzo di Beauvais, a indicare il corpo politico dello Stato col termine “corpus reipublicae mysticum”, giungendo così a “sfruttare le ricchezze delle dottrine ecclesiastiche trasferendo allo Stato laico alcuni dei valori soprannaturali e trascendenti tradizionalmente riconosciuti alla Chiesa”: Ivi, pagg. 178 e 179.

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cultura europea medievale e moderna. 817 Nondimeno, in ambito storicopolitico, la persistenza degli istituti di origine teologica medievale entro l‟apparato concettuale moderno, vieppiù secolarizzato, è stata dovuta, per un verso, alla articolazione, più o meno flessibile del “corpo politico” entro la struttura statuale, e per l‟altro alla capacità riservata al Dignitario, ossia al titolare ideale della dignitas, di conservare una qualche prerogativa di Governo morale, la quale, proprio perché distinta idealmente e funzionalmente dalle prerogative del Potere politico, manteneva un suo ufficio di legittimazione degli atti imperativi del legislatore. Il primo aspetto, diede origine alla struttura parlamentare della rappresentanza del corpo politico, che riuscì in qualche modo a trasferire entro la dialettica della rappresentanza politica degli interessi sociali il pluralismo originario del sistema feudale medievale, facendo dei moderni partiti politici degli aggiornati instrumenta coniuncta del corpo elettorale, versione secolare del teologico corpo mistico. La diffusione del parlamentarismo, non a caso, interessò le strutture statuali più fortemente radicate nella tradizione feudale europea, ma sempre in stretta concomitanza alla rilevanza istituzionale che la legittimazione storico-culturale assegnata alla dignità del Governo morale. Questo aspetto, infatti, non rilevava ai soli fini dell‟astratta ingegneria costituzionale, e dunque al mero bilanciamento tecnico delle funzioni istituzionali, ma ineriva precipuamente al ruolo morale riservato religiosamente alla persona dignitaria indicata come la titolare degli ideali “due corpi del Re”. E‟ indubbio che le forme politico-istituzionali

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Prima, dunque, della rinascita aristotelica, che interessò prevalentemente la riabilitazione esplicita della metafisica naturalistica greca, che rimaneva comunque implicita nell‟ontologia platonica. Significativamente, il corpo fisico e tangibile della persona empirica, fu indicato dai giuristi laici come “corpus verum”, mentre l‟entità giuridica (universitas) e sociologico-politica (populus) fu indicata come “corpus mysticum” o “fictum”, con una inversione dell‟originario principio ontologico di realtà, che considerava “vera” la realtà ideale eterna e non quella empirica transeunte. “Dopo che san Tommaso aveva ecclesiasticizzato il Filosofo, […] Goffredo di Fontaines, un filosofo belga del tardo XIII secolo, riuscì ad integrare con grande precisione il corpus mysticum negli schemi aristotelici”, per cui esso non fu più concepito come “una creazione soprannaturale, ma un dono di natura”, con la sostituzione della “natura” alla “grazia” divina: Ivi, pagg. 180 e 181.

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che maggiormente riuscirono stricamente ad armonizzare questa ideale correlazione tra Potere e Governo furono la Chiesa cattolica, orientata verso una rappresentazione terranea ed eurocentrica del governo divino, e l‟Inghilterra anglicana,818 secondo una versione marittima e mondialistica superatrice dello spazio dogmatico teologico-politico continentale,819 le quali riunirono in una stessa persona giuridicoreligiosa la dignità morale e la sovranità politica. La conseguenza diretta fu la stretta correlazione tra l‟universo di senso teologico e quello di senso politico, che si intersecarono inestricabilmente a definire un‟area semantica che ha strette attinenze con la vita civile, che assumeva una dimensione quasi sacrale, che era il rovesciamento speculare in senso profano del carattere politico assegnato alla patria celeste da Agostino. L‟idea di una patria non più solo letteraria o celeste ma politica, trasferisce la charitas verso il prossimo e la sua travagliata esistenza in un amor patriae localizzato, a difesa del quale si poneva non una militia coelestis ma armata, il cui sacrificium per gloriam venne comunque considerato alla stregua di un opus divinum ed equiparato alla beatitudine del martirio spirituale. 820 La caratterizzazione idealistica della patria come entità mistico-politica, trasferendo in essa le prerogative riservate alla Chiesa e all‟Impero universale, stabiliva un rapporto di equivalenza morale tra quella che era stata la communis patria trans-nazionale e la patria propria di carattere territoriale e nazionale, diversa a sua volta da quella locale (la patria sua del Digesto, intesa come pays o Heimat), conferendole un carattere idealmente universale di corpus mysticum patriae (o reipublicae) sul modello aristotelico del corpus morale et politicum, astratto da ogni grandezza geografica e connotato da “quel codice di

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Il giurista John Fortescue, contemporaneo del Cusano, nel suo De laudibus legum Angliae definì l‟Inghilterra “dominium regale et politicum”, mentre il trinomio di Re, Lords e Comuni furono paragonati alla divina Trinità e le procedure parlamentari all‟officio di una messa. Ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 194-195. Ciò a riprova ulteriore della giustezza storica della tesi di Schmitt. 819 Epimeteo, Finis Europae, cit., pagg. 193-197. 820

E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 210-211 e 220.

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etica patriottica che venne allora delineandosi per restare poi comunemente accettato sino ai giorni nostri”, sul quale ha insistito l‟umanesimo eroicizzando l‟eroe patriota e modellando la moderna mentalità laica, contrapponendolo al corpus mysticum ecclesiae.821 La insuperabile differeza tra i due corpi di Cristo e i due corpi del Re risiedeva sul carattere trascendente della regalità cristica, ossia sulla fides cristiana nel Governo divino, distinta dalla ratio delle sue forme teologico-politiche umane, laddove il concetto di Stato assorbì le due dimensioni nella sola potestà regale giuridicamente assoluta e politicamente totale. Le due dimensioni autoritative furono distinte da Dante come Governo morale degli uomini, necessario a seguito del peccato originale, rappresentato dal “papatus”, e come Potere politico sulle moltitudini che, per mancanza di maturità di senno, vivono in una condizione di “puerizia d‟animo”, espresso dallo ”imperiatus”.822 Il Potere politico s‟impone dunque poiché, come dice il Poeta, “la maggior parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine è ordinata, non veggono, per ciò che hanno chiusi li occhi de la ragione, li quali passano a veder quello”.823 La duplice mancanza, l‟una morale e l‟altra intellettiva, impedisce ai più di essere un “uomo perfetto” (optimus homo), che è modello esemplare del genus humanum su cui commisurare il valore di chi ricopre l‟ufficio papale e quello imperiale, essendo rispettivamente “maxime unus in genere suo”.824 I due generi rispecchiano la duplice realtà umana, volta per un verso, quello divino, allo spirituale, e per l‟altro, quello naturale, al materiale. Rispetto al filosofo pagano, l‟Uomo perfetto cristiano ha in sé la natura divina, che fa del suo spirito una componente eterna della sua vita terrena. Se fosse unicamente terrena e politica la natura umana, basterebbe all‟uomo coltivare il solo senno razionale, e dunque ricercare l‟ottimo vivere solo per il versante

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Ivi, pagg. 212-213, 229-230. Dante, Monarchia, III, XI, 52-57, pag. 264. Dante, Convivio I, 4, 3. ved. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 394.

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della saggezza politica. Ma l‟uomo cristiano, illuminato dalla Grazia, ha conseguito, tramite la Rivelazione del Cristo, la sua anima spirituale e divina, per cui ogni mancanza morale va riportata alla insufficiente consapevolezza della sua originaria caduta, ignota alla sapeinza antica. Voler stabilire una lotta tra le due nature umane, significa misconoscere l‟essenza stessa dell‟Uomo, e dunque ignorare lo stesso aradigma del Cristo uomo-dio. Proprio in considerazione di questa perturbazione morale e intellettiva è necessario all‟uomo comune, ossia alla gran masssa, avere a guida morale il Papa e politica l‟Imperatore, ossia entrambi. Sicché nessuno dei due può prevalere sull‟altro senza venir meno alla sua missione trascendente, di conciliare per quanto umanamente possibile le due nature distinte dell‟uomo, che si uniscono solo nel modello perfetto. Il corpus morale della Chiesa, misticospirituale, va pertanto armonizzato al corpus politicum del regno secolare, l‟Impero, guidato secondo ragione. La ragione umana, nondimeno, non può essere intesa alla stregua della filosofia pagana, ossia un sistema di concatenazioni concettuali necessarie e corrispondenti, 825 perché se così fosse non si comrenderebbe il fine della Grazia e il ruolo dello spirito nella esistenza umana. In tal senso, perciò, così come non ha ragione che il Potere imperiale combatta e fronteggi il Governo morale del papa, non ha senso che la ragione umana confuti la natura divina dell‟uomo, come invece aveva fatto la filosofia nei confronti del Mito pagano. E dunque, se la stessa sapienza antica si era sviluppata attraverso la contrapposizione del Logos al Mito, e duqne come una mito-logia, non poteva essere lo stesso per la ragione umana verso l‟anima spirituale

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“Il significato del termine „sistema‟ […] ha di mira sempre e comunque un insieme deduttivo in cui ogni cosa sia collegata ad ogni altra, in cui una catena speculativa conduca dai principi primi alle ultime conseguenze. Ora, proprio l‟idea di tali sistemi era radicata in una convinzione assiomatica: che esistesse una catena dell’essere, che la catena specuativa non poteva che riprodurre. Deve esistere un sistema di pensiero perché l‟essere stesso costituisce un sistema. L‟ordine della dimostrazione riproduce l‟ordine dell‟essere. ciò che è „primo‟ nella teoria è anche primo nella realtà, il principio effettivo delle cose”: H. Jonas, L’anima nello gnosticismo e in Plotino (1969), tr. it. in Dalla fede antica all’uomo tecnologico cit., pagg. 452-453.

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dell‟uomo: la prima espressiva della condizine politica, l‟altra della condizione ecclesiale. Ma dovevano armonizzarsi per superare la condizione imperfetta di divisione storica (humanitas). In questo senso, la Monarchia di Dante prefigura un eone armonico in cui gli astratti modelli antropologici che ancora si combattevano avrebbero trovato “quodammodo” il loro superamento “ad immortalem felicitatem” rappresentata dalla “christianitas”. Il concetto di christianitas in Dante sta a indicare una condizione spirituale superiore a quella humana civilitas, caratterizzata dalla condizione politica descritta da Aristotele e interessante tutte le culture umane classiche, ma superiore anche alla condizione ecclesiale, tragicamente divisa da quella politica, che caratterizzava i soli cristiani romani, confinati alla teocrazia del “papatus”. La Cristianità cui pensa Dante era universale, non più solamente circoscritta agli antichi confini imperiali romani. Egli non “tolse l‟ „umano‟ dal campo cristiano e lo isolò come valore autonomo”, come è stato affermato, 826 ma indicò nella condizione civile dell‟uomo quel fondamento naturalistico che non si doveva ignorare, ma che comunque andava trasceso, e non semplicemente distinto e combattutto o assecondato. Ciò che Dante contesta è propriamente l‟idea di una cristianità separata dal resto dell‟umanità e circoscritta a un‟area religiosa e culturale determinata (l‟Europa di Novalis). Egli trasferì nel concetto universale di “Monarchia” la condizione di “imperiatus” che storicamente era rappresetata dall‟Imperium romanum, che in quanto tale non era più proponibile, ma acquisibile come esempio storico imperfetto di quella humana civilitas che, caratterizzata dalle virtutes intellectuales, andava integrata dalle virtutes divinitus infusae della christianitas, a sua volta non più circoscritta alla limitata sfera del “papatus” ma estesa a tutto il genere umano. Solo attraverso una reale universalizzazione delle fino ad allora ristrette rappresentazioni della humanitas e della christianitas si sarebbe giunti per Dante alla finale realizzazione della organica christianitas universa, interessante tutto il genere umano, finalmente congiunto nel vivere la provvidenziale “pienezza dei tempi”,

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E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 399.

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rappresentata dall‟incarnazione di Cristo (Gal., 4, 4).827 Esattamente l‟esigenza di universalizzare in senso effettuale il principio moralespirituale, come già il principio etico-filosofico, implicava il ricorso all‟elemento politico come strumentale al conseguimento del fine morale (felicitas practica), riabilitando però con ciò stesso, assieme alla “libera forza dell‟intelletto”, 828 la logica di dominio di Cesare, il Potere, avallandone surrettiziamente la sua funzione esclusiva, pure criticata, e pertando operando quella metabasi dell‟astratta tesi nella sua concreta antitesi di cui si è detto. Ciò che Dante condivise con la sapienza pagana fu quanto la stessa teologia cristiana aveva acquisito, ossia l‟idea di una universalità realizzata storicamente e trasferita dal mondo ideale della ragione alla realtà in divenire del mondo, per fermarne il corso in una definizione perfetta ed eterna. E viceversa, ciò che Dante non intese del messaggio evangelico fu il suo richiamo alla concretezza esistenziale dell‟uomo, alla sua unità mistica con Cristo e politica con gli altri uomini, senza possibilità di confusione tra le due dimensioni. Il battesimo cristiano significava una rinascita spirituale, e non etico-politica, come pretendevano gli zeloti.829 Trasferire nella dimensione socio-politica l‟unità mistica della chiesa spirituale equivaleva a secolarizzare non già

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Non condivisibile la tesi di Kantorowicz, che fraintende il senso del richiamo dantesco all‟Impero romano, così come il rapporto tra christianitas e humanitas. Ved. Id., I due corpi del Re, cit., pagg. 400 sgg. e 415 sgg. 828 Ivi, pag. 404. “Quindi, concludeva Dante, la monarchia universale era necessaria per assicurare l‟attuazione perpetua dell‟intera humanitas; in senso qualitativo e quantitativo”: Ivi, pag. 405. Proprio l‟ipotesi razionalistca della realizzazione dell‟ideale segna il dominio della astratta ragione, della voluntas non sostenuta e guidata dalla Grazia, che si trasforma in voluptas, in volontà di potenza. 829

Diversamente E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pag. 416, alla cui acribia sfugge l‟evidenza simbolica che al Purgatorio segua il Paradiso, per il quale compagna di Dante, vate dell‟eone cristiano, è Beatrice, l‟immagine della Grazia dispensatrice di Beatitudine che assiste divinamente la sapienza umana, e non più il pagano Virgilio, il cantore della poesia classica e del mito imperiale di Roma, assistito “dalle sole forze dell‟intelletto e della ragione umana” (Ivi, pag. 419).

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la Verità di fede, ma solo l‟errore umano insito nella ipotesi razionalistica di poter realizzare un astratto modello ideale. Reale e concreto, per la visione crstiana, è soltanto la singola esistenza personale, a sua volta non traducibile, per la sua unicità singolare, in una astratta persona, ossia in un concetto. La gradezza della predicazione di Gesù fu di aver sfatata l‟illusione di poter trovare negli astratti enti collettivi quella realtà dell‟Essere universale ed eterno che invece solo è rinvenibile in interiore homine, nella coscienza della fede nella Verità come divino Mistero, inaccessibile al Potere, che domina il collettivo in quanto corpo politico, e non mistico. Sullo spirituale solo di Dio è il regno. E sul campo spirituale, per il cristiano, andava trovata la salvezza, non sul piano politico, in quanto l‟Uomo non è “un‟idea di ottimo uomo”, ma una concreta singolarità storico-spirituale.830 La dottrina cristiana, della quale si faceva sommo interprete Dante, non poteva pertanto essere brandita per scopi politici, essendo il contenuto umanamente comprensibile della Rivelazione sulla natura divina dell‟uomo. Cristo funge da memoria storica della condizione adamitica originaria, andata perduta dalla sapienza pagana, concentrata sui soli rapporti sociali, inter-umani e dunque politici. L‟umanesimo cristiano di Dante non può dunque separare le due nature, divina e naturale, né tantomeno tornare all‟umanesimo pagano, ossia a un‟antropologia immanentistica che pone l‟uomo nell‟esclusivo orizzonte esistenziale del politico, il cui strumento poetico è i Mito e quello concettuale la filosofia. E questo non potere deriva, non già da una costrizione logiconaturale o tradizionale, ma dalla consapevolezza interiore della coscienza, ossia dalla fede, la quale non giustifica razionalmente i suoi contenuti ma li pone in conseguenza della fiducia amorevole in Dio. Lo spostamento del baricentro noetico dalla necessità razionale, che consegue e giustifica l‟atto di fede nella verità del , alla libertà della , che fonda ogni pensiero e precede ogni atteggiamento pratico, costituisce un avanzamento della coscienza umana dal piano orizzontale dell‟uni-versale storico-geometrico a quello verticale dell‟in-finito e del tempo eterno. Tra le due dimensioni, della ragione e della fede, la differenza essenziale è nella esigenza uniforme ed esclusiva della prima e in quella unitaria e inclusva della seconda. Solo

830

Cfr. invece E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pagg. 422-423.

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all‟interno dell‟orizzote di fede, infatti, è possibile co-esistere col prossimo senza confliggere e negare, mentre la negazione ed esclusione dell‟altro-da-sé costituisce il rapporto metodico che la ragione stabilisce nel vario molteplice, nel tentativo incessante di dominare l‟altro assoggettandolo al sé, uni-formandolo. Ed è proprio questa ratio dominii a costituire l‟essenza stessa del Potere, che domina senza amare, e che lo distingue dal Governo, il cui fine è di legare con l‟amore per l‟altro ciò che il Potere scioglie con la ragione di sé. Una Monarchia che fosse solo un dominio globale avente ad oggetto il Potere dell‟uomo sull‟uomo, non costituirebbe un avanzamento qualitativo sul piano della coscienza spirituale, erché comunque circoscritto alla misura della finitezza e del transeunte, ossia di quella humana civilitas e di quell‟Imperium romanum già conosciuti storicamente e consegnati all‟esperienza del passato. Il problema di Dante è simile a quello avvertito a suo tempo da Platone: costruire un Regno duraturo e di pace non temporanea per l‟uomo di ogni tempo. Solo assistito dalla Grazia, rappresentata da Beatrice, il cristiano sarà “sanza fine cive / di quella Roma [imperiale] onde Cristo [e non l‟imperatore] è romano [cioè cattolico]”.831 La differenza è che mentre la Repubblica filosofica sarebbe un ideale iperuraneo da realizzare in terra con gli strumenti della sapienza umana, ossia la filosofia e le sue applicazioni etico-politiche, la Monarchia cristiana sarebbe garantita dalla sapienza divina rivelata dal Cristo, l‟unico che può garantire un regno “sanza fine”. Se sfugge all‟esegesi questo dato prioritario, essenziale all‟analisi critica, non si comprenderà il disegno soteriologico dantesco, annoverandolo tra le tante utopie letterarie vagheggiate da poeti e filosofi di ogni tempo. 

831

Dante, Purgatorio, XXXII, 100-102 sgg..

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