Nicoletta Matteuzzi
NICCOLÒ DI SEGNA E SUO FRATELLO FRANCESCO Pittori nella Siena di Duccio, di Simone e dei Lorenzetti Introduzione di Andrea De Marchi
NICCOLÒ DI SEGNA E SUO FRATELLO FRANCESCO
Aveva ragione Andrea De Marchi quando, alla fine del 2006, assegnandomi una ricerca seminariale sul piccolo Cristo crocifisso di Niccolò di Segna del Museo Horne di Firenze, mi assicurò che quell’opera mi avrebbe dato grandi soddisfazioni. Da allora la figura di questo pittore è stata una presenza costante e familiare attraverso i miei studi e il mio lavoro. Ringrazio dunque il professore, che mi ha fatto accostare a Niccolò e ha sostenuto fin da subito con entusiasmo la mia ricerca, tappa fondamentale quanto inaspettata del mio percorso di formazione, fino a rendere possibile la realizzazione di questo volume. Ringrazio anche la memoria del professor Miklós Boskovits, al quale devo la pubblicazione del risultato di quel primo lavoro e che mi ha svelato, in una rapida battuta, quale sia la segreta fortuna di uno storico dell’arte: divertirsi nel fare il proprio lavoro. Altri però devo ringraziare. Machtelt Brüggen Israëls e Dóra Sallay, per l’interesse mostrato per le mie ricerche, anche prima che si concretizzassero in questo volume, e per la non comune generosità con cui hanno condiviso con me le loro conoscenze, le loro riflessioni e la loro passione, dando valore anche alla mia voce modesta. Amici, colleghi e persone gentili che a vario titolo mi hanno sostenuto, aiutato, consigliato nel sincopato corso di questo lavoro: Gaia Ravalli, Silvia De Luca, Giovanni Giura, Benedetta Chiesi, Nicola Bernini, Laura Cirri, Alice Chiostrini, Maria Falcone, Anna Soffici, Emanuele Zappasodi, Gabriele Fattorini. Annamaria Guiducci (già direttrice della Pinacoteca Nazionale di Siena), Alessandro Martoni (Fondazione Giorgio Cini di Venezia), Elisa Bruttini (Fondazione Musei Senesi), Elisabetta Nardinocchi (Museo Horne). Paolo Bacci, Livia Aldobrandini Pediconi, Vittoria Gondi, Chiara Serena Lisetti, Alessandro Naldi, Ida Nocentini, Roberto Sigismondi. E inoltre Jan Simane e il personale della biblioteca del Kunsthistorisches Institut in Florenz; Giovanni Pagliarulo e il personale della biblioteca Berenson di Villa I Tatti a Firenze. L’Architetto Lorenzo Matteoli, per l’entusiasmo che ha messo nel suo lavoro di elaborazione grafica, che ha richiesto una partecipazione attiva e determinante, una comprensione profonda dei temi e dei problemi trattati, un’attenzione viva nel seguire e nel perfezionare le indicazioni ricevute. Il fotografo Claudio Giusti, per la professionalità con cui ha realizzato gli scatti per alcune delle schede di questo libro, in concentrato silenzio, parentesi nelle chiacchierate dei nostri viaggi. Non posso mancare di ringraziare, ancora una volta, Guido Tigler, Sonia Chiodo e i docenti del Dipartimento SAGAS dell’Università di Firenze, ad alcuni dei quali mi lega ormai un sentimento di sincera amicizia. Questo libro è per Lorenzo, che ha cambiato il corso della mia esistenza.
Nicoletta Matteuzzi
NICCOLÒ DI SEGNA E SUO FRATELLO FRANCESCO Pittori nella Siena di Duccio, di Simone e dei Lorenzetti Introduzione di Andrea De Marchi
© 2018 Edifir-Edizioni Firenze s.r.l. Via Fiume, 8 - 50123 Firenze Tel. 055289639 - Fax 055289478 http://www.edifir.it - edizioni-firenze@edifir.it Responsabile del progetto editoriale Simone Gismondi Responsabile editoriale Elena Mariotti Stampa Pacini Editore Industrie Grafiche - Ospedaletto (Pisa) ISBN 978-88-7970-902-6 In copertina e in IV di copertina: Niccolò di Segna, Polittico della Resurrezione (dettagli), Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista (cat. 22) Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, ConfArtigianato, CASA, CLAAI, ConfCommercio, ConfEsercenti il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale sopracitato potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto/dall’editore.
Indice
Le studiate morbidezze di un interprete della tradizione: per Niccolò di Segna, trecentista senese in solitaria Andrea De Marchi
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco 1. I documenti e le testimonianze
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2. La ricomposizione del corpus 14 3. La produzione di Niccolò di Segna, fra tradizione e nuovi stimoli (e alcune proposte per la fase giovanile)
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4. La decorazione punzonata
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5. Francesco di Segna
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6. Conclusioni
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Niccolò di Segna
1. Incoronazione della Vergine 74 2. Crocifissione, San Giovanni Battista, Stigmate di San Francesco 78 3. Crocifissione 82 4. Sante Caterina d’Alessandria, Maria Maddalena, Margherita d’Antiochia 86 5. Madonna col Bambino, i Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista(?), sei Angeli e donatore 90 6. Annunciazione 94 7. Croce 96 8. Madonna col Bambino 100 9. Madonna col Bambino 104 10. Madonna col Bambino 108 11. Polittico smembrato con la Madonna col Bambino e i Santi Benedetto, Michele Arcangelo, Bartolomeo, Nicola (ordine principale); i Santi Lucia, Lorenzo, Andrea, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Giacomo, Giovanni Gualberto, Maria Maddalena (ordine superiore); Cristo Crocifisso, due Santi Vescovi e i Santi Vittore, Caterina, Donato(?), Orsola, Francesco (predella) 112 12. Polittico con la Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista 140 13. Redentore; due Angeli 144 14. Madonna col Bambino 150 15. Madonna col Bambino 154 16. Polittico smembrato con la Madonna col Bambino e i Santi Lucia, Maurizio, Bartolomeo, Caterina d’Alessandria (ordine principale); i Santi Maria Maddalena, Domenico, Giacomo, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Nicola, Andrea(?), Francesco (ordine superiore) 160
17. Profeta Isaia 174 18. Croce 178 19. Redentore 182 20. Madonna col Bambino con San Leonardo e un Santo Vescovo; San Cristoforo; San Leonardo; San Pietro; Sant’Antonio Abate; Storie di Santa Caterina d’Alessandria 184 21. Transito di San Giovanni Evangelista; San Filippo Benizi, San Leonardo, Santo Stefano, Beato Gioacchino Piccolomini, San Lorenzo, San Filippo, San Michele Arcangelo, San Bernanrdo (clipei); San Gregorio(?), Sant’Ambrogio(?), San Gioacchino, San Giuseppe 190 22. Polittico della Resurrezione 198 23. Santo Vescovo (Gregorio?), San Giovanni Evangelista, San Giacomo, Sant’Agostino, Sant’Ambrogio, Sant’Andrea, Sant’Antonio Abate, San Giuliano 204 24. Tavoletta di Biccherna 214
Francesco di Segna
25. San Gregorio Magno appare a Santa Fina morente 218 26. Croce 222 27. Miracoli di San Leonardo; Cristo Giudice; quattro Evangelisti, Sant’Agostino, San Francesco, San Frediano(?), Santa 226 28. Croce 230 29. Madonna col Bambino e donatrice 232 30. Natività di Cristo con annuncio ai pastori e bagno del Bambino; Crocifissione 236 31. Madonna col Bambino 242 32. Madonna col Bambino 244 33. Madonna col Bambino e due Santi 246 34. Testa della Madonna 248 Elenco delle opere espunte dal catalogo di Niccolò di Segna
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Bibliografia 255 Referenze fotografiche
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Le studiate morbidezze di un interprete della tradizione: per Niccolò di Segna, trecentista senese in solitaria
Lo studio della figura di Niccolò di Segna dal punto di vista del metodo è estremamente stimolante. Non sorprende che in anni lontani sia stato liquidato dal palato fine di una critica imbevuta di idealismo crociano come “decadente e ritardatario” (così da Cesare Brandi nel 1933). Oggi però è necessario inquadrarlo nella specificità e complessità del suo profilo, quello cioè di un artista, nipote di Bonaventura, fratello di Duccio, che si sentiva, dopo la morte del padre Segna (tra 1326 e 1331) e di Ugolino (dopo il 1327), forse suo vero maestro, investito più di tutti della difficile eredità del patriarca della pittura senese, tanto aurorato quanto radicalmente superato, ma al tempo stesso voleva vivere consapevolmente la sua contemporaneità, riaffermare la validità di un linguaggio antico impregnandolo quasi in maniera subliminale di sensi più naturalistici ed espressivi, di un’eleganza più sciolta e suadente. L’inquadramento della figura di Niccolò di Segna nella Siena di Simone Martini e dei Lorenzetti, nei ruggenti anni Trenta e Quaranta, pone il problema delle diverse velocità dell’acculturazione, dello spettro differenziato di reazioni innescate anche dai rivolgimenti più profondi, alla luce di atavici conservatorismi del gusto e alla luce del prestigio di un mestiere perpetuato di padre in figlio, di maestro in allievo: il prestigio sempre risorgente della tradizione! Veteres et novissimi nella pittura di Niccolò di Segna convivono e provano ad amalgamarsi secondo una sfida obiettivamente ammirevole. Avendo studiato da anni i grandi trecentisti veneziani, giotteschi per i bizantinisti, bizantini per i trecentisti, e avendo cercato di riscattarne la peculiarità altissima, sono particolarmente intrigato dall’ingannevole tradizionalismo di Niccolò di Segna. Credo gli si debba riconoscere intanto un mestiere spesso assai virtuoso, che trionfa nelle tessiture studiate dei carnati sopra le basi scure, nella forbitezza lucente e metallica delle capigliature, nell’equilibrio fra disegno accurato e mollezze pittoriche, nelle copiose ornamentazioni degli oggetti gemmati e dei nimbi colmati da fantasie incise con lo stiletto, emergenti dalla granitura, e da varie combinazioni di punzoni. Ma credo che gli si debba riconoscere pure l’intelligenza di aver assimilato dapprima, sul 1330, qualcosa dell’eleganza di Simone Martini e Lippo Memmi, poi in maniera crescente negli anni Quaranta qualcosa della soda carnosità dei Lorenzetti, dell’ultimo Pietro specialmente, senza darlo a vedere, quasi sotto traccia, dissimulando tale aggiornamento nella perpetuazione apparente della solennità arcana appresa dal padre Segna e da Ugolino. La grandezza sempre stupefacente della produzione pittorica di Siena nella prima metà del Trecento riposa anche nella sua vivacità, nella polifonia di tendenze contrastanti, nella sorprendente coabitazione di tradizione e sperimentalismi, nel fatto che Simone e i Lorenzetti non svettino isolati, ma siano immersi in un mare magnum contraddittorio e plurale. La vicenda critica di Niccolò è stata assai tormentata e spesso gli sono state negate alcune delle sue opere più importanti, forse per il pregiudizio sul suo livello qualitativo e per l’idea che un pittore un po’ conservatore non potesse aver avuto un percorso così variegato. Tale persistente pregiudizio non faceva velo però al grande Giovan Battista Cavalcaselle, da cui prese le mosse la moderna ricostruzione critica dell’artista. Con discernimento saldo a partire da una sola opera firmata e datata, la Croce 7
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
del 1345 ora nella Pinacoteca nazionale di Siena, egli seppe infatti riconoscere la paternità di Niccolò da una parte nel più antico polittico vallombrosano n. 38 della Pinacoteca nazionale di Siena e nel San Bartolomeo n. 37 del medesimo museo, dall’altra nel successivo polittico della Resurrezione della Badia a Sansepolcro. L’interesse di Nicoletta Matteuzzi per questo artista è nato in seno ad un seminario di schedatura da me tenuto al Museo Horne nell’a.a. 2006/2007, all’università di Firenze, riprendendo una tradizione didattica instaurata a Milano e a Firenze da Miklós Boskovits. È fonte di grande soddisfazione che nel corso di più di un decennio quell’interesse sia maturato e quel seme abbia fruttificato un lavoro sistematico come quello che vede ora la luce. A Nicoletta fu assegnata una tavoletta minuscola col Cristo in croce, dal corpo estenuato come in Simone Martini, ma intessuto di pennellate metodiche ed ombre fumose di chiaro retaggio duccesco, confermato dall’arcaismo duecentesco della Croce azzurra orlata da una bianca filettatura. Il riferimento a Niccolò di Segna era già implicito nel collegamento da parte di Boskovits con il trittichino del Keresztény Múzeum di Esztergom, in seguito riconosciuto al maestro. La figura isolata senza astanti, entro una nuda vallata, la venatura orizzontale del legno, chiaramente segato ai lati, oltre la cornice per tre lati originale, ponevano subito dei quesiti difficili, dove l’insolita iconografia si sposava con l’insolita tipologia. Ha preso così forma la ricostruzione dell’intera predella e l’individuazione della sua pertinenza al polittico vallombrosano di cui restano a Siena, in Pinacoteca Nazionale, i laterali dei registri principali, col n. 38. Tale ricostruzione è stata variamente argomentata e perfezionata dalla studiosa in un apposito articolo su “Arte cristiana” del 2008, approvato da Boskovits, quindi in una scheda del catalogo a cura di Luciano Bellosi della collezione Salini nel castello di Gallico (2009), dove si conservano due pannelli della predella con Santi vescovi, e nella recente scheda della Madonna col Bambino della collezione Cini a Venezia (2016). Grazie a Beatrice Franci (2013) tale ricostruzione ha ricevuto una brillante conferma: come ha segnalato infatti la studiosa, autrice della voce del Dizionario biografico degli italiani sul pittore, il San Francesco della predella, dal 1973 depositato al Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, con la collezione Schiff Giorgini, venne inciso e riprodotto nel Fiume del terrestre Paradiso diviso in quattro capi, o discorsi. Ove si ragguaglia il Mondo nella verità dell’antica forma d’Habito de’ Frati Minori istituita da S. Francesco, di don Niccolò Catalano da Santo Mauro, edito a Firenze nel 1652, dove si dice che quel pannello faceva parte di una serie di tavole appese sulla parete sinistra della chiesa di San Donato (nuova denominazione della stessa badia di San Michele), recanti anche la firma “Nicolaus Segie (sic) de Senis” e una data 1260, frutto evidentemente di mala lettura. Il polittico vallombrosano, distinto da un chiaroscuro assai aspro, da vistose dorature e gemmature, da nervosi linearismi, sta in testa di serie rispetto ad altri polittici e dipinti del maestro, più addolciti, scalabili per via di analisi stilistica secondo una chiara scansione cronologica, vale a dire il polittico di San Giovanni d’Asso, la Madonna di San Galgano a Montesiepi scoperta da Pèleo Bacci nel 1935, che recava la data 1336, e poco dopo il polittico di San Maurizio a Ponte di Romana, bene ricostruito da Machtelt Brüggen Israëls (2015) e ricondotto da Gabriele Fattorini (2008) alla sua originale provenienza. Sono tutte opere rappresentative di una stagione assai remota da quella incarnata dagli affreschi dei Servi a Siena, dalla Croce del 1345 e dal seguente polittico di Sansepolcro, dove il chiaroscuro fumoso è stemperato in una carnosità più fusa e i linearismi taglienti sono riassorbiti. Giustamente questa monografia è allargata alla considerazione delle opere della cerchia di Niccolò di Segna, molte delle quali vanno probabilmente riferite al fratello Francesco, già documentato nel 1326, a cui in passato erano stato erano state attribuite alcune delle opere più importanti della maturità di Niccolò, come gli affreschi nella cappella Spinelli in Santa Maria dei Servi a Siena o il polittico di Badia a Sansepolcro. Una sua ricostruzione plausibile è già stata ben avviata da Alessandro Bagnoli (2003) grazie ad un’argomentata ipotesi in favore della lunetta affrescata in San Francesco a Lucca,
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dove Francesco è documentato nel 1348, quando prese a pigione una casa in contrada San Quirico all’Olivo. Non manca però la considerazione di un altro artista assai prossimo a Niccolò di Segna, l’anonimo Maestro di Monterotondo, a cui vanno di sicuro riferiti gli affreschi gustosi e bizzarri distesi nelle lunette della navata centrale della chiesa di San Polo in Rosso nel Chianti senese, un ciclo qui estesamente riprodotto, che meriterebbe di essere più noto, nonostante i restauri integravi delle incorniciature che falsificano l’ambiente, e soprattutto meglio tutelato, perché versa in cattivo stato. Una notevole attenzione è poi riservata all’analisi tecnica delle opere, nel ricco e puntuale apparato delle schede, ma pure in un paragrafo del saggio iniziale dedicato all’esame delle ornamentazioni incise dei nimbi e del fondo oro, che contemplano una varietà sorprendente di soluzioni e rivelano in maniera irrefragabile l’iniziale debito verso Ugolino di Nerio, primo duccesco reattivo alla civiltà del punzone simonana, molto più che verso il padre Segna. Sulla traccia aperta dagli studi pionieristici di Norman Muller (1994) e Joseph Polzer (2005), si evidenzia la combinazione di metodologie diverse e si conferma il tracciato cronologico individuato per via stilistica, grazie all’avvento solo in un secondo momento del sistema di cerchi punzonati concentrici, “pearls-on-a-string”. Il primigenio sistema decorativo trionfava magnifico nei fogliami carnosi e frastagliati, ricavati a risparmio contro la fitta granitura, nel polittico vallombrosano e in quello di San Maurizio. Come nella Maestà di Duccio, non se ne ripetono due di uguali, l’eccellenza è all’insegna dell’esibita variatio. In un suo capolavoro giovanile, la Madonna di Cortona, un’Odeghetria che rilegge il tema duccesco del Bambino che tira a sé il velo della Madre in maniera solenne e compassata, ma al tempo stesso già registra nella forma affusolata della mani le nuove eleganze simoniane, Niccolò inventò per l’ornamentazione del nimbo una soluzione unica al suo tempo, quasi concettuale, quella delle lettere dell’“AVE [Maria] GRATIA [plena]” inscritte una ad una entro dei clipei, anticipando quanto farà il Beato Angelico nella Madonna col Bambino della Galleria Sabauda! Il giovane Niccolò di Segna, all’ombra di Ugolino, ebbe antenne assai vigili. In testa di serie è posta una deliziosa Incoronazione della Vergine, di proprietà privata, che non si spiega semplicemente nell’alveo del duccismo più ortodosso, perché i gesti compunti degli angeli, con le braccia conserte e con le mani giunte, intrecciano un dialogo muto che crea un’atmosfera intimista e partecipe, dissimulata reazione alla più moderna sensibilità di Simone Martini e di Pietro Lorenzetti per la resa degli affetti. Nicoletta Matteuzzi propone di ravvisare nelle Stimmate di San Francesco sull’anta destra del trittico di Esztergom la conoscenza del tabellone affrescato da Giotto all’esterno della cappella Bardi in Santa Croce, nei primi anni venti. Dal punto di vista stilistico non si sarebbe mai sospettato nulla di simile, eppure l’idea del santo che si volge in maniera non canonica verso sinistra, per non dare le spalle all’altare maggiore (in Santa Croce) o al Calvario (nel trittico ungherese) e così si torce indietro verso il Cristo/ serafino, quasi preso di soprassalto, è proprio quella genialmente concepita da Giotto e qui intercettata da Niccolò. Ne discende l’intrigante ipotesi della Matteuzzi che Niccolò sia presto migrato dalla bottega paterna a quella di Ugolino di Nerio e abbia seguito quest’ultimo nella sua attività per Santa Croce a Firenze, collocata normalmente verso il 1325, ciò che spiegherebbe anche le stringenti affinità nell’operazione dei nimbi fra Niccolò di Segna e Ugolino, di cui già si diceva. Nella sua posizione, appartata ma non avulsa, Niccolò di Segna è testimone perfetto del registro dei suoi tempi. Intanto per quanto attiene all’importanza delle strutture, dei tipi del polittico gotico, denier cris irradiante ad Siena più che da qualsiasi altro centro, che racchiude potenzialmente linguaggi innovativi o conservatori, come già in Duccio stesso, per tale rispetto sperimentatore inesausto. Come si spiega che negli anni Venti il polittico più complesso e più sapiente, nell’orchestrazione combinata dei registri iconici e narrativi, sia stato quello di Ugolino di Nerio per l’altare maggiore di Santa Croce a Firenze, ben più avanti dei pur capitali e originalissimi grandi polittici di Simone Martini per Santa Caterina a Pisa e di Pietro Lorenzetti per la Pieve di Arezzo?
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Niccolò dipinse numerosi polittici, ma i più sono andati smembrati e vanno ricostruiti à rebours e parzialmente. Nella sua giovinezza spicca per la qualità anche degli ornati e del design complessivo il sontuoso polittico n. 38 della Pinacoteca Nazionale di Siena, che presenta in posizione d’onore San Benedetto e San Michele ed include nel registro superiore il fondatore dei vallombrosani, San Giovanni Gualberto. La provenienza dall’altare maggiore della chiesa dell’ordine a Siena, San Michele in Poggio San Donato, viene ora ulteriormente rafforzata dalla Matteuzzi grazie al chiarimento che un polittico vallombrosano analogo, databile alla fine degli anni cinquanta, capolavoro della giovinezza di Luca di Tommé, giusta la ricostruzione di Gaudenz Freuler (1997), proviene invece dalla Badia di Passignano, dove fu ritratto in maniera riconoscibile da Giovanni Maria Butteri, in un affresco della fine del Cinquecento raffigurante la Ricognizione delle reliquie di San Giovanni Gualberto nella stessa Badia. Molto deve alla Matteuzzi la ricostruzione dei pezzi mancanti del mirabile complesso, della predella divisa fra tante collezioni diverse e della Madonna col Bambino centrale, finita nella collezione Cini di Venezia, con un’ingannevole provenienza da San Francesco a Prato, dove erano confluiti nell’Ottocento i carmelitani scalzi, subentrati nel 1683 ai vallombrosani in San Michele/San Donato a Siena (e l’opera presentava infatti ridipinto lo scapolare della Madonna del Carmelo, poi levato). La soluzione della predella con santi a mezzo busto dipende da quella scelta da Simone Martini per il polittico domenicano di Pisa (1319-1320), ma in luogo degli archetti in gesso rilevato e dorato Niccolò mise a punto un sistema di incorniciature unico nel suo genere, senza apparente seguito: i tori delle cornici quadrangolari proseguivano col gesso e l’oro sui lati, prevedendo forse strette fasce ornamentali a scandire una sorta di teoria di finestrelle riquadrate e isolate, come dei box illusionistici (si noti che gli stessi nimbi sono tagliati dalle cornici). Non meno anomalo il raccordo tra le coppie di santi del registro superiore, non già incluse nelle consuete sagome trapezoidali, ma raccordate da segmenti d’arco, che ribattono la centina esterna, alle sovrastanti cuspidi triangolari, perdute ma di cui resta l’invito e che si possono immaginare su modello di quelle del polittico di San Giovanni in val d’Asso, finite a Cleveland e Raleigh. Sono indizi di un’attenzione speciale alla concezione strutturale del polittico e di una sperimentazione tipica di una fase di transizione, quando si doveva ancora definire il canone del polittico rastremato a più registri. Sul 1330 Niccolò di Segna è in ciò sperimentatore non secondo ai fratelli Lorenzetti. Il corpus di Niccolò di Segna costituisce poi un termometro prezioso degli svolgimenti più generali della pittura senese fra gli anni Venti e il fatidico 1348, a cui pure egli sopravvisse (stante la biccherna a lui attribuibile del 1350), ma forse per poco. Pur nella sua posizione quasi deliberatamente defilata, egli registra fin dalle Madonne giovanili di Figline Valdarno e di Cortona e poi significativamente nel polittico vallombrosano il prevalere dell’influsso simoniano e memmiano fra terzo e quarto decennio, mentre la partenza di Simone Martini per Avignone e poi la sua morte nel 1344 si riverberarono nell’ascendente crescente assunto dai fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti, di cui si fece accorto lo stesso Niccolò, in maniera preponderante dopo il 1340, quando risentì specialmente dell’opera di un Pietro Lorenzetti maturo, ormai stemperato dalle punte più aspre e potentemente espressive della sua giovinezza. La mollezza torpida e tranquilla dell’ultimo Pietro Lorenzetti poteva essere più facilmente imitata da Niccolò di Segna e calata in pattern, schemi grafici e compositivi in cui ancora traspare l’antica traccia di un remoto retaggio. Nel mirabile polittico della Badia di Sansepolcro, verso il 1348, le ascendenze diverse – duccesche, ugoliniane, simoniane, memmiane, lorenzettiane - si confondono in una miscela modernamente antica. La narrazione della Passione di Cristo nella predella cela bene l’omaggio ai più aspri e grandiosi prototipi lasciati da Pietro Lorenzetti trent’anni prima ad Assisi, ma alla fine ha una cadenza gotica e graffiante, moderna, che a quella data corrisponde ad esempio agli smalti pur più impetuosamente caratterizzati di Ugolino di Vieri ad Orvieto, di pochi anni precedenti (1337-1338). I corpi delle figure maggiori si impongono con una monumentalità più carnosa e respirante che nel polittico 10
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vallombrosano di San Donato di vent’anni prima, asprigno e corrusco, ma sono poi come depressi e schiacciati dal dominante e virtuoso linearismo, che depotenzia le ombrosità dal loro valore costruttivo lorenzettiano, le riduce a meri valori di superficie. Proprio l’assidua attenzione ai valori di superficie – intreccio metodico delle pennellate, profili nettamente rifilati, pieghe iterate ritmicamente, ornamentazioni dorate minute e ben trapuntate – costituisce allora il filo rosso di una parabola lunga poco più di un ventennio, per nulla banale, intensa e a modo suo assai attenta nel reagire ai tempi mutati. Andrea De Marchi
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1. I documenti e le testimonianze Figlio d’arte, Niccolò risulta direttamente imparentato con Duccio di Buoninsegna attraverso suo padre Segna di Bonaventura, figlio del fratello del grande maestro senese1. A lui viene ormai riferito un folto catalogo di opere2 e tuttavia le notizie che lo riguardano sono decisamente limitate. Il suo nome è noto principalmente grazie alla firma lasciata sulla Croce datata 1345, segnalata da Ettore Romagnoli nel 1835 nel refettorio dei Carmelitani Scalzi e conservata nella Pinacoteca Nazionale di Siena3 (n. 46; cat. 18). Al 4 novembre 1331 risale un documento di affitto biennale di una bottega di proprietà dei frati della Casa della Misericordia dei poveri nel popolo di San Donato a Siena, contrada Camporegio, in cui viene citato “Niccolaus pictor olim Segne pictoris de Senis”. Rintracciata da Scipione Borghesi e Luciano Banchi sullo scorcio dell’Ottocento, la notizia presenta Niccolò come un pittore già indipendente e responsabile di un’attività, oltre ad acclarare la morte del padre Segna di Bonaventura4, la cui ultima menzione documentaria risale al 1326. La successiva attestazione viene da un’iscrizione contenente, tra l’altro, la firma di Niccolò e la data 1336 sulla tavola di una Madonna col Bambino della cosiddetta Sacrestia della Rotonda di San Galgano a Montesiepi presso Chiusdino, affrescata da Ambrogio Lorenzetti. L’iscrizione è perduta, anche a causa della travagliata storia conservativa dell’opera, ma fu trascritta nel XVII secolo da padre Antonio Libanori, abate di San Galgano, e finalmente considerata da Pèleo Bacci nel 1935 e messa in relazione con la Madonna ora presso il Museo di Chiusdino5 (cat. 15). Se è sfuggita all’attenzione degli studiosi la breve nota di Alessandro Lisini (1927) di una menzione di Niccolò il 14 novembre del 1344 nei registri della Gabella di Siena6, più recentemente una citazione è stata rintracciata da Franco Polcri nella memoria di un documento di pagamento del 12 settembre 1348, con cui Niccolò viene compensato dei quarantatré fiorini previsti per la fornitura di una tavola per l’altare maggiore della chiesa dei frati di Sant’Agostino di Borgo San Sepolcro, da collegare a un documento di commissione del 19 luglio 1346, in cui, per espletare le volontà espresse nel testamento di Fuccio di donna Imeldina del 1343, si stabilisce la realizzazione di una tavola da consegnare entro due anni7. Donal Cooper ha integrato questa notizia con altri documenti di pagamento a Niccolò per
Bacci 1944, p. 48. Cfr. Franci, in Duccio 2003, pp. 354-355. 3 Romagnoli ante 1835, II, p. 651. Bacci 1944, pp. 45-46. 4 ASSi, Registri della Casa di Misericordia, n. 12, c. 49. Cfr. Borghesi-Banchi 1898, pp. 16-17, n. 11; Bacci 1944, p. 44. Il giorno di San Michele è preso quale data di decorrenza del contratto, dal 29 settembre 1331 al 29 settembre 1333. 5 Bacci 1935, pp. 1-13. Idem 1944, p. 45. 6 Lisini 1927, p. 304. ASSi, Gabelle, Denunzie, ad annum 1334, c. 337. 7 Polcri 1995, pp. 35-40. ACS, serie XXXII, Compagnia e Fraternita di San Bartolomeo, filza 176, Libro di memorie e estratti di 1 2
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la stessa opera destinata agli Agostiniani dall’agosto del 1348. Secondo lo studioso inglese va collegata alla sua attività anche una carta di commissione del 5 febbraio 1348, da lui rintracciata, per un’opera destinata all’altare maggiore della cattedrale biturgense di San Giovanni Evangelista, che ha proposto di riferire al polittico della Resurrezione (a cui erroneamente Polcri collegava i documenti da lui reperiti, relativi invece a un polittico perduto; cat. 22)8. A queste notizie si può aggiungere anche la testimonianza di un’ulteriore firma di Niccolò su un polittico già presente nella chiesa vallombrosana di San Michele in Poggio San Donato a Siena, pubblicata nel 1652 dal francescano Nicolò Catalano su indicazione di Antonio Maria Lisi (1648), che legge in modo inesatto “Nicolaus Segie de Senis” e la data 12609. Nonostante le incongruenze della trascrizione, dovute probabilmente alla cattiva conservazione dell’epigrafe, numerosi indizi consentono di avanzare l’ipotesi di identificazione dell’opera con il polittico n. 38 della Pinacoteca Nazionale di Siena, completato al centro dalla Madonna col Bambino della Galleria Cini di Venezia10 (cat. 11). Le informazioni disponibili consentono di collocare la data di nascita di Niccolò verso i primi anni del XIV secolo, tenuto conto che, in quanto titolare di una bottega, egli doveva avere almeno ventun’anni al momento della stipula del contratto d’affitto del 1331. A quella data Niccolò dimostra in ogni caso la capacità di una produzione già matura, coerentemente con una commissione prestigiosa come quella vallombrosana che, come si cerca di dimostrare in questo volume, risulta ormai preceduta da una serie di opere assegnabili a una fase più sperimentale e formativa, in contatto col padre Segna di Bonaventura, ma probabilmente pure con Ugolino di Nerio. Del resto l’apertura di una bottega a proprio nome può essere stata dettata dalla contingenza della morte del padre e forse dello stesso Ugolino. La vita di Niccolò di Segna si svolge dunque nella prima metà del Trecento. I documenti di Sansepolcro – in particolare quello plausibilmente legato alla commissione del polittico della Resurrezione – contribuiscono a smentire la tradizionale convinzione che egli fosse scomparso nel corso della pestilenza del 134811: tuttavia l’assenza di opere a lui riferibili nella seconda parte del secolo fanno presumere che Niccolò non sia sopravvissuto a lungo dopo la conclusione del polittico della Resurrezione e la data 1350 della tavoletta della Biccherna che gli viene attribuita (cat. 34) può essere considerata un valido termine convenzionale in riferimento alla sua morte poco dopo.
2. La ricomposizione del corpus A lungo il giudizio su Niccolò si è basato necessariamente sul pressoché esclusivo riferimento della Croce del 1345, che per diversi aspetti risulta poco rappresentativa del suo stile e delle sue capacità, dando adito a pareri a volte sostanzialmente negativi12, ma che in ogni caso non hanno impedito a Giovan Battista Cavalcaselle di accostargli precocemente il notevole polittico di Sansepolcro e poco
“lascite a condizione” e d’altri affari economici della Fraternita di San Bartolomeo, compilato nel 1343 e continuato fino al 1386, cc. 28, 179v-181v. 8 Cooper 2004, pp. 125, 128 nota 2. ASFi, Notarile Antecosimiano, n. 2263, filza testamenti, n. 34. 9 Catalano 1652, p. 477. Franci 2013. 10 La probabile destinazione di quest’opera nell’abbazia in Poggio San Donato potrebbe del resto essere considerata in riferimento al documento del 1331, da cui la bottega affittata da Niccolò per due anni risulta posta nell’area prossima al complesso monastico e che fornisce un riferimento compatibile con la cronologia proposta in questo volume per il polittico n. 38. D’altronde gli stessi documenti del 1346 e 1348 contribuiscono ad attestare che la realizzazione di un polittico a più ordini richiedesse circa un paio d’anni di lavoro. 11 Bacci (1935, p. 12) ne aveva supposto la morte verso il 1345, cosicché avrebbe lasciato incompiuta la Croce n. 46. 12 Cfr. De Nicola 1912, p. 147.
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dopo le tavole del polittico n. 38 e il San Bartolomeo n. 37 della Pinacoteca senese13. Del resto Frederick Mason Perkins, dopo una prima lettura del percorso di Niccolò nell’esclusivo solco della lezione di Duccio (1913), aveva compreso che la Croce n. 46 non potesse valere come esempio assoluto della sua varia e all’epoca ancora incerta produzione (1933)14, nella quale prima di lui Curt Weigelt – che pure gli attribuisce alcune opere non pertinenti – e Raimond van Marle avevano intuito i caratteri evolutivi essenziali, martiniani e lorenzettiani, innestati sul substrato duccesco mediato dall’esempio attivo di Segna15. La comprensione di Niccolò è stata tuttavia condizionata fino al primo terzo del XX secolo da una grande incertezza di attribuzioni e gli sono state accostate le opere più varie, spesso non confermate dalla critica successiva, maggiormente consapevole. Ne è una testimonianza efficace il giudizio di Cesare Brandi, che, basandosi su un corpus formato in gran parte da opere riconducibili al fratello Francesco di Segna e da cui vengono escluse tutte quelle più significative di Niccolò conservate in Pinacoteca (il San Bartolomeo n. 37, il polittico n. 38, la Madonna col Bambino n. 44), lo definisce uno stanco duccesco “decadente e ritardatario”16; e così gli indici di Bernard Berenson, comprendendo quello del 1932 solo sei pezzi su diciotto effettivamente riconducibili a Niccolò, oltre ad alcune opere di Francesco e alla Croce n. 21 di Segna, praticamente tutte riconfermate nel 1936 – al di là dell’assegnazione della Madonna della Misericordia di Vertine – nonostante l’aggiunta fondamentale della Madonna col Bambino di Montesiepi del 1336 sulla scia dell’articolo di Pèleo Bacci17. La conoscenza di Niccolò e gli elementi costitutivi del suo corpus hanno potuto difatti precisarsi a seguito dell’individuazione della Madonna ora nel Museo di Chiusdino, che ha costituito per lo stesso Bacci l’occasione di una riconsiderazione del pittore alla luce della critica precedente, con un tentativo riuscito di dare definizione ad un primo coerente, per quanto esiguo, gruppo di opere, composto dall’affine Madonna col Bambino n. 44 (cat. 14) – già assegnatagli da Emil Jacobsen e Bernard Berenson ma decisamente negata da Cesare Brandi18 – e dal più antico polittico n. 38, nel quale Bacci individua in particolare il segno della transizione rispetto alla tradizione paterna. Nell’analizzare quest’opera lo studioso, che già aveva sottolineato caratteristiche tecniche peculiari di Niccolò come la pastosità del colore, funzionale all’ottenimento di forti chiaroscuri, coglie anche gli elementi psicologici, oltre che formali, tipici della maggior parte delle sue figure, “un po’ tristi, assorte”.
Nel secondo volume della prima edizione della sua opera sulla storia della pittura italiana, edito nel 1864, Cavalcaselle cita la Croce n. 46, riportando la firma di Niccolò, il polittico della Resurrezione, visto nella sacrestia di Santa Chiara con le tavolette della predella e delle “cuspidi” sul parapetto della cantoria, e pezzi già in collezione Ramboux, tra cui alcuni santi dall’ordine superiore del polittico di San Maurizio (Cavalcaselle-Crowe 1864, II, pp. 58-59). I nn. 37 e 38 della Pinacoteca Nazionale sono menzionati nel terzo volume dell’edizione italiana del 1885, in cui lo studioso nota caratteri tipici della maniera di Niccolò (Cavalcaselle-Crowe 1885, II, pp. 34-35). Langton Douglas aggiunge, riferendoli a Segna o al suo ambito, il polittico di San Giovanni d’Asso e le Madonne n. 44 ed ex Locko Park, oltre a quella di Roma, data in questo volume a Francesco (Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, pp. 28-29). Edward Hutton, da par suo, indica il polittico n. 38 e il San Bartolomeo n. 37 come opere della scuola di Niccolò (E. Hutton, in Cavalcaselle-Crowe 1909, II, pp. 22-24). 14 Perkins 1913, p. 36; Idem 1933a, p. 53. 15 Weigelt 1911, p. 263; il giudizio di Weigelt è però falsato dalle attribuzioni a Niccolò della Croce dei Servi di Ugolino, della Croce di Arezzo di Segna, dei Santi Ansano e Galgano di Bartolomeo Bulgarini e dei Santi Francesco e Ludovico di Lippo Memmi della Pinacoteca Nazionale di Siena (Torriti 1990, pp. 54-56). Van Marle 1924, II, pp. 157-161; Idem 1934, II, pp. 150-153. 16 Brandi 1933, pp. 22-27, 223-225, 278-281. Niccolò non viene preso in considerazione in Idem 1951. 17 Berenson 1932, pp. 396-397; Idem 1936, pp. 340-341. Nella lista postuma del 1968 di Berenson, la cui autorialità è però incerta, sono accolte le aggiunte di Gertrude Coor (cfr. infra) e vengono inoltre avanzate alcune proposte pertinenti insieme ad altre errate, in un elenco ancora disorganico: Idem 1968, I, pp. 299-300. 18 Jaconbsen 1907, pp. 23-24; lo studioso tedesco non gli assegna invece le tavole nn. 37 e 38, mentre gli dà i Santi Ansano e Galgano di Bartolomeo Bulgarini. Berenson 1932, p. 397. 13
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La meditata revisione di Bacci non ha tuttavia dato adito a ulteriori immediati approfondimenti e la figura di Niccolò è stata nuovamente considerata in senso critico solo dopo circa un ventennio da Enzo Carli, a cui si deve un articolato tentativo di inquadramento, che però continua a risentire della definizione ancora sfuggente di un corpus condiviso di Niccolò, che si riverbera nel rifiuto dell’attribuzione del polittico n. 38 e nell’assegnazione invece di due opere poi ricondotte nei cataloghi di Simone Martini e Ugolino di Nerio: la problematica Madonna della Misericordia di Vertine e la grande Croce della basilica di Santa Maria dei Servi di Siena19. Ne risulta un parere positivo su Niccolò, tuttavia falsato da accostamenti in questo caso eccessivamente fiduciosi. Contemporaneamente Gertrude Coor Achenbach ne riconosceva la sottostimata qualità in un contributo decisivo per la chiarificazione e il corretto incremento della sua produzione20. La studiosa, partendo dall’analisi della Santa Lucia conservata a Baltimora, ha aggiunto alla lista la tavola n. 37 della Pinacoteca con San Bartolomeo (già considerata opera dello stesso autore del polittico n. 38 da numerosi studiosi prima di Bacci, pur senza precisarne l’identità)21 e di conseguenza le altre tavole relative allo stesso polittico (cat. 16), insieme alla Madonna Cini di Venezia, che viene attribuita a Niccolò per la prima volta, e inoltre al trittico di San Giovanni d’Asso (cat. 12). Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso diverse opere si sono aggiunte alla spicciolata al catalogo di Niccolò per merito di Federico Zeri22, Henk van Os23, Luisa Vertova, Hayden Maginnis e Miklós Boskovits: questi ultimi tre studiosi in particolare hanno riconosciuto rispettivamente la sua mano nelle Madonne col Bambino di Locko Park, Cortona e della collezione Berenson a Villa I Tatti presso Firenze24 (cat. 9-10, 16a). Se Vertova – come già Carli – sottolineava la necessità di valutare attentamente le attribuzioni a Niccolò per evitare che sotto il suo nome venissero collocate opere di varia mano, stilisticamente comprese tra Segna e i Lorenzetti, Maginnis esprimeva di nuovo un giudizio non troppo lusinghiero su Niccolò, definendolo un pittore minore e conservatore, poco abile e fondamentalmente ripetitivo nella costruzione e nella resa delle figure, seppur ravvivato dall’esempio dei principali maestri dell’epoca. Escluso dalla lista di Bacci e assegnato ipoteticamente a Francesco di Segna da Coor, seguita pure da Ferdinando Bologna25, il polittico della Resurrezione di Sansepolcro era ritenuto da Roberto Longhi il capolavoro di Niccolò26. Proprio la sostenuta qualità dell’opera ha dato adito al persistere di dubbi sulla sua attribuzione e alla creazione da parte di James Stubblebine nel 1979 di un parallelo “Sansepolcro Master”, definito il migliore dei contemporanei di Niccolò, a cui assegnare una parte delle opere già ricondotte a Niccolò stesso e in seguito riconfermategli27, staccandole da quelle ritenute
Carli 1955a, pp. 59-64. Per la complessa vicenda critica delle due opere, ancora aperta in particolare per la prima, si rimanda ai recenti contributi di Pier Luigi Leone De Castris (2003, p. 344) e Aldo Galli (in Duccio 2003, pp. 358-360). 20 Coor Achenbach 1954-1955, pp. 79-80. 21 Jacobsen 1907, p. 24. Weigelt 1911, p. 264. G. De Nicola, in Mostra 1912, p. 37, cat. 85. Lusini 1912, p. 135; van Marle 1924, II, p. 94; Idem 1934, II, p. 95. 22 Zeri 1967, p. 477; Idem 1978, p. 149. Nei due interventi vengono riferiti a Niccolò, rispettivamente, otto tavolette con santi a mezzo busto divise in varie collezioni europee e americane, tre tavolette con i Santi Caterina, Vittore e Orsola, poi ricondotte alla predella del polittico n. 38, e la cimasa col Redentore ora in collezione Salini (cat. 11, 19, 23). 23 Van Os 1972, pp. 78-88; lo studioso assegna a Niccolò le tre cuspidi con Redentore e due Angeli dei musei di Raleigh e Cleveland (cat. 13). 24 Vertova 1968, pp. 24-25, figg. 3-5. Maginnis 1974, pp. 214-218. Boskovits 1975, pp. 14-15. 25 Bologna 1961, p. 36. 26 Longhi 1946, p. 158; Idem 1951, p. 54. 27 Stubblebine 1979, I, pp. 153-156; II, figg. 527-545. Ritenendo il Maestro di Sansepolcro appena più tardo di Niccolò, in quanto attivo in particolare nel quinto decennio del Trecento, gli assegna il polittico n. 38, le Madonne di Cortona e dei 19
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autografe28. Stubblebine è inoltre il primo a cercare di ricostruire anche la fase giovanile di Niccolò, riferendogli tuttavia poche opere troppo antiche, da ricondurre semmai a Segna29. Nello stesso anno non ha contribuito a fare chiarezza il volume di Cristina De Benedictis, che ha ripartito (come Bologna) le opere riconducibili a Niccolò tra lui e Francesco, al quale la studiosa ha generalmente riferito i prodotti più tardi e migliori, tra cui il polittico della Resurrezione, confermando una certa sfiducia ancora riservata al più noto dei figli di Segna30. I dubbi sull’attribuzione del capolavoro biturgense allo stesso Niccolò sono stati finalmente superati grazie ai documenti reperiti da Polcri, che attestano almeno la presenza del pittore a Sansepolcro in anni perfettamente compatibili con lo stile espresso dal polittico. Anche al di là dell’interessante postilla di Cooper, l’opera è ormai concordemente riferita a Niccolò e rappresenta un elemento essenziale per la comprensione della sua personalità artistica e per la ricostruzione su basi stabili della sua attività, che aveva già visto, tra l’altro, riconfermata da parte di Piero Torriti l’attribuzione del polittico n. 38 nell’ultima redazione del catalogo della Pinacoteca Nazionale di Siena (1990), superando i dubbi dell’edizione del 197731. La valutazione di Niccolò di Segna ha dunque conosciuto forti oscillazioni, certamente dovute all’incertezza di un catalogo che è stato a lungo in fase di definizione e la cui stessa ricostruzione d’altra parte appare, a sua volta, in balìa proprio dei giudizi (o pregiudizi) riguardo a un pittore ritenuto da molti poco abile, ma al quale è invece possibile accostare un corpus di opere vasto e coerente, caratterizzato da una certa varietà di tendenze, elaborate attraverso l’appropriazione di diverse sollecitazioni, sotto cui sono però sempre riconoscibili i tratti peculiari di un artista che non perde di qualità nel corso della carriera e anzi raggiunge alti risultati proprio nella sua fase estrema, anche passando attraverso prove meno felici, che tuttavia si possono leggere nell’ottica delle sperimentazioni che hanno poi condotto a esiti qualitativi troppo spesso ingiustamente rifiutati in riferimento al suo nome. Negli anni Ottanta del Novecento sono stati accostati a Niccolò diversi pezzi minori, riferibili alla sua fase precoce32, e l’attività di frescante è stata presa in considerazione in particolare da Paolo Torriti33. La critica più recente ha poi contribuito a dare definizione al catalogo e alla cronologia – tuttavia non ancora perfettamente condivisa – e si è concentrata sulla precisazione delle ricostruzioni e delle provenienze. Hanno svolto un ruolo fondamentale in questo senso Beatrice Franci e Machtelt Israëls34: la prima in particolare ha riunito criticamente in un corpus coerente le opere assegnate a Niccolò, Tatti, il polittico di San Giovanni d’Asso, le tre cuspidi di Raleigh e Cleveland, gli scomparti di predella coi Santi Vittore e Orsola, le tavolette con santi già trattate da Zeri (1967). Sono invece da escludere due cuspidi con Angeli. L’autore ha peraltro avanzato l’ipotesi che dietro il Maestro di Sansepolcro potesse celarsi Francesco di Segna. 28 Stubblebine 1979, I, pp. 153-154; II, figg. 473-498. Oltre alle opere firmate, lo studioso americano inserisce in questo catalogo il polittico ricostruito da Coor, compresa la Madonna Cini, insieme a quelle di Locko Park e n. 44; inoltre la cimasa Salini e la tavoletta di predella con Santa Caterina; viene anche precisata una vaga ma brillante attribuzione a Niccolò della Croce di Bibbiena proposta da Margherita Moriondo nel 1950 (cat. 7). Da escludere la cuspide con Redentore del Metropolitan Museum di New York, l’Incoronazione della Vergine del Museo Szépművészeti di Budapest (per la quale si veda V. Schmidt, in Duccio 2003, p. 262, che la assegna genericamente alla bottega di Duccio) e le tavole sorelle delle Sante Lucia e Margherita di Budapest e Portland (per cui cfr. infra). 29 Stubblebine 1979, I, pp. 138-139; II, figg. 332-334. 30 Diverse opere sono comunque da espungere dal catalogo di Niccolò (a parte alcune da ricondurre allo stesso Francesco): tra le altre, la Madonna di Vertine e la Croce dei Servi, la Crocifissione n. 68 della Pinacoteca senese del Maestro di Monteoliveto, la tavoletta con la Crocifissione e i due ladroni della Società di Esecutori di Pie Disposizioni di Siena, che non appartiene neanche a Francesco, come invece pensa Alessandro Bagnoli (2009b, p. 442). 31 Torriti 1977, p. 83; Idem 1990, p. 39. 32 Si tratta del trittichino di Esztergom, della cuspide di Philadelphia, della tavoletta ex Thyssen-Bornemisza, dell’Annunciazione Martello, assegnatigli da Boskovits (cat. 2-3, 5-6), e della tavoletta con le sante Caterina, Maddalena e Margherita di Stoccarda, restituitagli da August Rave (cat. 4). 33 Torriti 1999, pp. 39-61. Cat. 20-21. 34 Franci, in Duccio 2003, pp. 354-355; Eadem, in La Collezione 2009, I, p. 89; Eadem 2013. M. Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499.
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proponendo una condivisibile ricostruzione della sua ancora oscura fase giovanile, riferendovi alcune opere minori e la Croce di Bibbiena (cat. 7). A questa importante definizione, nata dalla necessità di chiarire il raggio d’azione di Niccolò nel contesto delle generazioni di pittori successive a Duccio nell’ambito della mostra senese dedicata al maestro nel 2003, hanno fatto eco le riflessioni di chi scrive e della studiosa olandese, con le proposte di ricomposizione e collocazione del polittico n. 38 e del complesso in parte già unificato da Coor, l’individuazione della cui sede originaria sull’altare maggiore della chiesa di San Maurizio a Siena si deve a Gabriele Fattorini35. Le opinioni di Franci e Israëls, sostanzialmente coincidenti nell’assegnazione dei pezzi, divergono tuttavia sulla cronologia; la prima tende ad anticipare le opere più antiche all’inizio del terzo decennio, mentre la seconda scala molti pezzi verso il quinto. A mio avviso la corretta definizione cronologica di Niccolò si può individuare mediando tra questi due poli, in linea con una proposta già formulata da Coor. Questo aspetto merita del resto di essere approfondito, insieme a un’ulteriore revisione delle attribuzioni degli esordi, da leggersi anche in relazione alle figure e alle esperienze che hanno contribuito alla formazione del pittore.
3. La produzione di Niccolò di Segna, fra tradizione e nuovi stimoli (e alcune proposte per la fase giovanile) La revisione del catalogo di Niccolò, così come si è venuta definendo grazie agli ultimi contributi critici, ha permesso di riferire al suo nome un gruppo di opere nutrito e sostanzialmente organico, che si è cercato di precisare ulteriormente anche in rapporto alla produzione accostabile alla figura di Francesco di Segna – in particolare riconfermando a Niccolò la Madonna di Cortona e invece riferendo al fratello gli affreschi di Santa Colomba (cat. 8, 30) – e provando a chiarire la fase giovanile di Niccolò, che resta certamente più incerta rispetto a quella matura del corpus, la quale, ben definita, non ha richiesto importanti rettifiche, se non in relazione alle cronologie. Dopo quella che possiamo leggere come una sorta di dichiarazione di indipendenza del 1331, si può seguire un percorso coerente attraverso opere importanti come il polittico n. 38 (di cui si è cercato di precisare la ricostruzione: cat. 11), le Madonne col Bambino degli anni Trenta (cat. 14-15), il polittico di San Giovanni d’Asso (cat. 12) e quello di San Maurizio ricostruito da Coor e Israëls (cat. 16), fino alle prove dell’estrema maturità, rappresentata ormai tradizionalmente dal polittico della Resurrezione di Sansepolcro (cat. 22). Un percorso in cui la Croce n. 46 (cat. 18) si inserisce fluidamente alla luce delle istanze sperimentali che si colgono nella produzione di Niccolò, a dispetto di quanto altrimenti affermato, che egli cioè rappresenti un elemento conservatore dell’arte senese del suo tempo36. La critica più attenta ha invece saputo cogliere con facilità la presenza di elementi tratti anche dall’esempio di Simone Martini e dei fratelli Lorenzetti37, che si traducono nell’insieme del suo percorso in una pur moderata tendenza alla ricerca di varie linee figurative, smorzata dai limiti della sua portata artistica. L’insieme di questi elementi ha condotto Niccolò alla costituzione di un linguaggio proprio e riconoscibile nel corso dei circa tre decenni della sua attività. L’inconsistenza delle critiche negative circa la sua fiacca ripetitività è dimostrata dello stesso complesso di Sansepolcro, testimonianza piuttosto di un pittore ancora teso nello sforzo di raggiungere risultati qualitativi inattesi per una figura matura e professionalmente affermata. Un confronto tra questo polittico estremo e il n. 38, e in generale tra le opere del quarto e del quinto decennio, permette di apprezzare le continuità e le variazioni della produzione di Niccolò, corroborando
Matteuzzi 2008, pp. 321-330; Eadem, in La Galleria 2016, pp. 43-47, cat. 4. Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 500-504, cat. 80. Fattorini 2008a, pp. 177-178. 36 Brandi 1933, p. 223. 37 Ad esempio Coor Achenbach 1954-1955, p. 87. 35
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1. Niccolò di Segna, San Benedetto (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale
2. Niccolò di Segna, San Benedetto (dettaglio cat. 22), Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista
le attribuzioni e sottolineando i debiti verso i maestri contemporanei, declinati con diversa intensità nel corso degli anni. Il San Benedetto di Sansepolcro (fig. 2) ha conservato l’impostazione strutturale dell’omologo della Pinacoteca di Siena (fig. 1) e alcuni elementi, come la posa delle mani a reggere il libro della Regola e la forma stessa della mano sinistra, confermano la comune paternità. Tuttavia il santo in cappa bianca camaldolese ha perso gran parte degli schematismi che caratterizzavano la figura senese, acquisendo un panneggio dall’andamento più naturale, sapientemente modulato nei passaggi luministici e privo peraltro dell’incongruo e arcaico ingombro del cappuccio. Sono però le fisionomie che segnano con più evidenza il cammino percorso da Niccolò verso una resa più realistica dei tratti, che perdono la tendenza all’allungamento, evidente anche nel volto dal naso fortemente verticalizzato, dando vita a un vecchio sensibile ed energico; la costruzione della zona oculare prevede ora che la marcata ombreggiatura dell’arcata sopraciliare dia intensità a occhi dalla forma a mandorla regolare segnati da una linea scura, che conservano comunque le caratteristiche rughe a ventaglio visibili sul San Benedetto più antico. Rispetto allo sguardo trasognato di quest’ultimo, sottolineato da tocchi di bianco sotto alla pupilla, il santo camaldolese ha un cipiglio più risentito e tuttavia non perde del tutto la blanda tipizzazione di 19
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
3. Niccolò di Segna, Santa Lucia (cat. 16c), Baltimora, Walters Art Gallery
4. Niccolò di Segna, Santa Caterina d’Alessandria (dettaglio cat. 22), Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista
gran parte delle figure di Niccolò, non escluse le altre del polittico di Sansepolcro. La decorazione punzonata dell’oro, caratteristica imprescindibile di Niccolò, si fa qui più ricca di sempre, come vedremo in dettaglio nel capitolo dedicato a questo aspetto. In generale la distribuzione delle lumeggiature (e di conseguenza del chiaroscuro) risulta più graduata per l’abbandono dell’abitudine di inserire nette zone di bianco nei punti di maggiore incidenza della luce, in contrasto con zone più sfumate. In tal senso una tappa di questo passaggio è rappresentata dalle figure del polittico ricostruito da Coor, dove il problema dei trapassi viene in parte marginalizzato da una pittura più uniforme. Il polittico proveniente da San Maurizio si presta allo stesso tipo di parallelismo, offrendo con la Santa Lucia di Baltimora (fig. 3) un ottimo confronto per la Santa Caterina d’Alessandria di Sansepolcro (fig. 4). Le due figure, pur diversamente abbigliate e acconciate, hanno in comune i tratti fisiognomici e – di nuovo – la posa delle mani sottili, a reggere l’una il pugnale del proprio supplizio e l’altra la palma del martirio. Entrambi i volti ovali sono caratterizzati da occhi ravvicinati e da una canna nasale lunga e dritta, che consentono comunque di cogliere il differente trattamento chiaroscurale e la maggiore intensità dello sguardo della Santa Caterina, per cui valgono le considerazioni fatte per il San Benedetto. La grande corona della principessa egiziana rappresenta in ogni caso un ulteriore elemento di continuità rispetto al polittico senese, dove la santa omologa è dotata di un diadema analogamente costruito con punte a 20
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
5. Niccolò di Segna, Santa Caterina d’Alessandria (dettaglio cat. 16e), Atlanta, High Art Museum.
trifoglio intervallate da tondi più bassi, tutti decorati con lacche a simulare grandi pietre preziose (fig. 5). Un altro immediato confronto, offerto dalla figura di San Bartolomeo del polittico n. 38 e di quello di San Maurizio (n. 37 della Pinacoteca senese), permette di cogliere i segni dell’evoluzione di Niccolò entro il terzo decennio (figg. 6-7). Il volto allungato del primo apostolo, naturalmente simile a quello del compagno San Benedetto, si smorza nel secondo in una fisionomia più armonica, che acquista una maggiore levigatezza di tratti e perde il forte inarcamento della sopracciglia e le carnosità tipiche 21
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
6. Niccolò di Segna, San Bartolomeo (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale
7. Niccolò di Segna, San Bartolomeo (dettaglio cat. 16b), Siena, Pinacoteca Nazionale
delle figure del polittico vallombrosano, evidenti in particolare nell’area orbitale, grazie anche alla resa in luce delle palpebre e a un uso del chiaroscuro che appare meno controllato che nel polittico di San Maurizio, dove i trapassi sono più delicati. Ugualmente si normalizza la costruzione del panneggio, che abbandona le lumeggiature chiare delle coste – molto accentuate nel manto dell’apostolo del polittico n. 38, in contrasto a pieghe profonde – in favore di una resa più pianamente dilatata, che rispecchia la tendenza generale del complesso di San Maurizio in confronto al più rigoglioso decorativismo del precedente vallombrosano, caratterizzato dall’uso di colori smaltati e quasi cangianti sulle vesti e dalla simulazione di stoffe lavorate e gioielli. Al polittico ricostruito da Coor si propone qui di accostare la cuspide con Isaia ora a Esztergom (cat. 17). Tra questi due poli intermedi si colloca con buona probabilità il trittico di San Giovanni d’Asso (ora a Pienza; cat. 12), la cui Madonna mostra, nel profilo della Madre e nell’atteggiamento del Figlio, evidenti affinità col centrale di San Maurizio (ora in collezione Berenson a Villa I Tatti), ma conserva del polittico n. 38 l’abbondanza dei panneggi composti in pieghe un po’ ridondanti e sottolineati da bordi preziosi: ben confrontabili quelli del San Michele e della Madonna Cini con quelli del centrale e del San Giovanni Evangelista. Del resto, pur mantenendosi nel solco dell’influenza martiniana che caratterizza il polittico n. 38, l’opera pientina mostra nelle fisionomie un tentativo di definizione dei tratti che appare coerente nel cammino verso il polittico più tardo. Se si confronta l’Evangelista con le figure del San Bartolomeo e del San Maurizio si comprende che il trittico può essere letto come una sorta banco di prova verso un nuovo linguaggio modellato dalle prime suggestioni lorenzettiane, giustificando così alcune forzature espressive che acquistano compiutezza e armonia nelle tavole dell’altro complesso. Lo stesso Evangelista si rapporta bene con gli omologhi presenti negli ordini superiori di entrambi i polittici considerati, ma 22
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
8. Niccolò di Segna (e bottega), Croce (dettaglio cat. 18), Siena, Pinacoteca Nazionale
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9. Niccolò di Segna (e bottega), Croce (dettaglio cat. 18), Siena, Pinacoteca Nazionale
10. Niccolò di Segna (e bottega), Croce (dettaglio cat. 18), Siena, Pinacoteca Nazionale
dimostra una maggiore vicinanza a quello più tardo, con cui ha in comune tra l’altro l’accentuazione dell’ombreggiatura data dalle sopracciglia e uno sguardo più diretto. Simili considerazioni valgono per il San Giovanni Battista di San Giovanni d’Asso, dalla posa e dall’aspetto sofferto analoghi al Precursore già in collezione Ramboux (dal polittico di San Maurizio); tuttavia la resa della pelliccia della veste, definita nelle singole ciocche di pelo, rimanda più direttamente alla figura del polittico n. 38. Lasciano ancora un margine di dubbio le cuspidi col Redentore e due Angeli dei musei di Raleigh e Cleveland (cat. 13), tradizionalmente riferite al trittico ora a Pienza, anche in virtù dell’appartenenza verso l’inizio del Novecento alla collezione dei fratelli Pannilini, patroni della pieve di San Giovanni d’Asso38. Le tre tavole mostrano d’altra parte interessanti contatti con le figure del polittico n. 38, con cui condividono la resa di alcuni panneggi e la delicatezza delle fisionomie, particolarmente evidente nella figura del Cristo, dalle caratteristiche sopracciglia arcuate. I pezzi sono stilisticamente così vicini che in un primo momento ne avevo ipotizzato la provenienza dal complesso vallombrosano. Se la prudenza suggerisce di non sbilanciarsi verso accostamenti indimostrabili, è vero che, se le cuspidi fossero effettivamente pertinenti al polittico pientino, segnerebbero un importante trait-d’union rispetto all’opera precedente, suggerendo una collocazione cronologica a ridosso della conclusione del lavoro per i Vallombrosani. Proprio la comparazione tra il Redentore americano, il maturo omologo della cimasa in collezione Salini che viene dalla Croce n. 4639 e il Risorto di Sansepolcro rimarca lo sviluppo dello stile di Niccolò
Franci 2013. De Marchi, in Siena 2017, p. 50.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
11. Niccolò di Segna, Transito di San Giovanni Evangelista (dettaglio cat. 21), Siena, basilica di Santa Maria dei Servi
12. Niccolò di Segna, Storie di Santa Caterina (dettaglio cat. 20), Monticchiello (Pienza), pieve dei Santi Leonardo e Cristoforo
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in direzione di una più meditata e padroneggiata costruzione volumetrica, ottenuta sia attraverso la dilatazione delle forme sia con l’impiego di efficaci trapassi chiaroscurali, con cui il pittore declina un modello fisiognomico di base che subisce superficialmente poche modifiche, le quali tuttavia contribuiscono a chiarire la lettura conseguente della sua produzione. Del resto lo stesso avviene anche per le Madonne col Bambino, che si conformano a uno schema precocemente acquisito, variando, al di là delle pose del Bambino, alcune caratteristiche della costruzione dei volti e dei panneggi. Così non è difficile individuare nelle tavole di Cortona e di Figline (ora a Fiesole; cat 8) gli indizi di un’esecuzione precoce, precedente al polittico n. 38, e nella Madonna ex Locko Park (cat. 10) una sorta di punto di snodo dell’attività di Niccolò dalla fase giovanile alla maturità, come si vedrà più avanti. Sulla già analizzata strada della ricerca volumetrica si incontra la controversa Croce n. 46 del 1345, che nel suo insieme pare effettivamente trapassare la misura tipica di Niccolò. Tuttavia l’appesantirsi delle forme, più dilatate e ombreggiate, non compromette la compostezza del Cristo (fig. 8) e ciò che risulta semmai più spiazzante – tanto da catalizzare l’attenzione e influire sul giudizio complessivo dell’opera – sono i due Dolenti (figg. 9-10), che in effetti hanno poco in comune con la più nota maniera di Niccolò e potrebbero essere riferiti alla bottega del pittore. L’attività di un atelier sembra del resto potersi leggere in trasparenza nella riproposizione quasi palmare delle figure di un’opera giovanile: la Croce ora nella propositura dei Santi Ippolito e Donato a Bibbiena, rispetto al cui sottile Crocifisso quello della Pinacoteca è del resto ancora fratello (si confrontino anche i due perizomi) e le differenze in termini di trattamento delle masse corporee sono il segno naturale dei circa vent’anni di attività che separano le due tavole. Sono questi gli anni a cui si riferisce l’attività di frescante di Niccolò, di cui sono note solo due testimonianze40. È possibile che egli, a differenza del fratello, si sia dedicato a questa tecnica solo occasionalmente e, d’altronde, in particolare le figure del ciclo nella pieve dei Santi Leonardo e Cristoforo a Monticchiello presso Pienza (cat. 20) paiono meno ben padroneggiate rispetto alle prove su tavola. Pur mantenendo riconoscibili le caratteristiche tipiche delle fisionomie di Niccolò, gli affreschi di questa pieve mostrano un’evidente dilatazione dei profili e un uso più sostenuto della linea di contorno per la costruzione delle figure. Anche per questo è possibile supporre che quella di Monticchiello sia stata, almeno tra quelle rimaste, la prima prova di pittura a fresco. Infatti i protagonisti del Transito di San Giovanni Evangelista della cappella ex Spinelli di Santa Maria dei Servi a Siena (cat. 21) – riferibile alla metà degli anni Quaranta e unico brano che si può davvero riferire a Niccolò tra quelli che decorano la basilica – hanno forme e tratti più controllati e il pittore si sforza di conferire ai volti (anche quelli dei tondi delle fasce di contorno) specifiche caratterizzazioni. Più in generale, la scena è inserita in un contesto architettonico che, sebbene non del tutto compreso, segna un passo ulteriore rispetto alle figure isolate di Monticchiello, con l’eccezione delle due scene narrative dedicate a santa Caterina d’Alessandria, con cui del resto si possono instaurare i migliori confronti fisiognomici e strutturali rispetto alla scena della chiesa servita (figg. 11-12). Il tempo intercorso tra le due prove sembra dunque breve, lasciando supporre che anche la campagna pientina non sia anteriore al quinto decennio. Niccolò deve aver svolto un ruolo di primo piano nella decorazione in compagnia forse con Niccolò di Ser Sozzo della cappella Spinelli, dove gli spettano anche le figure di santi in piedi presso le finestre e un numero consistente di tondi con santi e beati serviti, collocati in posizione più elevata rispetto a quelli attribuibili all’autore del Banchetto di Erode. Gli affreschi offrono alcuni dei rari esempi di scene narrative prodotte da Niccolò, oltre alla predella del polittico della Resurrezione e a 40 Non spetta a Niccolò l’affresco con il Redentore e due Angeli del catino absidale di Santa Maria a Moriano presso Lucca, che gli assegna Alessandro Bagnoli (2003, p. 276 nota 26; inoltre Franci 2013), ma che va riferito al Maestro di San Frediano, come pensava Boskovits (comunicazione orale riportata da Flavio Boggi 1997, p. 171), confermato da De Marchi (1998, p. 402) e Tartuferi (1998, p. 44).
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
13. Simone Martini, Maestà (dettaglio), Siena, Palazzo Pubblico
14. Niccolò di Segna, San Michele Arcangelo (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale
quella perduta del polittico di San Maurizio, nota grazie a succinte descrizioni, entrambe riferibili alla fase matura del pittore. Le opere di Niccolò mostrano un’interessante serie di rimandi intrecciati ai principali artisti contemporanei e delle generazioni precedenti, che possono essere letti non solo come aggiornamenti, ma anche come la dichiarazione di un’immediata fonte di ispirazione e quasi una sorta di omaggio. È già stata più volte denunciata la vicinanza del polittico n. 38 ai modi di Simone Martini, di cui effettivamente si coglie un riflesso in particolare nella figura dell’arcangelo Michele (fig. 14), che ripropone le fisionomie aristocratiche ma paffute degli angeli della Maestà affrescata nel 1315 in Palazzo Pubblico a Siena (fig. 13). A Simone si guarda anche per la redazione generale del complesso vallombrosano, che è possibile somigliasse a quello di Santa Caterina a Pisa (1319-1320) per la terminazione con cuspidi triangolari e per la presenza di santi a mezzo busto nella predella (fig. 15), in cui comunque Niccolò dimostra di ispirarsi più direttamente allo zoccolo frammentario di Ugolino di Nerio con27
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
15. Simone Martini, polittico, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
16. Ugolino di Nerio, predella, Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi
servato nel Museo Nazionale di Villa Guinigi a Lucca, proveniente plausibilmente da un complesso cittadino e riferibile al secondo decennio del Trecento (fig. 16). Il polittico n. 38, ricco di altre suggestioni, richiama del resto in alcune figure di santi il complesso di Santa Croce di Ugolino: su tutti il San Giovanni Battista dell’ordine superiore risulta modellato su quello dell’ordine maggiore del polittico fiorentino (fig. 17), così come probabilmente il San Bartolomeo senese si ispira per fisionomia e panneggio all’omologo dell’ordine superiore di Ugolino, allo stesso modo del Sant’Andrea. Niccolò tuttavia continua a guardare anche alla produzione duccesca e le due figure femminili che chiudono all’esterno la serie di santi dell’ordine superiore – così come avviene nel polittico di Santa Croce – rappresentano certamente un voluto rimando al polittico n. 47 di Duccio dallo Spedale di Santa Maria della Scala di Siena, ora nella Pinacoteca Nazionale, nel cui ordine principale si trovano le Sante Maria Maddalena e Agnese, fedelmente riproposte per fisionomie e abiti nell’omologa santa di destra e nel28
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
la Santa Lucia di sinistra, che regge naturalmente un diverso attributo (fig. 18). Da Duccio sono riprese anche altre fisionomie, in particolare quelle anziane dei santi vescovi, in cui il chiaroscuro fumoso sottolinea la severità dei tratti. A distanza di quasi due decenni invece le fonti di ispirazione (o vere e proprie citazioni) che si rintracciano nel polittico della Resurrezione di Sansepolcro denunciano la maggiore attrazione di Niccolò verso l’esempio di Pietro Lorenzetti, a partire dalla stessa forma della tavola centrale, che ricalca quella della Pala Carmelitana del 1329, alla quale dimostrano di ispirarsi anche gli angeli posti negli spazi di risulta delle tavole principali, con le loro ali regolarizzate in corrispondenza della terminazione cuspidata, e alcune figure dell’ordine maggiore, sebbene siano realizzate con un più tradizionale taglio a tre quarti rispetto alla versione a figura intera. Dal ciclo assisiate della Passione nella Basilica Inferiore Niccolò sembra trarre spunto per l’immagine del Risorto e dei soldati addormentati in varie posizioni presso il sarcofago e certamente guarda a questi affreschi per la redazione della predella (figg. 21-22), per i cui riquadri non si avvale degli schemi elaborati da Ugolino per il polittico di Santa Croce ma ripropone le scene realizzate da Pietro in San Francesco (figg. 19-20). Anche la figura di Sant’Agnese del polittico biturgense è una citazione lorenzettiana della Sant’Agata di una delle cuspidi del polittico della pieve di Arezzo (1320-1322). Niccolò dimostra così di conoscere le opere dei suoi contemporanei dei quali, al di là di una ripresa di forme esteriori, che sembra essere in alcuni casi preponderante, sa assimilare e declinare i modi non soltanto in maniera superficiale: dallo slancio delle figure taglienti di Simone alla monumentalità di quelle di Pietro, passando da una pittura più preziosa e smaltata sull’esempio del primo a quella più fusa del secondo, affrancandosi sempre più dalle influenze duccesche che caratterizzano le sue prime fasi, a contatto o almeno con la mediazione di Segna e Ugolino, pur conservando a lungo nelle fisionomie e nella disposizione delle figure il ricordo del caposcuola. Il nostro pittore appare quasi una sorta di mediatore consapevole delle istanze dei principali maestri del suo tempo, spinto da una personale volontà di adeguamento e sperimentazione ma anche, plausibilmente, in favore di una committenza mediamente aggiornata ma altrettanto legata ai valori più tradizionali.
17. Ugolino di Nerio, San Giovanni Battista, Berlino, Gemäldegalerie
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
18. Duccio di Buoninsegna, polittico n. 47, Siena, Pinacoteca Nazionale
Certamente Niccolò fu attivo già nel terzo decennio: ne sono testimonianza un importante numero di opere già variamente assegnategli, ma che tuttavia non sono state ancora oggetto di una lettura organica che ne definisca efficacemente i rapporti reciproci e così ne precisi la cronologia relativa, permettendo inoltre di individuare in questa fase giovanile le tracce dell’influenza dei maestri più anziani. In questo senso il pur breve cenno di Franci alla fase iniziale di Niccolò – influenzata dal retaggio duccesco mediato da Segna, ma anche dallo stile raffinato di Ugolino di Nerio e dal gusto decorativo di Simone Martini – costituisce un punto di partenza da integrare con le riflessioni di altri autori. La studiosa d’altronde non inserisce nel catalogo due opere fondamentali per la comprensione del percorso di Niccolò, ovvero la Madonna già a Figline Valdarno e quella di Cortona, la quale viene assegnata, sulla scorta di Alessandro Bagnoli, a Francesco di Segna. In entrambe si riconosce chiaramente il richiamo all’attività tarda di Segna di Bonaventura, con particolare riferimento rispettivamente alla Madonna col Bambino della basilica dei Servi di Siena e a quella ex Kress, ora conservata a Raleigh (probabilmente in origine al centro di altrettanti polittici; figg. 23-24)41. La ripresa deve essere avvenuta però a distanza di qualche tempo perché le opere citate sono collocate dalla critica
Per il corpus di Segna di Bonaventura cfr. Cateni, in Duccio 2003, pp. 314-315; inoltre, per la Madonna dei Servi, di cui sottolinea la componente martiniana frammista a quella duccesca: Idem, ivi, p. 324; altre Madonne di Segna da prendere a riferimento per questa fase stilistica sono quella del Museo Diocesano di Siena (dal Seminario di Montarioso) e il centrale del polittico del Metropolitan Museum of Art di New York. Luciano Cateni ha analizzato la produzione di Segna nella sua tesi di laurea: Segna di Bonaventura e il suo seguito, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Siena, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1982-1983.
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subito dopo la Croce della badia delle Sante Flora e Lucilla di Arezzo (1319-1320), mentre nella tavola figlinese e in quella cortonese si colgono già in via di definizione diversi dettagli stilistici caratteristici delle opere di Niccolò degli anni Trenta, periodo a cui devono essere avvicinate, pur rimanendo entro il terzo decennio. Attraverso questi elementi i modi del padre risultano infatti già stemperati, sia nella costruzione delle figure, sia nella definizione dei tratti dei volti e della conseguente individuazione “psicologica”, più pacata rispetto a Segna. Niccolò sembra dunque colto nel tentativo di elaborare una figurazione personale sulla base del retaggio paterno, ancora forte, ma che non necessariamente impone un perdurare dell’attività di bottega né un protratto apprendistato di Niccolò, che doveva già aver maturato un suo primo personale percorso artistico. Del resto, come detto, l’ultimo documento relativo a Segna risale al 1326 ed egli risulta certamente morto nel 1331. Rimanda alle sperimentazioni del padre sulla lezione martiniana, leggibili nelle opere citate, la verticalità ieratica della Madonna di Cortona, che si è portati a considerare più tarda di quella già a Figline, seguendo la tendenza del pittore a maturare i propri modi nel solco dell’esempio di Simone, che emerge – come si è visto – nel polittico n. 38, dove la cifra stilistica propria di Niccolò finalmente si precisa perdendo gran parte dei riferimenti a Segna. Tra le due Madonne e il complesso vallombrosano si inserisce agevolmente la Madonna ex Locko Park (cat. 10), sorella più acerba di quella ora in collezione Cini a Venezia, di cui richiama il profilo ormai definito in forma leggermente aquilina della Vergine e il suo arco sopraciliare molto marcato. La maggiore staticità delle figure ricorda però ancora quella delle due Madonne riferibili al terzo decennio e inoltre il Bambino dimostra una stretta somiglianza con quello della tavola da Figline, laddove l’opera veneziana sviluppa con una diversa sensibilità e consapevolezza volumetrica la versione cortonese. La Madonna ex Locko Park viene dunque ad assumere il ruolo di opera di passaggio verso la fase della prima maturità di Niccolò e deve essere perciò arretrata rispetto alla più consueta datazione in stretta prossimità della Madonna di Montesiepi (1336) e della Madonna n. 44 della Pinacoteca senese, che mostrano caratteri più evoluti. La Croce di Bibbiena (cat. 7) è probabilmente precedente alle Madonne di Figline e Cortona, tuttavia non è condivisibile la proposta di Franci di individuarvi l’opera più antica di Niccolò sulla base della vicinanza con quelle di Segna, dalle quali, al di là di indubbi parallelismi, si discosta per la scelta di costruire la figura del Crocifisso con esile essenzialità, scevra da certe enfatizzazioni del corpo muscoloso e dei segni della sofferenza del Cristo che improntano anche la Croce di Arezzo, la più recente tra quelle attribuite al padre. La delicatezza delle forme sembra d’altra parte presupporre un contatto con Ugolino di Nerio, avendo in mente la tavola con la Crocifissione del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid42, per le quali viene generalmente proposta una cronologia tarda e in cui si riconoscono analoghi modi di costruire il corpo del Cristo, naturalmente espressi con più matura padronanza. Nell’unica sua Croce a noi pervenuta, quella dei Servi (fig. 25), più o meno contemporanea o forse addirittura successiva a quella di Niccolò, Ugolino propone un Crocifisso ben più drammatico di quello del pittore più giovane e tuttavia similmente allungato e disposto secondo l’andamento verticale della croce, senza piegarsi sotto il peso della sofferenza, che traspare solo dal volto patetico, rispetto al quale tuttavia Niccolò preferisce conferire al proprio Cristo – secondo un suo tratto congeniale – una sorta di rassegnata serenità43. Le caratteristiche del Cristo di Bibbiena ricorrono in opere di minor formato, che a mio avviso stanno a testimoniare una fase immediatamente precedente alla Croce, che del resto è difficile immaginare, per la portata dell’impegno, tra le primissime commissioni del giovane Niccolò.
Stubblebine 1979, I, pp. 162-163; II, fig. 392. Maginnis 1983, pp. 16-21. Boskovits 1990, pp. 186-191. La Croce dei Servi è assegnata da Galli (in Duccio 2003, pp. 258-260) alla fase tarda dell’attività di Ugolino ed era già stata attribuita allo stesso Niccolò: Weigelt 1911, pp. 191-192, 263; van Marle 1924, II, p. 157; De Benedictis 1979, p. 94; Torriti 1988, p. 347. 42 43
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
19. Pietro Lorenzetti, Salita al Calvario, Assisi, basilica inferiore di San Francesco
20. Pietro Lorenzetti, Deposizione dalla croce, Assisi, basilica inferiore di San Francesco
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21. Niccolò di Segna, Salita al Calvario (dettaglio cat. 22), Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista
22. Niccolò di Segna, Deposizione dalla croce (dettaglio cat. 22), Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
Mi riferisco al piccolo trittico del Keresztény Múzeum di Esztergom in Ungheria e al pinnacolo conservato a Philadelphia (cat. 2-3), entrambi raffiguranti la scena della Crocifissione, dove un Cristo esilissimo è circondato dai Dolenti in piedi e dalla Maddalena abbracciata alla croce, in due composizioni quasi sovrapponibili. Analoghe anche le fisionomie, con un rimando incrociato tra la Vergine ungherese e il san Giovanni americano, che peraltro compiono lo stesso gesto di dolore a mani intrecciate – frequente nelle opere senesi di primo Trecento – in chiasmo coi rispettivi compagni, che invece si rivolgono a mani giunte verso la croce. Entrambi gli Evangelisti mostrano un panneggio fluido (manto rosato su una veste blu), che contribuisce a confermare la comune paternità delle due piccole opere in un momento molto ravvicinato. Gli elementi che conducono a Niccolò sono leggibili, per quanto non ancora definiti, e se da una parte rimandano a imprese più tarde e di ben altra portata – come il polittico n. 38, nello scomparto centrale della cui predella viene riproposta la stessa tipologia del Cristo – dall’altra testimoniano un momento esecutivo precoce ma distinguibile di un artefice che agisce e compone meditando sugli esempi dei maestri più vicini. In questo senso colpisce la possibilità di individuare in entrambi i casi buoni modelli, ancora una volta, in opere di Ugolino di Nerio raffiguranti lo stesso soggetto: la Crocifissione con San Francesco n. 34 della Pinacoteca Nazionale di Siena (fig. 26), che propone per i tre santi ai piedi della croce le stesse pose dello scomparto centrale del trittico ungherese, la cui Maddalena rappresenta una minima variazione in senso più tradizionale rispetto al san Francesco; e la Crocifissione coi Santi Francesco e Chiara del Metropolitan Museum di New York (n. 41.190.31 a; fig. 27)44, da accostare più direttamente al pinnacolo di Philadelphia in cui i due Dolenti assumono di nuovo le medesime pose e la veste dell’Evangelista risulta perfettamente comparabile, anche più che nell’altro confronto e al di là di una consistenza più solida dei panneggi nella versione di Ugolino. Nella tavola americana il Cristo di Ugolino ha una struttura fisica più sottile ed effettivamente vicina alle opere di Niccolò, che sembrano peraltro riproporre la foggia del perizoma che si allunga sul ginocchio destro e scopre il sinistro, come anche nella Crocifissione senese. A differenza di quelle di Ugolino, le Crocifissioni del giovane Niccolò sono caratterizzate da una certa enfasi delle reazioni emotive e dall’accentuazione del patetismo espressivo, che il più anziano sa rendere con una più matura compostezza, che sarà – come si è visto – una cifra caratteristica e fortemente ricercata dello stesso Niccolò negli anni successivi e sembra già acquisita nella Croce di Bibbiena. Il mancato impiego dei punzoni nella decorazione dell’oro, tipica delle fasi tarde di Ugolino45, impone di considerare le due Crocifissioni precedenti al polittico di Santa Croce e alle tavole della chiesa della Misericordia di San Casciano, ma anche a opere come il polittico n. 39 della Pinacoteca di Siena, suggerendo di schierarsi con chi ne ha proposto una datazione piuttosto precoce, entro il terzo decennio del Trecento46. Le opere di Niccolò invece devono essere collocate in un momento un po’ successivo proprio per la presenza di punzoni, utilizzati già in modo abbastanza articolato; ma la prossimità a queste opere di minor portata di Ugolino pare presupporre la conoscenza diretta dei modelli, tale da poterne citare con puntualità alcuni dettagli compositivi – se non formali – anche a distanza di qualche tempo, e dà spazio all’ipotesi che il giovane Niccolò possa aver frequentato la bottega del più anziano, come del resto lasciano supporre la comunanza di alcuni punzoni e l’impiego di analoghe Cm 56,6 x 40. Già in collezione Perkins ad Assisi, con le ante del Maestro di Monteoliveto (cfr. infra nel testo e nota 50). Cfr. Polzer 2005, pp. 33-100. Cfr. infra §4. 46 Così anche Galli nel più recente contributo sulla dibattuta datazione della Crocifissione senese, a cui si rimanda per un dettaglio delle vicende critiche e la conferma del probabile accostamento con un pendant raffigurante una Madonna col Bambino proposto da Stubblebine (1979, I, p. 159): Galli, in Duccio 2003, pp. 350-352; tra gli altri invece Coor pensava a una collocazione nella tarda maturità del pittore (Coor Achenbach 1955, p. 162 nota 52). La versione newyorkese è stata considerata in particolare da Stubblebine, che l’ha assegnata al suo Maestro del Polittico n. 39, da identificare però con una fase dello stesso Ugolino: Stubblebine 1979, I, pp. 178-179; II, figg. 228, 442. 44
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soluzioni decorative per le aureole e i fregi, completamente diverse rispetto alle opere di Segna47. Se la pertinenza ad un ambito francescano delle due Crocifissioni di Ugolino non sembra dover rimandare, per ragioni di anteriorità cronologica, alla casa fiorentina dell’Ordine, va rilevato invece un richiamo al capoluogo toscano proprio nel trittico di Esztergom di Niccolò, nelle cui antine sono raffigurati il santo patrono Giovanni Battista e una citazione fedele della scena giottesca delle Stigmate di San Franscesco affrescata sopra l’arco di accesso della cappella Bardi di Santa Croce, che la critica recente tende a porre verso la prima metà del terzo decennio del XIV secolo48. È dunque legittimo chiedersi se ciò non implichi una conoscenza diretta e tempestiva del lavoro di Giotto da parte di Niccolò e una sua presenza a Firenze proprio al seguito di Ugolino, all’interno della sua bottega, negli anni Venti e forse fin già dal momento dell’incarico di realizzare il perduto polittico per l’altare maggiore di Santa Maria Novella nella prima metà del decennio49. Del resto Niccolò dimostra una conoscenza puntuale delle pitture di Santa Croce anche nel tardo affresco della cappella ex Spinelli dei Servi di Siena, che traduce con qualche precisa referenza la stessa scena del Transito di San Giovanni Evangelista della cappella Peruzzi (peraltro ripresa da Ambrogio Lorenzetti per l’anconetta Städel di Francoforte). Alla Crocifissione di New York di Ugolino si accostano due ante di trittico, anch’esse conservate al Metropolitan (n. 41.190.31 b-c; figg. 28-29), riferite ad un momento felice ed iniziale della carriera del Maestro di Monteoliveto50. Domandarsi se questo anonimo solitamente mediocre fosse un suo collaboratore ha un peso anche nella comprensione delle prime evoluzioni di Niccolò, che dichiara punti di contatto coi suoi modi in alcune figure, come quella della Vergine della piccola tavola dell’Annunciazione in collezione Martello a Fiesole (cat. 6) e quella dell’anziano san Giovanni Evangelista nell’anconetta con la Madonna col Bambino, Angeli e Santi già in collezione Thyssen-Bornemisza51 (cat. 5); i tratti della prima in particolare sono ben confrontabili con la Vergine dell’Adorazione dei Magi dell’anta sinistra e soprattutto con l’omologa Annunziata della prima scena dell’anta sinistra che, nonostante sia in piedi, riprendendo come la maggior parte delle scene narrative l’iconografia dalla predella della Maestà di Duccio, compie con la mano destra lo stesso gesto pudico di trattenersi il velo al collo. I volti di Niccolò mostrano ora una definizione fisiognomica più vicina alle sue prove più adulte e perciò testimoniano a mio avviso una fase più inoltrata nel terzo decennio, in cui si percepisce anche l’influsso di Ugolino nell’aspetto già leggermente grifagno dell’arcangelo Gabriele, che d’altronde dichiara il suo legame con le tavolette precedenti di Niccolò nella resa affastellata e morbida del panneggio, simile a quello dei due Evangelisti dolenti. Alla piccola ancona già conservata in Svizzera fanno eco le fisionomie delle tre sante della tavoletta ora a Stoccarda (cat. 4), con santa Caterina che richiama la Vergine (ma anche la successiva omologa della predella del polittico n. 38), mentre Maddalena e Margherita si specchiano nell’angelo alla sua sinistra. Per questa piccola opera, proseguendo nella pratica della citazione, Niccolò trae molto probabilmente dalle stesse ante del Maestro
Si veda infra §4. Cfr. Bonsanti 2002, p. 83. Cfr. cat. 2. Per la stessa cappella Bardi, a voler dare retta, con Galli, a Giorgio Vasari, Ugolino avrebbe peraltro dipinto una perduta Crocifissione con francescani oranti: Vasari 1568 (ed. Bettarini-Barocchi 1967), II, p. 140; Galli, in Duccio 2003, p. 348. 49 Cannon 1982, pp. 87-91. 50 Cm 59,5 x 19,1. E.R. Mendelsohn, The Maestro di Monte Oliveto, M. A. Thesis, New York University, Institute of Fine Art, 1950, pp. 31-32, 38-40 (anche Eadem 1954, p. 83). Stubblebine 1979, I, pp. 100-101; II, figg. 228-234. Zeri-Gardner 1980, pp. 46-47. Masignani, in Duccio 2003, p. 345. I tre pezzi, già in collezione Perkins a Lastra a Signa (Firenze), passarono poi in collezione Blumenthal, donata nel 1941 al museo newyorkese. 51 La piccola opera già conservata in Svizzera è stata già attribuita al Maestro di Monteoliveto da Stubblebine (cat. 6), così come altre opere di questo anonimo sono state accostate a Niccolò, in particolare la Crocifissione n. 68 della Pinacoteca Nazionale di Siena (cfr. supra). 47 48
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di Monteoliveto lo spunto iconografico per la disposizione, le pose e in parte l’aspetto le tre figure; così non sorprende la somiglianza della scena dell’Incoronazione della Vergine con quella della tavoletta in collezione privata che si è proposto di inserire come esordio del catalogo di Niccolò (cat. 1). In queste opere riferibili alla metà del terzo decennio – in particolare nella tavoletta ex Thyssen-Bornemisza e in quella di Stoccarda – c’è una compresenza di panneggi morbidi simili a quelli delle prime opere e altri più smaltati, con pieghe più superficiali. È già riconoscibile in questa fase una pittura composta da filamenti di colori contrastanti a rendere il chiaroscuro, una costante nelle opere di Niccolò, che lo distingue da Segna e invece lo avvicina di nuovo a Ugolino, che adotta la stessa modalità pittorica per esempio nella tarda Croce dei Servi. Sebbene alcuni elementi permettano di orientarsi nello sviluppo formale di Niccolò all’interno del terzo decennio, la difficoltà di scalare con precisione le opere di piccolo formato ha suggeri- 23. Segna di Bonaventura, Madonna col Bambino, to di trattarle nel catalogo prima della Siena, basilica di Santa Maria dei Servi Croce di Bibbiena, che, rappresentando la prima opera di grandi dimensioni, viene a costituire idealmente un primo snodo dell’attività di Niccolò. Tuttavia non è da escludere che questa tavola debba essere posta più verso la metà che la fine degli anni Venti. Ad un’osservazione attenta questa Croce giovanile, precocemente accostata a Niccolò da Margherita Moriondo52, sembra inoltre offrire dettagli che permettono forse di far luce sulla fase embrionale del pittore, ancora inesplorata, questa davvero in stretto contatto con Segna. I Dolenti nei tabelloni rivelano chiaramente l’autografia di Niccolò nel dettaglio delle mani grosse e nella decorazione granita dell’oro e inoltre le fisionomie già si definiscono nel solco del suo stile, con particolare riferimento a quella del san Giovanni53. La Vergine offre però lo spunto più interessante, richiamando l’analoga figura della Croce del Museo della Collegiata di San Giovanni Battista di Chianciano (fig. 30), ricondotta a Segna di Bonaventura da Serena Padovani insieme alle altre opere già riferite al catalogo del cosiddetto Maestro di San Polo in Rosso54, individuato in prima battuta da Enzo Carli, il quale si era già M. Moriondo, in Mostra 1950, p. 41. Il san Giovanni dolente di Bibbiena mostra una buona vicinanza all’omologo, forse frammento di una Imago Pietatis, che Stubblebine cita in collezione Frost a New York, attribuendolo a Ugolino (Stubblebine 1979, I, p. 163; II, fig. 393). 54 S. Padovani, in Mostra 1979, p. 34; A.M. Guiducci, in Mostra 1983, p. 36. Cfr. inoltre Torriti 1977, p. 72. 52 53
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accorto del diverso spirito dei Dolenti, più patetici e intensi nei tratti e negli sguardi, in cui individuava richiami a Ugolino di Nerio55. Del resto, Anna Maria Maetzke aveva accostato la Croce di Bibbiena a quella di Chianciano, assegnandole entrambe al Maestro di San Polo in Rosso56. A mio avviso è possibile considerare separatamente il Crocifisso e le figure dei tabelloni, osservando in particolare il volto della Madonna, che attraverso l’usura della superficie rivela una dolcezza e una delicatezza di contorni sconosciute a Segna ma invece ricorrenti nella Vergine della Croce di Bibbiena, con cui sono facilmente confrontabili l’ovale del volto, i tratti del naso e la forma degli occhi (figg. 31-32). Tutti gli elementi di questo tabellone, dalla crisografia della veste a ciò che resta delle mani, atteggiate come nella Croce di San Polo in Rosso, fino all’assenza di punzonatura, parlano di un momento precedente rispetto alla Croce casentinese, probabilmente nei primi anni Venti. Il san Giovanni Evangelista ha un profilo aguzzo più marcatamente segnesco, ma sembra ugualmente riferibile all’autore del pendant (figg. 3334), tanto da far supporre che la Croce, 24. Segna di Bonaventura, Madonna col Bambino, Ra- realizzata in un contesto di bottega, leigh, North Carolina Museum of Art possa aver costituito un momento formativo per Niccolò, a cui il padre potrebbe aver demandato l’esecuzione delle parti marginali dell’opera57. Questa ipotetica gestione dei ruoli all’interno dell’atelier sembra peraltro richiamata dalla Croce n. 46 della Pinacoteca, in cui i modi riconoscibili di Niccolò cedono il passo nei Dolenti a uno stile per molti versi inconciliabile col suo e forse dunque riferibile a un collaboratore, che certamente aveva a disposizione modelli del capobottega, derivati direttamente dalla stessa Croce di Bibbiena.
Carli 1955a, pp. 52-58. A.M. Maetzke, in Arte nell’Aretino 1974, pp. 38-39. 57 Anche considerando l’ipotesi di Padovani, la quale, seguita da Guiducci (cfr. nota 54), ha avanzato la proposta di collocare all’interno del percorso di Segna la Croce di Chianciano prima di quella di Arezzo, legata al documento di commissione del 1319, non si deve escludere che i tabelloni dei Dolenti siano stati realizzati in un momento di poco successivo, in coerenza col percorso di Niccolò. Per la Croce di Arezzo cfr. Galoppi-Ugolini 2008, pp. 99-118. 55 56
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25. Ugolino di Nerio, Croce, Siena, basilica di Santa Maria dei Servi
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La Vergine di Chianciano suggerisce d’altra parte un collegamento con la Madonna col Bambino del polittico del Museo Civico e Diocesano di Montalcino (fig. 35), proveniente dall’oratorio di Sant’Antonio Abate, al centro di una querelle attributiva che non ha ancora trovato soluzione. Assegnato a Segna di Bonaventura o al suo ambito dalla critica di inizio Novecento e poi da Torriti, Padovani e Boskovits58, è stato assunto da Stubblebine quale opera eponima di un maestro attivo verso il quinto decennio del Trecento59, il cui corpus è stato in parte riferito da Bagnoli a Francesco di Segna, a cui lo studioso, seguito da Franci, ha riconfermato il polittico in anni recenti come possibile opera d’esordio60. Se le caratteristiche della carpenteria sono piuttosto antiquate e riferibili all’epoca della seconda generazione duccesca, i santi laterali, slanciati e un po’ appiattiti, in effetti rivelano un carattere fortemente segnesco e sono confrontabili con opere della sua tarda attività, come i laterali del polittico del Metropolitan Museum di New York e i Santi n. 40 della Pinacoteca Nazionale di Siena (firmati)61, col cui San Romualdo è ben confrontabile il Sant’Egidio di Montalcino. La Madonna invece non ne ricorda, almeno nel volto, nessuna riferita a Segna, ma piuttosto rivela nei tratti e nello spirito dolce, contrapposto allo sdegnoso bambino – che richiama nella posa la Madonna col Bambino n. 593 della Pinacoteca senese del duccesco Maestro di Badia a Isola62 –, un’affinità con la Vergine della Croce di Chianciano, soprattutto nella forma e nell’inclinazione del volto e nel taglio della bocca e degli occhi63. Vale la pena chiedersi allora se almeno in alcuni passaggi di questa figura, se non nei santi laterali, non sia da individuare l’intervento di Niccolò messo alla prova nella bottega paterna, in un momento di poco successivo alla Croce di Chianciano64. Una simile proposta d’altronde non è inedita ed è stata suggerita con acume da Gertrude Coor65. Che Niccolò sia in qualche modo legato a questo polittico lo suggerisce inoltre la chiara ripresa a distanza di molti anni della figura della Santa Caterina d’Alessandria nella Santa Lucia di Baltimora del polittico di San Maurizio, che costituisce un altro tassello del gioco di citazioni messo in atto da Niccolò lungo tutta la sua carriera. Se nei Dolenti di Chianciano non si usano punzoni e nel polittico di Montalcino sono presenti solo composizioni di semplici stampi circolari, proprio questo elemento decorativo colpisce l’attenzione di chi osservi l’oscura Croce già conservata presso l’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena (figg. 3637), accostata da Stubblebine al Maestro della Croce di Chianciano e da riferire forse allo stesso Segna66. 58 Perkins 1904, p. 145; Idem 1925, pp. 54-55 (ambito duccesco). Van Marle 1924, II, p. 139; Idem 1934, II, p. 77 (Segna, poi scuola di Duccio). Brandi 1933, p. 281; Idem 1951, p. 152 (Maestro del Polittico di Sant’Antonio a Montalcino). Berenson 1932, p. 523; Idem 1936, p. 450; Idem 1968, I, p. 393 (Segna). Toesca 1951, p. 517 (Segna). Boskovits 1969, pp. 4-19, fig. 3; Idem 1982, p. 497. Torriti 1977, p. 72; Idem 1990, pp. 36-37 (Maestro del Polittico di Sant’Antonio a Montalcino, successivamente identificato con Segna). Padovani, in Mostra 1979, pp. 34, 36. L’opera non era invece inserita nel catalogo del Maestro di San Polo in Rosso in Carli 1955a, p. 52. 59 Stubblebine 1979, I, pp. 153-154. 60 Bagnoli 1997, p. 18; l’autore segnala a sostegno della sua ipotesi le caratteristiche di dolcezza ugolinesca un po’ imbambolata, che sono forse più facilmente riferibili a Niccolò. Idem 2003, p. 277 nota 29. Idem 2009b. Franci 2013. 61 Zeri-Gardner 1980, pp. 88-89.Torriti 1990, pp. 35-36. 62 Cfr. P. La Porta, in Marco Romano 2010, p. 262. 63 Del resto i cinque scomparti erano stati esposti alla mostra senese del 1904 con attribuzioni diverse: la Madonna all’ambito duccesco e i laterali alla generica scuola senese, tranne la Santa Caterina, riferita ad ambito lorenzettiano (Mostra 1904, pp. 302, 312-313). Una certa difformità della Madonna rispetto ai laterali è stata poi notata da Perkins (1925, p. 55), che vede nel centrale gli elementi della maniera di Segna, pur non ritenendolo un suo autografo. 64 Ringrazio Andrea De Marchi per aver fornito lo spunto essenziale di questa riflessione. 65 Coor Achenbach 1954-1955, p. 81 nota 6. 66 Stubblebine 1979, I, pp. 148-149; II, figg. 359-361. Lo studioso americano collega alla personalità di sua invenzione, oltre alla Croce del Museo della Collegiata di San Giovanni Battista, anche la Croce n. 21 della Pinacoteca Nazionale di Siena dalla chiesa di San Giusto, da riferire a Segna, confermando indirettamente la parentela della Croce di Santa Maria della Scala con questo pittore.
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26. Ugolino di Nerio, Crocifissione con San Francesco, Siena, Pinacoteca Nazionale
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27. Ugolino di Nerio, Crocifissione coi Santi Francesco e Chiara, New York, Metropolitan Museum of Art
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Quanto si vede dei Dolenti mostra una certa vicinanza tra questa Vergine e quella di Chianciano, anche se gli elementi riconducibili a Segna sono più evidenti e non consentono di assegnare le due figure alla stessa mano. In ogni caso nessuna opera di Segna prevede una simile complessa decorazione punzonata, certamente riferibile a un momento successivo e già inoltrato negli anni Venti. I punzoni usati e la loro modalità di distribuzione sui bordi e all’interno della circonferenza dei nimbi paiono invece ben riconducibili a Niccolò, che potrebbe essere intervenuto sull’opera paterna in un momento successivo alla sua redazione, aggiungendovi una sua nota caratteristica, forse ancora con intenti sperimentali, vista una certa inconsueta approssimazione della loro disposizione. Il nimbo del Crocifisso risulta ripassato e all’interno della più ampia circonferenza originaria è stata aggiunta una più piccola ma articolata composizione di punzoni, che comprendono quello a quadrilobo ogivale con tondi inscritti, frequente in Niccolò, tanto quanto la finitura esterna a ogive e il punzone a quadrilobo allungato dell’aureola della Madre dolente, la cui circonferenza maggiore è segnata da altrettanto tipici stampi a cuore67. Nel quadro di questa proposta di ricostruzione dei primordi di Niccolò nella bottega paterna, che sembra legarsi con buona coerenza con l’Incoronazione della Vergine di collezione privata per la fisionomia gentile di Maria e i tratti un po’ spigolosi di Cristo in riferimento ai Dolenti di Chianciano, non trovano spazio la Santa Lucia del Museo Szépművészeti di Budapest (n. 14) e la probabile Santa Margherita di Portland (Art Museum, n. 61.41, ex Kress n. 1102), che a volte gli sono state accostate proprio in riferimento alla sua fase più alta68. Per altri aspetti risulta ugualmente problematica l’attribuzione del piccolo ma prezioso dittico con la Madonna della Misericordia e la Crocifissione del Keresztény Múzeum di Esztergom69 (fig. 38), difficilmente giudicabile a causa delle pessime condizioni della superficie dipinta, interessata da una consunzione che ha annerito le parti a tempera lasciando solo intravedere le forme originali delle figure. Che la formazione di Niccolò sia avvenuta all’interno della bottega di Segna è un facile e probabilmente veritiero assunto, di cui queste opere più antiche possono forse rappresentare una traccia. Nelle prime prove più certamente riferibili a Niccolò, tuttavia, i riflessi dell’arte di Segna sono più sfumati, mentre per contro appare più sostanziale l’influsso di Ugolino di Nerio70. Se i riflessi dell’arte di quest’ultimo su quella di Niccolò sono stati spesso messi in luce dalla critica, in riferimento all’addolcimento e al patetismo delle sue figure rispetto a quelle del padre, le opere più antiche di Niccolò sembrano in effetti presupporre con lui un legame più consistente (come conferma l’analisi delle decorazioni punzonate, per cui si rimanda al paragrafo successivo), che consente di ipotizzare una precoce frequentazione della sua bottega da parte del giovane pittore – probabilmente ancora vivo Segna – e forse, come si è accennato, la presenza nel suo seguito durante il soggiorno fiorentino. Queste osservazioni, insieme alle date alte della Croce di Bibbiena, ammettono la formulazione di un’ipotesi ardita, che non può contare su nessun fondamento
67 La pratica del ritocco di opere più antiche, sia dal punto di vista pittorico sia per un aggiornamento del gusto, non era inconsueta e nel caso del San Domenico riferito a Guido da Siena del museo di Cambridge (Giorgi, in Duccio 2003, p. 61) avviene attraverso l’aggiunta di una decorazione punzonata ad una tavola di fine XIII secolo da parte, con ogni probabilità, di Ugolino di Nerio. Cfr. Frinta 1971, pp. 306-309. 68 Coor Achenbach 1956, pp. 112-114 (Segna di Bonaventura); Stubblebine 1979, I, p. 154; II, figg. 473-474 (Niccolò di Segna). 69 Prokopp, in Christian Museum 1993, pp. 218-219, cat. 70. L’autrice propone l’accostamento anche in virtù del confronto con la Madonna della Misericordia di Vertine, ancora data a Niccolò. 70 Si può concordare con Bacci (1935, pp. 10, 12) che la formazione di Niccolò non sia da leggere del tutto nel solco di Segna: “se è plausibile ammettere che Niccolò iniziasse [la sua educazione artistica], da ragazzo, nella bottega di suo padre, non per questo, stilisticamente, può considerarsi un discepolo e stretto seguace di Segna”; Bacci parla piuttosto di un “tradizionale ricordo iconografico, che una continuazione formale”.
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documentario e dunque andrà considerata semplicemente come una congettura: che cioè quella Croce possa essere stata realizzata da Niccolò quando ancora le monache di Lontrina si trovavano a Firenze e che l’opera possa essere stata trasferita in Casentino a seguito del rientro delle vallombrosane a Bibbiena all’inizio del settimo decennio del Trecento71.
4. La decorazione punzonata Caratteristica fondamentale delle opere di Niccolò di Segna è la ricca decorazione punzonata delle parti in oro, presente anche nelle opere più antiche, fin dalla precoce Incoronazione della Vergine. Un retaggio che certamente non deriva da Segna di Bonaventura, il quale non impiega punzonature complesse e solo nelle tavole più tarde inserisce alcuni stampi molto semplici, perlopiù circolari, a completamento esterno delle aureole, mantenendosi fedele alla modalità decorativa tipica di Duccio, ovvero realizzando all’interno dei nimbi ornamenti a incisione a mano libera solitamente ispirati a fantasie vegetali. Lo stesso fa Ugolino di Nerio nella prima parte della sua carriera, salvo poi adeguarsi al nuovo gusto decorativo introdotto da Simone Martini fin dal 1315 nella redazione dell’affresco della Maestà in Palazzo Pubblico a Siena, dove per la prima volta si trovano stampi sagomati a movimentare le fasce delle aureole. Il maestro continuerà a far uso di questa modalità decorativa anche nelle successive opere su tavola, incrementandone la complessità, sperimentandone variazioni e introducendo punzoni di fogge e dimensioni diverse. A queste novità Ugolino si accosta, a differenza di Segna, piuttosto tempestivamente, fino almeno dall’inizio degli anni Venti: la critica tende a individuare nel polittico n. 39 della Pinacoteca senese la prima testimonianza di questa tarda tendenza, che caratterizzerà tutta la successiva produzione del pittore, con variazioni che rappresentano anche una sorta di bussola per la non sempre facile definizione della cronologia delle sue opere72. Norman Muller ha individuato quattro momenti di variazione della tecnica della punzonatura da parte di Ugolino, a cui corrispondono altrettante forme di aureole, a partire dall’inserimento di tralci di fiori e foglie entro la fascia principale, che unisce l’uso di punzoni alla creazione di dettagli a risparmio sul fondo granito ed è contenuta entro un giro di piccoli punzoni (polittico n. 39). La seconda fase, espressa principalmente nel polittico di Santa Croce, viene definita dallo studioso “pearls-on-a-string” e consiste nella disposizione di serie di punzoni in strette fasce concentriche, emergenti o no sul fondo granito, in una sorta di compressione e moltiplicazione della decorazione precedente. Una terza modalità consiste invece, direttamente sulla scorta di Simone Martini, nella creazione di composizioni di punzoni in abbinamento a dettagli a risparmio (Sant’Anna di Ottawa, Maestà di San Casciano: fig. 39); questi ultimi diventano l’esclusivo elemento decorativo di quella che Muller individua come l’ultima fase di Ugolino, riconoscibile in opere come i Santi Francesco e Pietro della chiesa della Misericordia di San Casciano73. Come ho già avuto modo di puntualizzare, la cronologia proposta da Muller, che scala gli ultimi due gruppi di opere nel quarto decennio, deve essere probabilmente rivista e contratta entro o poco oltre gli anni Venti e forse la scansione delle diverse fasi decorative non va interpretata con eccessiva rigidità74. Tuttavia questa analisi, insieme al contributo di Josef Polzer, risulta fondamentale
Cfr. cat. 7. Polzer 2005, pp. 72-92. Testi fondamentali per lo studio della decorazione punzonata trecentesca sono stati redatti negli anni Novanta del secolo scorso da Erling Skaug e Mojmír Frinta: Skaug 1994; Frinta 1998. 73 Muller 1994, pp. 70-73. Si rifà a questa indicazione metodologica anche Aldo Galli, in La Collezione 2009, I, pp. 82-87. 74 Matteuzzi 2008, pp. 326-327. La realizzazione delle tavole dei due santi e della Maestà di San Casciano, stilisticamente affini alle figure di Santa Croce, deve essere messa in relazione al rapporto lavorativo di Ugolino con Santa Maria Novella per il perduto polittico riferibile alla prima metà degli anni Venti: la chiesa di Santa Maria sul Prato, detta dall’Ottocento 71 72
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28-29. Maestro di Monteoliveto, ante di trittico, New York, Metropolitan Museum of Art
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30. Segna di Bonaventura e bottega (?), Croce, Chianciano, Museo della Collegiata di San Giovanni Battista
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31. Niccolò di Segna (?), Madonna dolente (dettaglio fig. 30), Chianciano, Museo della Collegiata di San Giovanni Battista
32. Niccolò di Segna, Madonna dolente (dettaglio cat. 7), Bibbiena, propositura dei Santi Ippolito e Donato
anche per la comprensione delle scelte decorative di Niccolò, incluso nelle considerazioni dei due studiosi come riflesso delle sperimentazioni di Ugolino. Seppure si possa credere che Niccolò abbia potuto osservare direttamente la produzione di Simone, è lecito pensare che le sue importanti innovazioni gli fossero dapprima mediate da un maestro più esperto. In questo senso Ugolino di Nerio sembra rappresentare, ancora una volta, un riferimento essenziale per Niccolò, che dimostra dimestichezza con le sue declinazioni decorative, di cui certamente si giova, pur non producendone mai copie pedisseque ma acquisendone gli elementi portanti (la granitura, la punzonatura, la tecnica a risparmio) da variare secondo intenzioni e creazioni proprie fin dalle prime opere, che testimoniano una precoce e costante frequentazione con un pittore che poteva rappresentare in questo senso anche una guida tecnica. Particolarmente significativo risulta da parte di Niccolò l’impiego a partire all’incirca dalla fine del terzo decennio (Madonne di Figline e Cortona) di numerosi punzoni già rintracciabili sulle tavole di Ugolino. Se ne era già accorto Mojmír Frinta, che nel 1971, in base alla presenza sulle tavole del polittico n. 38 di punzoni usati da Ugolino in opere come il polittico n. 39 e quello di Santa Croce, aveva supposto che l’autore dello smembrato complesso vallombrosano potesse aver avuto un ruolo o in generale una connessione con la bottega di Ugolino, nella quale gli stampi del maestro dovevano essere a disposizione dei collaboratori. La persistenza dell’utilizzo di punzoni appartenuti a Ugolino an-
“della Misericordia”, è infatti una fondazione domenicana del 1304, direttamente legata alla casa fiorentina: cfr. Matteuzzi 2015, pp. 31-40.
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33. Niccolò di Segna (?), San Giovanni dolente (dettaglio fig. 30), Chianciano, Museo della Collegiata di San Giovanni Battista
34. Niccolò di Segna, San Giovanni dolente (dettaglio cat. 7), Bibbiena, propositura dei Santi Ippolito e Donato
che in altre opere di Niccolò, più tarde, ha inoltre dato adito all’ipotesi che il più giovane potesse averne addirittura ereditati alcuni (o almeno averli acquistati in seguito alla morte dell’altro)75. Le prime opere di Niccolò sono caratterizzate dall’uso di punzoni semplici, circolari, a stella, a fiore, che emergono sempre dal fondo granito delle piccole aureole. Nella produzione precoce si distinguono semmai, per la relativa complessità della decorazione, il pinnacolo con la Crocifissione di Philadelphia e la tavoletta con le Sante Caterina, Maddalena e Margherita di Stoccarda, in cui per la prima volta la decorazione interessa anche il perimetro delle tavole e in generale si propongono composizioni di punzoni diversi (fig. 40), con uno sguardo certamente rivolto alla produzione di piccolo formato di Simone Martini, che comprende oggetti analoghi per forma e punzonatura. Il risultato raggiunto da Niccolò è ancora acerbo nella tavoletta americana del resto più antica, con imprecisioni nella distribuzione degli stampi e una granitura un po’ grossolana; tali incertezze vengono superate nella più fine ornamentazione della seconda, che già adotta la soluzione della finitura esterna dei perimetri e delle circonferenze rispettivamente con punzoni ad archetto polilobato e a foglietta tripartita, fornendo forse un’indicazione in merito alla cronologia, se si tiene presente che l’introduzione delle “frange di punzoni” lungo il bordo delle tavole risale alla metà del terzo decennio76, plausibile terminus post quem generico per la tavoletta delle tre sante. Del resto la presenza di diversi punzoni accostati a formare una decorazione seriale all’interno della fascia principale richiama soluzioni adottate
Frinta 1971, p. 306. Inoltre Matteuzzi 2008, ibidem. Per l’evoluzione degli ornati delle parti dorate in Simone Martini cfr. Polzer 2005, pp. 37-72.
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35. Segna di Bonaventura e Niccolò di Segna(?), polittico, Montalcino, Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra
nel polittico di Santa Croce (per esempio nel San Pietro dell’ordine principale o nelle figure dell’ordine superiore e della predella: fig. 41), a cui in generale possono rimandare tutte le decorazioni giovanili di Niccolò, che semplifica in piccolo formato la modalità “pearls-on-a-string” (fig. 42). La Croce di Bibbiena costituisce in questo primo gruppo un’eccezione, che peraltro apre alle decorazioni tipiche del periodo seguente, caratterizzate appunto dalla preponderanza di decorazioni a risparmio su fondo granito. L’aureola del san Giovanni dolente, decorata con un tralcio continuo che richiama la bordatura della tavola della piccola Maestà di San Casciano, ricorre con relativa puntualità nel nimbo della Vergine della Madonna col Bambino già a Figline, in cui si aggiunge una serie di punzoni a losanga sulla circonferenza esterna, rifinita da una frangia di piccoli punzoni a cuore, presenti anche sul nimbo del Bambino (fig. 43). Si tratta di stampi regolarmente usati da Ugolino nel polittico di Santa Croce e ricorrenti nelle opere di Niccolò entro la prima metà degli anni Trenta77: quello a losanga si trova infatti anche nella Madonna di Cortona, disposto in serie lungo la circonferenza esterna, a contenere una decorazione a risparmio innovativa per la presenza di lettere che compongono il saluto alla Vergine (fig. 44); lo stesso punzone compare nelle tavole del polittico n. 38 e della sua Madonna col Bambino ora a Venezia. La decorazione delle tavole di Figline e Cortona richiama le modalità già espresse da Ugolino nel polittico n. 39 – dove la fascia centrale è chiusa entro una circonferenza punzonata, peraltro costituita dagli stessi stampi a losanga – ma arricchite dalle novità delle sue opere estreme. Tuttavia è già evidente come Niccolò rielabori le proposte del maestro più anziano in creazioni personali che si adattano alle sue sperimentazioni stilistiche del periodo giovanile. Poco dopo, insieme a quella della cifra formale, si assiste alla stabilizzazione della decorazione delle parti dorate nel polittico n. 38, dove i nimbi delle figure principali sviluppano lo schema delle due Madonne aumentando le serie concentriche di piccoli punzoni,
Cfr. Skaug 1994, II, tav. 7.3 (Ugolino di Nerio), nn. 49, 650; Frinta 1998, pp. 78, 320, nn. Ba8b, I66a. Va notato che Skaug e Frinta schedano distintamente il punzone a losanga di Niccolò e quello di Ugolino, lasciando aperta la possibilità che si tratti in realtà di stampi diversi e che il più giovane possa essersene procurato uno proprio, più piccolo, sull’esempio del primo (3,7 mm per Niccolò, 4 mm per Ugolino, secondo le misure riportate da Frinta): Skaug 1994, II, n. 48; Frinta 1998, p. 78, n. Ba8b. 77
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36. Segna di Bonaventura e bottega(?), Croce, Siena, già Spedale di Santa Maria della Scala (depositi?)
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sia all’esterno sia, in misura minore, nella circonferenza più interna, dove al massimo si trova un giro di punzoni circolari; invece nei giri maggiori due serie di questo tipo ne contengono una con un punzone più articolato, mentre all’esterno si trova una finitura a frangia (figg. 45-48). Punzoni diversi nei giri esterni vengono usati, si direbbe, per sottolineare la diversa dignità delle figure, con la forma a losanga ricorrente nelle figure della tavola centrale e nel San Michele in posizione d’onore, laddove per gli altri tre santi è impiegato un punzone a fiore78; inoltre la Madonna presenta una finitura esterna più complessa, con punzoni a cuspide invece che a cuore, come del resto accade nel polittico di San Maurizio79 (cat. 16). Niccolò propone anche nuove fantasie a risparmio nelle fasce principali, che nel 37. Segna di Bonaventura e bottega(?), Croce caso del San Bartolomeo rimandano diret(dettaglio fig. 36), Siena, già Spedale di Santa Ma- tamente alla tavola sancascianese di San Pietro di Ugolino, e sembrano derivare dalria della Scala (depositi?) lo stesso maestro per i nimbi del San Nicola e del San Benedetto, che ricordano rispettivamente il San Francesco di San Casciano e gli ornamenti a tralcio del polittico n. 39. Passando attraverso l’analoga decorazione della Madonna col Bambino di Montesiepi (cat. 15), il polittico di San Maurizio mantiene la stessa struttura dei nimbi, riproponendo nelle fasce centrali motivi più antichi, come nel San Maurizio il tralcio delle tavole degli anni Venti (fig. 49), nella Santa Lucia quello del San Michele vallombrosano e della stessa Madonna del 1336, nella Santa Caterina e nel San Bartolomeo due lievi variazioni di quello dello stesso apostolo del polittico n. 38. La decorazione dell’oro dei due complessi degli anni Trenta è caratterizzata da un giocoso gusto del chiasmo e della variazione, che si esprime in particolare nella diversa resa delle aureole dei santi degli ordini superiori e, nel polittico n. 38, di quelli della predella. Nell’opera più antica le figure minori sono dotate di nimbi decorati con serie o semplici composizioni di svariati punzoni che emergono dal fondo granito (secondo una modalità che di nuovo semplifica in minor formato il “pearls-on-a-string” del polittico di Ugolino per Santa Croce) e che ricorrono più volte nei due registri, in cui varia solamente in numero di giri esterni: tre nella predella, con un giro a fiorellino80 compreso tra due di stampi circolari, che compongono invece l’unica serie dell’ordine superiore. Qui la forma di quadrilobo allungato del San Lorenzo (fig. 50) ricorre nella Santa Caterina della predella (fig. 51) – ed è probabilmente la stessa che
Frinta 1998, p. 446, n. Ka30c. Curiosamente l’aureola della Santa Caterina di questo polittico ha una finitura esterna particolare, con un punzone a trifoglio allungato: Frinta 1998, p. 423, n. Je11b. 80 Si tratta di una forma diversa e più piccola di quella impiegata nelle figure maggiori: Frinta 1998, pp. 446, 452, nn. Ka30d, Ka60. 78 79
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38. Pittore senese del secondo quarto del XIV secolo, dittico, Esztergom, Keresztény Múzeum
compare anche nella tarda cimasa del Redentore Salini – e il quadrifoglio con terminazioni cuspidate della Santa Lucia e del San Giacomo (fig. 52) corrisponde a quello della Sant’Orsola e del Santo Vescovo volto a destra della predella (fig. 53). Quest’ultima forma è usata anche da Ugolino nel polittico di Santa Croce e in ulteriori opere81, come significativamente molte altre dello stesso complesso vallombrosano senese: la foglia allungata del San Giovanni Battista82, il fiore frangiato del San Giovanni Gualberto83 (fig. 54), il fiore circolare del San Vittore (anche nel San Giovanni Evangelista del polittico di San Maurizio)84, la foglia tripartita del Santo Vescovo volto a sinistra (già vista nella tavoletta di Stoccarda); inoltre la forma esapetala del Sant’Andrea (fig. 55), presente anche sul nimbo del Bambino Cini, sembrerebbe corrispondere a quella usata per l’ammodernamento ugolinesco della tavola del San Domenico del Fogg Art Museum di Cambridge, dove ricorre anche la foglia tripartita85. Nel polittico di San Maurizio le aureole dei santi dell’ordine superiore si arricchiscono di una frangia di punzoni a cuspide e sono introdotti ulteriori elementi di variazione per la creazione di decori a risparmio nei Santi Giovanni Battista e Giacomo (come pure nella cuspide con Isaia di Esztergom:
Skaug 1994, II, tav. 7.3, n. 347. Frinta 1998, p. 392, n. Jb76. Skaug 1994, II, tav. 7.3, n. 686. Frinta 1998, p. 336, I142a. 83 Questa forma ricorre anche nella Madonna col Bambino Cini e nella n. 44 della Pinacoteca senese di Niccolò, così come in numerose opere di Ugolino, comprese la Croce dei Servi e la Maestà di San Casciano: Skaug 1994, II, tav. 7.3, n. 363; Frinta 1998, p. 419, n. Jd55. 84 Skaug 1994, II, tav. 7.3, n. 439. Frinta 1998, p. 465, n. Kb38a. 85 Frinta 1971, pp. 306-307. Skaug 1994, II, tav. 7.3, n. 213 (foglia tripartita). Il punzone a sei petali rifiniti con bolli non è riferito da Skaug a Niccolò o a Ugolino, ma forme simili si trovano qualche decennio più tardi in alcuni pittori fiorentini, come Niccolò di Tommaso e Andrea di Cione, e senesi, come Bartolomeo Bulgarini, Jacopo di Mino del Pellicciaio e Niccolò di Ser Sozzo (Skaug 1994, II, nn. 460-461, 536); ugualmente il punzone usato da Niccolò non viene schedato da Frinta all’interno della sezione L dedicata a questa forma. 81 82
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cat. 17) e di composizioni di punzoni nel San Domenico e nella Santa Maria Maddalena (figg. 56-57). In particolare, quest’ultimo nimbo richiama quello più ampio e rifinito della Madonna col Bambino n. 44 (fig. 58), in cui Niccolò ripropone a distanza di circa un decennio la soluzione decorativa della Sant’Anna di Ottawa e della Maestà di San Casciano, dove Ugolino si confronta con Simone Martini, copiandone anche il punzone a scudo usato per la costruzione della forma quadrilobata, già visto nel polittico di Santa Caterina a Pisa e che non compare sulla tavola di Niccolò, che invece ripete per otto volte uno stampo ad arco bilobato a creare una forma quadricuspidata che accoglie al suo interno ulteriori punzoni86. Come nelle opere di Ugolino le composizioni emergono sul fondo granito e sono intervallate da simili motivi a risparmio a mazzo fogliaceo. L’aureola del Bambino della tavola n. 44 segue invece 39. Ugolino di Nerio, Madonna col Bamlo schema tradizionale, con una forma crociata debino e donatore (dettaglio fig. 109), San corata con accostamenti di punzoni e spazi di risulta Casciano Val di Pesa, chiesa di Santa colmati da decori a risparmio, in questo caso analoMaria sul Prato o della Misericordia ghi all’omologo della tavola Cini. Nelle altre Madonne di Niccolò variano solamente le fantasie vegetali e la scelta dei punzoni: nella tavola di Montesiepi lo stampo principale è a losanga allungata, mentre in quella di Villa I Tatti la composizione è ottenuta disponendo punzoni circolari e a foglia intorno al già noto quadrifoglio cuspidato, entrambi presenti anche nel polittico della Resurrezione87. Lo stesso schema, proposto anche da Ugolino, ricorre sempre in abbinamento alla figura del Cristo: così nella cimasa Salini (cat. 19) e nel Crocifisso della Croce n. 46, in cui, accanto a punzoni già usati da Niccolò – come il fiore a sei petali che troviamo nel Sant’Andrea del polittico n. 38 e nelle Madonne n. 44 e Cini88 – compaiono una forma a quadrilobo e una a regolo89. Quest’ultima è usata anche per la decorazione dell’aureola del san Giovanni dolente, in una composizione a reticolo inedita, come la soluzione adottata per quella della Vergine, in cui si accostano elementi che richiamano il quadrilobo del Cristo, ma con andamento più allungato (figg. 59-60), che è probabilmente lo stesso impiegato nella Santa Caterina e nel San Lorenzo del polittico n. 38, mentre un fiore più piccolo, a cinque petali, ritorna a distanza di vent’anni dal trittichino di Esztergom90. Questo dettaglio, insieme alla già notata ripresa di modelli giovanili per i Dolenti, corrobora l’idea di una bottega capace di conservare e reimpiegare modelli e attrezzi. La forma centrale a sei petali è usata anche da Ugolino: Skaug 1994, II, tav. 7.3, n. 621; Frinta 1998, p. 520, n. La131a. Il punzone ad arco bilobato è simile a uno usato dallo stesso pittore: Skaug 1994, II, tav. 7.3, n. 169. Per la frangiatura esterna è usato un archetto a tutto sesto (diverso da quello delle Madonne di Venezia e Montesiepi: Frinta 1998, p. 244, n. Fea8a) con piccolo elemento trilobato che si trova anche nelle tavole del polittico di San Maurizio (molto usato anche da Bartolomeo Bulgarini): Frinta 1998, pp. 241, 298, nn. Fe8, Gh3. 87 Frinta 1998, pp. 333, 396, nn. I129b, Jb98. 88 Frinta 1998, p. 507, n. La89a. 89 Frinta 1998, pp. 87, 374, nn. Bc4b, Ja67. Il quadrilobo è forse lo stesso del piccolo nimbo del San Domenico del polittico di San Maurizio. 90 Frinta 1998, p. 451, n. Ka55a. Lo stesso fiore è impiegato anche nella Madonna col Bambino di Venezia. 86
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40. Niccolò di Segna, Sante Caterina d’Alessandria, Maria Maddalena e Margherita d’Antiochia (dettaglio cat. 4), Stoccarda, Staatsgalerie
41. Ugolino di Nerio, Salita al Calvario (dettaglio), Londra, National Gallery
42. Niccolò di Segna, San Giovanni Battista (dettaglio cat. 2), Esztergom, Keresztény Múzeum
Si giunge infine al polittico della Resurrezione di Sansepolcro, che riverbera l’alta qualità formale anche nella resa della ricca e raffinata decorazione dell’oro, estesa pure alle fasce perimetrali delle tavole cuspidate, sia nel registro maggiore sia in quello superiore (fig. 61). Qui i contorni sono definiti con frange punzonate, mentre le tavole principali presentano bande con decori fitomorfi a risparmio contenute entro serie di piccoli punzoni a fiore, non diversamente da quanto avviene per le aureole. Dunque un decoro più diffuso e tuttavia meno ridondante, che somiglia a quello delle piccole tavole 53
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43. Niccolò di Segna, Madonna col Bambino (dettaglio cat. 8), Fiesole, deposito della Curia Arcivescovile
44. Niccolò di Segna, Madonna col Bambino (dettaglio cat. 9), Cortona, Museo Diocesano
disperse in varie collezioni considerate da Federico Zeri (cat. 23), confermando la prossimità stilistica e cronologica. Il gusto della variatio già sottolineato per i polittici n. 38 e di San Maurizio è comunque presente anche in questo di Sansepolcro, in particolare nelle tavolette dei contrafforti reimpiegate come cuspidi, in cui le aureole sono rese ora a risparmio, ora con punzoni, mentre quelle che raffigurano san Giovanni Battista e un santo camaldolese hanno anche una finitura del perimetro analoga a quella delle tavole maggiori (figg. 62-63). L’assenza tuttavia della maggior parte dei punzoni usati almeno fino alla Croce n. 46 marca ancora di più la distanza maturata da Niccolò rispetto ai punti di riferimento delle opere dei decenni precedenti, pur non rinunciando a un elemento come la punzonatura, caratteristico della propria e più personale cifra stilistica.
5. Francesco di Segna La figura del fratello di Niccolò risulta più sfuggente: per comprenderla non possiamo contare su nessuna opera firmata e il suo nome è noto alla letteratura storico artistica solo grazie a citazioni documentarie, la più antica risalente al 132691. Siamo a conoscenza del matrimonio con Nuta di Palamede nel 1328 e dell’incarico nel 1335 di dipingere i libri del Capitano del Popolo di Siena92. “Franciscum Segnie” viene poi citato il 27 febbraio 1338 (1339 stile comune) quale autore di una tavola della Vergine da porre sotto la Loggia del Palazzo del Comune di Siena ai Bagni di Petriolo, commissionata dai Signori Nove, per cui vengono stanziate 13 libbre di denaro93. Nel 1348 viene menzionato nel contratto d’affitto di una casa in contrada San Quirico all’Olivo a Lucca, stipulato dalla moglie94. Solo recentemente Alessandro Bagnoli ha proposto in modo convincente di mettere in relazione l’ultimo documento con un frammento di affresco
ASSi, Registri della Casa della Misericordia, n. 1426, 18 aprile 1326. Lisini 1927, p. 302. Inoltre Bagnoli 2009b, p. 443 nota 14. Bacci 1944, p. 47. Cfr. anche Lisini 1927, ibidem (ASSi, Concistoro, Polizze di pagamenti, ad annum 1335). 93 Cfr. Milanesi 1873, p. 46; Bacci 1944, pp. 46-47 (ASSi, Concistoro, n. c. 73, ad annum 1338). 94 Lazzareschi 1938, p. 140 nota 2; l’autore riferisce il documento, rogato da ser Francesco Salani, al 1344, in data 9 giugno; n. 128 s.. Concioni-Ferri-Ghilarducci 1994, p. 296, n. 68; qui la moglie viene nominata Nutina di Duccio di Rinaldo (ASLu, Notari, parte I, n. 128, c. 488). 91
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45. Niccolò di Segna, San Benedetto (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale 46. Niccolò di Segna, San Nicola (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale 47. Niccolò di Segna, San Bartolomeo (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale 48. Niccolò di Segna, San Bartolomeo (dettaglio cat. 16b), Siena, Pinacoteca Nazionale
con la testa della Vergine conservato in una lunetta della chiesa di San Francesco a Lucca (cat. 34), già assegnato ad ambito senese, che viene così ad essere l’opera di riferimento per la revisione del corpus già assegnato negli anni al pittore dallo stesso Bagnoli, sviluppando gli spunti di Luciano Bellosi, Serena Padovani e Anna Maria Guiducci. Fin dal 1970 Bellosi aveva intuito la possibilità di ricondurre ad un’unica mano un piccolo gruppo di opere partendo dall’analisi della Madonna col 49. Niccolò di Segna, San Maurizio (dettaglio cat. 16d), Bambino di Lucignano (cat. 29), a cui Atlanta, High Art Museum accostava la Madonna col Bambino di Cortona, l’affresco di santa Fina nella collegiata di San Gimignano (cat. 25) e 95 quelli della cappella Agazzari in San Martino a Siena (cat. 27). Pur notando affinità con Segna di Bonaventura ma scartando la possibilità di leggervi un intervento di Niccolò, il nome di Francesco non viene ancora pronunciato e bisogna attendere quasi trent’anni perché lo faccia Bagnoli96. Nel frattempo, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, Serena Padovani aveva accresciuto il catalogo dapprima con la Croce di Buonconvento (cat. 26) e gli affreschi di Santa Colomba a Monteriggioni97 (cat. 30), poi – espunta la Madonna di Cortona, già correttamente assegnata da Maginnis a Niccolò – la Croce n. 20
L. Bellosi, in Arte in Valdichiana 1970, p. 9, cat. 10. Bagnoli 1997, p. 18. 97 Padovani, in Mostra 1979, p. 68. Padovani-Santi 1981, p. 18. 95 96
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50. Niccolò di Segna, San Lorenzo (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale 51. Niccolò di Segna, Santa Caterina d’Alessandria (dettaglio cat. 11g), Siena, Pinacoteca Nazionale
52. Niccolò di Segna, San Giacomo (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale 53. Niccolò di Segna, Sant’Orsola (dettaglio cat. 11h), Digione, Musée des Beaux-Arts
IBS della Pinacoteca Nazionale di Siena (cat. 28), insieme ad altre opere non pertinenti quali la Madonna della Misericordia di Vertine e la Crocifissione n. 68 della Pinacoteca, rispettivamente ricondotte a Simone Martini e al Maestro di Monteoliveto, e la Madonna col Bambino dell’Orfanotrofio senese di Santa Marta (ora in Palazzo Pubblico)98. La studiosa, che scalava le opere con troppo an-
98 Padovani, in Mostra 1983, pp. 37-40. Per la Madonna dell’Orfanotrofio già Boskovits (1982, p. 502, fig. 6) aveva proposto un accostamento a Francesco di Segna e, sebbene non sia possibile confermargliela, è da notare una certa affinità tra le fisionomie di questa Vergine e quella dolente della Croce di Buonconvento. Piero Torriti ha accolto la ricostruzione di Padovani in Torriti 1990, pp. 42-43. Cfr. inoltre A.M. Guiducci, in Monteriggioni 1988, p. 38; Eadem 1998, p. 28.
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ticipo nel primo trentennio del XIV secolo, dopo un primo riferimento al Maestro della Madonna di Lucignano99 aveva adottato la denominazione convenzionale di Maestro della Croce di Buonconvento, coniata negli stessi anni da Stubblebine per riferirvi le due Croci e quella estranea di Valdipugna100. Al Maestro del Polittico di Montalcino lo studioso americano assegnava invece, oltre all’opera eponima (di cui si è già discusso), la Madonna del Museo Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma e la n. 41 della Pinacoteca di Siena (cat. 31-32), insieme alla Madonna col Bambino e Santi, ora presso il Monte dei Paschi di Siena, con la corretta attribuzione a Segna di Bonaventura, e altre tavole da riferire a mani diverse101. Sulla scia di quest’ultimo gruppo e memore del primo nu- 54. Niccolò di Segna, San Giovanni Gualcleo bellosiano, Bagnoli ha riferito a Francesco di berto (dettaglio cat. 11b), Siena, Pinacoteca Segna il polittico ilcinese, le Madonne di Roma e Nazionale di Lucignano, includendo di nuovo anche quella di Cortona, per la quale ribadirà il nome di Francesco anche nei successivi interventi. Oltre agli affreschi di San Gimignano e San Martino a Siena, ha confermato nel 2003 la pertinenza al gruppo delle Croci di Buonconvento e Siena e, come accennato, vi ha avvicinato la testa della Madonna di Lucca e inoltre le tavole del San Lorenzo del Museo d’Arte Sacra di Montespertoli e dei Santi Antonio Abate e Agostino di collezione privata provenienti da San Leonardo al Lago presso Monteriggioni, laterali più tardi della tavola eponima del Maestro della Maestà Gondi, che meritano una riflessione specifica (infra). Nel 2009 arriva, sempre ad opera di Bagnoli, il più compiuto compendio sulla figura di Francesco, che, potendo contare anche sul supporto dei pochi documenti a lui riferiti, prende defini- 55. Niccolò di Segna, Sant’Andrea (dettaglio tivamente corpo come una figura dalla produzione cat. 11b), Siena, Pinacoteca Nazionale riconoscibile e coerente, distinta con chiarezza da quella del fratello Niccolò. In questa occasione Bagnoli, oltre a individuare plausibili limiti cronologici dell’attività di Francesco tra l’affresco di San
Il pittore denominato in prima battuta da Serena Padovani (in Mostra 1979, p. 68) Maestro della Madonna di Lucignano non deve essere confuso con l’omonimo autore dei gruppi lignei dell’Annunciazione in Santa Chiara a Castelfiorentino e dell’eponima Madonna col Bambino della collegiata di Lucignano individuato da Anna Maria Guiducci (1977, pp. 38-39), identificato da Bagnoli nel 1987 con Mariano d’Agnolo Romanelli (Bagnoli 1987, pp. 12-13). 100 Stubblebine 1979, I, p. 184. 101 Stubblebine 1979, I, p. 154. 99
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56. Niccolò di Segna, San Giacomo (dettaglio cat. 16g), S’Heerenberg, Huis Bergh
57. Niccolò di Segna, Santa Maria Maddalena (dettaglio cat. 16f), S’Heerenberg, Huis Bergh
58. Niccolò di Segna, Madonna col Bambino (dettaglio cat. 14), Siena, Pinacoteca Nazionale
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Gimignano verso la metà del terzo decennio e il frammento lucchese collegabile al documento del 1348, tenta ulteriori ma poco condivisibili attribuzioni, accostandogli il clipeo col Redentore n. 56 della Pinacoteca di Siena102 e la piccola tavola con la Crocifissione con i due ladroni della collezione della Società di Esecutori di Pie Disposizioni di Siena103. Mancano infine da questo catalogo, sunteggiato da Franci104, solo gli affreschi di Santa Colomba – da confermare con Padovani in rapporto alla Croce di Buonconvento, ma anche alla n. 20 59. Niccolò di Segna (e bottega), Madonna dolente (dettaglio cat. IBS – e la rovinata lunetta di Santa Maria a Tressa (cat. 33). 18), Siena, Pinacoteca Nazionale L’attività di Francesco sembra svolgersi in parallelo a quella di Niccolò, che forse solo per una convenzione alimentata dalla sua più evidente abilità può continuare a essere ritenuto il maggiore dei fratelli. Certamente egli rappresenta un importante riferimento per Francesco, che dimostra i suoi debiti nella composizione e nelle fisionomie delle figure e nelle decorazioni punzonate. Emblematica la Madonna col Bambino di Roma, che palesemente ripropone a distanza di tempo la foggia dei due protagonisti della Madonna di Cortona e il singolare ornamento delle aureole, d’altro canto rifinite 60. Niccolò di Segna (e bottega), all’esterno solo con semplici e un po’ arcaici punzoni rotondi San Giovanni dolente (dettaglio cat. invece che con quelli più complessi tipici di Niccolò. Come 18), Siena, Pinacoteca Nazionale notava Padovani, dalla Madonna di Cortona deriva anche la punzonatura del nimbo della Croce di Buonconvento, analogo a quello del Bambino. La qualità della tavola cortonese è tuttavia troppo alta per Francesco, nonostante alcune schematizzazioni che ne rivelano la collocazione precoce nel percorso del fratello. Del resto molti dei pezzi del suo ormai non più esiguo corpus sono state accostate a Niccolò almeno una volta e su suggerimento di diversi studiosi: la critica ha dunque sempre colto che il solco in cui collocare le sue opere era quello segnesco, in tangenza all’autore del polittico della Resurrezione e in rapporto con Ugolino di Nerio e finalmente l’intuito di Bellosi e Bagnoli ha compreso che la soluzione di questo piccolo enigma storico-artistico – di opere che sembrano di Niccolò ma non ne raggiungono la qualità – andasse ricercata nella figura del fratello, superando le ipotesi di chi gli riferiva una parte (e non marginale) del catalogo non ancora ben definito di Niccolò105. A ben guardare, al di là dei parallelismi compositivi e formali, che si intensificano negli anni della maturità, gli elementi stilistici dei due fratelli sono tuttavia relativamente distinguibili e Francesco dimostra un debito più forte verso il padre, soprattutto in opere come la Croce di Buonconvento, in cui la struttura fisica del Crocifisso, segnata nei dettagli anatomici – con particolare risalto dello sterno caratterizzato da ombreggiature orizzontali – e vagamente compressa, somiglia a quella delle
Già riferito da Stubblebine (1979, I, p. 155) al Maestro di Chianciano, ma probabilmente del Maestro di Monterotondo (cfr. infra). 103 Assegnata a Niccolò da De Benedictis (1979, p. 94), ma non riferibile a nessuno dei due figli di Segna. 104 Franci 2013. 105 De Benedictis 1979, p. 83. Coor Achenbach (1954-1955, p. 90 nota 24), Bologna (1961, p. 36) e Stubblebine (1979, I, p. 155) avevano avanzato blandamente l’ipotesi che in Francesco di Segna si potesse identificare l’autore del polittico della Resurrezione. 102
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numerose Croci di Segna (fig. 64). La maggior delicatezza espressa invece nella Croce n. 20 IBS della Pinacoteca senese apre all’ipotesi che nel frattempo il punto di riferimento di Francesco fosse cambiato, sostituito appunto dal fratello, dal quale potrebbe aver derivato la pacatezza di tratti e di modellato che paiono pervadere anche la Madonna di Lucignano: opere che si propone di collocare verso la prima metà del quarto decennio, quando Niccolò apre bottega a Siena dopo la morte del padre. Le figure principali della tavola della Val di Chiana richiamano a mio avviso la Madonna di Niccolò ora a Venezia, centrale del polittico n. 38, mentre il ricordo del padre è ancora ben percettibile nella foggia del trono e nella composizione generale della tavola, che rievoca anche la piccola Maestà di Ugolino 61. Niccolò di Segna, Sant’Agnese (dettaglio della chiesa della Misericordia di San Casciano. cat. 22), Sansepolcro, cattedrale di San Gio- L’accento ugolinesco a volte ravvisato nelle opevanni Evangelista re di Francesco non dimostra d’altronde radici profonde ed è forse frutto della mediazione del fratello, certamente più prossimo all’autorevole allievo di Duccio. Tra queste due “fasi” di Francesco si inserisce il piccolo ciclo di affreschi della cappella Agazzari in San Martino a Siena, fondamentale per il recupero della data 1333106, in cui il pittore dimostra nell’impaginazione della scena principale e nella creazione di un paesaggio naturale insolitamente dettagliato anche una vena del tutto personale, descrittiva più che narrativa, derivata certo dalla declinazione di elementi propri di Simone Martini e soprattutto dei Lorenzetti. Tutte le caratteristiche di queste pitture ricorrono a qualche anno di distanza nei grandi pannelli affrescati sulla parete di fondo della pieve dei Santi Pietro e Paolo a Santa Colomba, in particolare nella scena della Natività, mentre la Crocifissione è ben confrontabile, come già aveva sottolineato Padovani, con le due Croci di Francesco (figg. 65-67), il quale dimostra qui più chiaramente che altrove i suoi debiti verso Pietro Lorenzetti. Nonostante la discreta qualità in particolare del secondo riquadro, neanche adesso Francesco raggiunge i livelli di Niccolò, che tiene la distanza grazie a un disegno più abile e delicato delle linee di contorno e in generale a una più sapiente capacità compositiva delle singole figure, ma anche in virtù di un’interpretazione più aristocratica dei propri personaggi. Francesco invece ha una vena più popolaresca, che si intensifica nelle opere della maturità, che paiono tradurre in accenti più diretti i modelli di Niccolò. Per questo si fatica ad accogliere le suggestive attribuzioni di Bagnoli delle tavole cuspidate di Montespertoli e di San Leonardo al Lago (figg. 68-70). Se posseggono un’intensità che effettivamente può ricordare alcune figure di Francesco – che perlopiù non meritano di essere definite, come fa Franci, “perplesse e imbambolate” – queste opere hanno anche una qualità di modellato sia nei volti sia nei panneggi che, come nota giustamente lo stesso Bagnoli, giunge a ricordare Simone e Ambrogio nel San Lorenzo proveniente dalla chiesa di San Lorenzo a Montalbino e sembra dunque superare le capacità del pittore, dovendosi peraltro inserire con qualche difficoltà nella cronologia del suo catalogo. Questo al di
Bagnoli 2003, p. 276 nota 28.
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62. Niccolò di Segna, San Paolo (dettaglio cat. 22), Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista
63. Niccolò di Segna, San Giovanni Battista (dettaglio cat. 22), Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista
là della presenza di decorazioni punzonate nelle aureole e lungo il perimetro della tavola e nonostante alcuni precedenti accostamenti all’ambito di Niccolò di Segna107. Che il piccolo gruppo possa essere ri-
Il San Lorenzo (cm 113 x 42), forse una pala da pilastro sulla quale gli stemmi della famiglia Castellani in basso parrebbero un’aggiunta successiva alla redazione originaria, è stato avvicinato a Niccolò da Boskovits (1982, p. 502) e da Bellosi, secondo un parere riportato in Proto Pisani-Nesi 1995, pp. 28-29; più prudentemente Rosanna Caterina Proto Pisani riferisce la tavola a un generico anonimo senese della metà del XIV secolo (Museo 2006, p. 44), mentre Bagnoli si era già espresso a favore di Francesco di Segna, fugando in un secondo momento qualche dubbio iniziale (Bagnoli 2003, p. 277 nota 29; Idem 2009b, p. 442). Le tavole coi Santi Antonio Abate e Agostino, citate con la Maestà Gondi in una memoria ottocentesca di una fonte del 1611 sull’altare maggiore della chiesa dell’eremo agostiniano (Raccolta di memorie e documenti riguardanti la congregazione ilicetana e più particolarmente il monastero di Lecceto, dal 1414 al 1857, BCS, ms. B.IX.18, 107
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ferito ad un medesimo ambito lo suggeriscono, oltre agli elementi già notati, alcuni dettagli del disegno, come la resa dei panneggi a pieghe verticali parallele che si affastellano sul pavimento e la costruzione un po’ capricciosa delle mani, caratterizzate dal pollice leggermente incurvato e da dita sottili atteggiate a volte in movimenti artificiosi, come quelle del bambino che affianca san Lorenzo, quella destra del Sant’Agostino che non afferra bene il pastorale e soprattutto quella sinistra del Sant’Antonio, il cui indice si piega innaturalmente sullo spigolo del libro. Sottigliezze sconosciute alle opere più sicuramente riferibili a Francesco, che propone mani ripetitive e spesso schematicamente atteggiate e al quale non sembra proprio neppure il ricco gusto decorativo delle tre tavole, espresso soprattutto negli abiti dei personaggi della tavola valdelsana e nella cappa vescovile di sant’Agostino. Per contro potrebbero costituire un’ulteriore testimonianza dell’attività di frescante di Francesco – più prolifica di quella di Niccolò – i resti della decorazione della chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo a Cuna presso Monteroni d’Arbia (ricostruita nel 1314), resi più leggibili grazie ad un recente restauro. Si conservano una teoria di dieci Santi nella zona presbiteriale, una Presentazione di Gesù al Tempio e quanto resta di una rara e precoce iconografia della Sant’Anna Metterza affiancata da due santi (figg. 71-72). Assegnati generalmente a Niccolò dai pochi autori che se ne sono occupati, tra cui da ultimi Bagnoli e Franci108, le figure non dimostrano un sufficiente livello qualitativo, né risultano confrontabili con le prove di Monticchiello e dei Servi di Siena; tuttavia i modi dei due fratelli sono adombrati nei tratti delle figure di Cuna, per i quali risulta preferibile il nome di Francesco, a cui rimanda ad esempio la testa del San Francesco tra le figure presbiteriali. A margine dell’attività di Francesco conviene considerare gli affreschi della pieve di San Polo in Rosso presso Gaiole in Chianti, già accostati alla produzione dei figli di Segna109 ma lontani dai livelli qualitativi di entrambi. Nelle sei lunette che decorano la navata centrale con Storie della Vita di Cristo la vena piacevolmente narrativa e alcuni tentativi di sperimentazione prospettica bilanciano una resa legnosa e caricaturale dei personaggi, segnati da pesanti tratti di contorno e paludati con panneggi schematici e appiattiti (figg. 73-75). Tra le scene chiantigiane110, la Natività con annuncio ai pastori e bagno del Bambino denuncia affinità compositive con l’analoga scena di Santa Colomba, dove alcune debolezze nella resa delle figure lasciano supporre l’intervento al fianco di Francesco di un collaboratore, che potrebbe essere plausibilmente individuato proprio nell’autore del ciclo di San Polo. Interessante in questo senso, ad esempio, il confronto tra il pastore anziano all’estrema destra del pannello di Monteriggioni con alcuni vecchi dal profilo aquilino, i tratti duri e le palpebre marcate delle lunette di San Polo: segnatamente un astante dell’Adorazione dei Magi e il San Giuseppe della Presentazione al Tempio (figg. 76-77). Proprio quest’ultima scena richiama quella di Cuna, per quanto il modello primigenio almeno delle storie chiantigiane dell’infanzia di Cristo vada rintracciato nella predella della Maestà di Duccio per il Duomo di Siena, che comprende anche l’episodio di Gesù tra i dottori; le scene della Passione invece non sono altrettanto sovrapponibili. Negli affreschi di San Polo si rintracciano elementi che rimandano alla produzione dell’anonimo conosciuto come Maestro di
1857 circa, c. 185r; cfr. Bacci 1927, pp. 38-39), furono ritenute dallo stesso Boskovits (1982, p. 500) vicine alla Croce di Buonconvento prima dell’attribuzione a Francesco di Bagnoli (in Duccio 2003, pp. 336-339; 2009b, ibidem). 108 Eccetto Berenson (1932, p. 313; 1936, p. 269; 1968, I, p. 226), che faceva il nome di Luca di Tommè, pensano a Niccolò: van Marle 1934, II, p. 150 (fase tarda); Guiducci 1990, pp. 93-96 (fase giovanile); Bagnoli 2003, pp. 272, 277 nota 32; Franci 2013. 109 Brandi (1933, p. 224) li assegnava a Niccolò, mentre Perkins (1933b, pp. 226-228) pensava, genericamente, a un tardo duccesco con influssi fiorentini. Inoltre M. Ciampolini, in Le chiese 1993, pp. 149-153. 110 La serie comprende l’Adorazione dei Magi, la Presentazione di Gesù al Tempio, Gesù tra i Dottori, l’Ultima Cena e la Flagellazione.
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64. Segna di Bonaventura, Croce n. 21, Siena, Pinacoteca Nazionale, depositi
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65. Francesco di Segna, Croce (dettaglio cat. 26), Buonconvento, Museo d’Arte Sacra della Val d’Arbia 66. Francesco di Segna, Croce (dettaglio cat. 28), Siena, Pinacoteca Nazionale 67. Francesco di Segna, Crocifissione (dettaglio cat. 30b), Santa Colomba (Monteriggioni), pieve dei Santi Pietro e Paolo
Monterotondo111, a cui viene correttamente assegnato il frammentario affresco agiografico-narrativo di San Nicola da Tolentino della chiesa di San Pietro all’Orto di Massa Marittima112. Quest’opera offre buoni confronti con le lunette chiantigiane per il trattamento delle figure (nonostante la diversa scala dimensionale) e per alcuni elementi accessori delle architetture e del paesaggio, di cui ricorrono rispettivamente la creazione di spazi voltati retti da sottilissime colonnine tortili e le fenditure verticali delle rocce, segnate da tratti alternati di colore chiaro e scuro, che richiamano alcune ambientazioni petrose delle scene tergali della Maestà di Duccio. Al Maestro di Monterotondo – alias Maestro di Pomarance, secondo che si consideri come opera eponima l’una o l’altra delle sue simili Madonne col Bambino conservate nelle chiese parrocchiali di questi centri della Val di Cecina, la seconda datata 1329 – sono attribuite anche le tavole coi Santi Giustino e Ugo e due Profeti, laterali di un polittico smembrato conservati nel Museo Diocesano di Volterra113, di cui si colgono i riflessi in opere più tarde, poste sotto il nome convenzionale del Maestro di Chianciano: il pentittico del Museo di Chianciano e l’affine Madonna col Bambino n. 606 della Pinacoteca Nazionale di Siena114, che rappresentano probabilmente il momento più tardo del Maestro di Monterotondo115. Queste ultime opere inoltre Cfr. Stubblebine 1979, I, p. 155; II figg. 522-525. Ringrazio Nicola Bernini, per aver generosamente condiviso le sue riflessioni su questo anonimo, permettendomi di arricchire le mie di nuovi confronti. Rinvio ad un prossimo articolo per un approfondimento sul pittore, limitandomi per adesso solo a cenni essenziali. 112 L’attribuzione è di Bagnoli (2003, p. 276 nota 24). 113 Boskovits 1982, pp. 497, 502. Padovani, in Mostra 1983, pp. 40-42. 114 Per il polittico con la Madonna col Bambino e i Santi Michele Arcangelo, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Bartolomeo cfr. M. Lenzini Moriondo, in Arte in Valdichiana 1970, p. 8, cat. 8. Per la Madonna col Bambino cfr. Torriti 1990, p. 44. 115 L’assonanza tra la Madonna di Pomarance e il polittico di Chianciano e tra queste opere e Niccolò di Segna era stata precocemente notata da De Nicola (1912, p. 147). Una proposta per il corpus del Maestro di Chianciano, in cui non rientrano gli affreschi di San Polo, era stata formulata da Brandi (1933, pp. 168-169), che gli riferiva anche gli affreschi della cattedrale di Chianciano e un affresco nella chiesa di Monticchiello e pure lui, con dubbio, gli accostava la Madonna di Pomarance (Idem 1951, p. 154 nota 33). Le riflessioni di Brandi vengono riprese da Torriti (1990, ibidem), che propone una cronologia tra 13251330 e riporta l’ipotesi di Bacci (non del tutto accolta perché indimostrabile) che possa trattarsi di Francesco di Segna. Le due 111
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sono accostabili agli stessi affreschi di San Polo in Rosso: si veda in particolare il San Bartolomeo del polittico chiancianese, con la sua espressione vacua sotto le pesanti palpebre tipiche delle figure chiantigiane, che rappresentano la trasformazione volgarizzata dello stesso tratto reso in piena luce delle figure più antiche. L’anonimo si presenta dunque come un pittore di stretta osservanza duccesca, ma con gustose forzature espressive e curiosi tratti proto-giotteschi, piacevole nelle prove più antiche, probabilmente in contatto con Segna di Bonaventura; alla morte di questi non è improbabile che il Maestro di Monterotondo abbia proseguito la collaborazione col figlio Francesco, faticando ad adattarsi al nuovo linguaggio che si andava sviluppando in seno alla terza generazione duccesca nel corso del quarto fino probabilmente al quinto decennio del Trecento116.
6. Conclusioni La collazione delle opere riferibili a Niccolò di Segna e una loro lettura scevra dagli antichi pregiudizi, ormai superati, consente di determinare con relativa precisione i contorni e gli sviluppi di una personalità rilevante del panorama artistico senese del secondo quarto del XIV secolo e di riconoscerne e apprezzarne i meriti, pur entro i confini di una modesta capacità inventiva. Il confronto con la pure piacevole produzione del fratello Francesco, che consente peraltro di illustrare il parallelo contesto familiare e le conseguenti dinamiche che potevano instaurarsi tra pittori vicini ma qualitativamente differenti, dà la misura del suo livello operativo. È intuibile il favore che Niccolò deve aver goduto presso i committenti religiosi e laici, che potevano trovare nella sua opera sia gli elementi familiari della tradizione duccesca, garantiti dal rispetto dell’eredità dei suoi maestri, Ugolino e il padre Segna, diretti discendenti del caposcuola, sia l’aggior-
68. Pittore senese del terzo decennio del XIV secolo, San Lorenzo, Montespertoli, Museo d’Arte Sacra
Madonne col Bambino sono assegnate al Maestro di Monterotondo, separatamente dalle opere date al Maestro del Polittico di Chianciano, a cui è da riferire anche il clipeo con Redentore n. 56 della Pinacoteca senese, in Stubblebine 1979, I, pp. 153, 155. 116 Non è da escludere che la mano di questo aiuto vada rintracciata anche nel debole volto della Vergine Assunta nel mezzo dei due pannelli di Santa Colomba, accostabile ad altri mal gestiti volti frontali delle lunette di San Polo, così come negli angeli intorno alla mandorla, dalle anacronistiche fisionomie fortemente duccesche, che possono rimandare ad un pittore con una formazione relativamente alta nel solco del maestro, come appunto il Maestro di Monterotondo.
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69. Pittore senese del secondo quarto del XIV secolo, Sant’Agostino, Roma, collezione privata 70. Pittore senese del secondo quarto del XIV secolo, Sant’Antonio Abate, Roma, collezione privata
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71. Francesco di Segna (?), Sant’Anna Metterza e due Santi, Monteroni d’Arbia, chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo a Cuna
72. Francesco di Segna (?), Presentazione di Gesù al Tempio, Monteroni d’Arbia, chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo a Cuna
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73. Maestro di Monterotondo, Natività con annuncio ai pastori e bagno del Bambino, Gaiole in Chianti, pieve di San Polo in Rosso
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74. Maestro di Monterotondo, Adorazione dei Magi, Gaiole in Chianti, pieve di San Polo in Rosso
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75. Maestro di Monterotondo, Presentazione di Gesù al Tempio, Gaiole in Chianti, pieve di San Polo in Rosso
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco 76. Maestro di Monterotondo, Adorazione dei Magi (dettaglio fig. 74), Gaiole in Chianti, pieve di San Polo in Rosso 77. Maestro di Monterotondo, Natività con annuncio ai pastori e bagno del Bambino (dettaglio cat. 30a), Santa Colomba (Monteriggioni), pieve dei Santi Pietro e Paolo
namento sulle istanze innovative introdotte dai grandi dominatori del suo tempo: Simone Martini e i fratelli Lorenzetti. Niccolò non vi si può sottrarre, ma si direbbe che tragga dal confronto gli stimoli necessari per acquisire una propria cifra stilistica, che peraltro non si fissa mai definitivamente ma resta in continua evoluzione fino al termine della sua carriera. È invece una costante il gusto per i colori e gli ornati eleganti, che ugualmente si evolve e si adatta alle diverse tappe del suo percorso artistico, senza perdere quasi mai la sua caratteristica raffinatezza. Niccolò appare dunque un interprete consapevole del proprio tempo, abile a cogliere e assimilare le novità per poi mediarle in opere di gusto più tradizionale, meglio accessibile a una committenza forse meno aggiornata ma ugualmente esigente.
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1. Niccolò di Segna
Incoronazione della Vergine Collezione privata 1320-1325 ca. Tempera e oro su tavola Cm 30,2 x 20,6 Provenienza: Parigi, Mrs. E. Bayer contessa Sala; Parigi, Charpentier (9 maggio 1933); Eindhoven, Philips-De Jong; Londra, Christie’s (6 dicembre 2007).
Al centro dell’anconetta centinata a venatura verticale la Madonna in veste bianca1 e il Figlio siedono sul trono, dalla cui spalliera si affacciano tre angeli mentre altri due si dispongono ai lati e una coppia di musicanti2 è inginocchiata davanti alla pedana. Tutte le aureole sono punzonate e quelle dei due soggetti principali sono rifinite con granitura. Il retro, che presenta una decorazione a falso porfido, conserva un cartellino su cui è scritto il numero “5177” e il nome “Lippo Memmi” (fig. 80), testimonianza dell’appartenenza alla collezione parigina della contessa Bayer-Sala, liquidata nel 19333. L’opera passò quindi nella collezione Philips di Eindhoven, poi Philips-De Jong, e nel 2007 fu acquistata all’asta londinese di Christie’s4 ed è attualmente conservata in collezione privata. La fotografia illustrata sul catalogo della vendita Christie’s del 2007 mostra una situazione analoga a quella della vendita Sala, che tuttavia non include la cornice (figg. 78-79), e palesa alcune differenze rispetto alla redazione attuale. Le fisionomie degli angeli risultavano molto ritoccate e ingentilite e, seppur in misura minore, anche i volti dei due protagonisti avevano subito rimaneggiamenti, come si riscontra dall’osservazione del profilo barbuto di Cristo e degli occhi della Vergine. L’ultimo restauro, realizzato nel 2008, ha previsto la pulitura della superficie con rimozione delle ridipinture e dell’oro falso sul fondo, intervento che ha permesso di ritrovare le parti originali: alcuni dettagli delle ali degli angeli laterali in alto e le mani di quello di destra sotto i ritocchi del drappo. Si è agito inoltre anche sul dettaglio della corona della Vergine, diversa nella versione attuale per forma e inclinazione rispetto alla fotografia Christie’s5. Sembrano invece non aver subito particolari alterazioni rispetto al 2007 il drappo del trono, la veste della Vergine e quelle rossa del Cristo e dei musicanti, come anche le aureole punzonate e granite della coppia principale, che appaiono le medesime rispetto alla redazione originaria. Dopo il riferimento a Lippo Memmi con cui fu presentata alla vendita Bayer-Sala6, nel 1969 la tavola fu più convincentemente messa in relazione alla scuola di Duccio di Buoninsegna, attribuzione poi riproposta nella successiva esposizione olandese del 1989 con una precisazione cronologica alla metà del XIV secolo7. È stata tuttavia battuta all’asta di Christie’s con un generico riferimento all’ambito senese trecentesco8. In occasione di comunicazioni scritte all’attuale proprietario, Luciano Bellosi (2008) ha proposto un accostamento all’ambito di Segna di Buonaventura, mentre Victor Schmidt (2008) ed Everett Fahy (2009) hanno indipendentemente espresso il medesimo parere circa l’attribuzione dell’opera, ormai restaurata, a Niccolò di Segna. Schmidt ha inoltre suggerito l’originaria funzione della
Il candore del mantello della Madonna, tipico dell’iconografia dell’Incoronazione, sottolinea visivamente il passaggio dalla dimensione terrena a quella divina, sostituendo quello blu. 2 L’angelo di sinistra suona una ribeca, mentre quello di destra un salterio. Ringrazio per queste informazioni il musicologo Pier Paolo Donati. 3 Catalogue 1933, p. 14, fig. 1, lotto 15. 4 Important Old Master 2007, p. 42, lotto 16. Presso Philips la tavola era esposta nella sala della residenza De Laak almeno nel 1936. 5 Il dettaglio ricorda la corona della Santa Caterina di Atlanta del polittico di San Maurizio (cat. 16e). 6 Catalogue 1933, ibidem. 7 Sienese paintings 1969, cat. 6; J. Panders-C. Pottasch, in The early Sienese 1989, pp. 54-55, fig. 16, cat. 10. 8 Important Old Master 2007, ibidem. 1
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco tavola come centrale di un piccolo trittico di forma insolita nella pittura senese del XIV secolo9. Erano dello stesso avviso anche le autrici della scheda della mostra del 198910. Tuttavia l’analisi materiale in particolare dei lati e del retro della piccola ancona non ha rivelato tracce dei cardini che avrebbero dovuto incernierare le antine all’elemento centrale; non restano inoltre indizi di una integrazione al di sopra della centina, aggettante rispetto al resto della cornice, elemento ricorrente nei trittici portatili, onde alloggiarne le ante chiuse. Del resto anche Andrea De Marchi ha respinto tale ipotesi11 e lo stesso Bellosi non faceva cenno a questa possibilità. Ancora non del tutto compreso risulta il contesto di destinazione di simili oggetti devozionali, la cui iconografia d’altra parte sembra denunciare un frequente legame con ambienti mendicanti: i trittici londinesi di Duccio ora alla National Gallery e nella collezione della Regina Elisabetta II hanno rispettivamente elementi iconografici francescani e domenicani; al primo Ordine rimanda pure la cosiddetta Madonna dei Francescani e al secondo il trittico n. 35, entrambi nella Pinacoteca senese12. Gli elementi a nostra disposizione sono tuttavia insufficienti per consentire di estendere queste considerazioni anche alla nostra tavola. Il tema mariano in ogni caso è preponderante in questo genere di opere, tuttavia è rara in ambito senese la scelta del tema dell’Incoronazione della Vergine13. D’accordo con quanto suggerito da Schmidt e Fahy, deve essere accolta l’attribuzione a Niccolò di Segna, di cui si riconoscono i modi giovanili nei volti ormai ben leggibili dei personaggi, nei contrasti chiaroscurali e nella decorazione punzonata delle aureole. Le figure esili e l’assenza di alcuni elementi fisiognomici che caratterizzano le sue opere a partire dalla fine del terzo decennio, come l’ovale rotondeggiante dei volti dai nasi un po’ aquilini e una fisicità più solida, suggeriscono una datazione decisamente precoce nel percorso di Niccolò, verso l’inizio del terzo decennio. Un momento vicino al trittico di Esztergom (cat. 2), con cui ha in comune la linea slanciata delle figure, alcune fisionomie – si confronti ad esempio il Cristo col san Giovanni Battista ungherese –, la fluidità di certi panneggi e l’impiego di semplici punzoni, ancora accostati secondo combinazioni elementari. Niccolò in questo momento doveva essere all’avvio della sua attività e ancora fortemente legato agli elementi ducceschi propugnati dal padre Segna e dagli altri esponenti della cerchia del maestro con cui si può immaginare possa essere venuto in contatto, traendone spunti per l’elaborazione dell’opera nel solco di una produzione tradizionale, al di là delle dimensioni più contenute. Le consonanze della figura del Cristo con l’omologo dell’Incoronazione del trittico n. 35, ad esempio, sono stringenti per la posa e il gesto, la fisionomia e la foggia delle vesti, col mantello vermiglio che, in particolare, ricade verticalmente dalle spalle e crea in basso pieghe fortemente triangolari. Bibliografia Catalogue 1933, p. 14, tav. 1, lotto 15; Sienese Paintings 1969, cat. 6; Panders-Pottasch, in The early Sienese 1989, pp. 54-55, cat. 10; Important Old Master 2007, p. 42, lotto 16.
Cfr. Schmidt 2005, pp. 31-71. Panders-Pottasch, in The early Sienese 1989, p. 54. 11 Comunicazione orale. 12 Stubblebine 1979, I, pp. 63-64, II, figg. 128-130. A. Bagnoli, in Duccio 2003, pp. 326-332. L. Bellosi, ivi, p. 192. V. Schmidt, ivi, pp. 158-160. 13 Cfr. Sienese paintings 1969, cat. 6; Panders-Pottasch, in The early Sienese 1989, p. 54. A cavallo tra XIII e XIV secolo il soggetto viene declinato a Siena nel dossale con la Madonna col Bambino e Storie della Vergine attribuito a Guido da Siena del Courtauld Institute di Londra, nella vetrata di Duccio per il Duomo di Siena, nelle ante del Maestro di Monteoliveto (cfr. infra), nel trittico n. 35 della Pinacoteca senese; ne resta una testimonianza anche nel frammento di tavola conservato allo Szépművészeti Muzeum di Budapest (Schmidt, in Duccio 2003, p. 262). 9
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79. Cat. 1, ante restauro 2008
80. Cat. 1, retro
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Crocifissione, San Giovanni Battista, Stigmate di San Francesco Esztergom, Keresztény Múzeum (inv. 55.145) 1325 ca. Tempera e oro su tavola Cm 40,5 x 49 (centrale cm 40,5 x 24; anta sinistra cm 40,3 x 12,8; anta destra cm 40,4 x 11,7) Provenienza: Siena; Colonia, Johann Anton Ramboux (1832/1842-1866); Eger (?), Pest, Besztercebánya, Nagyvárad, Arnold Ipolyi (1867-1886); Nagyvárad, lascito Ipolyi (1886-1920). Iscrizioni: “EC(C)E AGNUS DEI | EC(C)E QUI TOL[LIT]” (Gv 1,29), sul cartiglio di san Giovanni Battista.
L’opera si compone di tre tavolette rettangolari con venatura del legno verticale, che allo stato attuale non risultano tra sé incernierate. Lo scomparto centrale mostra la Crocifissione alla presenza dei Dolenti e della Maddalena. A sinistra è raffigurato san Giovanni Battista sullo sfondo di un paesaggio roccioso e a destra si svolge la scena della stigmatizzazione di san Francesco. Le parti a tempera appaiono in buono stato di conservazione, al contrario dell’oro del fondo, la cui abrasione ha lasciato a vista il bolo sulla quasi totalità della superficie. I nimbi dei santi Giovanni e Francesco sono ben conservati e ben leggibili nella decorazione punzonata con stampi a fiore, mentre le aureole della tavola principale sono molto compromesse. Il piccolo trittico risulta essere stato sottoposto a restauro nel 19691, momento a cui devono risalire le integrazioni dei margini interni delle tavole laterali e alcuni risarcimenti della superficie pittorica a tratteggio, percepibili soprattutto nei laterali. L’opera fu acquistata tra il 1832 e il 1842, durante gli anni del secondo soggiorno italiano di Johann Anton Ramboux (1790-1866). Appartenne alla sua collezione di Colonia ed è descritta nel catalogo del 1862 e in quello di vendita del 1867 come pezzo proveniente da Siena2. Fu acquistata, insieme a numerose altre opere della raccolta tedesca, dal vescovo ungherese Arnold Ipolyi (1823-1886), la cui collezione seguì i suoi spostamenti da Eger a Pest a Besztercebánya, fino a Nagyvárad. Avendo egli disposto che alla sua morte la raccolta fosse donata ad un museo cristiano, anche il trittico fu acquisito dal Keresztény Múzeum di Esztergom nel 1920 3. Dopo una prima insostenibile attribuzione a Giottino nel catalogo Ramboux4, il trittico è stato inquadrato come opera senese fin dal 1928 e attribuito a Barna da Tibor Gerevich5. Miklós Boskovits dal 1964 è tornato più volte a considerare l’opera, precisandone via via la lettura, da un’attribuzione a un artista di metà Trecento influenzato da Ugolino di Nerio e Simone Martini6 e poi all’ambito di Segna di Bonaventura – a cui si attiene Mária Prokopp7–
Prokopp, in Christian Museum 1993, p. 218. Il restauro è stato eseguito da Dezső Varga. Katalog 1862, p. 50, n. 302. Heberle 1867, pp. 50-51, n. 302. Il catalogo delle opere della collezione Ramboux è riportato in Lust und Verlust II 1998, pp. 536-605. Prima di arrivare a Colonia, dove Ramboux fu nominato curatore del Wallraf Museum nel 1843, la collezione transitò probabilmente da Treviri (Sallay 2015, p. 21). Colgo l’occasione per ringraziare Dóra Sallay per lo stimolante confronto e le numerose precisazioni fornitemi sulle opere senesi e sui dipinti di Niccolò di Segna conservati in Ungheria. 3 Cfr. Sallay 2011, pp. 111-114, 118 nota 43. Eadem 2015, pp. 13-67: 13-34 per le collezioni Ramboux e Ipolyi. Quest’ultima raccolta fu probabilmente a Eger nel 1867-1869 circa; a Pest, dove Ipolyi la rese accessibile al pubblico in uno dei corridoi del seminario di cui era stato nominato rettore, nel 1869-1871; a Besztercebánya nel 1871-1886; giunse infine a Nagyvárad nel 1886, poco prima della morte del vescovo. 4 Heberle 1867, ibidem. 5 Gerevich 1928, p. 224; Idem 1948, p. 61. Cfr. Prokopp, in Christian Museum 1993, ibidem. Si avvicina a questa posizione anche E. Vavra, in 800 Jahre 1982, pp. 541-542, cat. 10.09. 6 Boskovits, in Boskovits-Mojzer-Mucsi 1964, pp. 42-43. 7 Boskovits 1966, cat. 16-18. Prokopp, in Christian Museum 1993, ibidem. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco fino all’assegnazione alla fase giovanile di Niccolò di Segna suggerita nel 19828, accolta più recentemente da Alessandro Bagnoli, Beatrice Franci e da chi scrive9. L’attribuzione ad un momento precoce dell’attività di Niccolò è sostenuta dall’aspetto sottile e allungato dei personaggi, simile a quello riscontrabile nella piccola Incoronazione della Vergine (cat. 1). Altre opere a lui spettanti offrono confronti puntuali, come quello tra il Cristo al centro del trittico e il Crocifisso dello scomparto di predella conservato al Museo Horne di Firenze, elemento centrale dello zoccolo del polittico n. 38 della Pinacoteca Nazionale di Siena, includente la Madonna col Bambino della Galleria di Palazzo Cini di Venezia (cat. 11). Le due figure hanno le medesime membra lunghe ed esilissime, il torso stretto, la stessa mite espressione dolorosa; anche i perizomi risulterebbero quasi sovrapponibili, se non fosse per la traccia di uno svolazzo nella versione ungherese, che sembra ispirato a stilemi martiniani e si confronta col Cristo crocifisso della tavoletta ora nel Fogg Art Museum, Harvard University, di Cambridge (Mass)10. Altrettanto valido, nel percorso di Niccolò, il confronto col pinnacolo della collezione Johnson di Philadelphia (cat. 3) per la composizione della scena, le fisionomie dei soggetti e i loro panneggi. Le caratteristiche del Cristo sono inoltre rintracciabili, nonostante il notevolissimo scarto di dimensioni, anche nella Croce ora nella chiesa dei Santi Ippolito e Donato a Bibbiena (cat. 7). La forma regolare del trittico riprende una tipologia in uso in Toscana dalla seconda metà del XIII secolo. Tra le scarse attestazioni di ambito senese si può ricordare quello ora conservato al Metropolitan Museum di New York, composto da una Crocifissione con i dolenti e i Santi Chiara e Francesco, attribuita a Ugolino di Nerio, e dalle due ante con Storie della Vergine e Santi, assegnate al Maestro di Monteoliveto e forse realizzate in un momento successivo rispetto al centrale, ma comunque prossimo al 132011. Victor Schmidt ha inoltre ipotizzato che la cosiddetta Madonna dei Francescani di Duccio potesse costituire l’elemento principale di un simile trittico, data la forma regolare della tavola e le tracce di cardini sui due lati12. Più frequente è questo formato nella produzione fiorentina a cavallo tra Due e Trecento, come attestano, tra gli altri, gli altaroli del Maestro di Santa Maria Primerana ora a Princeton (University Art Gallery), del Maestro della Maddalena del Metropolitan Museum di New York e di Grifo di Tancredi della Gemäldegalerie di Berlino, tutti raffiguranti al centro la Madonna col Bambino e nelle ante Storie di Cristo e Storie della Vergine, con cui il trittichino di Niccolò ha in comune anche le dimensioni13. Ad un ambito fiorentino parrebbe rimandare, oltre la presenza del patrono san Giovanni Battista, anche la figura di san Francesco stigmatizzato, ritratto in un atteggiamento di torsione che non si riscontra in altre attestazioni senesi del soggetto e richiama invece la pittura murale di Giotto della cappella Bardi in Santa Croce (fig. 81), riferita generalmente alla prima metà del terzo decennio del Trecento14, dando adito all’ipotesi che Niccolò abbia potuto trarre ispirazione direttamente dall’illustre modello durante un possibile soggiorno fiorentino, magari al seguito di Ugolino di Nerio. Bibliografia Katalog 1862, p. 50, cat. 302; Heberle (Lempertz) 1867, pp. 50-51, cat. 302; Gerevich 1928, p. 224; Leopold 1930, p. 50; Gerevich 1948, p. 61; Boskovits, in Boskovits-Mojzer-Mucsi 1964, pp. 42-43; Boskovits 1966, cat. 16-18; Mucsi 1975, p. 35; Vavra, in 800 Jahre 1982, pp. 541-542, cat. 10.09; Boskovits 1982, p. 502; Boskovits 1985b, p. 126; Cséfalvay-Ugrin 1989, p. 103; Prokopp, in Christian Museum 1993, p. 218, cat. 69; Kontsek, in Lust und Verlust 1995, p. 580; Lust und Verlust II 1998, p. 583, n. 302; Bagnoli 2003, pp. 271-272; Matteuzzi 2008, p. 323; Franci 2013; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230.
Boskovits 1982, p. 502. Idem 1985b, p. 126. Bagnoli 2003, pp. 271-272; Idem, in Ambrogio 2017, p. 230 (dove l’opera viene considerata un prodotto maturo). Matteuzzi 2008, p. 323. Franci 2013. 10 Inv. 1919.51; cm 24,8 x 13,4. Cfr. Leone De Castris 2003, p. 364. L’autore ritiene che la tavola fosse destinata alla devozione privata e la considera opera autografa ma tarda. 11 Stubblebine 1979, I, pp. 100, 178-179; II, figg. 228-234, 442. Masignani, in Duccio 2003, p. 345; tuttavia Masignani, come altri autori prima di lui, arretra eccessivamente il periodo di attività di questo anonimo, secondo quanto mi indica De Marchi. Cfr. infra §3. 12 Schmidt, in Duccio 2003, pp. 158-160. 13 Cfr. Tartuferi 1990, pp. 83, 92, 107. La tavola centrale del Maestro di Santa Maria Primerana misura cm 33 x 20; la tavola centrale del trittico del Maestro della Maddalena misura cm 40,6 x 28,3 e la tavole laterali cm 38,1 x 14; il centrale di Grifo di Tancredi cm 39 x 28,5. 14 Cfr. Bonsanti 2002, pp. 77-90. 8 9
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81. Giotto, Stigmate di San Francesco, Firenze, basilica di Santa Croce, cappella Bardi
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Crocifissione Philadelphia, Philadelphia Museum of Art, Johnson Collection (inv. 90) 1325 ca. Tempera e oro su tavola Cm 34,6 x 13,7 Provenienza: Firenze, Herbert P. Horne; Philadelphia, John G. Johnson (dal 1912).
La croce occupa tutta l’ampiezza della tavola cuspidata e ad essa è appeso un Cristo esile, compianto dai due Dolenti in piedi e dalla Maddalena inginocchiata. In alto, oltre il titulus ormai illeggibile, è posto un nido di pellicano. I bordi della tavola, tranne quello inferiore, sono decorati con una fascia di diversi punzoni, usati anche per i nimbi. La piccola tavola fu acquisita da John Graver Johnson (1841-1917) nel 1912 da Herbert Horne, presso la cui collezione fiorentina l’americano aveva avuto modo di vederla nel 1909, prima della pulitura ad opera del restauratore Luigi Cavenaghi (Milano). Un successivo intervento a cura di David Rosen del 1941 comportò il montaggio su compensato della tavola, che risulta assottigliata e resecata su tutti i lati; in quell’occasione si realizzarono anche una nuova pulitura, alcuni ritocchi pittorici e un trattamento a cera. A un momento precedente risale un’integrazione degli strati pittorici della sommità della cuspide (rilevata da Carl Brandon Strehlke), che appare completa nelle fotografie storiche in cui la tavola è ancora provvista della cornice, poi rimossa durante l’ultimo restauro1. Allo stato attuale una lunga fenditura verticale affianca la croce in prossimità del centro della tavola e la superficie pittorica consunta rende ben visibile la base a verdaccio degli incarnati. Nella lettera con cui comunicava a Johnson la possibilità di acquisto dell’opera, Horne la attribuiva a Lippo Memmi2. Al suo arrivo in America, la piccola Crocifissione è stata assegnata da Bernard Berenson a Ugolino di Nerio3, proposta poi generalmente accolta con la parziale eccezione di Gertrude Coor Achenbach, che ne suggeriva l’assegnazione ad un collaboratore del maestro4. Federico Zeri e Burton Fredericksen e più tardi Mojmír Frinta hanno preferito un più generico riferimento ad anonimo senese5. Il riconoscimento della mano di Niccolò di Segna si deve a Miklós Boskovits nel 19826. Ad una fase piuttosto precoce di questo artista, verso l’inizio del quarto decennio, l’opera viene assegnata anche da Strehlke nel 20047. Tuttavia non pare del tutto convincente la sua proposta di accostare la tavola di Philadelphia con una Crocifissione già in collezione Stoclet, in cui le proporzioni massicce e i tratti molto marcati della figura del Cristo, così come il trattamento dei panneggi dei Dolenti – quello della Vergine decorato con la crisografia – suscitano dubbi su un’attribuzione a Niccolò. Nella tavola di Philadelphia ricordano piuttosto lo stile giovanile di questo pittore le forme arrotondate dei volti dai tratti minuti, la sottigliezza dei corpi e la fluidità delle vesti, rintracciabili nelle prime opere inserite nel suo corpus e in particolare nel centrale del trittichino di Esztergom (cat. 1-2). Strehlke, d’altra parte, nota giustamente nella cuspide riferimenti a Simone Martini e allo stesso Ugolino, dal quale sembra derivare la gestualità del san Giovanni Evangelista, che giunge le mani e scosta il capo con ritroso dolore, come si rintraccia in alcune sue Crocifissioni, quali la n. 34 della Pinacoteca di Siena, quella in collezione Thys-
Strehlke 2004, pp. 339-340. Lettera del 25 marzo 1912: cfr. Strehlke 2004, p. 339. 3 Berenson 1913, p. 52. 4 Coor Achenbach 1955, p. 159. La studiosa accenna alla tavola Johnson in riferimento alla possibile iconografia della cuspide centrale del polittico di Ugolino per Santa Croce. 5 Fredericksen-Zeri 1972, p. 240. Frinta 1998, p. 452. 6 Boskovits 1982, p. 502; Idem 1985b, p. 126. Con questa attribuzione l’opera è schedata in Paintings from Europe 1994, p. 221. 7 Strehlke 2004, p. 340. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco sen-Bornemisza a Madrid e quella del trittico del Metropolitan di New York8. In quest’ultima in particolare sono evidenti i capelli sciolti della Vergine, costanti nelle prime prove di Niccolò. L’attenzione del giovane pittore verso la produzione martiniana, poi, è testimoniata non solo dall’allungarsi delle membra e di tutta la figura del Cristo, secondo quanto già notato da Strehlke, ma anche dalla sperimentazione tridimensionale del suppedaneo della croce lignea, come nella tavola con Cristo crocifisso del Fogg Art Museum di Cambridge (Mass)9, altrimenti infrequente nella sua produzione. Come per quest’opera di Simone, non è possibile stabilire con certezza la funzione originaria di quella di Niccolò, anche a causa delle resecature che impediscono di comprendere appieno i dettagli della forma originaria. Non si può escludere, con Strehlke, che la piccola Crocifissione provenga da un dittico a valve cuspidate, oggetto raro ma testimoniato ad esempio in ambito fiorentino dall’opera del Maestro del Codice di San Giorgio (collezione privata), dove la Crocifissione affianca una Madonna col Bambino, e più tardi dal senese Francesco di Vannuccio con una coppia composta da Annunciazione e Assunzione (Cambridge, Girton College)10. La tavola di Philadelphia potrebbe d’altra parte provenire da un polittico, del quale avrebbe costituito la cuspide centrale (come suggerito da Coor)11, la cui forma risulterebbe però più stretta e allungata rispetto ai canoni più diffusi. Come già nelle prime opere, Niccolò decora le parti dorate di questa Crocifissione con una serie di punzoni abbinati alla granitura. A parte quelli di più semplici forme tondeggianti inseriti nelle aureole, è interessante vedere che già in una fase precoce il pittore utilizza nella fascia perimetrale il punzone a cuspide, impiegato per creare una sorta di fiore pentalobato rifinito all’interno da sei tondi, che si ritrova in simili composizioni a quattro petali in opere successive come la Madonna col Bambino n. 44 e il San Bartolomeo n. 37 (aureola di San Nicola nell’ordine superiore) della Pinacoteca Nazionale di Siena, ma anche nel San Giacomo e nella Sant’Orsola dell’ordine superiore e della predella del polittico n. 38 (Pinacoteca Nazionale di Siena e Musée des Beaux Arts di Digione)12. Nonostante la resecatura dei lati, le fasce punzonate perimetrali risultano relativamente integre, lasciando supporre che la forma della tavola non abbia subito drastiche riduzioni. Bibliografia Berenson 1913, I, p. 52; van Marle 1924, II, p. 108; Berenson 1932, p. 583; Berenson 1936, p. 501; Catalogue 1941, p. 17; Johnson Collection 1953, p. 5; Coor Achenbach 1955, p. 159; Philadelphia Museum 1966, p. 78, fig. 84; Berenson 1968, I, p. 438; Fredericksen-Zeri 1972, p. 240; Boskovits 1982, p. 502; Boskovits 1985b, p. 126; Paintings from Europe 1994, p. 221; Frinta 1998, p. 452; Strehlke 2004, pp. 399-341.
8 Per la Crocifissione con San Francesco n. 34, riferibile ad una fase precedente il soggiorno fiorentino, si veda: Torriti 1990, p. 32; Galli, in Duccio 2003, pp. 350-352, cat. 54. La tavola madrilena potrebbe essere arrivata al convento francescano di San Romano a Empoli dalla cappella Bardi di Vernio in Santa Croce secondo un’ipotesi di Maginnis, con cui tuttavia non concorda Boskovits, che pure ammette una probabile provenienza fiorentina (Maginnis 1983, pp. 20-21; Boskovits 1990, p. 190). Cfr. §3. 9 Cfr. nota 10 della scheda 2. 10 Per l’opera dell’anonimo cfr. L.B. Kanter, in Painting and illumination 1994, pp. 86-89. Per entrambe si veda Schmidt 2005, pp. 136, 140 nota 82, 150-151, figg. 89, 104-105. 11 Coor Achenbach 1955, ibidem. 12 Cfr. Frinta 1998, ibidem. Le dimensioni minori del punzone usato nel pinnacolo dimostrano comunque che non si tratta dello stesso stampo. Cfr. cat. 11, 18.
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Sante Caterina d’Alessandria, Maria Maddalena, Margherita d’Antiochia Stoccarda, Staatsgalerie (inv. 3113) 1325-1330 ca. Tempera e oro su tavola Cm 47 x 32,8 Provenienza: Roma(?), collezione privata; Monaco di Baviera, Richard von Kühlmann (fino al 1954); Stoccarda, Gerhard Freiherr von Preuschens (fino al 1972).
La piccola tavola a venatura verticale mostra, entro una cornice modanata originale, le tre sante a figura intera, disposte su un pavimento marmorizzato e contro un fondo oro decorato su tre lati del perimetro interno da una fascia granita con punzoni a losanga rifiniti in modo da assumere l’aspetto di polilobi; stampi rotondi e a cuspide triloba completano il decoro rispettivamente all’interno e all’esterno. Le aureole delle tre sante sono ugualmente decorate con punzoni: un tralcio di fiori e foglie nel cerchio principale e all’esterno una serie di piccoli stampi a tre foglie1. Il retro della tavola, ugualmente rifinito dalla cornice modanata, è decorato con nove elementi aniconici giocati sulle forme della mandorla e della losanga, disposti lungo i margini e al centro, dove il disegno è più grande e complesso2 (fig. 82). La tavola, fino al 1954 nella collezione bavarese di Richard von Kühlmann a Monaco, entrò a far parte della galleria di Stoccarda nel 1972 insieme alle altre opere della collezione di Gerhard Freiherr von Preuschens, che nel catalogo della raccolta ne formulò la prima classificazione come opera di Segna di Bonaventura, confermata poi da Robert Oertel3 e da Boskovits, il quale la riferiva a una precedente collocazione in collezione privata romana4. August Rave ha invece opportunamente argomentato circa l’attribuzione della tavola a Niccolò di Segna per la presenza di elementi martiniani e lorenzettiani che non sono propri del pittore più anziano, sostanzialmente fedele alla lezione duccesca, ma anche in base all’analisi della tecnica pittorica e della decorazione punzonata, perfettamente conforme alla produzione di Niccolò5. Questa proposta, accolta più tardi da Franci con un riferimento cronologico al terzo decennio del Trecento piuttosto che verso la seconda metà del successivo6, trova conferma nelle caratteristiche delle tre figure, le cui fisionomie sono facilmente accostabili a quelle riferibili a Niccolò almeno fino dagli anni Trenta. Convincenti i confronti proposti da Rave con le figure del polittico n. 38 (cat. 11), cioè tra le Sante Caterina e Margherita di Stoccarda e, rispettivamente, la Santa Caterina della predella e la Santa Lucia dell’ordine superiore, per la somiglianza dei tratti del volto, la resa del chiaroscuro, le caratteristiche dell’abbigliamento. Tuttavia le fisionomie più delicate e minute e la morbidezza fluida dei panneggi delle tre sante suggeriscono un’esecuzione precedente dell’opera tedesca, non lontana dalla Crocifissione di Philadelphia (cat. 3), con cui ha in comune anche la presenza del bordo punzonato, che non ricorre poi altrove nei lavori di Niccolò, se non nella produzione estrema. Una datazione a cavallo tra il terzo e il quarto decennio sembra dunque preferibile, anche rispetto a quella di poco più alta proposta da Franci, che invece non permette di giustificare il processo di indurimento delle fisionomie già in atto nella tavoletta di Stoccarda rispetto alle prime prove di Niccolò, ma non ancora definito come nei dipinti che si scalano più oltre negli anni Trenta. Del resto il linguaggio “cortese” rimanda a Simone Martini, modello a cui Niccolò guarda con attenzione nelle prime fasi della sua carriera.
In particolare è identificabile il punzone esterno a tre foglie, ricorrente nel Santo Vescovo volto a sinistra della predella del polittico n. 38 e simile a uno usato da Ugolino di Nerio (Frinta 1971, pp. 306-307; Skaug 1994, II, n. 650). 2 Rave 1985, pp. 6-9, fig. 2. 3 Rave 1985, p. 6. 4 Boskovits 1982, p. 502, fig. 12. 5 Rave 1985, pp. 6-9. 6 Franci, in Duccio 2003, p. 364; Eadem, in La Collezione 2009, I, p. 89; Eadem 2013. 1
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco La decorazione opistografa della tavola ne testimonia una visione da entrambi i lati, forse perché parte di un dittico a valve, come paiono suggerire le misure relativamente modeste e il soggetto stesso dell’opera, che sembra presupporre l’accostamento a un’immagine più importante, quale ad esempio una Madonna col Bambino, oppure a un’altra serie di santi. Tavole con tre simili figure sacre non sono comuni in questo genere di opere, ma la disposizione delle sante tedesche rimanda, ancora una volta, al trittico newyorkese riferito a Ugolino di Nerio e al Maestro di Monteoliveto, e in particolare allo scomparto inferiore dell’anta destra, opera dell’anonimo, sormontato da uno contenente tre santi maschi7. In ogni caso la presenza di un bordo punzonato è tipica di questi piccoli oggetti, soprattutto quelli di produzione senese8. Queste caratteristiche d’altra parte non escludono che potesse trattarsi, se non di un singolo pannello comunque destinato alla devozione privata, di uno scomparto di un piccolo polittico, nonostante non siano riferite tracce di cerniere9. Bibliografia Boskovits 1982, p. 502, fig. 12; Rave 1985, pp. 6-9; Franci, in Duccio 2003, p. 364; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Franci 2013.
Stubblebine 1979, I, p. 100; II, figg. 228, 234. Cfr. Schmidt 2005, pp. 31 e ss.; in particolare per la decorazione del retro pp. 44-58. 9 Schmidt afferma d’altronde che non necessariamente le tavole dei piccoli dittici o trittici dovevano essere incardinate: Schmidt 2005, pp. 37-44. Di “dittici liberi” parla anche Andrea De Marchi, segnalandomi come esempi l’Annunciazione di Jacopo di Mino del Pellicciaio e vari casi senesi del XV secolo: De Marchi 2010b, pp. 356-361. 7 8
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Madonna col Bambino, i Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista(?), sei Angeli e donatore Ubicazione ignota Fine del terzo decennio del XIV secolo Tempera e oro su tavola Cm 41 x 25 Provenienza: Roma, collezione privata (fino al 1937); Lugano-Castagnola, Thyssen-Bornemisza; Firenze, Carlo De Carlo; Firenze, Semenzato (15 dicembre 2001).
La Madonna e il Bambino siedono su un trono marmoreo coronato a cuspide gattonata, intorno al quale si dispongono sei angeli. A sinistra del seggio san Giovanni Battista fa da pendant al probabile san Giovanni Evangelista a destra, in atto di presentare un monaco in cappa bianca inginocchiato. Heinrich Thyssen-Bornemisza acquisì l’opera da una collezione romana nel 1937 e la inserì nella sua raccolta di Villa La Favorita a Castagnola presso Lugano (inv. 282), recentemente trasferita nel Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid. Venduta entro il 19901, la piccola tavola entrò in collezione De Carlo a Firenze e fu battuta all’asta nel 20012, quando se ne persero le tracce. Le riproduzioni fotografiche più recenti permettono di constatare il buono stato di conservazione della superficie pittorica che, in mancanza di documentazione specifica, non sappiamo se in parte dovuto a interventi di restauro. Certamente la cornice è moderna, apposta probabilmente durante la permanenza a Lugano: una fotografia conservata presso la Fototeca Zeri di Bologna, purtroppo non datata, mostra infatti la tavola sprovvista di questo elemento e integrata in forma rettangolare. Risulta in ogni caso leggibile la linea della superficie pittorica originale, anche laddove erano state realizzate delle integrazioni, evidenti sulle ali degli angeli. La diversa fantasia del cuscino dell’attuale versione dell’opera rispetto alla fotografia scattata in collezione Thyssen-Bornemisza testimonia un ulteriore non documentato intervento di restauro, realizzato prima dell’asta del 20013. Paiono autentici i punzoni dei nimbi4. Nello stile duccesco, già evidenziato dalle proposte attributive a Segna di Bonaventura e al Maestro di Monteoliveto5, Berenson e poi Boskovits hanno proposto di individuare la mano di Niccolò di Segna6, trovando generale seguito nella critica recente7. Fa eccezione Federico Zeri, che nel 1997 è tornato a un’attribuzione più generica ad un collaboratore di Duccio, che non convince anche in base al confronto proposto con una tavoletta del Museo Civico Amedeo Lia di La Spezia di soggetto affine alla nostra, ma stilisticamente piuttosto lontana8. Nei volti ovali caratterizzati da nasi un po’ aquilini, guance tondeggianti e sfumate di rosa contro un chiaroscuro molto pronunciato, negli sguardi malinconicamente distaccati e nel trattamento più superficiale dei panneggi si può leggere uno sviluppo dello stile di Niccolò rispetto alle opere più precoci e un accostamento alle fisionomie tipiche
Sebbene vi sia comunque menzionata, l’opera non è inserita nel catalogo della collezione spagnola redatto in quell’anno da Boskovits (1990, p. 10), che la segnala a Lugano ancora a metà degli anni Ottanta (Idem 1985b, p. 126). 2 Eredi 2001, lotto 25. 3 Bologna, Fondazione Federico Zeri, Fototeca (d’ora in poi Fototeca Zeri), nn. 20751-20752. 4 A parte i punzoni a fiore a cinque petali delle aureole degli angeli, è interessante in particolare il fiore a quattro grandi petali frangiati usato per quella della Vergine, simile a quello usato da Ugolino di Nerio ad esempio nel polittico n. 39 della Pinacoteca di Siena (Skaug 1994, II, n. 363) e ad altri di maggior formato usati da Niccolò (cfr. cat. 11, 14). 5 Per Segna di Bonaventura: Heinemann 1958, p. 97, cat. 386a; Idem 1971, p. 353, cat. 282. Per il Maestro di Monteoliveto: Stubblebine 1979, I, p. 101; II, fig. 236 [ma 235]. 6 Berenson 1968, I, p. 300. Boskovits 1985b, p. 126. Idem 1990, p. 10. 7 Eredi 2001, ibidem. Franci, in Duccio 2003, p. 364. Masignani, ivi, p. 345. Schmidt 2005, p. 215, fig. 145. Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89. Eadem 2013. 8 F. Zeri, in La Spezia 1997, p. 136. 1
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco della maggior parte delle sue opere più mature. Le forme ancora esili delle figure non consentono d’altra parte di suggerire una cronologia troppo avanzata – nonostante la gestualità della coppia principale richiami quella della Madonna col Bambino della collezione Cini di Venezia, centrale del polittico n. 38 (cat. 11) – e non sembra sbagliato proporre una datazione sullo scorcio degli anni Venti, sostanzialmente in linea con quanto proposto da Franci. In questa direzione portano anche i confronti con le opere giovanili di piccolo formato: nella Vergine e nell’angelo in basso a destra si rivedono ad esempio le fisionomie delle tre Sante di Stoccarda (cat. 4), mentre il san Giovanni Evangelista si avvicina ai tratti della Vergine annunziata della tavoletta in collezione Martello (cat. 6). Proprio in queste figure si nota infine una certa vicinanza con la fase più sensibile del Maestro di Monteoliveto, espressa nelle solite ante newyorkesi, da cui si segnalano in particolare i confronti con le Vergini delle scene dell’Annunciazione e dell’Adorazione dei Magi; curiosamente ricorre nelle opere di questo anonimo anche la consuetudine di decorare il bordo dei drappi d’onore con una banda a piccole frange. Scarse informazioni sull’origine e la destinazione di questa tavola si ricavano dai dati materiali e inoltre non è stato possibile identificare l’Ordine di appartenenza del monaco inginocchiato, la cui veste bianca potrebbe corrispondere indifferentemente a quella dei Camaldolesi, degli Olivetani, o dei Cistercensi9. Bibliografia Heinemann 1958, p. 97, cat. 386a; Berenson 1968, I, p. 300; Heinemann 1971, p. 353, cat. 282; Stubblebine 1979, I, p. 101; Boskovits 1985b, p. 126; Boskovits 1990, p. 10; Zeri, in La Spezia 1997, p. 136; Eredi 2001, lotto 25; Franci, in Duccio 2003, p. 364; Masignani, in Duccio 2003, p. 345; Schmidt 2005, p. 215, fig. 145; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Franci 2013.
Schmidt, ibidem. Per la foggia dell’abito monastico cfr. La sostanza 2000, pp. 142, 165, 205, cat. 7, 15, 32.
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6. Niccolò di Segna
Annunciazione Fiesole, collezione Martello Fine del terzo decennio del XIV secolo Tempera su tavola Cm 43 x 47 Provenienza: Venezia, collezione privata; Venezia, Semenzato (24-25 febbraio 1979).
I protagonisti della vicenda evangelica sono disposti in uno spazio voltato; il primo piano è spartito da uno dei pilastri di imposta degli archi, sotto uno dei quali si trova l’arcangelo Gabriele e la piccola figura dell’Eterno, mentre l’altro inquadra la Vergine seduta e lo Spirito Santo che, sotto forma di colomba, si dirige verso di lei. I margini della tavoletta sono stati integrati con un intervento di restauro1, volto a regolarizzare il profilo superiore e a colmare le lacune lasciate dall’asportazione della cornice perimetrale. Le aureole, ritoccate, non conservano tracce di lavorazione. Si deve a Boskovits l’attribuzione a Niccolò di Segna della piccola tavola, in precedenza ascritta al padre2, dal cui stile si differenzia per la resa del chiaroscuro più contrastato e dei panneggi abbondanti di pieghe morbide. A supporto della proposta di una collocazione precoce nel percorso di Niccolò, comunque nell’orbita della bottega paterna, lo studioso ungherese portava pertinenti confronti con opere di piccolo formato, quali il trittichino di Esztergom, la Crocifissione di Philadelphia e l’anconetta in collezione Thyssen-Bornemisza3. Ai primi due dipinti rimanda in particolare la resa del panneggio rosato di Gabriele, vicinissimo ai manti dei due san Giovanni dolenti, mentre la smaltata veste azzurra dell’arcangelo, increspata da fini pieghe sottolineate da lumeggiature bianche, richiama la tavoletta Thyssen, sui volti dei cui personaggi sono peraltro ben visibili i tratti sfilacciati delle pennellate degli incarnati che mescolano ombre e tocchi di luce come nelle figure dell’Annunciazione. Diversi elementi delle loro fisionomie sono rintracciabili in queste stesse opere: negli occhi allungati della Vergine, lievemente ombreggiati nell’angolo esterno della pupilla, si riconosce il dettaglio di quelli, ad esempio, del san Giovanni dolente di Esztergom, mentre i tratti e la costruzione generale richiamano quelli del probabile Evangelista ex Thyssen, a cui rimandano anche le linee vagamente grifagne del volto dell’angelo. Le loro caratteristiche sono affini ad alcuni tratti tipici del Maestro di Monteoliveto, in particolare i volti delle Vergini negli scomparti di uno dei suoi prodotti più raffinati: le già citate ante del Metropolitan Museum di New York (figg. 28-29). Anche il volto dell’arcangelo trova riscontri nell’omologo della scena dell’Annunciazione americana – altrimenti del tutto differente per impaginazione – ma in esso, al contrario della Vergine, sono più definiti i caratteri tipici delle opere mature di Niccolò. Ci si trova dunque ad assistere all’evoluzione stilistica del nostro pittore, che in questo momento – probabilmente a cavallo tra il terzo e il quarto decennio – sta definendo il proprio linguaggio sperimentando elementi di colleghi con cui si può supporre sia entrato in contatto negli anni della formazione e delle prima attività. Importante è ancora il riferimento a Duccio, dal quale derivano le volte dalle vele blu notte marcate da costoloni rossi e i cornicioni marcapiano empiricamente scorciati, rintracciabili anche nelle scene della Maestà del Duomo senese. Boskovits indicava la probabile provenienza dell’Annunciazione da un polittico, di cui avrebbe dovuto costituire lo scomparto centrale dell’ordine superiore, sul modello ad esempio della pala di Pietro Lorenzetti per la pieve di Arezzo (1320). Tuttavia non è possibile riferire la tavola fiesolana a un complesso noto, né avere la certezza che esso potesse spettare completamente a Niccolò. D’altronde, secondo il canone più diffuso, la proposta di Boskovits dovrebbe prevedere piuttosto un dittico centinato che una tavola unica, lasciando aperta la possibilità di un’alternativa ma difficilemente precisabile funzione originaria della tavoletta4. Bibliografia Asta 1979, lotto 379; Boskovits 1982, pp. 501-502; Boskovits 1985b, p. 126.
1 Non è possibile stabilire se l’intervento risalga al restauro di Andrea Rothe del 1980 (Boskovits 1985b, p. 126) o già a uno precedente non documentato. 2 Da Roberto Longhi in una perizia (cfr. Asta 1979, lotto 379). 3 Boskovits 1982, pp. 501-502; soprattutto Idem 1985b, ibidem. Cfr. in questo volume cat. 2-4. 4 Ringrazio Andrea De Marchi per la precisazione.
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7. Niccolò di Segna
Croce Bibbiena, propositura dei Santi Ippolito e Donato 1325-1330 ca. Tempera, oro e argento su tavola Cm 190 x 185 Provenienza: Bibbiena, Sant’Andrea a Lontrina; Bibbiena, San Lorenzo.
A fronte di una struttura discretamente conservata, priva dei soli elementi del clipeo apicale e del golgota nel suppedaneo, oltre che della cornice originale, la superficie pittorica della Croce risulta compromessa da svelature e lacune. Come emerso dalle indagini per il restauro effettuato da Andrea Rothe a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, la Croce fu sottoposta in passato a puliture aggressive che hanno abraso il colore fino a far emergere la preparazione a verdaccio degli incarnati1. Dell’originario blu di lapislazzuli della croce sono state trovate solo alcune tracce sulla preparazione nera, che adesso è preponderante, e poco resta anche dell’argento che decorava le geometrie del tabellone (fig. 84). L’opera è ricordata nel XIX secolo nella chiesa del monastero camaldolese femminile di Sant’Andrea a Lontrina, poco fuori Bibbiena. Da qui la Croce venne trasferita verso la fine del secolo, quando la chiesa fu sconsacrata, in quella del convento francescano di San Lorenzo della stessa città2 e successivamente, negli anni Ottanta del secolo scorso, è giunta nella propositura dei Santi Ippolito e Donato, dov’è attualmente conservata. Non se ne conosce la collocazione originaria, che non è probabilmente da individuare nel monastero extra moenia di Lontrina, disabitato dall’epoca della battaglia di Campaldino (1289) fino al 1361, quando le camaldolesi rientrarono a Bibbiena da Firenze, dove si erano trasferite nel monastero di Sant’Agata in via San Gallo3. È legittimo dunque chiedersi se l’opera non possa provenire dal capoluogo toscano, dove Niccolò si trovava probabilmente al seguito di Ugolino di Nerio verso la metà del terzo decennio del Trecento (secondo l’ipotesi espressa in questo volume)4. Raimond van Marle ha proposto di attribuire l’opera a un artista molto vicino a Segna di Bonaventura, accostandola alle Croci di San Francesco a Pienza e n. 21 della Pinacoteca Nazionale di Siena e ad altre opere ad esse affini5, confluite poi nel corpus del cosiddetto Maestro di San Polo in Rosso, riunito da Enzo Carli nel 1955 attorno alla Croce proveniente dalla chiesa chiantigiana eponima (ora in Pinacoteca a Siena). Al catalogo di questo anonimo lo studioso accostava, sulla scorta di van Marle, anche la Croce di Bibbiena6. Con questa attribuzione Anna Maria Maetzke presentava l’opera restaurata nel 1974, sottolineandone l’affinità con la Croce del Museo della Collegiata di San Giovanni Battista di Chianciano (fig. 30), con la quale avrebbe rappresentato la fase più antica dell’attività di questo pittore, insieme anche alla Croce n. 21 (fig. 64) e a quella di San Polo7. L’accostamento all’anonimo viene riproposto nel 2000
1 Maetzke, in Arte nell’Aretino 1974, pp. 39-41. In occasione di questo restauro si è provveduto al consolidamento del supporto, fortemente aggredito dai tarli; i tabelloni a stella dei Dolenti sono stati reintegrati della cuspide laterale, perduta in entrambi i casi; sono state rimosse antiche ridipinture in corrispondenza degli spacchi nei tabelloni laterali e alla base del collo del Cristo e sono stati effettuati una generale pulitura e un leggero restauro pittorico a velature. 2 Niccolini [1966], p. 103. L’autore vede la Croce nella sacrestia di San Lorenzo. Ancora presso questa chiesa la cita Stubblebine nel 1979 (I, p. 154). 3 Chiodo 2005, p. 69 nota 47. Per il trasferimento nel monastero di Sant’Agata si veda Benvenuti Papi 1990, pp. 605-606 nota 47. 4 Cfr. infra §3. 5 Van Marle 1926, p. 6. Così anche Berenson 1968, I, p. 392. 6 Carli 1955a, p. 58. L’affinità con tra la Croce di Bibbiena e quella da San Polo in Rosso era già stata segnalata da Salmi 1951, p. 169 nota 2. 7 Maetzke, in Arte nell’Aretino 1974, ibidem.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco da Laura Speranza8, nonostante Serena Padovani fin dal 1979 avesse avuto modo di suggerire la convincente identificazione del Maestro di San Polo in Rosso con Segna di Bonaventura, peraltro non includendo nel suo catalogo la Croce di Bibbiena9. Dubbi circa l’accostamento della Croce casentinese al gruppo del Maestro di San Polo in Rosso sono espressi anche da Piero Torriti nel 197710. Del resto, con acuta precocità, l’opera era stata accostata ai modi di Niccolò di Segna da Margherita Moriondo già nel 195011; un’attribuzione più precisa a questo pittore è proposta da James Stubblebine12 e ripresa più tardi da Beatrice Franci, che propone un deciso arretramento alle fasi iniziali della sua attività13, e da Sonia Chiodo14. Proprio il confronto tra questo Cristo esile e composto e i Crocifissi di Segna di Bonaventura, dai volti sofferenti e i corpi più compatti che si accasciano sulla croce, laddove invece quello di Bibbiena vi si distende, contribuisce a dimostrare la pertinenza di quest’opera non al corpus del pittore più anziano, bensì a quello del figlio, nelle cui opere riferibili alla fine degli anni Venti e all’inizio del decennio successivo si rintraccia la stessa tendenza allo sviluppo verticale delle figure15. L’assottigliamento e allungamento della cassa toracica, insieme alla resa del perizoma a pieghe fitte e sottili, richiamano semmai la Croce di Ugolino di Nerio nella chiesa dei Servi di Siena16 (fig. 25), sebbene sia completamente assente nell’opera di Bibbiena l’elemento drammatico del volto dolorosamente contratto. Allontana da Segna e richiama Ugolino anche la resa delle aureole, decorate con elementi vegetali a risparmio su fondo granito, tipico delle opere mature di Niccolò, realizzato qui in maniera un po’ grossolana. La Vergine ha un motivo a grandi foglie accostate, mentre il san Giovanni un tralcio continuo a girale (figg. 32, 34), simile a quello che decora il nimbo della Madonna col Bambino già a Figline Valdarno (cat. 8). D’altra parte l’aureola del Cristo di Bibbiena, decorata con motivo a mazze vegetali, presenta elementi pittorici sui bracci della crociatura (fig. 83): non è possibile accertare l’originalità di questo intervento, tuttavia è da notare come un’analoga consuetudine decorativa sia riscontrabile in alcune delle Croci di Segna, in cui i bracci sono spesso completamente colmati di colore17. Questi elementi inducono ad accogliere la proposta di Franci di considerare l’opera casentinese tra le più antiche di Niccolò, che ancora volge lo sguardo ai suoi maestri. Inaccettabile invece la datazione verso l’inizio del quinto decennio suggerita da Stubblebine, poiché a quelle date Niccolò ha maturato uno stile più plastico. Risale a quel periodo l’unica altra Croce nota di Niccolò, la n. 46 della Pinacoteca senese, firmata e datata 1345 (cat. 18). Pur stilisticamente molto distante da quella di Bibbiena, l’opera offre un potenziale elemento di conferma della paternità di Niccolò per quella casentinese in virtù della quasi totale sovrapponibilità delle figure dei Dolenti, nonostante il profondo divario formale e “psicologico”: la Vergine di Bibbiena atteggia le mani in maniera identica – fin nel dettaglio della disposizione delle dita della mano destra – a quella senese, con cui ha in comune anche il particolare dei capelli sciolti e ondulati sotto il velo; anche i due san Giovanni fanno lo stesso gesto di intrecciare le mani in basso, hanno i capelli ugualmente spartiti sul capo e il medesimo scollo sagomato della veste (stilema tipico di Niccolò). Tali gesti di dolore non sono tuttavia un’invenzione di Niccolò (che li impiega già in opere precedenti), ma, come si è visto18, chiamano di nuovo in causa Ugolino, che li propone ad esempio nei Dolenti della tavoletta con la Crocifissione con San Francesco ora alla Pinacoteca di Siena (fig. 26). Il gesto della Vergine di mostrare con la mano destra il Figlio morente ricorre, disgiunto dalla presa del velo con la sinistra, in un pezzo erratico dello stesso pittore,
L. Speranza, in Il Casentino 2000, p. 87. Precedentemente anche F. Domestici, in Beni 1983, p. 335 nota 25. Padovani, in Mostra 1979, p. 34. 10 Torriti 1977, p. 72. 11 Moriondo, in Mostra 1950, p. 41. 12 Stubblebine 1979, I, p. 154. 13 Franci, in Duccio 2003, p. 364. Eadem 2013. 14 Chiodo 2005, p. 68. 15 Cfr. cat. 8-9. 16 Galli, in Duccio 2003, pp. 358-360, cat. 56. Cfr. infra §3. 17 Il riferimento è in particolare alle Croci da San Polo in Rosso e n. 21 della Pinacoteca Nazionale di Siena, a quella per San Francesco a Pienza e a quella ora nel Museo Pushkin di Mosca. Inoltre, anche la Croce dei Servi di Ugolino presenta sui bordi tracce di pittura. 18 Cfr. cat. 3. 8 9
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Niccolò di Segna anch’esso in Pinacoteca19, e inoltre nella Croce di Simone Martini per la chiesa della Misericordia di San Casciano Val di Pesa, riferibile all’inizio del terzo decennio20. Bibliografia
Niccolini [s.a.], p. 103, fig. 6; van Marle 1926, p. 6; Neroni 1928, p. 32; Moriondo, in Mostra 1950, p. 41; Salmi 1951, p. 169 nota 2; Berenson 1968, I, p. 392; Maetzke, in Arte nell’Aretino 1974, pp. 39-41; Torriti 1977, p. 72; Stubblebine 1979, I, p. 154; Domestici, in Beni 1908 (ed. 1983), p. 335 nota 25; Piroci Branciaroli, in Bibbiena 1994, p. 52; Speranza, in Il Casentino 2000 pp. 44, 87; Franci, in Duccio 2003, p. 364; Chiodo 2005, pp. 66-67; Franci 2013.
83. Cat. 7, dettaglio del volto di Cristo
84. Cat. 7, dettaglio del tabellone.
19 Torriti 1990, p. 32, cat. 596. Il frammento di Croce proviene dal Conservatorio Femminile di Montepulciano ed è considerato da Torriti opera matura, riferibile alla metà del secondo decennio del Trecento. 20 Cfr. Leone De Castris 2003, pp. 237, 354.
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8. Niccolò di Segna
Madonna col Bambino Fiesole, deposito della Curia Arcivescovile Fine del terzo decennio del XIV secolo Tempera e oro su tavola Cm 74 x 46 Provenienza: Figline e Incisa Valdarno, chiesa vecchia di San Bartolomeo a Scampata; Figline e Incisa Valdarno, chiesa nuova di San Bartolomeo a Scampata; Figline e Incisa Valdarno, monastero della Santa Croce.
La Vergine a mezzo busto tiene in braccio il Figlio, che, vestito di una tonacella azzurra con decori dorati a stella e di un drappo rosso, regge con la destra un lembo del manto blu della madre. La tavola centinata è priva di cornice e su entrambi i lati si trovano due fori, presumibilmente destinati ad accogliere dei cavicchi. Gli inventari delle visite pastorali della Diocesi di Fiesole menzionano quest’opera a partire dal 1679 nella chiesa vecchia di San Bartolomeo a Scampata a Figline Valdarno, presso l’altare della Madonna degli Angeli a destra del maggiore. Le fonti testimoniano la devozione per questa immagine, ricordandola coperta da una mantellina mossa da carrucole e funi e arricchita, almeno a partire dal 1728, di cinque ornamenti in stagno1. L’opera fu in seguito spostata nella vicina chiesa nuova di San Bartolomeo, dove Licia Bertani, a cui si deve la prima segnalazione nel 1979, la vide sul primo altare a destra2. Più recentemente la tavola è stata ricoverata nella clausura del monastero agostiniano femminile della Santa Croce a Figline, da dove è stata prelevata nel 2010 in occasione della mostra Arte a Figline3, a seguito della quale è conservata a Fiesole presso i Depositi della Curia Arcivescovile. Fino al restauro agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso la tavola aveva conservato alcuni degli ex voto in stagno – in particolare due corone – citati nella visita pastorale di inizio XVIII secolo, insieme a ornamenti di perle, come si vede dalla fotografia scattata prima dell’intervento4 (fig. 85). Nella stessa si notano sconnessioni delle tavole, vaste ridipinture (che non interessavano parti di carne) e rimaneggiamenti delle zone dorate. Bertani ipotizzava che questi ultimi interventi potessero risalire all’inizio del XIX secolo, quando, a partire dal 1816, fu attuato un restauro alla struttura della chiesa5. Il restauro guidato da Leonetto Tintori a cavallo degli anni Settanta e Ottanta ha permesso la rimozione delle superfetazioni applicate e dipinte e un consolidamento della struttura lignea, con la normalizzazione delle zone esterne della tavola già prive di cornice e in parte resecate6. Sulla tavola risultano inoltre integrate le parti in oro perdute. Bertani ha proposto per prima una generica assegnazione dell’opera a un pittore senese seguace di Duccio della prima metà del XIV secolo; in seguito si è orientata verso l’attribuzione a una fase precoce di Ugolino di Nerio, proponendo confronti con opere quali il polittico n. 39 della Pinacoteca Nazionale di Siena e quello ora a Brolio, proveniente da San Polo in Rosso, e una datazione verso il 13207. Così successivamente anche Guido Tigler8, mentre in precedenza Cristina De Benedictis, seguendo anche un’opinione espressa oralmente da Serena Padovani, aveva proposto un accostamento a Niccolò di Segna e, come già Bertani, la pertinenza ad un polittico, indicando in parti-
1 L. Bertani, in Capolavori 1985, p. 17; con riferimenti alle segnature degli inventari presso l’Archivio della Curia Vescovile di Fiesole a p. 19 note 1-2. 2 L. Bertani, in La Città 1982, p. 237. In questa sede la tavola è ancora citata nei primi anni Duemila: G. Tigler, in Firenze e provincia 2005, p. 665. 3 Cfr. F. Baldini, in Arte a Figline 2010, pp. 118-121, cat. 6. 4 Bertani, in Capolavori 1985, fig. p. 18. 5 Bertani, in Capolavori 1985, p. 16. Al 1795 risale un altro restauro, nel corso del quale furono rifatti i tre altari della chiesa e fu realizzata una tela con santa Brigida. 6 L. Tintori, Note di restauro, in Capolavori a Figline 1985, p. 20. Al restauro parteciparono Adele Lonero e Alfio Del Serra. 7 Bertani, in La Città 1982, ibidem; Bertani, in Capolavori 1985, pp. 17, 19. 8 Tigler 1990, p. 13. Idem, in Firenze e provincia 2005, ibidem, in cui amplia la proposta attributiva anche a Segna di Bonaventura.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco colare il n. 38 della Pinacoteca senese9. Federica Baldini ritiene valide le proposte di De Benedictis e inoltre riporta le opinioni di Miklós Boskovits e Angelo Tartuferi in favore della paternità di Niccolò; la studiosa propone una datazione verso la metà del terzo decennio, in un momento in cui gli elementi ducceschi mediati da Ugolino di Nerio e Segna di Bonaventura sono ancora forti nella sua produzione10. Sebbene Beatrice Franci non includa la tavola nel corpus di Niccolò di Segna11, l’attribuzione a questo pittore è da confermare sulla base di confronti stilistici con le sue opere più antiche e in rapporto con quelle del padre, oltre che con la produzione di Ugolino. La Madonna di Figline ricorda infatti alcune omologhe tarde di Segna, come quelle conservate nella basilica dei Servi, nel Museo Diocesano di Siena e presso il North Carolina Museum di Raleigh (ex Kress 1349; figg. 23-24), espressioni del tentativo di mediazione tra gli elementi della tradizione duccesca e le istanze stilistiche introdotte da Simone Martini messo in atto dal pittore più anziano nell’ultima fase della sua carriera12, in cui i soggetti sono caratterizzati da uno sviluppo verticale e da alcuni tentativi di variare le pose con scarti arditi. Nella tavola figlinese (ma anche in quella di Cortona, cat. 9) si nota la ricerca di un effetto di allungamento, che però si traduce in un certo appiattimento. La fisionomia stessa della Vergine, dal volto caratterizzato da una lunga canna nasale schiacciata e occhi dai contorni netti, richiama da vicino quelle di Segna, in particolare quelle già citate dei Servi e di Raleigh, ma anche la Madonna del gruppo di Santi n. 40 della Pinacoteca Nazionale senese. Rispetto alla Madonna dei Servi il Bambino di Figline assume una posa più tradizionale, che Niccolò trae comunque da Segna guardando al suo polittico conservato al Metropolitan Museum di New York (inv. 24.78). Gli sguardi fissi e un po’ assenti costituiscono una delle caratteristiche costanti della produzione di Niccolò e contribuiscono, insieme al trattamento meno strutturato dei panneggi, a differenziare le sue figure da quelle del padre. Da Ugolino di Nerio deriva l’addolcimento dei tratti, ottenuto anche attraverso un uso più modulato del chiaroscuro, e la lavorazione delle aureole a fasce concentriche di diversa decorazione, tipica della produzione matura del pittore più anziano. Nella Madonna di Figline Niccolò adotta uno schema poi ricorrente nella sua produzione (e già impiegato nei nimbi dei Dolenti della Croce di Bibbiena, cat. 7), con un’ampia fascia interna a girali ottenuti a risparmio sul fondo granito, all’esterno della quale si trova un giro di punzoni a losanga e uno estremo a cuspidi rovesciate13. Sulla base di queste considerazioni è possibile ritenere, come Baldini, la tavola figlinese un’espressione della fase giovanile di Niccolò, quando è ancora vivo l’esempio del padre, attraverso le opere del quale poter sperimentare innovativi elementi martiniani; una fase in cui tuttavia Niccolò ha già sviluppato una propria cifra stilistica in rapporto alla frequentazione di Ugolino. Dunque sembra pertinente una datazione verso la fine del terzo decennio. La proposta di associare la Madonna di Figline ai laterali del polittico n. 38 della Pinacoteca Nazionale deve essere scartata perché la disposizione dei fori dei cavicchi di questo presunto centrale non coincide con quelli delle tavole laterali con San Michele Arcangelo e San Bartolomeo. Del resto in una precedente occasione è stato possibile proporre la pertinenza allo stesso polittico della Madonna col Bambino della Galleria di Palazzo Cini di Venezia e la provenienza del complesso dal monastero vallombrosano di San Michele in Poggio San Donato a Siena14 (cat. 11). Per la Madonna di Figline non si riescono dunque a indicare possibili laterali, né si può stabilire se la chiesa di San Bartolomeo, citata almeno nell’XI secolo15, costituisse il contesto originario del disperso polittico, o se la tavola vi sia approdata solo nel XVII secolo, come sembra suggerire la più antica collocazione nota presso un altare moderno. Bertani è incline a ritenere che l’opera possa provenire dalla vallombrosana Badia di Passignano16, alla quale la chiesa di Scampata apparteneva fin dal 1094, e mette il suo arrivo in relazione all’insediamento presso San Bartolomeo di un piccolo gruppo di monaci nel 1621 – quando la chiesa passò direttamente sotto l’Ordine Vallombrosano –, che vi restò solo fino al 165817. Tuttavia questa proposta non può contare su alcun riscontro e in ogni caso, seguendo l’ipo-
9 De Benedictis 1986, p. 337. La studiosa riporta l’errata denominazione della chiesa figlinese come San Bartolomeo a Cavriglia, già in Bertani, in Capolavori 1985, p. 19. 10 Baldini, in Arte a Figline 2010, pp. 120-121. 11 Cfr. Franci 2013. 12 Cfr. Cateni, in Duccio 2003, pp. 314-315. 13 Skaug 1994, I, nn. 48-49. Frinta 1998, pp. 77-78, nn. Ba8a, Ba8b. 14 Matteuzzi, in La Galleria 2016, pp. 43-47, cat. 4. Cfr. infra cat. 11. 15 Cfr. Raspini 1967. Bossini 1970, p. 184; questo autore cita un’iscrizione in pietra in cui si tramanda la notizia della riconsacrazione nel 1150. 16 Bertani, in Capolavori 1985, pp. 16-17. 17 Raspini 1967. Bossini 1970, ibidem. L’atto che sancì ufficialmente l’acquisto della chiesa da parte dei Vallombrosani di
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Niccolò di Segna tesi suggerita in questo volume che la Badia di Passignano avesse in effetti sul proprio altare maggiore un polittico ad opera di Luca di Tommè18, si dovrebbe pensare ad una collocazione su un altare laterale o in una sede diversa. Bibliografia
Bertani, in La Città 1982, p. 237, tav. XIX; Bertani, in Capolavori 1985, pp. 17-20; De Benedictis 1986, p. 337; Tigler 1990, p. 13; Tigler, in Firenze e provincia 2005, p. 665; Baldini, in Arte a Figline 2010, pp. 118-121.
85. Cat. 8, ante restauro
Passignano risale solo al 1170. D’altra parte i documenti testimoniano la scarsa attenzione di Passignano per Scampata (cfr. Bertani, in Capolavori 1985, p. 16), spesso descritta in stato di abbandono; nel 1711 i Vallombrosani cedettero la chiesa in cambio dell’oratorio di Ponte Rosso (Raspini 1967). 18 Cfr. cat. 11.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
9. Niccolò di Segna
Madonna col Bambino Cortona, Museo Diocesano Fine terzo decennio del XIV secolo Tempera e oro su tavola Cm 102 x 67 Provenienza: Cortona, Santa Margherita; Cortona, Palazzo Vescovile. Iscrizioni: “[A]VE GRATI[A]”, sull’aureola della Vergine.
Si riferisce probabilmente a questa tavola la citazione di una Madonna col Bambino a fondo oro attribuita ad Ambrogio Lorenzetti nella sacrestia della chiesa cortonese di Santa Margherita, contenuta nell’elenco delle opere conservate presso quel santuario stilato da Domenico Bacci nel 19211. Prima di entrare nelle collezioni del locale Museo Diocesano l’opera fu ospitata nel Palazzo Vescovile di Cortona2. Col restauro effettuato entro il 1955 dal Gabinetto Restauri della Soprintendenza alle Gallerie di Firenze furono rimosse le estese ridipinture che compromettevano la qualità cromatica e formale della tavola e fu riportata alla luce una superficie pittorica piuttosto ben conservata, nonostante alcune cadute di colore, evidenti in particolare sulla veste della Vergine3. A un’osservazione diretta la tavola appare assottigliata, ma conserva ancora i fori che dovevano alloggiare i cavicchi delle tavole laterali, componenti il possibile polittico di cui la Madonna doveva originariamente costituire il centrale. Dopo alcune generiche attribuzioni, Umberto Baldini notò nella Madonna di Cortona una forte somiglianza coi modi di Segna di Bonaventura e ne suggerì l’esecuzione all’interno della sua bottega. Hayden Maginnis ha accuratamente argomentato un’attribuzione al figlio di Segna, sottolineando la vicinanza tra la tavola di Cortona e altre Madonne col Bambino di Niccolò: la n. 44 della Pinacoteca Nazionale di Siena, quella in collezione Cini a Venezia e quella della Rotonda di Montesiepi, datata 13364. All’interno di questo gruppo Maginnis considera la Madonna di Cortona la più antica e la pone entro la prima metà del terzo decennio, scorgendovi più numerosi richiami alla pittura paterna, in particolare alle Madonne col Bambino del Seminario Arcivescovile di Siena e del North Carolina Museum di Raleigh. Rispetto a queste la Madonna di Cortona, come le altre figure di Niccolò, ha un atteggiamento più compassato e uno sguardo più distaccato, con una chiara tendenza alla regolarizzazione, che, seguendo ancora il ragionamento dello studioso americano, indicherebbe un’influenza di Ugolino e della sua cerchia, evidente anche da un confronto tra la Madonna di Cortona e la Madonna col Bambino del polittico di Ugolino conservato a Cleveland. La proposta attributiva di Maginnis, condivisa anche da chi scrive5, viene accolta da Cristina De Benedictis6 e Laura Speranza7, che inclinano per una datazione al quarto decennio con riferimento alla data 1336 della Madonna di Montesiepi, e più recentemente da Andrea Staderini, secondo cui l’opera sarebbe stata realizzata – Segna ancora vivente – entro il 13318.
1 Bacci 1921, p. 63. Non si conservano a Cortona Madonne col Bambino riferibili ad Ambrogio. La provenienza da Santa Margherita è indicata anche nei cataloghi del museo: L. Speranza, in Il Museo 1992, pp. 36-37; Museo Diocesano 2012, pp. 40-41. Parla tuttavia di provenienza ignota Staderini 2007, pp. 60-70. 2 Cfr. Baldini 1955, p. 79. 3 Baldini 1955, ibidem. Un cenno a questo restauro si trova anche in Firenze restaura 1972, pp. 26, 131; l’opera tuttavia non fu inserita nell’esposizione. Alcune riproduzioni sono conservate presso il Gabinetto Fotografico della Soprintendenza fiorentina: nn. 96521, 96564, 96565. 4 Maginnis 1974, pp. 214-218. 5 Matteuzzi 2008, p. 330. 6 De Benedictis 1979, p. 94. Sulla sua scia anche Scapecchi 1980, p. 52. 7 Speranza, in Il Museo 1992, ibidem. Inoltre Mori 1995, p. 29; Museo Diocesano 2012, ibidem. 8 Staderini 2007, pp. 68-70.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco Procede in parallelo a questa proposta l’ipotesi della paternità dell’altro figlio di Segna, Francesco, sostenuta da Alessandro Bagnoli sulla scorta dell’inserimento da parte di Luciano Bellosi nel 1970 della tavola cortonese nel corpus dell’autore della Madonna col Bambino del Museo Comunale di Lucignano9 (cat. 29). In questa direzione andava indirettamente anche la proposta di Serena Padovani di riferire la Madonna di Lucignano e in un primo momento anche quella di Cortona ad un gruppo di opere da lei riunite intorno alla Croce del Museo della Val d’Arbia a Buonconvento (cat. 26), per la quale era stato proposto il nome di Niccolò10, ma che la studiosa preferiva giustamente assegnare a un anonimo vicino anche a Segna e Ugolino, denominato Maestro della Croce di Buonconvento11, le cui opere sono state in gran parte ricondotte a Francesco dallo stesso Bagnoli. Peraltro James Stubblebine non escludeva una possibile identificazione proprio con Francesco del suo Maestro del Polittico di Sansepolcro12, a cui aveva attribuito anche la Madonna cortonese insieme ad altre opere in seguito date a Niccolò di Segna13. Il nodo attributivo della Madonna di Cortona si lega all’annosa difficoltà di distinguere le personalità e definire le produzioni specifiche dei due figli di Segna, tra cui spesso sono rimbalzate le attribuzioni di varie opere. Definendo per Francesco un corpus non esiguo e sostanzialmente condivisibile, Bagnoli ha dato un contributo notevole per il riconoscimento degli elementi caratteristici della sua maniera, che per molti tratti si allontana da quella di Niccolò, più abile, pur denunciando modelli di riferimento analoghi e citazioni, soprattutto in riferimento alle opere giovanili di quest’ultimo. La tavola di Cortona presenta stringenti affinità compositive con la Madonna col Bambino conservata a Palazzo Barberini a Roma, da confermare a Francesco (cat. 32). La posa della Vergine, il suo velo e il gesto del Bambino che lo tiene con la destra sono quasi sovrapponibili; ricorre inoltre la scelta di avvolgere Gesù in un drappo, lasciandone il petto nudo. In entrambe le tavole l’aureola della madre è decorata con circoli contenenti alcune parole del saluto alla Madonna: nella tavola cortonese si legge “[A]VE GRATI[A]”, mentre in quella romana l’inserimento di due lettere in ciascun orbicolo permette di ottenere “AVE GRATIA PLENA”. Si tratta di una tipologia decorativa molto rara, a fronte del più consueto decoro fitomorfo che in effetti ritroviamo nei nimbi dei due Bambini, ma ottenuta con la tecnica della granitura a risparmio tipica di Niccolò, al quale rimanda anche il punzone a losanga che si ripete nel compasso esterno delle aureole della madre e del figlio. Le circonferenze della Madonna romana sono rifinite invece da più semplici punzoni circolari, all’esterno raggruppati a tre a tre a formare un decoro di gusto arcaico, che si trova anche in alcune delle opere estreme di Segna, ma che non ricorre nelle opere sicuramente riconducibili a Niccolò. Proprio il confronto tra queste due tavole rende a mio avviso palese la diversa paternità delle opere. Le figure del dipinto cortonese, molto allungate, sono caratterizzate da un segno raffinato e da una nettezza di forme che contrastano coi tratti più pesanti della tavola romana, le cui figure hanno fisionomie più marcate, segnate da linee spesse e da un chiaroscuro meno misurato. Diversa è anche l’intensità – si potrebbe dire anche l’intenzione – degli sguardi: la Vergine di Palazzo Barberini, come altre riferibili a Francesco, ricerca un incontro con l’osservatore, mentre gli occhi delle figure cortonesi lo sfuggono, alimentando così il senso di distacco già trasmesso dalla fissità delle pose e dalla staticità dei panneggi. Questa sorta di estremizzazione del verticalismo, che nella Madonna cortonese si traduce in un appiattimento delle figure, richiama le Madonne col Bambino della fase tarda di Segna, già segnalate nella scheda precedente e considerate da Maginnis. Dalla Madonna dei Servi potrebbe derivare il drappo violaceo con motivi cruciformi che avvolge il Bambino di Niccolò, ugualmente a torso nudo (fig. 23); ma in particolare la tavola di Cortona sembra rifarsi a quella segnesca ora a Raleigh (fig. 24), di cui emula la posizione della Vergine, pur con un esito di rigidità. In ciò si legge una relativa inesperienza e la volontà di rifarsi alle opere di Segna evitandone però le pose più complesse, a suggerire un’esecuzione precoce. Questa tavola e quella già a Figline potrebbero rappresentare dunque delle variazioni sui temi
Bellosi, in Arte in Valdichiana 1970, p. 9. Bagnoli 1997, p. 18 (con parere orale di Bellosi). Idem 2003, pp. 276-277 nota 26. Idem 2009b, pp. 440, 442. 10 Berenson 1932, p. 396. Inoltre De Benedictis 1979, p. 31. 11 Padovani, in Mostra 1979, p. 68. Eadem, in Mostra 1983, pp. 37-40. Sulla scorta della prima denominazione usata da Padovani, la tavola è riferita al Maestro della Madonna di Lucignano da Tafi 1989, p. 479. 12 Stubblebine 1979, I, pp. 154-155. 13 Cfr. Franci 2013. 9
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Niccolò di Segna paterni, con un’attenzione specifica per le novità martiniane, da parte di un pittore forse ancora in fase di formazione, che nelle opere successive si dimostra più sicuro nel trattamento delle figure e nel loro inserimento nello spazio. Un giovane pittore che, d’accordo con Maginnis, non è immune dall’ascendente di Ugolino di Nerio, il quale, oltre a trasmettere l’abitudine di realizzare aureole riccamente punzonate, contribuisce ad addolcire la gamma cromatica attraverso l’uso sapiente del chiaroscuro e a stemperare la fierezza degli sguardi delle figure di Segna, che invece rappresenta un’eredità specifica per Francesco. Bibliografia Bacci 1921, p. 6; Bernardini-Castri 1951, p. 21; Baldini 1955, p. 79; Bellosi, in Arte in Valdichiana 1970, p. 9; Baldini, in Firenze restaura 1972, pp. 26, 131; Maginnis 1974; De Benedictis 1979, p. 94; Padovani, in Mostra 1979, p. 69; Stubblebine 1979, I, pp. 154-155; Scapecchi 1980, p. 52; Tafi 1989, p. 479; Speranza, in Il Museo 1992, pp. 36-37; Mori 1995, p. 29; Cannon-Vauchez 2000, p. 126 nota 108; Bagnoli 1997, p. 18; Bagnoli 2003, pp. 276-277 nota 26; Refice 2005, p. 81; Staderini 2007, pp. 68-70; Matteuzzi 2008, p. 330; Bagnoli 2009b, pp. 440, 442; Museo Diocesano 2012, pp. 40-41.
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Madonna col Bambino Collezione privata 1330 ca. Tempera e oro su tavola Cm 88 x 52,5 (con cornice cm 94 x 58,5) Provenienza: Locko Park (Regno Unito), William Drury Lowe (1840/1865-1995); Londra, Sotheby’s (6 dicembre 1995); Londra, Bonham’s (4 luglio 2012).
L’opera rappresenta l’unico esempio nella produzione nota di Niccolò in cui il Bambino interagisce con lo sguardo con la Madre, guardandola in volto mentre, in una posa altrettanto inedita, le appoggia una manina sul petto, in corrispondenza del velo; Maria non ricambia questa attenzione e volge gli occhi verso lo spettatore. Il rapporto affettivo tra i due personaggi è espresso, più tipicamente, dal contatto tra le loro mani. Sul retro della tavola sono presenti tre traverse non originali. Le recenti indagini radiografiche hanno evidenziato la presenza di due fori per cavicchi su ciascun lato1, che ne indicano la pertinenza ad un polittico, di cui costituiva certo il centrale. Purtroppo non è stato possibile individuare tavole ipotizzabili come laterali del complesso originario, che potrebbe essere stato una delle prime importanti commissioni affidate a Niccolò, come suggerisce l’impiego del lapislazzulo per gli strati superiori del manto della Vergine, dove la più economica azzurrite è relegata agli strati inferiori2. L’opera entrò a far parte della collezione di William Drury Lowe (1803-1877) durante uno dei suoi viaggi in Italia tra il 1840 e il 1865, nel corso dei quali egli si procurò opere del Tre e Quattrocento nelle città del centro Italia, in particolare a Roma, Pisa e Firenze; i “primitivi” furono acquistati in gran parte nella prima metà degli anni Sessanta3. Rimasta nel Derbyshire fino alla vendita di parte della raccolta alla fine del 19954, la tavola è rientrata in Italia nel 2012. Alla collezione Drury Lowe si riferisce il numero di inventario 214 riportato sulla placchetta metallica originariamente fissata allo zoccolo del “tabernacolo” ottocentesco; al momento del restauro, quando lo zoccolo è stato rimosso, la placchetta è stata trasferita sul retro della tavola. Più difficile stabilire a cosa si riferisca il cartellino circolare col numero 319 e le lettere “F” e “HAB” ugualmente visibile sul retro. Nel 1968 la Madonna faceva parte della selezione di opere della raccolta di Locko Park esposte presso la Nottingham University Art Gallery, che contribuì a far conoscere a un pubblico più vasto la collezione Drury Lowe, fino a quel momento poco nota, e inoltre rappresentò l’occasione per celebrare l’attività di restauro dei dipinti e della struttura che li accoglieva, avviata da circa un decennio5. Poiché tuttavia non sono note fotografie che mostrino la Madonna prima di questa data, non è possibile precisare la portata degli eventuali interventi a cui fu sottoposta la tavola. La prima attribuzione a Niccolò di Segna, su suggerimento di James Stubblebine, rimanda proprio a questa mostra6. In precedenza nel catalogo della raccolta inglese redatto nel 1901 da Jean Paul Richter, che non fornisce indizi sulla
1 I cavicchi sono distanti tra loro, su entrambi i lati, cm 46; rispetto alla base della tavola si trovano a cm 6 e cm 52,5 circa. Machtelt Brüggen Israëls, che ringrazio sentitamente per il proficuo scambio di pareri su questa e altre opere di Niccolò di Segna, mi indica la presenza in antico di un battente, segnalato da un foro di chiodo posto sull’asse mediano della tavola a circa 83,5 cm dal fondo. 2 Si vedano le relazioni dei restauratori londinesi consultati dall’attuale proprietario: Sarah Walden (2013), Katherine Ara (2014) e David Chesterman (s.d.). 3 Vertova 1968, p. 23. Anche Sebag Montefiore 1995, s.p. L’incertezza dei contesti di acquisizione delle opere della collezione Drury Lowe è menzionata anche da George Hughes Hartman nell’introduzione del catalogo della mostra di Nottingham del 1968: Pictures 1968, s.p. L’opera non è inserita tra quelle citate da Waagen a seguito di una visita a Locko Park poco dopo la metà dell’Ottocento: Waagen 1857, pp. 496-408. 4 Old Master 1995, lotto 14. 5 Cfr. Cornforth 1968, p. 404: “a great deal has been done to improve the condition and appearence of the pictures”. 6 Pictures 1968, cat. 4, tav. IV.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco sua provenienza, l’opera veniva ricondotta all’ambito di Duccio7; nel 1908 Robert Langton Douglas aveva suggerito il nome di Segna di Bonaventura8, seguito da Raimond van Marle, che tuttavia preferiva un più generico riferimento alla sua scuola9. L’attribuzione a Niccolò è stata in seguito sempre condivisa10 e precisata da Luisa Vertova con una proposta di collocazione cronologica anteriore al 1336 della Madonna col Bambino da Montesiepi11. In generale tuttavia le proposte di datazione sono meno unanimi: curiosamente Stubblebine propone due date differenti all’interno dello stesso volume, l’una precoce, verso il 1325, in riferimento alla vicinanza con lo stile di Segna, ma comunque in relazione con la Madonna da Montesiepi e con la n. 44 della Pinacoteca Nazionale di Siena, l’altra verso il 1335134012. A quest’ultima proposta si attengono i cataloghi d’asta Sotheby’s e Bonham’s13, mentre tornano ad arretrare l’opera entro la prima metà del quarto decennio Beatrice Franci e chi scrive14. Finora il giudizio sull’opera è stato basato sull’osservazione di dati “esteriori”, come la posa dei due protagonisti e l’aspetto delle mani, facilmente paragonabili ad altre Madonne di Niccolò, e inoltre sull’analisi di una superficie dipinta ritenuta genuina15 ma in realtà in gran parte ritoccata prima che venisse acquistata da Drury Lowe, quando sono stati anche applicati un nuovo fondo oro e la cornice con lo zoccolo. La pulitura effettuata dopo l’ingresso nella nuova collezione (fig. 87) ha eliminato le superfetazioni che alteravano diversi dettagli, permettendo così di precisare il giudizio sull’opera. Il confronto tra la fotografia scattata dopo il restauro e l’immagine nota fino al 2012 (fig. 86) mostra come si sia intervenuti a rimuovere la vecchia cornice con lo zoccolo e alcuni strati superficiali di pittura, pertinenti ad interventi passati: sono state ad esempio eliminate alcune dorature dei galloni delle vesti e le perdite, notevoli soprattutto alla base della tavola, sono state colmate a tratteggio. La rimozione del fondo oro – incongruo per la presenza di una fascia a raggiera e altri dettagli punzonati insoliti delle aureole primo-trecentesche e rimontante in più punti sopra il colore – ha rivelato una sottostante doratura tuttavia neanch’essa originaria perché ugualmente sovrapposta in alcuni punti al colore16. L’intervento più significativo è stato però compiuto sul volto della Madonna, che ha riacquisito i suoi tratti originali, addolciti e appiattiti dai precedenti ritocchi: come il Bambino, meglio preservato, adesso presenta un chiaroscuro più marcato e ha ritrovato il suo profilo originale vagamente aquilino – elementi tipici di una fase più avanzata di Niccolò – e i suoi occhi morbidi e carnosi, dalle palpebre spesse, prossimi a quelli della Madonna col Bambino Cini ma anche della successiva n. 44 della Pinacoteca senese (cat. 11a, 14). Un certa rigidità delle pose e la lontananza da opere più tarde come la Madonna conservata a Villa I Tatti a Firenze (cat. 16a) suggeriscono in ogni caso una datazione non troppo avanzata e ancora vicina alla fase giovanile del pittore. La tavola ex Locko Park sarà allora da confermare entro la prima metà del quarto decennio e tuttavia non è possibile ritenerla successiva rispetto alle diverse componenti del ricostruito polittico n. 38 della Pinacoteca Nazionale di Siena, di cui faceva parte anche la più matura Madonna Cini. In questo senso è condivisibile la considerazione di Franci che questa Madonna vada intesa come un’importante tappa del percorso di evoluzione stilistica di Niccolò, che conduce ad esempio alla Madonna di Montesiepi del 1336. Bibliografia Richter 1901, p. 86, cat. 214; Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 28 nota 1; van Marle 1924, II, p. 156 nota 2; Pictures 1968, cat. 4, tav. IV; Cornforth 1968, p. 404; Smart 1968, p. 206, fig. 3; Vertova 1968, pp. 24-26; Calvocoressi 1976, p. 141; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, pp. 138, 154, II, tav. 478; Old Master 1995, lotto 14; Franci, in Duccio 2003, p. 364; Matteuzzi 2008, p. 330; Old Master 2012, lotto 33; Franci 2013; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 46.
Richter 1901, p. 87, cat. 214. Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, p. 28 nota 1. 9 Van Marle 1924, II, p. 156 nota 2. 10 Cornforth 1968, ibidem. Smart 1968, p. 206, fig. 3. Calvocoressi 1976, p. 141. De Benedictis 1979, p. 94. Stubblebine 1979, I, pp. 138, 154; II, tav. 478. 11 Vertova 1968, pp. 24-26, fig. 3. 12 Stubblebine 1979, I, pp. 139, 154. 13 Old Master 1995, lotto 14. Old Master 2012, lotto 33. 14 Franci, in Duccio 2003, p. 364; Eadem 2013. Matteuzzi 2008, p. 330. 15 Vertova 1968, p. 25. Stubblebine 1979, I, p. 139. 16 Le relazioni dei restauratori (cfr. nota 2) non accennano a questo elemento. 7 8
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86. Cat. 10, ante restauro
87. Cat. 10, dopo la pulitura, prima del restauro pittorico
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11. Niccolò di Segna
Polittico smembrato con la Madonna col Bambino e i Santi Benedetto, Michele Arcangelo, Bartolomeo, Nicola (ordine principale); i Santi Lucia, Lorenzo, Andrea, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Giacomo, Giovanni Gualberto, Maria Maddalena (ordine superiore); Cristo crocifisso, due Santi Vescovi e i Santi Vittore, Caterina, Donato(?), Orsola, Francesco (predella) 1330-1335 ca.
11a
Madonna col Bambino Venezia, Galleria di Palazzo Cini (inv. 6677) Tempera e oro su tavola Cm 76,4 x 49,6 Provenienza: Siena, San Michele in Poggio San Donato (?); Prato, San Francesco; New York, collezione privata (1940/1945 ca.); New York, Julius H. Weitzner; Londra, collezione privata; Firenze, Giovanni Salocchi; Venezia, Vittorio Cini (1959); Venezia, Yana Cini Alliata di Montereale (1977-1981).
11b.
Santi Benedetto, Michele Arcangelo, Bartolomeo, Nicola; Santi Lucia, Lorenzo, Andrea, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Giacomo, Giovanni Gualberto, Maria Maddalena Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 38) Tempera e oro su tavola Cm 115,5 x 168 (singola tavola cm 43,5) Provenienza: Siena, San Michele in Poggio San Donato (?). Iscrizioni: “S(ANCTUS) BENEDICTUS”, “S(ANCTUS) MICHAEL”, “S(ANCTUS) BARTHOLOMEUS”, “S(ANCTUS) NICHOLAUS”, sotto i quattro santi dell’ordine maggiore; “S(AN)C(T)A LUCIA”, “S(ANCTUS) LAURE(N)TIU(S)”, “S(ANCTUS) ANDREAS”, “S(ANCTUS) IOH(ANN)E(S) B(AP)T(ISTA)”, “S(ANCTUS) IOH(ANN)ES EVA(N)G(ELISTA)”, “S(ANCTUS) IACOBUS”, “S(ANCTUS) IOH(ANN)ES ABB(AS)”, “S(AN)C(T)A MARIA M(ADDALENA)”, a fianco degli otto santi dell’ordine superiore; “ECCE AGNUS DEI” (Gv 1, 29), cartiglio di san Giovanni Battista.
11c.
Cristo crocifisso Firenze, Museo Horne (inv. 58) Tempera e oro su tavola Cm 26 x 20,2 Provenienza: Siena, San Michele in Poggio San Donato (?).
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Niccolò di Segna
Cat. 11a
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
11d-e.
San Donato(?) e Santo Vescovo Gallico (Asciano), collezione Salini Tempera e oro su tavola Cm 26 x 20,4 (11d); cm 25 x 20,4 (11e) Provenienza: Siena, San Michele in Poggio San Donato (?); collezione privata francese; mercato antiquario fiorentino (1992).
11f.
Santo Vescovo Mercato antiquario Tempera e oro su tavola Cm 25,4 x 20 Provenienza: Siena, San Michele in Poggio San Donato (?); mercato antiquario americano (1995); collezione privata italiana.
11g.
Santa Caterina d’Alessandria Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 24) Tempera e oro su tavola Cm 22 x 16,5 Provenienza: Siena, San Michele in Poggio San Donato (?).
11h-i.
Sant’Orsola e San Vittore Digione, Musée des Beaux-Arts (inv. D 23 A-B) Tempera e oro su tavola Cm 25 x 20 ciascuna Provenienza: Siena, San Michele in Poggio San Donato (?); Digione, Pichot l’Amabilais, poi Dard (fino al 1916).
11l.
San Francesco Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale Tempera e oro su tavola Cm 25,8 x 20 Provenienza: Siena, San Michele in Poggio San Donato (?); Roma, Schiff-Giorgini (1950); collezione privata (fino al 1973); Pisa, Museo Nazionale di San Matteo (depositi).
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Niccolò di Segna Alle tavole n. 38 della Pinacoteca di Siena, laterali di un polittico smembrato, sono state in anni recenti accostate prima una serie scomparti di predella raffiguranti santi a mezzo busto e un Cristo crocifisso1 e, successivamente, una Madonna col Bambino conservata presso la Galleria di Palazzo Cini a Venezia2. È stato possibile così proporre la parziale ricostruzione di un pentittico di notevole impegno, ancora mancante di alcune tavolette dello zoccolo e delle cinque cuspidi3. Le quattro tavole del cosiddetto polittico n. 38 conservano la loro struttura originaria con ordine principale centinato e ordine superiore, dove a ciascuna figura maggiore corrispondono due minori sotto archetti. Alla base di ciascuna tavola una fascia contiene l’iscrizione col nome del santo principale e alcune decorazioni a sgraffito, che ornano anche gli spazi di risulta degli archi in entrambi gli ordini. Queste parti appaiono le peggio conservate, mentre la superficie pittorica vera e propria è in buone condizioni, nonostante alcuni movimenti della struttura lignea abbiano causato delle fenditure verticali, la principale visibile a metà della tavola con San Benedetto. Le cornici sono in gran parte autentiche, mentre l’oro potrebbe essere stato ritoccato4 e tuttavia gli elementi punzonati delle aureole sono originali. Il gruppo è stato riferito a Niccolò di Segna sullo scorcio del XIX secolo da Giovan Battista Cavalcaselle5, che ha così superato la generica attribuzione ad un pittore duccesco utilizzata fin dalla prima redazione del catalogo della Pinacoteca Nazionale di Siena del 18426. La proposta non ha trovato immediata accoglienza e Jacobsen, Perkins, Weigelt e van Marle hanno mantenuto il riferimento generico a un seguace di Duccio, pur concordando con Cavalcaselle in merito alla comune paternità del laterale di polittico con San Bartolomeo e i Santi Giovanni Evangelista e Nicola della stessa Pinacoteca (n. 37)7, come risulta anche in occasione della mostra dedicata a Duccio nel 19128; così inoltre Cesare Brandi, che respinse la proposta di Cavalcaselle ma sottolineò la qualità delle tavole e la vicinanza ai modi di Simone Martini9. Berenson aveva invece fatto poco prima il nome di Segna di Bonaventura, ma accettò poi l’attribuzione a Niccolò10 sulla scorta del fondamentale articolo di Pèleo Bacci del 193511, dopo il quale questo nome è stato raramente messo in discussione (Hueck, Stubblebine, Torriti)12. Non c’è concordanza invece sulla cronologia di queste tavole, per le quali Beatrice Franci suggerisce, come già a suo tempo Brandi, un’esecuzione verso il 1320 circa, agli esordi della carriera del pittore, notando l’ancora forte dipendenza da Segna e valorizzando gli elementi martiniani rilevati anche da Irene Hueck13. Per contro Machtelt Brüggen Israëls ritiene le tavole pertinenti alla prima metà del quinto decennio, in rapporto con quelle del polit-
Matteuzzi 2008, pp. 321-330. Matteuzzi, in La Galleria 2016, pp. 43-47, cat. 4. Questa proposta ricostruttiva è accolta da Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 231 nota 22. 3 Diversamente da quanto altrove proposto (Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, p. 96), vanno probabilmente espunte da questo ideale riassemblamento le tre cuspidi con il Redentore e due Angeli (Raleigh, North Carolina Museum; Cleveland, Museum of Art; cat. 13), tradizionalmente accostate al trittico di San Giovanni d’Asso. La proposta ricostruttiva presente nel catalogo della collezione Cini, errata nel mantenimento della cuspide del Redentore (Matteuzzi, in La Galleria 2016, fig. a p. 46), è emendata da De Marchi e Fattorini nella ricostruzione inserita nel catalogo della recente mostra senese della collezione Salini (De Marchi, in Siena 2017, p. 48, fig. 7). 4 Franci, in Duccio 2003, p. 366. 5 Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 35. Inoltre Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 29 nota 4; Hutton, in Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 23 nota 4. 6 [Pini] 1842, p. 4. [Milanesi] 1852, p. 10. Catalogo 1860, p. 13 (anche Catalogo 1864, p. 13; 1872, p. 11; 1895, p. 18; 1903, p. 18; 1909, p. 13). 7 Jacobsen 1907, p. 24. Perkins 1908, p. 51; Idem 1913, p. 37. Weigelt 1911, p. 198. Van Marle assegna il polittico n. 38 al Maestro di Montalcino: van Marle 1924, II, p. 94; Idem 1934, II, p. 95. 8 De Nicola, in Mostra 1912, pp. 36-37, cat. 86. Lusini 1912, pp. 135-136. 9 Brandi 1933, p. 23. Idem 1951, p. 155. Anche Perkins aveva notato influssi di Simone Martini (Perkins 1913, ibidem). 10 Berenson 1932, p. 524. Idem 1936, p. 341. Idem 1968, I, p. 300. 11 Bacci 1935, pp. 10-11. 12 Irene Hueck (1968, pp. 45, 59) ha pensato ad un collaboratore di Simone Martini, mentre Stubblebine (1979, I, p. 155) ha inserito le tavole nel catalogo della personalità da lui creata del Maestro di Sansepolcro, le cui opere sono quasi tutte da ricondurre a Niccolò; Torriti (1977, p. 83; 1990, p. 39) inizialmente era tornato all’attribuzione generica ad un anonimo senese, per poi accogliere il nome di Niccolò. Per le voci favorevoli all’attribuzione a Niccolò cfr. bibliografia specifica. 13 Franci, in Duccio 2003, pp. 364, 366; Eadem 2013. Per un riferimento al 1325 circa anche Baldini, in Arte a Figline 2010, pp. 120-121, cat. 6. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco tico ricostruito da Gertrude Coor e da lei stessa (cat. 16). Tuttavia entrambe le proposte non sono soddisfacenti. Il confronto con quest’ultimo complesso mostra, al di là delle affinità nella struttura generale delle tavole e nella decorazione delle aureole, una diversa resa delle figure: quelle del polittico n. 38 hanno tratti caratterizzati da una più sensibile volumetria, ottenuta grazie alle sfumature del chiaroscuro (e del sottostante verdaccio) e alle pennellate di luce che modellano i tratti dei volti leggermente foschi; diversamente, i personaggi dell’altro polittico smembrato hanno una stesura più distesa e dettagli più marcati, come ad esempio gli occhi segnati da linee scure. D’altra parte un confronto con la Croce di Bibbiena, chiamata da Franci ad avvalorare la sua ipotesi cronologica, indica piuttosto la posteriorità delle tavole senesi, caratterizzate da un linguaggio più sicuro e maturo, che consente a Niccolò di strutturare corpi più volumetrici e padroneggiare con maggior sicurezza la resa delle fisionomie, che hanno acquisito molti degli elementi più caratteristici della produzione di questo pittore. Tuttavia ha ragione chi nota nelle figure del polittico n. 38 richiami a Simone Martini, ricorrenti in particolare in alcune delle opere più antiche di Niccolò. Così pare pertinente collocare il gruppo senese in quella che potremmo definire la prima maturità di Niccolò, quando il suo stile inizia ad acquisire tratti peculiari, ma sono ancora vicine le sperimentazioni nel solco di Segna e, appunto, di Simone Martini14; sembra pertanto appropriata una datazione entro la metà degli anni Trenta. La tavola della Madonna col Bambino conservata a Venezia è assottigliata e ridotta a forma regolare per la decurtazione della centina e dei lati. Al momento dell’acquisto da parte del conte Vittorio Cini nel 1959 la tavola probabilmente si presentava già con l’aspetto attuale15, che può ritenersi quello originario per quanto riguarda la superficie dipinta; una fotografia storica Brogi riferibile ai primi decenni del XX secolo16 la testimonia invece integrata di uno scapolare e un anello all’anulare destro della Vergine – dettaglio ancora in essere – e ritoccata sui panneggi e sugli occhi di entrambe le figure (fig. 88). La doratura è quasi completamente perduta e il fondo ha il colore rosso-aranciato del bolo; le punzonature delle aureole sono in ogni caso ben conservate. La rimozione delle superfetazioni, riferibili ai decenni a cavallo tra XVII e XVIII secolo17, potrebbe essere avvenuta al momento dell’immissione dell’opera sul mercato negli anni della Seconda Guerra Mondiale, a seguito della cessione da parte dei frati del convento di San Francesco a Prato18, dove la tavola fu vista negli anni Trenta da Perkins e Berenson. I due autori hanno proposto inizialmente un riferimento alla scuola di Duccio, che Berenson ha poi precisato con un’attribuzione a Segna di Bonaventura19. Gertrude Coor è stata la prima a suggerire il nome di Niccolò di Segna, in seguito sempre riproposto20. All’epoca delle ricerche di questa studiosa la tavola era ancora dispersa e nota attraverso la fotografia Brogi; fu Luisa Vertova nel 1968 a riconoscerla nella Madonna in collezione Cini21. Coor ha inoltre ipotizzato che la tavola veneziana costituisse il centrale del polittico da lei idealmente ricostruito con le tavole di San Bartolomeo della Pinacoteca Nazionale di Siena, di Santa Lucia della Walters Art Gallery di Baltimora e di Santa Caterina d’Alessandria e San Maurizio dell’High Art Museum di Atlanta, per il quale Gabriele Fattorini ha convincentemente suggerito la provenienza dalla chiesa senese di San Maurizio22. La condivisa proposta della studiosa americana è stata tuttavia recentemente confutata da Machtelt Brüggen Israëls, che ha dimostrato in meniera definitiva la pertinenza a questo complesso della Madonna col Bambino di Villa I Tatti a Firenze23.
Cfr. cat. 9. Negli archivi della collezione Cini non sono documentati interventi di restauro. È possibile che al suo arrivo la tavola avesse già la parchettatura, invece non è chiaro quando sia stata applicata la cornice moderna. 16 Fototeca Zeri, n. 14252. La fotografia risulta genericamente databile tra il 1900 e il 1940. 17 Perkins 1932a, p. 46. 18 Coor Achenbach 1954-1955, p. 90. 19 Perkins 1932a, ibidem. Berenson 1932, p. 524. Idem 1936, p. 450 (l’opera viene definita “ritoccata”). Con la prima generica indicazione l’opera entra nella collezione veneziana. 20 Coor Achenbach 1954-1955, ibidem. Per gli autori favorevoli a questa attribuzione cfr. bibliografia specifica, con la parziale eccezione di Torriti che inizialmente esprime qualche riserva (Torriti 1977, p. 84). 21 Notizia inserita in Berenson 1968, I, p. 300; più sfumata in Vertova 1968, p. 25. 22 Fattorini 2008a, pp. 177-178. 23 Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 500-504, cat. 80. 14 15
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In virtù dell’antico accostamento la Madonna in collezione Cini è stata spesso riferita al quinto decennio, datazione che conviene al polittico di San Maurizio24; tuttavia l’opera, non diversamente da quanto si osserva per le tavole del polittico n. 38, non sembra ancora toccata dal progressivo accostamento alla lezione lorenzettiana riscontrabile in quel complesso e nelle opere mature di Niccolò. Persistenze duccesche nelle fisionomie e nel trattamento del chiaroscuro avvicinano la nostra tavola alle Madonne riferibili al quarto decennio, quali quella ex Locko Park, la n. 44 della Pinacoteca senese e quella di Montesiepi (cat. 10, 14-15), con la quale la Madonna Cini ha in comune anche lo schema e i motivi decorativi delle aureole. Rispetto all’opera del 1336, d’altra parte, gli sguardi delle due figure veneziane, liberati dagli antichi ritocchi, mostrano una consistenza più languida e carnosa, più prossima alle altre due tavole mariane, a cui si avvicina anche la qualità sfumata degli incarnati. Una datazione anticipata entro la metà del quarto decennio sembra conveniente anche per la Madonna Cini. La concordanza stilistica delle sue componenti pone questo complesso in un momento piuttosto precoce della carriera di Niccolò, in cui il pittore sperimenta la fusione della salda formazione duccesca con alcune delle innovazioni di Simone. Rispetto alla Madonna col Bambino di Cortona, dove questo tentativo è ugualmente attuato, le componenti del polittico dimostrano l’acquisizione di una maggiore abilità nella gestione delle due tendenze in un linguaggio più sicuro ed equilibrato, che supera alcuni schematismi attraverso la reale assimilazione dei vari elementi da cui risulta il suo stile caratteristico, riconoscibile nel corso della sua carriera al di là delle sue numerose evoluzioni. Le otto tavolette con santi a mezzo busto provengono senza dubbio dallo stesso contesto, date la concordanza delle misure e le loro comuni caratteristiche formali e materiali. Si tratta di tavole rettangolari a venatura orizzontale che conservano, ad eccezione della Santa Caterina, una cornice a gola applicata sulla faccia anteriore a delimitare la superficie dipinta e interessate – almeno per quelle di cui si è preso visione diretta25 – da un discreto inarcamento. Inoltre le tavole con Santo Vescovo volto a destra, San Vittore, Santa Caterina e il Santo Vescovo frontale presentano a
24 Per gli autori concordi su questa datazione, confermata anche da Brüggen Israëls (in The Bernard and Mary 2015, ibidem), cfr. Zeri, in Dipinti 1984, pp. 12-13, cat. 8; inoltre Franci 2013. 25 Il Cristo crocifisso del Museo Horne, la Santa Caterina della Pinacoteca senese e i due Santi Vescovi in collezione Salini.
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circa metà della loro altezza una profonda fenditura orizzontale di andamento continuo e discendente, che ne conferma la provenienza da una stessa asse lignea e permette di congetturare la sequenza. Federico Zeri formulò per primo, seguito da Marguerite Guillaume, l’ipotesi della provenienza da una stessa predella per le tre tavole allora note con Santa Caterina, San Vittore e Sant’Orsola26. Solo recentemente la proposta è stata definitivamente accolta e precisata27, superando lo scetticismo dovuto alla forma regolare provvista di cornicette sui quattro lati, del tutto insolita, di questi scomparti di predella con santi28. Al centro dello zoccolo, seguendo la consuetudine di inserirvi una Imago pietatis, doveva trovarsi il Cristo crocifisso del Museo Horne29, come nell’imponente predella frammentaria di Ugolino di Nerio conservata nel Museo Nazionale di Villa Guinigi a Lucca30 (fig. 16), dove ricorre l’arcaismo della croce blu e l’insolita assenza dei Dolenti. La nota
26 Zeri 1978, p. 149. Anche De Benedictis 1979, p. 94 e Guillaume 1980, p. 77; Eadem, in L’art gothique siennois 1983, p. 87. L’accostamento delle due tavole francesi alla Santa Caterina di Siena, con proposta di pertinenza a un medesimo complesso, era già stata avanzata nel 1955 da Michel Laclotte nella sua tesi di laurea (Les peintres siennois et florentins des XIVe et XVe siècles dans le Musées de province français, Thèse pour le Diplome d’Études Supérieures de l’École du Louvre, ms., Paris, 1955, p. 4, cat. 41-42) e confermata tramite una comunicazione scritta a Enzo Carli nel 1969, come riporta Guillaume (1980, ibidem). 27 Matteuzzi 2008. 28 Ancora in anni recenti Beatrice Franci esprime incertezza sulla pertinenza delle quattro tavolette da lei considerate (Santa Caterina, San Vittore, Sant’Orsola e San Francesco) ad uno stesso complesso e ancor di più nell’identificare quest’ultimo con una predella (Franci, in Duccio 2003, pp. 370-372); la studiosa ha concordato in seguito con la proposta ricostruttiva (Eadem 2013). 29 La superficie pittorica appare coperta da una patina di sporcizia e interessata da una consistente craquelure e da numerose abrasioni. Conserva su tre lati (in alto, in basso, a destra) la cornice originale; sul lato sinistro invece il listello è stato sostituito, forse verso il 1912 se, come sembra, si riferisce a questo intervento una nota di pagamento per il restauratore Carlo Coppoli per l’esecuzione di una “piccola cornice a gola per una crocifissione su fondo d’oro”: Firenze, Fondazione Herbert P. Horne, Archivio (d’ora in poi Archivio Horne). 30 L. Bertolini Campetti, in Museo Nazionale 1968, pp. 140-141, inv. 300. L’attribuzione a Ugolino è di Berenson (1932, p. 538), confermata più recentemente da Tartuferi (1998, p. 44).
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d’acquisto da parte di Herbert Horne nel 1904 costituisce la prima notizia relativa al piccolo Cristo31, di cui non si conoscono i precedenti spostamenti. L’attribuzione dell’opera alla scuola di Duccio proposta da Carlo Gamba nel primo inventario della collezione32 e quella a un seguace di Simone Martini proposta da Berenson33 resistettero a lungo senza che si cercasse di precisare l’identità dell’autore, prima che Miklós Boskovits notasse l’affinità tra questo Crocifisso e l’altrettanto esile Cristo dello scomparto centrale del piccolo trittico del Keresztény Múzeum di Esztergom (cat. 2), che in seguito attribuirà a Niccolò di Segna34. La tavoletta Horne è stata assegnata esplicitamente a questo pittore da chi scrive, su indicazione di Andrea De Marchi35. La Santa Caterina d’Alessandria è la tavola più nota della serie, essendo citata nei cataloghi della Pinacoteca di Siena fin dal 1842, ma senza indicazioni di provenienza. Le attribuzioni più antiche sono alla maniera di Duccio36 o al maestro stesso37 o alla sua bottega38, oppure all’ambito di Segna di Bonaventura39; Brandi e successivamente Torriti hanno sottolineato tuttavia anche una componente martiniana40. Una dubbiosa intuizione di Perkins, che aveva suggerito il nome di Niccolò di Segna colto in una fase giovanile41, venne finalmente precisata quasi mezzo secolo più tardi da
31 Le carte d’archivio riportano la nota, redatta da Coppoli, del probabile atto di compravendita: “venduta una crocifissione dipinta in tavola su fondo d’oro” (Archivio Horne, Segn. K.I.1., Anno 1904, c. 9). 32 Gamba 1921, p. 11. Van Marle 1925, V, p. 448. Gamba 1961, p. 26. Rossi 1968, p. 137. 33 Berenson 1932, p. 529; Idem 1936, p. 454; Idem 1968, I, p. 404. 34 Boskovits 1966, cat. 16. Idem 1985b, p. 126. 35 Matteuzzi 2008, p. 321. 36 [Pini] 1842, p. 4. [Milanesi] 1852, p. 9. Catalogo 1860, p. 11. 37 Catalogo 1872, p. 10. Catalogo 1895, p. 13. Catalogo 1903, p. 13. 38 Jacobsen 1907, p. 23. Van Marle 1924, II, pp. 75-77. 39 Lusini 1912, p. 131. Dami 1924, p. 11. Berenson 1932, p. 524. Idem 1936, p. 451. 40 Brandi 1933, pp. 195-196. Torriti 1990, p. 60. 41 Perkins 1908, p. 49 (come approfondimento dell’attribuzione all’ambito di Segna); Idem 1928, pp. 103-104.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco Michel Laclotte nella sua inedita tesi del 1955, in cui prima di Zeri aveva accostato la tavola a quelle con San Vittore e Sant’Orsola del Musée des Beaux-Art di Digione42, già genericamente assegnate alla scuola duccesca da van Marle e ad Andrea Vanni verso il 1400 da John Pope Hennessy43. Alla generale accoglienza della proposta44 fa in parte eccezione Stubblebine, che assegna la Santa Caterina e le tavolette francesi a due mani a suo parere diverse, la prima a Niccolò e le seconde al suo alter ego, il Maestro di Sansepolcro45. Le immagini pubblicate nel catalogo dello studioso americano46 testimoniano le cattive condizioni in cui versavano il San Vittore e la Sant’Orsola sul finire degli anni Settanta: le superfici apparivano scurite da uno spesso strato di sporcizia, abrase e graffiate; la tavola del San Vittore era inoltre spaccata a metà dalla fenditura orizzontale, che è stata in seguito sanata, così come si è provveduto alla pulitura e al consolidamento delle superfici dipinte e dorate e delle cornici (quella del San Vittore, assente nella fotografia storica, è stata integrata). In condizioni simili è la Santa Caterina, priva della cornice47 e con chiari interventi a tratteggio a colmare le perdite dovute in particolare alla fenditura. Abrasioni superficiali sono visibili, soprattutto nelle zone a oro, anche nella tavoletta raffigurante San Francesco d’Assisi, che tuttavia appare in migliori condizioni conservative. Prima di arrivare al Museo Nazionale di Palazzo Reale a Pisa la tavola apparteneva alla collezione Schiff-Giorgini di Roma, nel catalogo del cui sequestro è contenuta la sua prima menzione (1950). Probabilmente immessa nuovamente sul mercato, l’opera venne recuperata nel 1973 nel corso di un tentativo di espropriazione illecita e conseguente passaggio all’estero. Solo recentemente la tavola è stata considerata in senso critico da De Marchi che, seguito da Franci, vi ha riconosciuto la mano di Niccolò di Segna e la relazione con le tavole già citate, ma anche con il Santo Vescovo volto a sinistra comparso sul mercato antiquario nel 199548 e recentemente riapparsovi dopo un passaggio in collezione privata italiana49. Concludono la serie due altri Santi Vescovi, l’uno speculare al precedente e rivolto verso destra, l’altro in posizione frontale. Comparse sul mercato antiquario nel 199250, prima di entrare in collezione Salini le opere erano state ricondotte a Niccolò di Segna e accostate alle altre da chi scrive, ancora su indicazione di De Marchi51. Le buone condizioni della superficie pittorica e, anche se in misura minore, delle parti dorate, già apprezzabili dalle immagini dei primi anni Novanta, sono state consolidate dal restauro a cura di Gianna Nunziati, immediatamente precedente l’ingresso nel castello di Gallico presso Asciano, che si è concentrato sulla riduzione delle fenditure orizzontali52. L’ordine delle figure nella parte sinistra della predella è dettato dalla linea discendente della fenditura a partire dal Santo Vescovo volto a destra, che prosegue dopo un probabile pezzo mancante nel San Vittore, nella Santa Caterina e nel Santo Vescovo frontale, che viene a trovarsi a fianco del Cristo crocifisso. Le figure delle altre tavolette sono volte a sinistra e dunque trovano posto nella metà destra dello zoccolo, dove il Santo Vescovo di tre quarti avrà occupato, come l’altro, la posizione estrema; per la Sant’Orsola si è supposta una collocazione in pendant con l’altra santa mar-
Guillaume 1980, ibidem. Van Marle 1934, II, p. 105. Pope Hennessy 1939, p. 96 nota 6. 44 Berenson 1968, I, p. 300. Frinta 1971, p. 306 nota 7. Zeri 1978, ibidem, con qualche dubbio. De Benedictis 1979, p. 94. Guillaume, in L’art gotique siennois 1983, p. 87. Franci, in Duccio 2003, pp. 370-372. 45 Peraltro Stubblebine individuava nella Sant’Orsola un sant’Ansano (1979, I, p. 156). Del resto per le figure francesi sono state proposte varie identificazioni: con san Leonardo e santa Margherita (Pope Hennessy 1939, ibidem), con san Giuliano e, effettivamente, sant’Orsola (De Benedictis 1979, p. 94). 46 Stubblebine 1979, II, figg. 539-540; Santa Caterina, fig. 479. 47 Al momento della mostra duccesca del 1912 la tavola aveva una cornice moderna: cfr. Lusini 1912, p. 131. 48 Important Old Master 1995, lotto 69. Everett Fahy esprime in questa occasione il parere che il pezzo vada riferito, con San Vittore, Sant’Orsola e Santa Caterina e al polittico n. 38; del resto De Marchi aveva già intuito il collegamento delle tavolette al complesso senese grazie a uno studio privato del 1992 (comunicazione orale). Franci, in Duccio 2003, p. 370. 49 Questa tavola è stata esposta recentemente alla fiera ModenAntiquaria dall’antiquario Moretti (Modena, 10-18 febbraio 2018): cfr. «Il Sole 24 Ore», supplemento domenicale, 4 febbraio 2018. 50 Firenze, Antichità Il Cartiglio, 1992. 51 Matteuzzi 2008. 52 Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 90-97. Sul retro del Santo Vescovo frontale si vede un numero di inventario presumibilmente riferibile al XIX secolo, che sembrerebbe indicare l’appartenenza di almeno questa tavola ad una collezione purtroppo impossibile da identificare. 42 43
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Niccolò di Segna tire, sulla base di esempi forniti dalle predelle integre, cioè essenzialmente su quella di Simone Martini per il polittico di Santa Caterina a Pisa (fig. 15), dove i santi sono disposti in corrispondenze simmetriche (vergini, martiri, vescovi, diaconi); con lo stesso criterio si è pensato che al San Vittore corrispondesse una tavola non pervenuta con un altro santo avvocato di Siena e che il San Francesco potesse trovarsi nella posizione corrispondente alla lacuna a sinistra che potrebbe aver previsto un altro santo mendicante53. L’ultimo pezzo mancante è a destra del Cristo crocifisso, specularmente al Santo Vescovo frontale. Dunque la predella completa doveva essere composta da undici scomparti, compatibilmente con un pentittico in cui alle tavole laterali corrispondessero in basso due santi e tre alla centrale. Nella lettura formale delle tavolette ricorre la considerazione della compresenza di elementi legati a Duccio e a Segna di Bonaventura, che ne costituiscono il fondamento stilistico, e di un linguaggio che richiama Simone Martini. Dalla tradizione duccesca derivano le morfologie dei santi e i forti contrasti chiaroscurali ottenuti grazie alla base scura a verdaccio. A Simone rimandano invece la resa delicata e armoniosa delle figure e il gusto decorativo dei dettagli e delle aureole punzonate54. Le fisionomie dei piccoli santi, la resa chiaroscurale e la preziosità delle vesti corroborano l’accostamento di questo zoccolo al polittico n. 38 e del resto, degli altri grandi polittici noti di Niccolò quello di Sansepolcro conserva la predella originaria con Storie della Passione e quello virtualmente ricostruito di San Maurizio aveva documentatamente uno zoccolo con storie del santo titolare. L’accostamento tra le diverse opere a ricostruire idealmente il polittico si basa su diverse considerazioni di carattere formale e materiale. Un confronto tra la Madonna Cini e il San Michele evidenzia l’analoga resa dei volti dalle guance tondeggianti e rosate e dalle palpebre marcate da lumeggiature, che conferiscono agli occhi un aspetto leggermente rigonfio; simili sulle parti di carne il chiaroscuro fumoso e la disposizione dei tocchi di luce intorno alla bocca, sul mento e sulla canna nasale. Le vesti delle figure veneziane risultano in gran parte compromesse, tuttavia il risvolto del manto della Vergine intorno alla sua mano sinistra non sembra alterato ed è dunque confrontabile col panneggio in corrispondenza della mano sinistra del San Michele, ugualmente articolato. Più in generale, si nota nelle vesti della tavola Cini una ricchezza di finiture e una tavolozza raffinata che ben si accordano con l’aspetto prezioso di tutto il polittico n. 38. Le caratteristiche di queste figure si inseriscono positivamente tra le opere più antiche di Niccolò, riferibili al terzo decennio o poco oltre, e quelle più vicine agli anni Quaranta, in cui si accentua la definizione delle superfici e dei tratti a scapito della delicatezza degli incarnati e dell’articolazione dei dettagli. Con le tavole del polittico n. 38 la Madonna Cini del resto ha in comune anche le caratteristiche delle aureole, con ampia fascia centrale con motivi vegetali a risparmio su fondo granito e fasce marginali punzonate. Il motivo fitomorfo nel nimbo della Vergine corrisponde a quello del San Michele (figg. 89-90); inoltre in entrambe le figure e sull’aureola del Bambino è presente verso l’esterno una banda di punzoni a losanga55, che non compare nelle altre figure principali: una variatio forse introdotta per rimarcare la dignità del santo in posizione d’onore. Questa sorta di gerarchia decorativa può giustificare la diversa finitura esterna dei nimbi della Madonna e del Bambino, realizzata con un punzone a cuspide trilobata. L’aureola del Bambino contiene altri due punzoni rintracciabili nell’ordine superiore: il fiore a quattro petali frangiati e il fiore a sei petali con tondi inscritti decorano rispettivamente i nimbi del San Giovanni Gualberto e del Sant’Andrea56 (figg. 54-55). Le corrispondenze dei punzoni proseguono anche nelle tavolette della predella e rappresentano, insieme al dato stilistico, un importante elemento a sostegno alla proposta di accostamento di questa serie con le tavole principali. Il fiore a cinque petali con bocciolo centrale, presente nelle aureole del San Vittore, del San Francesco e del Santo Vescovo frontale, ricorre nell’ordine superiore nel San Giovanni Battista e nel San Giovanni Evangelista57,
53 L’assenza della fenditura sulle tavole del Cristo crocifisso e dei santi volti a sinistra suggerisce che il danno si sia manifestato dopo la separazione degli scomparti, in un momento non precisabile. 54 Cfr. in particolare Franci, in Duccio 2003, p. 370 e Matteuzzi 2008, p. 323. Ma anche Torriti 1990, p. 60, che attribuisce la Santa Caterina ad un “seguace di Duccio e di Simone Martini”. 55 Skaug 1994, I, p. 221; II, n. 48. Frinta 1998, p. 78, n. Ba8b. 56 Frinta 1971; Idem 1998, pp. 419, 507, nn. Jd55, La89a. Skaug 1994, II, n. 363 (fiore frangiato, con Ugolino). 57 Questa forma comune, che differisce per piccoli dettagli e pochi millimetri da molte altre frequentemente usate da pittori fiorentini e senesi, risulta di difficile individuazione tra quelle inserite da Skaug (1994) nel suo elenco di punzoni e da Frinta (1998) nella sua sezione K, nessuna direttamente riferita a Niccolò di Segna.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
88. Cat. 11a, ante restauro
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Niccolò di Segna che ha la medesima decorazione con alternanza di coppie di piccole foglie cuoriformi del San Francesco58; foglie che si trovano, raccolte in una composizione di quattro elementi, nell’aureola della Santa Caterina (fig. 51) e del Santo Vescovo frontale ma anche nei giri esterni dei nimbi dei santi dell’ordine principale. La Santa Caterina ha inoltre una serie di punzoni a quadrilobo allungato che si trovano anche nel San Lorenzo dell’ordine superiore59 (fig. 50). Il Santo Vescovo rivolto a destra e la Sant’Orsola (fig. 53) presentano una serie di punzoni apparentemente ottenuti dall’accostamento di quattro cuspidi: lo stesso elemento del nimbo della Santa Lucia, che è rifinito con un solo circolo al centro, mentre nella predella le composizioni sono completate da cinque grandi punti60. Entrambi i gruppi di santi di piccole dimensioni hanno nimbi decorati con punzoni su fondo granito ma, a differenza di quelli dell’ordine superiore, che presentano un semplice giro di punzoni circolari tra due fasce lisce, le aureole dei santi della predella sono rifinite all’esterno con serie di piccoli stampi a fiore tra due di punzoni circolari, allo stesso modo – sebbene con elementi di diverse dimensioni – dei nimbi dei santi dell’ordine principale. La decorazione delle parti dorate assume dunque, nel complesso così ricomposto, l’aspetto di un gioco di rispondenze e variazioni incrociate tra i diversi ordini. Le osservazioni stilistiche e formali trovano purtroppo scarso sostegno nelle caratteristiche materiali delle carpenterie, principalmente per via delle compromesse condizioni del supporto del dipinto veneziano, poiché l’assottigliamento della tavola e la conseguente perdita degli alloggiamenti dei cavicchi non permette una verifica definitiva del nesso con i laterali senesi, che invece conservano tre doppie serie di fori, di cui solo i più piccoli e profondi probabilmente originali61. Le misure note dei vari pezzi del polittico consentono in ogni caso di procedere a una ricostruzione ideale basata su alcuni dati certi. Alle quattro tavole laterali possono essere abbinati i pezzi della predella, che, larghi circa 20 cm, hanno lo spazio sufficiente per inserirsi a coppie sotto ciascuna di esse, larga circa 43,5 cm (compresi gli antichi alloggiamenti dei contrafforti). In particolare, in base alla già proposta sequenza dello zoccolo, dovrebbero essere complete le coppie da porre sotto la tavola di San Nicola e sotto quella di San Michele, con la Santa Caterina mancante però della cornice; così facendo e integrando le parti mancanti con riquadri di 20 x 25 cm (in media con le minime variazioni delle dimensioni delle tavolette superstiti), si ottiene uno spazio di scansione dei riquadri sotto ciascuna coppia di tavole laterali di circa 2,2 cm, da applicare a tutta la sequenza, compresi quindi i tre scomparti corrispondenti alla tavola maggiore. A giudicare dagli scarsi resti di colore scuro che si osservano sui lati dei due Santi Vescovi Salini e del Cristo crocifisso Horne, questi spazi di raccordo dovevano essere decorati con delle pitture di riempimento, in linea con le decorazioni degli spazi di risulta delle tavole maggiori, ma necessariamente più semplici. Al centro, è possibile ottenere le dimensioni della superficie dipinta originaria della Madonna col Bambino ricostruendo la linea curva grazie ai tratti di circonferenza pertinenti alla centina, conservati su entrambi gli angoli superiori della tavola. Completando dunque l’arco si ottiene un’altezza totale di 83,3 cm dalla chiave dell’intradosso della centina alla base della tavola e un’integrazione sui due lati di poco meno di 6 cm62, per una larghezza complessiva di 55,3 cm. Queste misure sono da intendersi prive della cornice della centina stessa, che deve andare a integrare ulteriormente la ricostruzione della tavola, secondo la forma di quelle laterali – alla medesima altezza delle quali si imposta convenzionalmente quella centrale – e in proporzione maggiore63. È impossibile tuttavia risalire a una misura precisa e sicura dell’ampiezza della tavola veneziana, che deve comprendere, oltre allo spazio corrispondente alla cornice, gli alloggiamenti dei contrafforti. I tre scomparti centrali della predella, comprensivi degli spazi di
Skaug 1994, II, n. 650 (con Ugolino). Frinta 1998, p. 320, n. I66a. Skaug e Frinta non schedano questo punzone di Niccolò di Segna insieme a quelli simili usati da altri artisti. 60 Skaug 1994, II, tav. 7.3, n. 347. Frinta 1998, p. 392, n. Jb76. 61 Sulla tavola del San Michele, misurando dalla spalla in alto, si trovano, oltre a un tassello quadrato a 9 cm, un foro grande a 13,5 cm e uno piccolo a 17 cm (occluso); uno grande a 50,5 cm e uno piccolo a 57 cm; uno piccolo a 97 cm e uno grande a 105 cm; così i tre fori piccoli, profondi circa 6 cm, si trovano a una distanza costante di 40 cm, mentre i tre più grandi, profondi circa 1,7 cm, sono distanti 37 e 54,5 cm. Sulla tavola del San Bartolomeo si trovano un foro grande a 12 cm e uno piccolo a 17 cm (occluso); uno grande a 54 cm (occluso) e uno piccolo a 61 cm; uno piccolo a 97 cm (occluso) e uno grande a 104 cm; così i tre fori piccoli, l’unico libero profondo 4,5 cm, si trovano a una distanza di 44 e 36 cm, mentre i tre più grandi, profondi circa 1,5 cm, sono distanti 40 e 50 cm. 62 Cm 2,5 circa a sinistra e cm 3,3 a destra. 63 In corrispondenza dell’imposta le cornici degli archi delle figure laterali abbandonano la linea precisa della loro circonferenza per scendere brevemente con andamento lineare. 58 59
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco scansione, forniscono un’indicazione di larghezza di 65 cm, con una differenza di circa 10 cm rispetto alle dimensioni ricavate per la sola superficie dipinta. L’approssimazione, necessaria in assenza di dati materiali stringenti, è plausibile. Tuttavia non è da escludere che, come in altri contemporanei esempi senesi, lo zoccolo del polittico n. 38 fosse costituito non da una semplice tavola incernierata alla zona inferiore delle tavole principali, ma da una cosiddetta “predella-box”, cioè da un elemento indipendente realizzato come una sorta di scatola lignea, su cui poggiava il complesso maggiore: una sorta di corpo avanzante che poteva superare ai lati le tavole principali, rendendo meno stringenti le misure ricavabili dalla sua ricostruzione, senza tuttavia smentire l’accostamento64. Pur avendo preferito mantenere nella ricostruzione grafica il referimento alla misura in ogni caso meno aleatoria fornita dalla predella, bisogna tenere presente che la Madonna col Bambino centrale potrebbe aver avuto un’ampiezza un poco inferiore, forse meglio proporzionata all’intero complesso. Su questa base la tavola centrale, posizionata al di sopra di uno “scalino” di 9 cm che, come in quelle laterali, doveva contenere un’iscrizione, è stata idealmente integrata dell’ordine superiore e delle parti decorative e di raccordo, ancora una volta adattando alle sue dimensioni maggiori gli stessi rapporti dimensionali dei corrispondenti elementi delle tavole laterali (fig. 91). L’indagine delle relazioni strutturali dello schema così ricomposto ha fatto emergere precise scansioni compositive (fig. 92). Nei laterali, completamente analizzabili nei loro elementi originali e nelle loro misure reali, i rapporti sono ricavati dalla struttura lignea e dalle componenti decorative della carpenteria, comprese in particolare le cornici. L’ordine principale – intendendo lo spazio compreso tra la linea superiore del titulus e la linea inferiore della cornice orizzontale che separa i due ordini di figure – risulta scandito in senso verticale secondo una suddivisione in tre parti uguali (linee rosse): un terzo dell’altezza è destinato alla centina, i restanti due terzi compongono il resto della tavola. Il rapporto si riduce alla metà di questo terzo nell’ordine superiore, considerando la superficie dipinta compresa tra la base degli scomparti e la chiave dell’intradosso degli archetti (linee blu). Ciascun terzo della scansione delle figure principali corrisponde al diametro di una circonferenza perfettamente sovrapponibile ai compassi esterni delle aureole dei quattro santi principali e inoltre coincidente con l’altezza delle tavole della predella, che risulta dunque impostata sullo stesso rapporto costruttivo delle corrispettive tavole in alto. Un rapporto per terzi, ma di diversa natura, informa anche la tavola integrata della Madonna col Bambino, in cui sono contenute una circonferenza intera – corrispondente all’arco della centina65 – e una semicirconferenza di pari diametro, tangente al punto inferiore della prima e perfettamente inserita entro la base nota della pala (linee verdi). Ciò suggerisce che la superficie dipinta non prevedesse in basso ulteriori integrazioni al di là della fascia dell’iscrizione, immediatamente sottostante. I rapporti costruttivi, comprensivi anche delle mezzerie di ciascuna tavola (linee grigie), risultano inoltre scandire la disposizione delle figure, dimostrando di essere state considerate da Niccolò al momento della realizzazione dei vari santi, che si adattano agli schemi da esse dettati. La linea ideale del terzo superiore dell’ordine principale (linea C) – che coincide con le strutture d’imposta delle centine – corrisponde al mento dei Santi Michele e Bartolomeo, più prossimi alla Madonna. Quella del terzo inferiore (linea B) limita la zona delle mani dei quattro santi: risulta tangente alla destra del San Benedetto e alla sinistra dell’arcangelo, il gallone della cui manica destra poggia subito sopra, così come la mano benedicente dell’apostolo; inoltre, la stessa linea corre parallela e molto prossima al libro retto dal San Nicola. Se la mezzeria della tavola del San Michele (linea 2) segue la linea del gallone verticale della sua veste, le scansioni ideali dell’ordine superiore sembrano individuare più semplicemente le aree della testa, del tronco e delle mani delle piccole figure. È di grande interesse notare come le linee orizzontali delle tavole laterali abbiano una corrispondenza anche su quella centrale: come per i santi maggiori, la linea del terzo superiore (C) passa in
64 Cfr. De Marchi 2009, p. 86. La predella della Maestà di Duccio era incernierata, mentre il polittico di Simone Martini per Santa Caterina a Pisa potrebbe aver avuto una “predella-box”. Secondo Norman Muller (1994, pp. 53-60) tale era il caso del polittico di Santa Croce di Ugolino di Nerio, per cui questo elemento di carpenteria avrebbe dovuto servire anche come sostegno dei contrafforti laterali. Non permettono di chiarire la questione le tracce di preparazione bianca intervallate dai segni di due battenti verticali a distanza di circa 10 cm sul retro delle tavolette dei due Santi Vescovi Salini (Matteuzzi 2008, p. 321; Eadem, in La Collezione 2009, I, p. 90), in cui è difficile individuare gli elementi di rinforzo tipici della “predella-box” piuttosto che i rompitratta delle predelle piatte. Sul retro del Cristo crocifisso non sono stati rilevati segni particolari. 65 Il diametro è 55,3 cm.
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Niccolò di Segna corrispondenza del mento del Bambino, mentre la linea del terzo inferiore (B) attraversa con precisione il punto in cui le mani della Madre e del Figlio si incontrano. Gli stessi riscontri ricorrono tra le linee pertinenti alla Madonna rispetto alle tavole laterali. La proiezione orizzontale del diametro del cerchio corrispondente alla centina (linea L), che incrocia la mezzeria della tavola sul mento della Vergine, corre esattamente lungo la linea degli occhi del San Michele e del San Bartolomeo. Questo schema di correlazioni incrociate, insieme alla coerenza dimensionale e alla ricorrenza dei rapporti costruttivi, sopperisce all’assenza di sicuri dati materiali con cui confermare la pertinenza della Madonna Cini al polittico n. 3866. Corrispondenze legate alla ricostruzione della struttura della tavola centrale offrono in questo senso un ulteriore contributo: dal disegno si nota come la chiave dell’arco che delimita la superficie dipinta sia coincidente con la linea ideale del terzo inferiore dell’ordine superiore (linea F). Nella ricostruzione del complesso, le cui tavole dovevano essere scandite dalla presenza di contrafforti, testimoniata dalle tracce degli alloggiamenti ancora visibili sui pezzi conservati in Pinacoteca, resta incerta l’identificazione degli elementi superiori. L’inclinazione della sommità delle tavole laterali del polittico n. 38 lascia presumere la loro prosecuzione in una forma triangolare con una misura di base di circa 25 cm, il cui vertice viene a cadere su una delle linee che proseguono la scansione ideale dell’ordine superiore. Si tratta dunque di elementi analoghi alle cuspidi con Angeli di Cleveland, già proposti per un accostamento insieme al Redentore di Raleigh, ma più tradizionalmente riferiti al polittico di San Giovanni d’Asso (cat. 12-13)67. Il polittico così ricomposto doveva raggiungere una larghezza di circa 248 cm e un’altezza di circa 230 cm68. Sulla questione della provenienza delle tavole laterali del polittico n. 38 si è espressa Anna Padoa Rizzo, che, grazie al riconoscimento della figura di san Giovanni Gualberto tra i santi dell’ordine superiore, ha potuto suggerire una pertinenza vallombrosana. Anche in considerazione del fatto che il complesso fu inserito tra le collezioni dell’Accademia delle Belle Arti di Siena (poi Pinacoteca Nazionale) almeno dal 1842, quando fu redatto il primo catalogo69, la studiosa ha ritenuto plausibile la provenienza dall’area cittadina, individuando la probabile sede originaria del polittico nella badia di San Michele in Poggio San Donato, da cui viene documentatamente anche la Croce n. 46 del 1345 (cat. 18); proposta corroborata dalla presenza dell’arcangelo in posizione d’onore a destra dell’immagine centrale e di san Benedetto, a volte citato come cotitolare dell’abbazia senese70. Recentemente una conferma indiretta di questa ipotesi è stata individuata in un testo seicentesco: nel corso di una ricerca sulle fogge dell’abito francescano pubblicata nel 1652 da Nicolò Catalano, fra’ Antonio Maria Lisi nel 1648 riproduce e commenta la figura di san Francesco (fig. 93) tra quelle di un’opera con varie immagini di santi posta sul fianco sinistro della chiesa senese di San Donato, leggendovi la firma “Nicolaus Segie de Senis” accompagnata dalla data
Dalle radiografie recentemente realizzate presso la Fondazione Cini si può ricavare almeno quella che pare essere la traccia di un foro di chiodo alla sommità del capo della Vergine (a circa 5 cm dal bordo superiore della tavola): un analogo elemento era servito a Machtelt Brüggen Israëls (che ringrazio per la squisita disponibilità a condividere riflessioni e informazioni), con l’aiuto del dato di un cavicchio, per accertare la pertinenza della Madonna dei Tatti al polittico ricostruito da Coor per la corrispondenza col battente orizzontale che nella tavola con San Bartolomeo della Pinacoteca senese (n. 37) corre a circa metà dell’altezza dell’ordine superiore. In questo caso il presunto foro di chiodo non sembra corrispondere a tracce di battenti e, se originale, potrebbe semmai essere pertinente ad un perduto elemento di rinforzo o sostegno del polittico. Non è stato possibile prendere visione del retro delle tavole della Pinacoteca, sulle quali tuttavia si rilevano due alloggiamenti di battenti ricavati nello spessore del legno, entrambi di 8,5 cm: l’uno in corrispondenza dell’ordine superiore, a circa 8 cm dalla spalla in alto; l’altro in basso, che sorpassa di poco il limite del titulus. Nei due casi l’alloggiamento ospita una traversa di legno per circa la metà dell’altezza: posta in corrispondenza del margine inferiore in alto, viceversa in basso. 67 Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 96-97; successivamente Eadem, in La Galleria 2016, p. 43. Le dimensioni delle punte di Cleveland risultano peraltro perinenti alle tavole laterali n. 38 e inserendole con le giuste proporzioni nel disegno ricostruttivo si può osservarne l’effettiva corrispondenza rispetto alle linee del decoro pittorico inserito tra gli estradossi degli archetti dell’ordine superiore, da integrare con circa 2 cm di cornice lignea perduta nei pezzi ora in America, ma presente sulle tavole senesi. 68 Le ricostruzioni grafiche e le relative riflessioni non sarebbero state possibili senza il contributo fondamentale dell’Arch. Lorenzo Matteoli, al quale devo anche l’intuizione dell’utilità di analizzare i rapporti strutturali delle tavole e la mediazione visiva di queste indagini, realizzata con paziente competenza. 69 Cfr. [Pini] 1842, p. 4, cat. 32. 70 Padoa Rizzo 2002, pp. 72-73. 66
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco 126071. Beatrice Franci, a cui si deve la valorizzazione di questa notizia, ha identificato il san Francesco con lo scomparto della predella qui ricomposta e l’intero complesso con le tavole laterali del polittico n. 38 di Niccolò, collocandolo nella chiesa della badia di San Michele72. Un passaggio di Fabio Chigi dimostra in effetti come almeno nel XVII secolo la denominazione San Donato potesse essere applicata, come una sorta di contrattura, alla badia vallombrosana, che il religioso cita nel 1625-1626 come “Abbadia a San Donato”73, riportando inoltre un interessante elenco delle opere qui conservate: tra queste una “tavola de la Madonna con quattro Santi Duccius Boninsegnae 1310”74. Credo sia possibile, nonostante la firma illustre, che proprio col polittico n. 38 si possa identificare quest’opera e che Chigi possa aver travisato e integrato l’iscrizione probabilmente guasta, come indica anche l’errore di Lisi: mi sembra possibile che il futuro papa Alessandro VII abbia potuto fraintendere la firma, forse ben leggibile solo nella parte finale “Segne” (o, meno probabilmente, “Segnae”), completandola con un nome più prestigioso di quello di Niccolò75. Che i due autori stiano descrivendo la stessa opera è poi tutt’altro che smentito dalla lettura delle date, solo apparentemente discrepanti: supponendo che solo una parte delle lettere si fosse conservata, è possibile che in questo caso Chigi sia stato più preciso nel leggervi “MCCCX”, mentre Lisi avrebbe travisato la penultima cifra ottenendo “MCCLX”; ad ogni modo, il seguito dell’iscrizione era probabilmente abraso di almeno altre due X. Così dunque, sebbene probabilmente spostato dall’originaria collocazione sull’altare maggiore, più pertinente che non quella laterale tramandata da Lisi, il polittico si trovava nel Seicento ancora in quello che doveva essere il suo contesto primitivo ed era verosimilmente ancora integro se, come probabile, la perduta firma di Niccolò era posta in calce alla tavola centrale, laddove in quelle laterali si trova il nome dei quattro santi maggiori, come già nel polittico di Santa Croce di Ugolino di Nerio, secondo la testimonianza del disegno pubblicato da Henri Loyrette (Vat. Lat. 9847, f. 92r)76, e in quello di Arezzo di Pietro Lorenzetti. Nel 1683 la badia di San Michele in Poggio San Donato passò all’Ordine dei Carmelitani Scalzi, che a partire dal 1691 avviò una profonda campagna di rimaneggiamenti al complesso monastico e alla chiesa di San Michele77. L’ondata di rinnovamento potrebbe aver comportato interventi anche sul polittico. La superfetazione già presente sulla Madonna col Bambino di Venezia viene ad essere un elemento chiave della proposta di ricostruzione e collocazione del polittico n. 38, costituendo un importante legame coi nuovi proprietari dell’abbazia, che potrebbero aver smembrato la tavola centrale o almeno provveduto al suo rimaneggiamento pittorico per adeguare l’immagine a quella propria della Madonna del Carmelo con l’aggiunta dello scapolare, dono della Vergine a san Simone Stock e perciò attributo tradizionale carmelitano78. Pur non potendone precisare l’epoca, la resecatura della tavola veneziana suggerisce una sua ridestinazione devozionale, separata dalle altre componenti del polittico, il che potrebbe spiegare il diverso destino del centrale, che non fu acquisito dalla Pinacoteca nel XIX secolo e restò probabilmente ancora presso i Carmelitani di Siena.
Catalano 1652, p. 477. “In Ecclesia, que dicitur Ecclesia Sancti Donati, huius civitati Senarum, in latere sinistru, ab ingressu, reperitur unicum altare ligneum, et pictum varijs imaginibus Sanctorum, iter quas adest imago S. P. N. Francisci, prout iacet, cum Caputio ab habitu distincto, cum verbis charactere antiquissimo, scilicet. Nicolaus Segie de Senis, me pinxit anno 1260”. 72 Franci 2013. 73 La chiesa di San Michele acquisirà poi, effettivamente, la dedicazione a San Donato nel 1816, dopo la soppressione della vicina parrocchia intitolata al vescovo martire in via dei Montanini. Di recente, smentendo erroneamente Franci, avevo peraltro supposto che proprio a questa chiesa si riferisse Lisi, ipotizzando uno spostamento del polittico dalla chiesa abbaziale sulla base del secolare rapporto tra San Donato e la badia di San Michele, a cui la chiesa in via dei Montanini era legata fin dal tempo della fondazione del monastero senese nel 1109 per volontà della badia di San Michele Arcangelo a Passignano nel Chianti (Tavarnelle Val di Pesa): ne costituì il nucleo originario, pur restandole esterna e venendone presto separata dalla costruzione della cerchia muraria del XII secolo (Venerosi Pesciolini 1932, pp. 256-257; Liberati 1959, pp. 178-182; Fiorini 1991, pp. 37, 131-132; inoltre I ‘sunti’ 2003, I, p. 139). Cfr. Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 44. 74 Bacci 1939, p. 319. 75 Sulla scorta di questa iscrizione Gabriele Fattorini (in The Alana, in cds) scarta l’ipotesi che la nota seicentesca si riferisca al polittico di Luca di Tommè, da lui considerato per quella scheda del catalogo della collezione Alana di New York. 76 Loyrette 1978, pp. 15-23, fig. 21. Muller 1994, p. 46 nota 7, fig. 1. La proposta di identificare san Donato nel vescovo in posizione frontale della predella deriva dalla posizione preminente a fianco del Cristo crocifisso, con cui si sarebbe reso onore al luogo su cui sorgeva l’abbazia (Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 90-97). 77 Vasaturo 1962, pp. 473-474. 78 Cfr. Roschini O.S.M 1961, p. 452. Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 44. 71
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Niccolò di Segna
89. Cat. 11b, dettaglio dell’aureola di San Michele Arcangelo 90. Cat. 11a, dettaglio dell’aureola della Vergine La provenienza della Madonna Cini da San Francesco a Prato non è in effetti probante per una sua presenza ab antiquo presso quel convento e in generale quella città, come puntualizzava già Federico Zeri nel primo catalogo della collezione veneziana79. Le descrizioni sei-sette-ottocentesche della chiesa di San Francesco non contengono riferimenti a un’opera accostabile alla nostra Madonna80, di cui non si fa cenno neppure nei diversi interventi del volume dedicato ai restauri neogotici dell’edificio del 1902-1904, attenti invece a valorizzarne gli elementi più antichi ancora presenti o solo documentati81. Promotore del ripristino fu Elia Tarabella (1865-1936), frate dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, insediati a San Francesco dal 1818, dopo il periodo trascorso presso la chiesa della Pietà fin dal loro arrivo a Prato nel 1699. Se, alla luce di quanto detto, appare improbabile che la trasformazione barocca della Madonna Cini possa essere imputata alla comunità carmelitana pratese – che avrebbe dovuto avere a disposizione un’opera senese di cui non si hanno notizie antiche, non essendo peraltro documentata l’attività di Niccolò a Prato –, la pertinenza a quest’Ordine rappresenta un interessante trait-d’union con il convento senese e può contribuire a giustificare l’arrivo della Madonna a Prato, magari dopo la riapertura novecentesca della chiesa già francescana. Lo stesso Tarabella, che
Zeri, in Dipinti 1984, pp. 12-13. La più antica descrizione risale a dopo il 1655 ed è contenuta in una miscellanea conservata presso la Biblioteca Olivetana di Pesaro (ms. 1687, d, Descrizione della chiesa di Prato, cc. 332r-337v): Marchini 1956, pp. 33-44; insieme a questa, altre descrizioni successive sono riportate in Gurrieri 1968, pp. 24-31 (cfr. Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43). Inoltre la storia e le descrizioni dal XIII al XX secolo sono ripercorse in Nannini Berti 1982, pp. 9-98. 81 Si occupa in particolare di questo aspetto l’intervento di Gaetano Guasti (La chiesa 1904, pp. 7-18). 79 80
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91. Proposta di ricostruzione del polittico n. 38 di Niccolò di Segna (elaborazione grafica Arch. Lorenzo Matteoli)
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92. Grafico dei rapporti strutturali e compositivi del polittico n. 38 di Niccolò di Segna (elaborazione grafica Arch. Lorenzo Matteoli)
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93. Riproduzione della figura di San Francesco d’Assisi (Catalano 1652) lasciò Prato prima del 1915, quando gli fu affidata la parrocchia di Roccastrada (Grosseto), potrebbe aver avuto un ruolo decisivo: plausibilmente in contatto con la casa senese, il carmelitano avrebbe potuto richiedere l’opera con lo scopo di abbellire la chiesa da lui rinnovata con opere di stile pertinente oppure, più prosaicamente, già a scopo di vendita, anche alla luce della sua nota attività di ricettatore, che durante il soggiorno pratese lo portò ad esempio a vendere una Madonna col Bambino all’antiquario e mercante Elia Volpi82. I risultati di questa riflessione permettono infine, a corollario, di riconsiderare criticamente l’ipotesi della provenienza dalla badia di San Michele in Poggio San Donato dello smembrato polittico giovanile di Luca di Tommè riferibile al 1360 circa, ipotizzata da Gaudenz Freuler in occasione dello studio dedicato alla sua ricostruzione83 (fig. 94). La proposta dello studioso svizzero si basava in particolare sulla presenza in posizione d’onore, anche in questo caso,
Marchini 1956, p. 35. Quest’opera non può corrispondere alla Madonna di Niccolò perché i due contraenti morirono prima dello scoppio della Seconda Guerra, Tarabella nel 1936 e Volpi nel 1938. Tarabella perpetrò le sue attività illecite anche dopo aver lasciato Prato, come riporta la nota redatta nel 2012 per conto della Diocesi di Grosseto: http:// www.sanminiato.chiesacattolica.it/pls/cci_dioc_new/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=14200 83 Freuler 1997, pp. 23-25. Le parti recuperate raffigurano: nell’ordine principale San Giovanni Gualberto (collezione privata), San Michele Arcangelo (New York, collezione Alana), San Giovanni Evangelista (Los Angeles, J.P. Getty Museum), San Bernardo degli Uberti (collezione privata); nell’ordine superiore, di cui sono state individuate solo due coppie di santi, due Apostoli e i Santi Pietro e Paolo (rispettivamente presso la Fondazione Longhi a Firenze e in collezione privata); nella predella, ancora mancante dell’ultimo scomparto, la Natività (collezione privata), l’Adorazione dei Magi (Madrid, collezione Thyssen-Bornemisza), la Crocifissione (San Francisco, Fine Art Museum), la Presentazione al Tempio (collezione privata); inoltre è stato accostato a questo complesso il Cristo benedicente del North Carolina Museum of Art di Raleigh (ex Kress n. 1741). 82
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Niccolò di Segna dell’arcangelo titolare dell’abbazia ed è stata sostenuta, pur dubitativamente, anche dopo che Padoa Rizzo aveva individuato nel polittico n. 38 una plausibile alternativa84. Per quanto vicino alle posizioni di Freuler, Fattorini si è recentemente soffermato anche sulla possibilità che l’opera di Luca fosse in realtà destinata alla Badia di Passignano, citando la succinta notizia riportata da Nicola Vasaturo dell’arrivo qui di un polittico da Siena nel 135885, data perfettamente convincente per il complesso di Luca di Tommè, che precede di poco quello degli Umiliati in collaborazione con Niccolò di Ser Sozzo del 1362. Lo studioso ha inoltre osservato che i documentati furti perpetrati in quel periodo dagli stessi monaci ai danni del patrimonio dell’abbazia di Poggio San Donato, insieme al dissesto morale dovuto alla scandalosa condotta di alcuni di loro, non avrebbero garantito il terreno adeguato alla commissione di un polittico di tale importanza86. A sostegno di questa congettura è possibile oggi portare la suggestiva prova “visiva” offerta dall’affresco della Ricognizione delle reliquie di San Giovanni Gualberto nel ricetto della cappella dedicata al santo a sinistra della cappella maggiore della chiesa di San Michele della Badia di Passignano (fig. 96), realizzato alla fine del XVI secolo da Giovanni Maria Butteri, collaboratore di Alessandro Allori, attivo qui con la sua bottega alla decorazione del nuovo sacello destinato ad accogliere le spoglie del fondatore dell’Ordine, già conservate nella cripta87. Nella scena, che ricorda l’evento dell’8 novembre 1580, immediatamente precedente alla realizzazione dell’affresco, un gran numero di monaci affolla la stessa zona presbiteriale della chiesa, colta nel corso della completa ristrutturazione avviata nella seconda metà del Cinquecento88. Sullo sfondo, in alto a destra, è riprodotto un grande pentittico a più ordini nei cui scomparti si riconoscono i contorni di alcune figure di santi e profeti e della Madonna col Bambino al centro (fig. 95), che di lì a poco avrebbe lasciato il posto nella cappella maggiore alle tele del Passignano. Solitamente trascurato, questo dettaglio della figurazione è stato interpretato come la riproduzione del polittico commissionato dai monaci di Passignano nel 1372 a Jacopo di Mino del Pellicciaio89, eventualità smentita da un’attenta rilettura del documento trascritto da Gaetano Milanesi, che nel relativo cappello introduttivo affermava erroneamente che l’opera citata nel testo era destinata all’altare maggiore dell’abbazia chiantigiana90. In realtà il documento, ricco di informazioni, testimonia l’allogagione al pittore senese di un trittico con al centro la Pentecoste affiancata dai santi Caterina e Antonio Abate, nelle cuspidi (o nell’ordine superiore) Dio Padre e la coppia dell’Annunciazione e nella predella quattro storie di santa Caterina. La descrizione non corrisponde all’immagine dell’affresco e in ogni caso nel documento non si accenna alla destinazione sull’altare maggiore, bensì su un altare ancora da individuare da parte dell’abate91. Peraltro non è neanche sicuro che il polittico di Jacopo sia stato effettivamente eseguito92. Nello spazio presbiteriale della chiesa si può dunque immaginare un’altra opera, che il confronto tra l’affresco e la proposta ricostruttiva del polittico di Luca di Tom-
S. D’Argenio, in La Fondazione 1980, p. 242. S. Chiodo, in Caravaggio 2009, p. 70; la studiosa propone anche come alternativa minoritaria la provenienza dall’Abbazia Nuova di Siena. Fattorini, in The Alana, in cds. In alternativa De Marchi aveva supposto che il polittico di Luca di Tommè potesse aver sostituito quello di Niccolò sull’altare maggiore della chiesa abbaziale vallombrosana di Siena a pochi decenni di distanza: De Marchi 2009, p. 85. 85 N. Vasaturo, in La Badia 1988, p. 6. Fattorini, in The Alana, in cds. 86 Venerosi Pesciolini 1932, pp. 263-264. I ‘sunti’ 2005, II, p. 273. Fattorini, in The Alana in cds. 87 Cherubini 2014, pp. 13-30. 88 Moretti 2014, pp. 137-154. 89 La Badia 1988, p. 21. Cherubini 2014, p. 22. 90 Milanesi 1854, I, pp. 269-272, doc. 71. I ‘sunti’ 2005, II, p. 280. 91 Il documento recita: “[tabulam] pictam, positam et actam super altare dicti Monasterii [Passignano], super quo idem domnus Martinus Abbas predictus deputaverit ponendam vel locandam”. Dovevano inoltre completare l’opera piccole figure delle sante Maria Maddalena e Agnese ai lati della predella e quelle dei santi Pancrazio, Gregorio, Lorenzo, Benedetto, Brigida e Nicola nei contrafforti. Cfr. Milanesi 1854, I, p. 270; I ‘sunti’ 2005, II, p. 280. 92 Me lo conferma Giovanni Giura, che a questo pittore ha dedicato un capitolo di approfondimento all’interno della sua tesi di dottorato: G. Giura, San Francesco ad Asciano. Un osservatorio per lo studio delle chiese minoritiche toscane, Tesi di Perfezionamento, Scuola Normale Superiore di Pisa, 2017. Da questo lavoro è tratto il volume: San Francesco di Asciano. Opere, fonti e contesti per la storia della Toscana francescana. 84
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94. Proposta di ricostruzione del polittico di Luca di Tommè (Freuler 1997)
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95. Giovanni Maria Butteri, La ricognizione delle reliquie di San Giovanni Gualberto (dettaglio fig. 96). Tavarnelle Val di Pesa, Badia a Passignano, chiesa di San Michele Arcangelo mè spinge a individuare proprio in quest’ultimo93. Collimano infatti la forma delle tavole, rastremate in alto in corrispondenza dell’ordine superiore, la forma trilobata inscritta nell’ogiva degli archi dell’ordine maggiore (resi in modo più compendiario nelle tavole laterali), la presenza di “oculi” decorativi tra le coppie di archi dei santi superiori, i dentelli a rifinire i profili superiori delle tavole (come si vede in particolare nel più dettagliato scomparto esterno a sinistra), in parte conservati nella coppia di apostoli dell’ordine superiore della Fondazione Longhi, e i gattoni lignei a decorare la sommità delle tavole, di cui resta una piccola traccia sul pezzo con i Santi Pietro e Paolo94. La dispersione delle componenti del complesso, separate in numerosi pezzi, non ha permesso ancora di rintracciare la tavola principale e le cuspidi, se non quella centrale col Redentore, che tuttavia non trova una sicura corrispondenza nell’affresco, dove il pinnacolo centrale sembra decorato con una Crocifissione. La commissione del polittico di Luca di Tommè potrebbe essere legata alla figura dell’abate Niccolò Federighi da Siena, che nel 1352 aveva ottenuto – primo tra gli abati di Passignano – il titolo vescovile, per celebrare il quale comprò una mitria e fece realizzare alcune suppellettili liturgiche95. La presenza tra i santi principali di un altro vescovo
Alessandro Bagnoli è giunto indipendentemente alla stessa conclusione (comunicazione orale). Secondo Chiodo (in Caravaggio 2009, ibidem) questa coppia si trovava sopra la tavola centrale perché più ampia di quella con la coppia di Apostoli; nelle cuspidi sarebbero stati raffigurati gli Evangelisti, per completare la serie di Apostoli che avrebbe occupato l’ordine superiore. A giudicare dall’affresco, dovevano essere a figura intera. 95 Venerosi Pesciolini 1932, pp. 265-266. I ‘sunti’ 2005, II, p. 272. Già Fattorini (in The Alana, in cds) aveva accennato 93 94
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96. Giovanni Maria Butteri, La ricognizione delle reliquie di San Giovanni Gualberto, Tavarnelle Val di Pesa, Badia a Passignano, chiesa di San Michele Arcangelo vallombrosano, Bernardo degli Uberti, potrebbe voler alludere proprio al prestigio acquisito dall’abate. Non è infine da escludere, visto il legame tra la Badia di Passignano e quella in Poggio San Donato, che il polittico di Niccolò sia stato preso come riferimento per quello di Luca96. Bibliografia 11a Berenson 1932a, p. 524; Perkins 1932a, p. 46, tav. 6; Berenson 1936, p. 450; Coor Achenbach 1954-1955, p. 90, fig. 10; Shapley 1966, p. 17; Berenson 1968, I, p. 300, tav. 53; Vertova 1968, p. 25, fig. 5; Sienese Paintings 1969, cat. 30-31; Frinta 1971, p. 306 nota 7; van Os 1972, p. 79; Maginnis 1974; Zeri 1976, I, p. 37; Torriti 1977, p. 84; De Benedictis 1979, pp. 9, 95; Stubblebine 1979, I, pp. 138, 153, II, fig. 480; Zeri, in Dipinti 1984, pp. 12-13, cat. 8; Portheine, in The early Sienese 1989, p. 111; Torriti 1990, p. 40; Frinta 1998, pp. 78, 245, 297, 419, 451, 507; Cateni-Lippi Mazzieri 2003, p. 96; Franci, in Duccio 2003, pp. 364-365; Padoa Rizzo 2002, p. 72; Fattorini 2008a, pp. 177-178; Matteuzzi 2008, p. 326; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Franci 2013; Brüggen-Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 504 nota 2; Matteuzzi, in La Galleria 2016, pp. 43-47, cat. 4; De Marchi, in Siena 2017, pp. 48-49; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230; Fattorini, in The Alana, in cds. Bibliografia 11b [Pini] 1842, p. 4; [Milanesi] 1852, p. 10; Catalogo 1860, p. 13; Catalogo 1864, p. 13; Catalogo 1872, p. 11; Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 35; Catalogo 1895, p. 18; Catalogo 1903, p. 18; Jacobsen 1907, p. 24; Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 29 nota 5; Hutton, in Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 23 nota 4; Perkins 1908, p. 51; Catalogo 1909, p. 18; Weigelt 1911, p. 198; Lusini 1912, pp. 135-136; Mostra 1912, pp. 36-37, cat. 86; Perkins 1913, p. 37; Dami 1924, p. 12; Regia Pinacoteca 1924, pp. 33-34; van Marle 1924, II, p. 94; Berenson 1932, p. 524; Brandi 1933, p. 23; van Marle 1934, II, p. 95; Bacci 1935, pp. 10-11; Berenson 1936, p. 341; Brandi 1951, p. 155; Toesca 1951, p. 515; Sandberg Vavalà 1953, p. 116; Carli 1955a, p. 61; Coor Achenbach 1954-1955, p. 87; Carli 1958, p. 42; Berenson 1968, I, p. 300; Hueck 1968, pp. 45, 59; van Os 1972, p. 80; Maetzke, in Arte nell’Aretino 1974, p. 43; Maginnis 1974, p. 214; ad vocem Niccolò di Segna 1975, pp. 139-140; De Benedictis 1976, p. 88; Maginnis 1977, p. 283; Torriti
ad un legame della commissione a Luca con l’abate Niccolò. 96 Cfr. in questa scheda nota 73.
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Niccolò di Segna 1977, p. 83; Zeri 1978, p. 149; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, p. 155; Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 92; Torriti 1982, p. 40; Damiani, in L’art gotique siennois 1983, p. 86; Rave 1985, p. 9; Leoncini, in La pittura in Italia 1986, II, p. 642; Guiducci, in Restauri 1988, p. 17; Torriti 1988, p. 172; Torriti 1990, p. 39; van Os 1992, pp. 290-291; Museo 1998, p. 26; Padoa Rizzo 2002, pp. 72-73; Franci, in Duccio 2003, pp. 364, 366; Matteuzzi 2008, pp. 324-326; De Marchi 2009, pp. 84-85; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 90; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 92-96; Baldini, in Arte a Figline 2010, pp. 120-121; Franci 2013; Brüggen-Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499; Matteuzzi, in La Galleria 2016, pp. 43-46; De Marchi, in Siena 2017, pp. 48-49; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230; Fattorini, in The Alana, in cds.
Bibliografia 11c Gamba 1921, p. 11; van Marle, 1925, V, p. 448; Berenson 1932, p. 529; Berenson 1936, p. 454; Gamba 1961, p. 26; Boskovits 1966, cat. 16; Rossi 1966, p. 137; Berenson 1968, I, p. 404; Le carte 1988, pp. 303-304; Matteuzzi 2008, p. 321; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 90-91; Franci 2013; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43; De Marchi, in Siena 2017, pp. 48-49; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230. Bibliografia 11d-e Matteuzzi 2008, pp. 321-322; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 90-97; Franci 2013; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43; De Marchi 2017, pp. 48-49; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230. Bibliografia 11f Important Old Master 1995, lotto 69; Franci, in Duccio 2003, pp. 370-372; Matteuzzi 2008, pp. 321-322; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 90-92; Franci 2013; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43; De Marchi, in Siena 2017, pp. 48-49; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230. Bibliografia 11g [Pini] 1842, p. 4; [Milanesi] 1852, p. 9; Catalogo 1860, p. 11; Catalogo 1872, p. 10; Catalogo 1895, p. 13; Catalogo 1903, p. 13; Jacobsen 1907, p. 23; Perkins 1908, p. 49; Catalogo 1909, p. 13; Olcott 1909, p. 385; Lusini 1912, p. 131; Perkins 1913, p. 6; Dami 1924, p. 11; Regia Pinacoteca 1924, p. 18; van Marle 1924, II, pp. 75-77; Perkins 1928, pp. 103-104; Berenson 1932, p. 524; Brandi 1933, pp. 195-196; Berenson 1936, p. 451; Sandberg Vavalà 1953, p. 116; Carli 1958, p. 36; Berenson 1968, I, p. 300; Torriti 1977, p. 95; Zeri 1978, p. 149; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, p. 154; Torriti 1982, p. 18; Rave 1985, p. 9; Torriti 1990, p. 60; Franci, in Duccio 2003, pp. 370-372; Matteuzzi 2008, pp. 321-322; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 90-91; Franci 2013; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43; De Marchi, in Siena 2017, pp. 48-49; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230. Bibliografia 11h-i Van Marle 1934, II, p. 105; Pope Hennessy 1939, p. 96 nota 6; Frinta 1971, p. 306 nota 7; Zeri 1978, p. 149; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, p. 155; Guillaume 1980, p. 77; Guillaume, in L’art gothique siennois 1983, p. 87; Torriti 1990, p. 60; Matteuzzi 2008, pp. 321-322; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 90-91, 96; Franci 2013; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43; De Marchi, in Siena 2017, pp. 48-49; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230. Bibliografia 11l Catalano 1652, p. 477; Franci, in Duccio 2003, pp. 370-372; Matteuzzi 2008, pp. 321-322; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 90-92, 95; Franci 2013; Matteuzzi, in La Galleria 2016, pp. 43-44; De Marchi, in Siena 2017, pp. 48-49; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230.
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Polittico con la Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista Pienza, Museo Diocesano (inv. 4-6) Seconda metà del quarto decennio Tempera e oro su tavola Cm 74 x 40 (centrale); cm 58 x 31 (laterali) Provenienza: San Giovanni d’Asso, pieve di San Giovanni Battista. Iscrizioni: “ECCE | AGN|US D|EI ECC|E QUI | TOLL|IS(sic) PE|CHAT|A MU(N)|[DI]” (Gv 1,29), cartiglio di san Giovanni Battista.
Le tavole del trittico si presentano separate, prive delle cornici e semplicemente centinate, certamente a causa della resecatura della tradizionale finitura regolare superiore. I tre pezzi sono descritti da Francesco Brogi nel 1862 nella sacrestia di San Giovanni Battista a San Giovanni d’Asso1, pieve da cui risultano prestate per le mostre di arte senese del 1904 e 19122 e dove ancora le colloca Stubblebine alla fine degli anni Settanta del secolo scorso3. La loro presenza in questo edificio è del resto probabilmente testimoniata già da un inventario di suppellettili sacre e mobili del 1753, che ricorda nel coro “una tavola dipinta all’antico con tre immagini di santi vecchie assai”4. All’epoca e fin dal 1539 il patronato della chiesa spettava alla famiglia Pannilini (proprietaria dell’opera)5, che ancora deteneva questa carica all’inizio del Novecento e alla quale si deve il riassetto seicentesco dell’interno e la costruzione di nuovi altari, decorati con dipinti commissionati per l’occasione6. È possibile che il trittico sia stato rimosso in questo periodo dalla sua presumibile collocazione originaria sull’altare maggiore, pur forse mantenendo ancora la sua integrità. Passate nelle collezioni del Museo Diocesano di Pienza, le tre tavole furono sottoposte entro il 1998 al restauro dei supporti e delle superfici dipinte. A un precedente intervento non documentato, che Laura Martini suppone risalente alla fine del XIX secolo, si ascrive il rifacimento delle dorature e la parziale ridipintura delle figure già osservati da Giacomo De Nicola, Vittorio Lusini e Frederick Mason Perkins7. Il trittico, poco considerato dalla critica, è stato riferito da Brogi e Douglas a Segna di Bonaventura8 e alla maniera di Duccio, in relazione con il polittico n. 38 e il San Bartolomeo n. 37 della Pinacoteca senese, in occasione delle mostre di inizio Novecento9, quando Perkins nega la paternità di Niccolò di Segna10. Van Marle torna a considerare il trittico insieme alle tavole della Pinacoteca in riferimento a un Maestro di Montalcino11. Accostandolo alle
Brogi 1897, p. 523. Il santo di destra è indicato come san Giacomo. Mostra 1904, pp. 305-306, cat. 15-17. Mostra 1912, p. 31, cat. 61-63. Lusini 1912, pp. 129-130, cat. 63-65. 3 Stubblebine 1979, I, p. 155. 4 Raffaelli 1977, p. 25. Come denuncia la premessa, le notizie sono ricavate dallo spoglio degli Archivi Parrocchiali di San Giovanni d’Asso e di chiese vicine e dei documenti conservati presso l’Archivio Vescovile di Pienza. 5 Mostra 1912, ibidem. 6 Raffaelli 1977, pp. 11-12. Lusini 1912, p. 130. 7 Mostra 1912, ibidem. Lusini 1912, p. 129; l’autore riferisce inoltre della presenza di cornici di cristallo, evidentemente moderne. Perkins 1913, p. 36; lo studioso ritiene di poter ascrivere il “nefasto” intervento al restauratore Monti, attivo a Siena verso la seconda metà dell’Ottocento. L’ultimo restauro è stato realizzato da Vinicio Guastatori ed Edith Liebhauser: cfr. Museo Diocesano 1998, pp. 26-27. 8 Brogi 1897, ibidem. Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 28 nota 1. 9 Mostra 1904, ibidem. Lusini 1912, pp. 129-130. 10 Perkins 1913, ibidem. 11 Van Marle 1924, II, p. 94, fig. 57. Lo studioso denomina così l’anonimo autore del trittico proveniente dal locale conservatorio di Santa Caterina. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco stesse opere, Gertrude Coor assegnava indirettamente il trittico a Niccolò di Segna, a cui lo confermava Boskovits, seguito da De Benedictis12 contemporaneamente all’attribuzione di Stubblebine al suo effimero Maestro di Sansepolcro13, il cui corpus è quasi del tutto da ricondurre a Niccolò. Se la critica più recente accetta unanimemente il riferimento a questo artista, c’è ancora incertezza sulla collocazione cronologica: Beatrice Franci e Gabriele Fattorini, come già Stubblebine, ritengono il trittico un prodotto maturo, da riferire al quinto decennio del Trecento14; Martini invece suggerisce una datazione verso il 1330, scorgendo nelle figure un richiamo da un lato alla Madonna col Bambino di Cortona, dall’altro al polittico n. 38 e una costante duccesca unita a elementi derivati da Ugolino di Nerio15. Le durezze espresse soprattutto nei due laterali ricordano i modi di Duccio e l’attività estrema di Ugolino delle figure gagliarde delle tavole di San Casciano e del polittico ora agli Uffizi in collezione Contini Bonacossi, significativamente proveniente da San Pietro in Villore presso San Giovanni d’Asso16; alcuni schematismi nella resa delle fisionomie richiamano ancora la serafica tavola di Cortona. Nel trittico tuttavia il senso di appiattimento delle figure è ormai superato, grazie a una migliore gestione delle volumetrie e al più complesso sviluppo dei panneggi, che segnano un’evoluzione rispetto alle prime Madonne, che presuppone il passaggio attraverso l’esperienza del polittico n. 38, di cui richiama la ricchezza dei panneggi nell’articolazione dei manti della Vergine e dell’Evangelista, rifiniti con bordi preziosi. Le figure di Pienza hanno inoltre una maturità di disegno e di intenzione che le rende più prossime alla Madonna di Villa I Tatti (cat. 16a), con cui il centrale ha in comune – come spesso notato – la forte scorciatura del volto della Vergine e il gesto del Bambino. Non corrisponde invece la resa dei panneggi, più essenziali nella tavola ora a Settignano e nelle altre che con questa componevano il polittico di San Maurizio. Niccolò, seguendo una pratica piuttosto diffusa nella sua bottega, propone nel trittico e nell’ordine superiore del polittico senese lo stesso tipo fisico del san Giovanni Battista; tuttavia la resa minuziosa e mossa del vello della figura pientina richiama piuttosto l’omologo dell’ordine superiore del polittico n. 38. Il trittico di San Giovanni d’Asso pare dunque inserirsi, entro la seconda metà del quarto decennio17, tra la produzione dei primi anni Trenta e il polittico ricostruito da Coor e Israëls, come tappa dello sviluppo stilistico verso la nettezza delle figure del complesso di San Maurizio rispetto a quello vallombrosano, che sembra tradursi in una ricerca di sinteticità ancora non perfettamente padroneggiata, che ha come conseguenza la creazione di figure dai volti meno sensibili e atteggiamenti un po’ bloccati. Il trittico di San Giovanni d’Asso era forse completato dalle cuspidi col Redentore e due Angeli ora a nei musei americani di Raleigh e Cleveland, come ipotizzò per primo Giacomo De Nicola18. Tuttavia questa affermazione merita ancora una riflessione attenta – per cui si rinvia alla scheda successiva (cat. 13) – data la mancata descrizione dei tre elementi sia nell’inventario settecentesco che in quello più accurato di Brogi, che vede solo tavole centinate, a fondo oro e “restaurate”, dalle misure coincidenti con quelle attuali19.
Coor Achenbach 1954-1955, p. 87 nota 20. Boskovits 1975, p. 15. De Benedictis 1979, p. 94. Stubblebine 1979, ibidem. A questo nome associa il polittico anche Andrew Ladis, in Corpus 2009, III, pp. 648-649. 14 Franci, in Duccio 2003, p. 365; Eadem 2013. Fattorini 2006, p. 313. 15 Museo Diocesano 1998, ibidem. 16 Per quest’opera e la vicenda del suo passaggio in collezione Contini Bonacossi con la partecipazione della famiglia Pannilini cfr. Santi-Romani 2005, pp. 94-101. 17 Interessante il riferimento alla data 1327 per la chiesa di San Giovanni Battista riportato da Franco Raffelli (1977, p. 11), da interpretare forse come data di consacrazione dell’edificio in buona coerenza con la realizzazione di lì a poco del polittico da parte di Niccolò di Segna. La presenza di Ugolino a San Giovanni d’Asso in un momento ravvicinato, quando dipinse il trittico di San Pietro in Villore, potrebbe aver favorito la commissione al suo più giovane sodale. 18 Mostra 1912, ibidem. 19 Restando nel territorio di San Giovanni d’Asso, altrove Brogi descrive altri due polittici, quello in San Lorenzo a Montegriffoli (Museo Diocesano di Pienza) e quello di Ugolino in San Pietro in Villore, soffermandosi anche sulle cuspidi, del resto tuttora conservate da entrambe le opere: Brogi 1897, pp. 524, 526-527. 12 13
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Niccolò di Segna
Bibliografia Ricci, in Mostra 1904, pp. 305-306, cat. 15-17; Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 28 nota 1; Hutton, in Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 24; Bargagli Petrucci 1911, p. 17; De Nicola, in Mostra 1912, p. 31, cat. 61-63; Lusini 1912, pp. 129-130, cat. 63-65; van Marle 1924, II, p. 94, fig. 57; Coor Achenbach 1954-1955, p. 87 nota 20; Boskovits 1975, p. 15; Raffelli 1977, p. 11; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, p. 155, II, figg. 531-533; Kanter 1994, p. 83 nota 1; Museo Diocesano 1998, pp. 23, 26-27; Franci, in Duccio 2003, p. 265; Fattorini 2006, p. 313; Ladis, in Corpus 2009, III, pp. 648-649; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
13a. Niccolò di Segna
Redentore Raleigh, North Carolina Museum of Art (inv. GL.60.17.2, K219) Seconda metà del quarto decennio (?) Tempera e oro su tavola Cm 45,4 x 36,2 Provenienza: San Giovanni d’Asso, pieve di San Giovanni Battista (?); San Giovanni d’Asso, fratelli Pannilini; Firenze, conti Della Gherardesca; Firenze, Alessandro Contini Bonacossi; New York, Samuel H. Kress (1932-1960).
13b-c. Niccolò di Segna
Due Angeli Cleveland, Museum of Art (inv. 1962.257.1-2) Seconda metà del quarto decennio (?) Tempera e oro su tavola Cm 31 x 23 ca. Provenienza: San Giovanni d’Asso, pieve di San Giovanni Battista (?); San Giovanni d’Asso, fratelli Pannilini; Firenze, conti Della Gherardesca; Firenze, Alessandro Contini Bonacossi; Londra, Annesley Gore; Cleveland, Mrs. Albert S. Ingalls (1935-1962).
Le tre cuspidi triangolari vengono solitamente considerate insieme. La maggiore raffigura il Redentore benedicente a mezzo busto e le minori due Angeli, uno di profilo rivolto a sinistra e uno frontale col capo inclinato sullo stesso lato. Sono da individuare nei pezzi descritti nei cataloghi delle mostre senesi del 1904 e 19121, a cui furono prestate dai fratelli Pannilini di San Giovanni d’Asso2, che di lì a poco le avrebbero cedute ai conti Della Gherardesca3. Dopo un passaggio in collezione Contini Bonacossi le tre tavole presero strade diverse: quella col Redentore giunse almeno nel 1931-1932 nella raccolta di Samuel H. Kress a New York, che nel 1941 fu depositata alla National Gallery di Washington, da dove l’opera poi passò al North Carolina Museum di Raleigh nel 19604. Dopo le tappe fiorentine le due cuspidi con Angeli transitarono invece da Londra per approdare ugualmente negli Stati Uniti nel 1935 in collezione Ingalls a Cleveland, da cui vennero poi donate al museo locale nel 19625. Le tre tavole appaiono oggi dotate di cornici moderne e di un fondo oro presumibilmente risarcito – benché non siano documentati restauri – se nel 1912 De Nicola e Lusini annotavano la quasi completa scomparsa della doratura e del bolo6. In
Mostra 1904, pp. 301-302, cat. 1986-1987, 1990. Mostra 1912, pp. 31-32, cat. 64-66. Lusini 1912, pp. 129-130. Una fotografia storica conservata presso gli archivi della Soprintendenza senese mostra le cuspidi coi due Angeli presso i fratelli Pannilini: SABAP province di Siena, Grosseto e Arezzo (d’ora in poi SABAP-Si), Archivio fotografico, n. 3057. Cfr. L. Martini, in Museo Diocesano 1998, p. 27. 3 Nancy Coe Wixom fa riferimento a una fotografia conservata presso la Fototeca del Kunsthistorisches Institut in Florenz, segnalatale da Ulrich Middeldorf (lettera del 29 luglio 1966), che non mi è stato possibile reperire, che mostrerebbe le tre cuspidi insieme nella collezione fiorentina Della Gherardesca, con cornici uguali (forse quelle con “fogliette rampanti a nudo legno di noce” descritte per le cuspidi con gli Angeli da Lusini 1912, p. 130): N.C. Wixom, in The Cleveland Museum 1974, pp. 135-136; inoltre Shapley 1973, pp. 381-382. 4 Shapley 1960, p. 20; Eadem 1966, p. 16, fig. 35. Cfr. Ladis, in Corpus 2009, III, pp. 648-649. Per i contatti tra Alessandro Contini Bonacossi e Samuel Kress, in particolare nel 1927, quando l’americano comincia ad acquistare primitivi dal conte, cfr. Pazzi 2016, pp. 61-66. 5 Wixom, in The Cleveland Museum 1974, pp. 135-137, cat. 48a-b. Sul retro degli Angeli Wixom rileva la presenza di un timbro della dogana italiana con la data 23 aprile 1930. 6 Lusini 1912, p. 130. Wixom (in The Cleveland Museum 1974, p. 135) afferma d’altra parte che i fondi oro degli angeli sono in buone condizioni e le pitture hanno subito solo minimi ritocchi. 1 2
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Niccolò di Segna
Cat. 13a
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco questo senso spinge anche la differente decorazione delle aureole, punzonate e granite nel Redentore e incise negli Angeli; quest’ultima tecnica risulta desueta al tempo di Niccolò, che non vi fece mai ricorso altrove e d’altronde le caratteristiche delle tre decorazioni denunciano la loro non originalità. La tavola del Redentore potrebbe del resto essere stata integrata nella parte superiore – e dunque ridorata – prima del passaggio in America, poiché la fotografia pubblicata nel 1931 da van Marle, che dichiara di aver visionato l’opera presso una collezione privata americana, probabilmente da identificare con quella di Samuel Kress, mostra una tavola perfettamente integra7; mentre invece, se si deve prestar fede a Ricci e De Nicola, curatori dei cataloghi delle mostre di inizio Novecento8, la cuspide maggiore aveva subito una perdita di 17 cm, che rispetto alle misure della tavola avrebbe comportato la perdita anche di un parte del capo del Redentore, che pare però genuino. D’altronde le dimensioni riportate nel catalogo del 1912 (cm 32 x 40) sono discrepanti rispetto a quelle attuali di circa 4 cm sia per la base sia per l’altezza integrata (per un totale di cm 49) e aprono al dubbio che i due autori possano essersi riferiti a un altro pezzo. Attribuite in passato all’ambito di Duccio9, con una opzione in favore di Ugolino di Nerio relativa al solo Redentore, formulata da van Marle10 ma respinta da Shapley11, e la proposta di Zeri di riferirle tutte a Segna12, le tre cuspidi vennero accostate al nome di Niccolò da Henk van Os nel 197213. Proposta ribadita da Maginnis14 e sostanzialmente accolta, pur con il riferimento alternativo al Maestro di Sansepolcro a partire da Stubblebine15. Ricondotto il corpus di questa personalità entro l’attività di Niccolò, la critica più recente, fin dall’intervento di Laura Martini, si è assestata stabilmente per le cuspidi sul nome di questo pittore16. Un’intuizione in questo senso era già venuta a Giacomo De Nicola, che aveva riconosciuto anche nelle tre cuspidi la stessa mano del “fine scolaro di Duccio” autore del polittico n. 38 e del San Bartolomeo n. 37 della Pinacoteca senese; curiosamente De Nicola riteneva probabile che fossero pertinenti al trittico con la Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista della pieve di San Giovanni Battista a San Giovanni d’Asso (ora a Pienza; cat. 12), di cui erano patroni gli stessi Pannilini, che pure non credeva della stessa mano17. Se Perkins condivideva quest’ultima opinione, Lusini dava per certo l’accostamento18, di cui invece non faceva cenno Corrado Ricci (1904), tanto che poco dopo Curt Weigelt ipotizzò la pertinenza delle cuspidi alla Maestà di Duccio19 e più tardi van Os le mise in relazione col polittico ricostruito da Gertrude Coor20. Laurence Kanter è tornato, alla fine del secolo scorso, a riproporre la relazione tra di esse e le tavole del polittico pientino, scorgendovi una perfetta concordanza stilistica21. In seguito tutti gli autori che hanno trattato degli Angeli e
7 Van Marle 1931, p. 58. Lo studioso dichiara la tavola in ottime condizioni. Neanche Shapley (1966, ibidem) fa cenno a lacune o integrazioni e anche le altre fotografie disponibili non evidenziano tracce di una menomazione al vertice: Stubblebine 1979, II, fig. 536; Ladis, in Corpus 2009, III, fig. 337. 8 Mostra 1904, ibidem. Mostra 1912, ibidem. Lusini 1912, p. 130. 9 Mostra 1904, ibidem; Lusini 1912, p. 129; Perkins 1913, p. 36; Berenson 1968, I, p. 119; Fredericksen-Zeri 1972, pp. 68, 627. Wixom, in The Cleveland Museum 1974, ibidem. 10 Van Marle 1931, ibidem. Così anche in Italian paintings 1933, p. 1; National Gallery Washington 1941, p. 201, n. 215. 11 Shapley 1960, p. 20; Eadem 1966, p. 16; nella seconda edizione sono riportate anche altre opinioni manoscritte favorevoli all’accostamento a Ugolino di Fiocco, Longhi, Suida e Venturi. 12 Zeri 1967, p. 474. Cfr. anche Wixom, in The Cleveland Museum 1974, pp. 135-136, dove si accenna al contenuto di una lettera di Zeri (18 febbraio 1966), in cui lo studioso italiano propone di collegare i tre pinnacoli con la Santa Margherita ex Kress (Portland) e la Santa Lucia di Budapest, parere non altrimenti espresso. 13 Van Os 1972, pp. 77-88. 14 Maginnis 1974, p. 214. Wixom (in The Cleveland Museum 1974, ibidem) preferisce mantenere un’attribuzione generica a un maestro senese verso il 1315, pur non respingendo del tutto il riferimento a Niccolò. 15 Stubblebine 1979, I, p. 155; Kanter 1994, p. 83 nota 1; Ladis, in Corpus 2009, III, pp. 648-649. 16 Museo Diocesano 1998, p. 26. Franci, in La Collezione 2009, I, p. 101; Eadem 2013. Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, p. 90-97; Eadem, in La Galleria 2016, p. 43; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 499 nota 13; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 231 nota 24. 17 De Nicola, in Mostra 1912, p. 31. 18 Perkins 1913, ibidem. Lusini 1912, ibidem. 19 Weigelt 1909, p. 22. 20 Van Os 1972, ibidem. De Benedictis (1979, ibidem) cita tre cuspidi con Redentore e Angeli in riferimento al polittico di San Giovanni d’Asso ma anche, come elemento a parte, il pezzo di Raleigh come pertinente al polittico Coor. 21 Kanter 1994, ibidem.
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Cat. 13b
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco del Redentore hanno confermato questo abbinamento22, tranne in un primo momento chi scrive, pensando di potervi scorgere gli elementi superiori del polittico n. 38 della Pinacoteca Nazionale di Siena23. Delle tre cuspidi non si fa menzione nelle descrizioni più antiche del trittico contenute nell’inventario degli oggetti sacri della pieve di San Giovanni Battista del 1753, che accenna solo a tre figure, e nella ricognizione di Francesco Brogi del 1862, che descrive accuratamente le tre tavole maggiori24. Che i due gruppi di tre pezzi abbiano avuto destini diversi, almeno a partire da un momento, seppure imprecisabile, probabilmente anteriore alla seconda metà del XIX secolo, pare adombrato anche nella nota di Perkins, che ebbe modo di vedere insieme i pezzi nel 1912, trovando le tre cuspidi esenti da restauri, a differenza del trittico pesantemente ritoccato nel secondo Ottocento. Il Redentore e gli Angeli potrebbero essere entrati presto nella raccolta privata dei Pannilini, la cui attività collezionistica è testimoniata dal prestito alle mostre senesi di inizio Novecento di almeno tredici pezzi, per alcuni dei quali la solo supponibile provenienza dal territorio di San Giovanni d’Asso non esclude la collazione da ambiti più vasti25. Le misure delle tre cuspidi risultano compatibili con le tavole del polittico pientino, rispetto alle quali sono più strette di qualche centimetro26. Tuttavia il dato stilistico non fornisce un ancoraggio inequivocabile, pur tenendo conto delle alterazioni subite dalle tavole maggiori: si tratta certamente dello stesso artista, ma il trattamento delle figure, del chiaroscuro e dei panneggi non smentisce la prossimità al polittico n. 38. I volti del Redentore e degli Angeli hanno un trattamento più disteso e sensibile rispetto a quelli marcati dei personaggi principali, in cui mancano quasi del tutto – in particolare nei santi laterali – le tipiche lumeggiature bianche usate da Niccolò sia nelle cuspidi sia nel polittico n. 38. Con le figure dell’opera conservata nella Pinacoteca senese sono confrontabili ad esempio i tratti dell’Angelo frontale e del Redentore, l’uno prossimo in particolare al San Michele del registro principale e alla Sant’Orsola della predella, l’altro al San Giacomo dell’ordine superiore della tavola con San Bartolomeo, con cui si può confrontare pure l’andamento della veste dell’Angelo di profilo, fin nel dettaglio del polsino destro; la manica risvoltata del Redentore ricorre invece nel San Benedetto dell’ordine maggiore e nel San Giovanni Evangelista del superiore. In altra sede avevo sottolineato la concordanza di misure delle basi delle cuspidi con Angeli rispetto all’imposta offerta dalle tavole laterali del polittico n. 38, caratterizzate da una particolare sagomatura che sembra presupporre la presenza di simili cuspidi triangolari27. Se d’altra parte è possibile che le assonanze tra le cuspidi e il polittico n. 38 possano essere indizio di una effettiva prossimità cronologica del polittico pientino con quest’ultimo complesso, come supposto in questa scheda e nella precedente, i dati a disposizione circa la provenienza delle tavole con Redentore e Angeli, non definitivi in nessuna direzione, suggeriscono di mantenere aperte più ipotesi. Bibliografia Ricci, in Mostra 1904, pp. 301-302; De Nicola, in Mostra 1912, pp. 31-32, cat. 64-66; Lusini 1912, pp. 129-130; Perkins 1913, p. 36; Zeri 1967, p. 474; Berenson 1968, I, p. 119; Fredericksen-Zeri 1972, pp. 68, 627; van Os 1972, pp. 77-88; Shapley 1973, pp. 381-382; Maginnis 1974, p. 214; Wixom, in The Cleveland Museum 1974, pp. 135-137, cat. 48a-b; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, p. 155, II, figg. 536-538; Kanter 1994, p. 83 nota 1; Martini, in Museo Diocesano 1998, p. 26; Fattorini 2006, p. 313; Ladis, in Corpus 2009, III, pp. 648-649, fig. 337; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 101; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 96-97; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 499 nota 13; Matteuzzi in La Galleria 2016, p. 43; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 231 nota 24. Bibliografia specifica 13a Van Marle 1931, p. 58; Italian paintings 1932, p. 11; Italian paintings 1933, p. 1; Frankfurter 1934, p. 11; National Gallery 1941, p. 201, cat. 215; Shapley 1960, p. 20; Shapley 1966, p. 16, fig. 35. Bibliografia specifica 13b-c Weigelt 1909, p. 212; The Cleveland Museum 1936, cat. 125-126; The Cleveland Museum 1962, cat. 110.
Vedi bibliografia specifica. Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, pp. 96-97. 24 Raffaelli 1977, p. 25. Brogi 1897, p. 523. Cfr. cat. 12. 25 La lunga e poco chiara vicenda del passaggio del trittico di San Pietro in Villore (altro patronato Pannilini) ad Alessandro Contini Bonacossi (Santi-Romani 2005) lascia campo all’ipotesi che la collezione avesse anche come scopo la commercializzazione delle opere. 26 Le tre tavole avevano in alto probabilmente una finitura regolare oppure leggermente sagomata a trapezio, su cui dovevano impostarsi direttamente i pinnacoli, a costituire un polittico a doppio registro. 27 Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, ibidem. Cfr. cat. 11. 22 23
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Niccolò di Segna
Cat. 13c
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
14. Niccolò di Segna
Madonna col Bambino Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 44) 1335 ca. Tempera e oro su tavola Cm 105 x 64 Provenienza: ignota.
La tavola è ricordata fin dalle prime segnalazioni nelle collezioni della Pinacoteca Nazionale di Siena1. Pur non conoscendone il contesto di provenienza, è possibile supporre che l’opera appartenesse ad un complesso cittadino. Ugualmente lacunose sono le informazioni relative agli interventi sulla tavola, a cui accennano i cataloghi antichi della Pinacoteca e Frederick Mason Perkins, il quale nel 1928 notava la buona conservazione dei volti dei due soggetti e dei fondi oro, mentre il resto appariva “malamente restaurato”2; Cesare Brandi notava inoltre la parziale originalità della cornice3. L’aspetto attuale della tavola conferma un generale impoverimento delle superfici dipinte, in particolare in corrispondenza delle vesti, dove si nota una forte abrasione, che interessa anche gli incarnati degli arti, ridotti praticamente al solo verdaccio. I volti, per quanto in condizioni non ottimali, conservano invece velature e chiaroscuri, che denunciano, insieme alle fisionomie, la paternità di Niccolò. Del resto, fin dal momento del riconoscimento della vicina Madonna col Bambino di Montesiepi a questo pittore da parte di Bacci nel 19354 (cat. 15), l’attribuzione dell’opera della Pinacoteca, già suggerita da Emil Jacobsen e Bernard Berenson5, è stata generalmente accettata6, precisando così i riferimenti ad anonimi ducceschi7 e alla bottega di Segna di Bonaventura suggeriti da Douglas, Perkins e Brandi, il quale peraltro escludeva decisamente il nome di Niccolò8. Il confronto di questa tavola con la Madonna di Montesiepi denuncia in effetti la stretta relazione tra le due opere, quasi sovrapponibili nell’aspetto dei due soggetti: la Vergine di Siena ha lo stesso ovale scorciato dalle guance tondeggianti e naso lungo e leggermente aquilino, lo stesso sguardo austero e la medesima disposizione delle mani di quella datata 1336; il paffuto Bambino, che nella tavola senese regge dei gigli bianchi, mostra una canna nasale corta e occhi marcati e, come nella tavola ora a Chiusdino, trattiene con la mano un lembo del proprio drappo. Queste fisionomie risultano caratteristiche di Niccolò fin dalle opere riferibili al quarto decennio. È inoltre molto simile nelle due Madonne la distribuzione delle lumeggiature e del chiaroscuro e la composizione generale della tavola, in entrambi i casi trilobata entro un arco, che nella Madonna di Siena è acuto anziché a tutto sesto; gli spazi di risulta sono colmati da elementi decorativi a sgraffito, rintracciabili anche nelle tavole del polittico n. 38 e di quello ricostruito da Coor e Israëls (cat. 11, 16). Le proposte di datazione della tavola n. 44 si orientano quindi giustamente verso il 1336 della tavola riscoperta da Bacci, rispetto alla quale le caratteristiche più sfumate dell’incarnato e i tratti meno perentori, vicini ma più regolarizzati rispetto a quelli della Madonna Cini, suggeriscono un’esecuzione forse di poco precedente. Proseguendo nel confronto tra le due Madonne si notano anche alcune varianti. La figura della Vergine senese è caratterizzata da uno slancio più accentuato e differisce parzialmente rispetto a quella di Montesiepi nella realizzazione delle aureole, che in questo caso prevede nella fascia principale, solitamente destinata alla decorazione a risparmio su
[Pini] 1842, p. 4, cat. 32. [Milanesi] 1852, p. 11, cat. 32. Catalogo 1895, pp. 19-20, cat. 44 (anche ed. 1903, 1909). Perkins 1928, p. 108. 3 Brandi 1933, pp. 278-279. 4 Bacci 1935, p. 1. 5 Jacobsen 1907, p. 23. Berenson 1932, p. 397. 6 Cfr. bibliografia specifica. 7 [Pini] 1842, ibidem. Dami 1924, p. 13. 8 Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 28 nota 1. Perkins 1908, p. 52. Idem 1928, ibidem. Brandi 1933, ibidem. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco fondo granito, l’impiego di numerosi punzoni accostati a formare moduli replicati in alternanza ai consueti elementi fitomorfi, secondo una tipologia decorativa già impiegata da Ugolino di Nerio in alcune opere della tarda maturità9, riproposta dunque da Niccolò a distanza di circa un decennio. Punzoni a doppio arco sono accostati a formare un trilobo ripetuto per quattro volte per ottenere una composizione quadrilobata, al centro della quale è inserito un punzone a forma di corolla a sei petali con altrettanti tondi; intorno ad esso, nei quattro archi, si trovano stampi più piccoli a fiore a cinque petali. Punzoni della stessa forma – ma diversi dal precedente – decorano i compassi esterni in mezzo a due giri di semplici bolli circolari, non diversamente da quanto si riscontra nelle altre opere di Niccolò del quarto decennio, dove tuttavia per i nimbi delle Vergini prevale l’impiego del punzone a losanga. Del resto, questo ricorre nelle fasce dell’aureola crucigera del Bambino, che ha un’impostazione più comune, con composizioni meno strutturate di punzoni, rintracciabili peraltro nel nimbo del Bambino della Madonna Cini e in altre tavole dello stesso del polittico n. 3810. Bibliografia [Pini] 1842, p. 4, cat. 32; [Milanesi] 1852, p. 11, cat. 32; Catalogo 1895, pp. 19-20, cat. 44; Jacobsen 1907; Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 28 nota 1; Perkins 1908, p. 52; Dami 1924, p. 13; Perkins 1928, p. 108; Berenson 1932, p. 397; Brandi 1933, p. 278; Bacci 1935, p. 1; Berenson 1936, p. 341; Bacci 1944, p. 45; Sandberg Vavalà 1953, p. 109; Coor Achenbach 1954-1955, pp. 87, 90; Carli 1955a, p. 61; Carli 1958, p. 22; Berenson 1968, I, p. 300; Carli 1971, p. 13; Maginnis 1974, p. 214; De Benedictis 1976, p. 88; Torriti 1977, p. 78; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, pp. 138-139, 154; Carli 1981, p. 74; Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 92; Leoncini, in La pittura in Italia 1986, II, p. 642; Torriti 1990, pp. 38-39; Matteuzzi 2008, p. 326; Franci 2013; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 46; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230.
Muller 1994, pp. 67-72. Polzer 2005, pp. 87-91. Cfr. infra §4. Punzone ad arco bilobato: Skaug 1994, II, n. 169 (solo per Ugolino di Nerio); Frinta 1998, p. 200, n. Fb14c (anche Ugolino di Nerio nel San Matteo in collezione Lehman al Metropolitan Museum di New York, nella Croce dei Servi di Siena, nella Madonna col Bambino del polittico n. 39 della Pinacoteca Nazionale senese). Punzone a corolla a sei petali e tondi: Frinta 1998, p. 507, n. La89a (anche sulla Croce n. 46 e sul polittico n. 38 della Pinacoteca Nazionale di Siena e sulla Madonna Cini). Punzone a quattro petali frangiati: Skaug 1994, II, n. 363 (solo per Ugolino di Nerio); Frinta 1998, p. 419, n. Jd55 (anche sui laterali del polittico n. 38 e sulla Madonna Cini; anche Ugolino sulla Maestà di Santa Maria sul Prato o della Misericordia di San Casciano, sulla Madonna col Bambino del polittico di Brolio, sui laterali del polittico da Santa Croce a Firenze, sulla Madonna del polittico n. 39 della Pinacoteca di Siena, sul San Matteo Lehman di New York e sulla Croce dei Servi). Una composizione di punzoni a doppio arco molto simile a quella dell’aureola della Madonna n. 44 di Niccolò si trova anche nelle aureole dell’Incoronazione della Vergine di Jacopo di Mino del Pellicciaio ora al Museo Civico di Montepulciano. 9
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15. Niccolò di Segna
Madonna col Bambino Chiusdino, Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra di San Galgano 1336 Tempera e oro su tavola Cm 102 x 74 Provenienza: Chiusdino, Rotonda di San Galgano a Montesiepi; Chiusdino, cappella dei conti Spalletti Frosini (1924-1934); Chiusdino, San Michele Arcangelo. Iscrizioni: “AVE MARIA GRATIA PLENA DOMINUS TECUM”, in basso.
Una testimonianza del 1645 di Antonio Libanori, abate di San Galgano nel 1641-1642, ricorda sull’altare della sacrestia della Rotonda di Montesiepi un dipinto con funzione di armadio per vesti e suppellettili liturgiche. Il religioso descrive una Crocifissione, San Galgano e San Michele Arcangelo e la Madonna col Bambino sullo sportello dell’armadio al centro. Il complesso era rifinito da una predella con le figure degli Apostoli, su cui si trovava la firma “Nicolaus Segre”; la data 1336 e il nome del committente, Ristoro da Selvatella, erano riportati in un’iscrizione “nella cornice del Crocifisso di mezzo”1. Di questo complesso nel 1862 non restava che la Madonna col Bambino, ricordata da Francesco Brogi nel “coretto” della chiesa di Montesiepi2; successivamente, nel 1910, la tavola è citata “in cornu epistolae, sopra una mensola di fianco all’altare della chiesa”3. Si deve a Pèleo Bacci l’identificazione della Madonna col Bambino citata dal Libanori con la tavola qui schedata4, che da quel momento costituisce uno dei cardini su cui la critica ha cercato negli anni di ricostruire il corpus di Niccolò di Segna5, al cui nome corrisponde la versione corrotta della firma riportata dal Libanori6. Prima di allora l’opera era stata assegnata da Brogi alla cerchia di Barna7 e da Berenson a Segna di Bonaventura8. Dalle notizie collazionate da Bacci risulta che nel 1924 la tavola fu trasferita per motivi di sicurezza nella vicina cappella della tenuta dei conti Spalletti Frosini (già Niccolini)9, da dove fu prelevata il 15 novembre 1934 dalla Soprintendenza di Siena per provvedere a un restauro, più volte sollecitato, che ponesse rimedio al degrado dell’opera segnalato a partire dall’intervento di Brogi10. Secondo la testimonianza di Bacci la tavola era notevolmente tarlata, la tela dell’incamottatura
1 Libanori 1645, p. 130. “Anche nella Sagrestia della Cappella sul Monte Siepi vi è un’Altare, nella cui tavola a oro vi è dipinto un Crocifisso, l’Angelo Michele, e S. Galgano, e nel gradino di lei alcuni degli Apostoli. Serve questa tavola al di dietro per Armario di riporvi i paramenti dell’Altare, e Messa, e’l Quadro di mezzo si apre verso la porta, e vi è dipinto l’Immagine della Regina del Cielo con Giesù nelle braccia, pittura molto bella, antica, e divota. Questa Tavola, e Sagrestia a spese proprie fece fare un tale da Selvatella, come dimostrano le seguenti parole a oro poste nella Cornice del Crocifisso di mezzo: ‘Questa tavola, con la Cappella fece fare ristoro da Selvatella, MCCCXXXVI’. La pittura è assai bella, e molto artifiziosa, fù d’un tale, che vi pose il suo nome nel gradino della Tavola: ‘Nicolaus Segre me pinxit’”. 2 Brogi 1897, p. 128. 3 SABAP-Si, Archivio, Catalogo generale ms. degli Oggetti d’Arte, 5 febbraio 1910. La notizia è fornita da don Alessandro Movilli. 4 Bacci 1935, pp. 1-13. 5 La critica concorda unanimemente con l’attribuzione di Bacci: cfr. bibliografia specifica. Tuttavia Ladis e Schmidt, come già Rowley, che identificava erroneamente la Madonna col Bambino con quella allora in collezione Platt (Rowley 1929, pp. 107-127), hanno creduto che la pala citata da Libanori fosse dispersa e non identificata: Ladis 1992, p. 198 nota 3; Schmidt 1992, p. 136. 6 Già Rowley (1927, ibidem) aveva, seppur con qualche incertezza, arguito che il nome “Segre” fosse una cattiva trascrizione di “Segne”. 7 Brogi 1897, ibidem. 8 Berenson 1932, p. 524. 9 Prima del trasferimento la tavola era stata per un certo periodo riposta in una cassa (Bacci 1935, p. 6). 10 Brogi 1897, ibidem. SABAP-Si, Archivio, Catalogo generale ms. degli Oggetti d’Arte, 5 febbraio 1910. De Nicola 1911, p. 437. Cfr. Bacci 1935, pp. 5-6 per altre citazioni del genere fino al 1924, tra cui quella di Corrado Ricci in una lettera del settembre 1914 (SABAP-Si, Archivio, pos. H-113: cfr. Bagnoli, in Ambrogio 2017, pp. 228-231, cat. 16).
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco rovinata dall’umidità e dalle sconnessioni del supporto ligneo e la superficie dipinta sollevata e danneggiata anche dalle ridipinture a olio, realizzate in epoca imprecisabile sul fondo oro – abraso tanto da far emergere la base verdastra – e sulle vesti; bruciature di candela si notavano in particolare in corrispondenza del volto della Vergine e del braccio destro del Bambino. Dalla fotografia scattata prima del restauro del 1934-193511 in effetti la superficie dipinta e dorata appare sbollata in vari punti, fortemente crettata e in diversi casi completamente perduta, con la preparazione sottostante ormai a vista; solo i volti della Vergine e del Figlio risultavano discretamente conservati, ma forse non esenti da ridipinture (fig. 97). Con una situazione tanto compromessa l’intervento a cura del pittore Italo Dal Mas comportò la rimozione del supporto ligneo e della tela e il riposizionamento della superficie dipinta su supporti analoghi. Rimosse le ridipinture, si riportarono alla luce le ben conservate decorazioni punzonate e granite delle aureole e i colori originali delle vesti12. La cornice della centina fu reintegrata e sui lati dritti furono aggiunti tre spessi listelli sagomati. Un ulteriore modesto intervento di consolidamento è stato effettuato prima del 195513. Trafugata il 26 marzo 1968 dalla Rotonda, dove era stata ricollocata, la tavola è stata recuperata dall’Arma dei Carabinieri nel 1993 presso il deposito bagagli della Stazione Termini di Roma14. La Madonna non ha più fatto ritorno a Montesiepi e per qualche tempo è stata conservata presso la canonica della chiesa di San Michele Arcangelo a Chiusdino, prima di essere esposta dalla fine del 2015 nel locale Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra di San Galgano. Bacci, seguendo la logica della descrizione del Libanori parla di un trittico con le immagini dei Santi Galgano e Michele ai lati del centrale con la Crocifissione, sul retro del quale si apriva appunto un armadio-reliquiario15. La tavola centrale doveva fungere da sportello ed essere decorata verso l’interno con la Madonna col Bambino. L’assito rimosso nel corso del restauro del 1934 – ora perduto – conservava ancora i due gangheri16 e mostrava sul retro segni di imprimitura e doratura, che avevano suggerito a Bacci di individuarvi le ultime tracce della Crocifissione e di pensare ad un’opera opistografa. Del resto Libanori dice che l’armadio “si apre verso la porta”, escludendo che lo sportello si trovasse dal lato della parete di fondo della cappella e che la struttura prevedesse due tavole distinte, l’una per la Crocifissione e l’altra per la Madonna17. All’ipotesi ricostruttiva di Bacci si attengono i recenti contributi di Roberto Bartalini e Alessandro Bagnoli, il quale congettura un reliquiario quadrangolare simile a un cassone, una sorta di trittico riquadrato con tavole centinate, coi santi laterali a figura intera18. Va notato comunque che le cornici modanate della tavola della Madonna (visibili, seppur rovinate, anche nella fotografia precedente il restauro degli anni Trenta) sembrano poco adatte all’interno di uno sportello e danno adito all’ipotesi che questa figurazione potesse trovarsi in realtà all’esterno dello sportello, secondo una struttura peraltro più tradizionale, al centro del trittico. Del resto la descrizione di Libanori è in alcuni punti poco chiara e Bacci, riferendosi al retro del supporto ligneo originario della
Stubblebine 1979, II, fig. 477. Firenze, Biblioteca Berenson, Villa I Tatti, Fototeca (d’ora in poi Fototeca Berenson), “Niccolò di Segna”, fasc. S 22.5. 12 Bacci 1935, p. 6. 13 Carli 1955a, p. 64. Non sono specificati i termini dell’intervento. 14 A. Lenza, in L’Arma 2009, p. 48. 15 Bacci 1935, pp. 2-3. La tipologia del reliquiario dipinto, con ante decorate su entrambi i lati, è testimoniata in particolare da esempi senesi del XV secolo, come l’arliquiera di Benedetto di Bindo del 1412 per la Sacrestia del Duomo di Siena, ora al Museo dell’Opera, e gli sportelli del Vecchietta del 1445-1446 per la Sacrestia Grande dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, ora in Pinacoteca Nazionale. A margine, Bacci ricorda come nel 1666, al momento della visita pastorale dell’Arcivescovo di Siena Leopoldo de’ Medici, la Rotonda fosse sprovvista di arredi sacri, in relazione alla decadenza dei Cistercensi di San Galgano del XVII secolo. 16 Bacci specifica che si tratta di “dubbioni”, cardini tipici dell’area senese formati da due anelli. La descrizione della loro posizione a destra sulla tavola va riferita al lato ormai privo di decorazione, considerato che lo sportello si apriva da sinistra a destra (Bacci 1935, p. 2). 17 Non contemplando la possibilità di una tavola bifronte Machtelt Israëls ha interpretato la descrizione seicentesca come se l’armadio con la Madonna sullo sportello fosse posto dietro al trittico con la Crocifissione e i due Santi, suggerendo che il complesso visto da Libanori fosse frutto del rimaneggiamento di uno simile con al centro la Madonna col Bambino e la Crocifissione a decorare la cuspide soprastante; in alternativa la stessa studiosa ha supposto la provenienza della Madonna col Bambino da un diverso polittico, di cui sarebbero testimonianza tracce di battenti sul retro della vecchia tavola (Brüg gen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499, note 6-8). 18 Bartalini 2015, 157-158, pp. 4-6. Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 228. 11
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97. Cat. 15, ante restauro 1934-1935
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco Madonna e dunque al lato su cui si trovava probabilmente la Crocifissione, nota lo “smusso” della centina e la “linea di risega del battente” in basso19, dettagli forse più pertinenti a una collocazione interna. Tutte le ipotesi di ricostruzione basate sui dati disponibili presentano elementi di criticità e non si può escludere che l’insolito complesso visto da Libanori fosse il frutto di una rielaborazione di epoca moderna20, né che l’abate avesse davanti in realtà un’unica tavola coi santi Michele a Galgano compresi a fianco della croce e un complemento inferiore composto da poche figure di apostoli o, genericamente, santi, probabilmente a mezza figura21. Anne Dunlop ha il merito di aver rintracciato in numerosi documenti la figura di Ristoro22, la cui esistenza, insieme alla veridicità della testimonianza del Libanori, era ritenuta dubbia da Antonio Canestrelli, che pure aveva consultato i Caleffi nuovamente analizzati dalla studiosa americana23. Ristoro risulta un converso o un oblato del monastero di San Galgano, al quale nel 1283 dona tutti i suoi beni, pur mantenendone l’usufrutto a vita; nel 1293 il monastero affitta una delle proprietà da lui cedute, un podere posto in località Selvatella. Ristoro compare in diversi altri documenti dell’abbazia fino al 1318, figurando anche come “sindicus” e “procurator”24. La prudenza di Dunlop circa l’originaria collocazione del trittico, che a rigore potrebbe provenire da un’altra cappella, e dunque sull’effettivo patronato di Ristoro per quella di Montesiepi, è superata da Bartalini, che sottolinea come il programma iconografico dell’opera si attagli perfettamente al luogo dedicato a san Galgano25. Con la stessa decisione Bartalini – seguito da Bagnoli, Max Seidel e Serena Calamai – ritiene che gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti della medesima cappella vadano collocati entro la metà degli anni Trenta del Trecento, in relazione alla committenza di Ristoro26, prendendo una posizione netta nel dibattito sulla cronologia dell’intervento del maestro senese e smentendo la committenza di Vanni Salimbeni, il cui testamento del 1340 ne ha fatto supporre il coinvolgimento diretto nella commissione della cappella e degli affreschi27. Un altro documento, reperito da Alison Luchs e valorizzato da Bartalini, attesta la presenza di Ambrogio presso San Galgano nel
19 Bacci 1935, p. 6. Questo elemento potrebbe essere interpretato non come segno della presenza di una traversa orizzontale per stabilizzare delle assi verticali (come vuole Israëls: cfr. in questa scheda nota 17), ma come un altro elemento di accomodamento dello sportello all’armadio insieme allo “smusso”, ovvero come una sorta di invito o assottigliamento del margine nel punto in cui doveva avvenire l’“incastro” con l’apertura. Bagnoli usa d’altronde questi dati materiali a sostegno dell’ipotesi della collocazione interna della Madonna, non contribuendo tuttavia a precisare il verso della tavola a cui riferire questi elementi, né la posizione dei gangheri (Bagnoli, in Ambrogio 2017, ibidem). 20 Cfr. nota 17. Così anche Andrea De Marchi (commento orale). 21 La presenza di santi a mezza figura nella predella è sostenuta anche da Bagnoli, che ipotizza inoltre che la serie degli Apostoli, simile a quella del polittico di Santa Caterina a Pisa di Simone Martini e quella del polittico n. 38 dello stesso Niccolò, fosse già separata dal contesto principale e non più completa al tempo del Libanori (Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230). Tuttavia, se anche ci si fosse trovati nel Seicento di fronte a un trittico genuino, difficilmente la predella avrebbe potuto prevedere più di sette scomparti: due sotto ciascuna tavola laterale e tre sotto la centrale, secondo le proporzioni degli stessi polittici citati come esempi. 22 Dunlop 2000, pp. 397-400. 23 Canestrelli 1896, p. 74 nota 1. 24 Per la natura conseguente delle azioni descritte nei documenti datati al 1283 e 1293, rispettivamente il giuramento di castità e la cessione dei propri beni al monastero di San Galgano e l’affitto di una delle proprietà donate, Dunlop ipotizza un errore nella trascrizione delle date nel 1319-1321, quando furono copiati i documenti dei Caleffi. La studiosa crede che la morte di Ristoro possa essere posteriore alla trascrizione, poiché non risultano menzioni del definitivo passaggio ai Cistercensi di San Galgano delle proprietà mantenute in usufrutto da Ristoro stesso, che potrebbe aver fatto erigere la cappella per la propria sepoltura (Dunlop 2000, pp. 399-400 note 29, 37). La citazione del 1318 è stata reperita da Bartalini (2015, p. 8), mentre Dunlop si fermava al 1316. 25 Bartalini 2015, pp. 6-8; lo studioso propone un’analisi della seconda visione di san Galgano, secondo quanto tramandato dall’“inquisitio in partibus” degli anni Ottanta del XII secolo e dalla Vita di san Galgano di secondo Duecento, in cui il santo incontra tutti i personaggi descritti nel dipinto. Concorda Bagnoli in Ambrogio 2017, ibidem. 26 Secondo Bartalini (2015, pp. 9, 16 nota 46) e Bagnoli (in Ambrogio 2017, ibidem; ivi, pp. 463-464) va identificato con l’oblato il devoto inginocchiato presso l’Annunciazione, aggiunto a secco probabilmente in corso d’opera da Ambrogio stesso, per emendarne la prima collocazione nello zoccolo sottostante, dove resta traccia di un profilo maschile. Cfr. inoltre M. Seidel-S. Calamai, in Ambrogio 2017, pp. 198-227, cat. 15 (Il ciclo di affreschi a San Galgano a Montesiepi). 27 Borsook 1969, pp. 33-34. Norman 1993, pp. 289-290, nota 6.
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Niccolò di Segna 133428, offrendo sostegno all’impressione di un’esecuzione stilisticamente coerente con opere della metà del quarto decennio, come le Maestà di Massa Marittima e di Sant’Agostino a Siena e i dipinti fiorentini. In effetti anche Israëls sposava l’ipotesi, già considerata da Dunlop29, e accarezzava l’idea della presenza di Niccolò di Segna nella bottega di Ambrogio, ricordando l’identificazione da parte di Borsook della mano di un abile collaboratore negli affreschi della cappella30. La realizzazione della pala d’altare da parte di Niccolò sarebbe così da considerare come l’atto conclusivo della decorazione del sacello31. In realtà negli affreschi di Montesiepi la presenza di Niccolò non è evidente, se non, come si è impegnato a dimostrare Bagnoli32, nelle “correzioni” a fresco apportate al complesso programma iconografico di Ambrogio per la figura della Vergine in maestà, trasformata in una più tradizionale Madonna col Bambino, e nell’Annunziata, di cui è stato emendato il gesto di sostenersi alla colonna33. Bartalini ha altresì ipotizzato l’intervento di Francesco di Segna, in un periodo comunque prossimo alla realizzazione del polittico-armadio, a breve distanza di tempo dalla conclusione dei lavori di Ambrogio34. Come è stato più volte osservato35, la Madonna col Bambino di Montesiepi forma una serie omogenea con quella ora in collezione Cini e con la n. 44 della Pinacoteca di Siena (cat. 11a, 14). Rispetto alle Madonne precoci, escludendo quella ex Locko Park, che può per alcuni versi essere inserita in questo stesso raggruppamento, sono da notare l’irrobustirsi delle mani e in particolare i tratti più carnosi dei volti, resi grazie a un chiaroscuro più marcato (pur al netto degli interventi di restauro), che segna i profili ovali e i nasi aquilini insieme alle lumeggiature più chiare, a volte quasi bianche, disposte senza variazioni in punti precisi del volto in contrasto con le altrettanto ripetitive ombre intorno al naso e alla bocca. Tra di esse tuttavia è più pronunciata la vicinanza tra la Madonna di Montesiepi e quella della Pinacoteca senese, in cui sembra venir meno la sensibilità della precedente Madonna Cini e si assiste a un attenuarsi della fumosità del chiaroscuro. Spingono verso questa considerazione anche alcuni dettagli quali la regolarizzazione del profilo del volto della Vergine, il modo netto di segnare la mandorla degli occhi e di limitare le occhiaie, che richiamano piuttosto le figure del polittico di San Maurizio (cat. 16). Le aureole risultano sovrapponibili con quelle della Madonna Cini, mostrando la medesima struttura con serie di punzoni a contenere la fascia principale con decoro a risparmio su fondo granito, che ha lo stesso motivo del nimbo della Vergine e del San Michele del polittico n. 38. Bibliografia Libanori 1645, p. 130; Canestrelli 1896, p. 74 nota 1; Brogi 1897, p. 128; De Nicola 1911, p. 437; Rowley 1927, pp. 107 e ss.; Berenson 1932, p. 524; Bacci 1935; Berenson 1936, p. 341; Carli 1955a, pp. 60-64; Coor Achenbach 1954-1955, pp. 87, 90; Berenson 1968, I, p. 300; Borsook 1969, pp. 33-34; Maginnis 1974, pp. 214-216, 218; Luchs 1977, pp. 187-188; De Benedictis 1979, p. 95; Norman 1993, pp. 289-290, nota 6; Dunlop 2000, pp. 397-398; Franci, in Duccio 2003, p. 364; Matteuzzi 2008, p. 326; Lenza, in L’Arma 2009, p. 48; Matteuzzi, in La Collezione 2009, I, p. 95; Franci 2013; Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499 note 6-8; Bartalini 2015, pp. 4-8; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 46; Bagnoli, in Ambrogio 2017, pp. 228-231, cat. 16.
28 Luchs 1977, pp. 187-188. Ambrogio è testimone di un atto rogato nel chiostro di San Galgano: ASFi, Diplomatico, Cestello, 15 agosto 1334. Cfr. Bartalini 2015, pp. 9-10. 29 Dunlop giustifica il riferimento a Vanni Salimbeni suggerendo un avvicendamento di patronato. 30 Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 498. 31 Rispetto agli affreschi lorenzettiani il trittico avrebbe avuto misure adeguate a non occultare l’Annunciazione posta sulla parete dietro l’altare: cfr. Dunlop 2000, p. 398 nota 25. In base alle dimensioni della Madonna, la studiosa ha calcolato che il polittico doveva raggiungere circa 150 cm di ampiezza, misura conveniente ai 171 cm dell’attuale altare. Anche Bartalini 2015, p. 9. 32 Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230; Idem 2017, p. 468. Lo studioso propone confronti con gli affreschi di Monticchiello e della cappella ex Spinelli (cat. 20-21), inoltre prende come termine di paragone per l’Annunziata la Santa Margherita dell’Art Museum di Portland, opera che in questo volume non viene inserita nel catalogo di Niccolò. Non concorda De Marchi (comunicazione orale). 33 Mirulla 2014, pp. 106-110. Per recenti riflessioni sul programma iconografico cfr. Argenziano 2014, pp. 89-105; Marrone 2016, pp. 98-101. 34 Bartalini 2015, pp. 9, 16 nota 46. 35 Tra gli altri Maginnis 1974, pp. 214-216; Franci, in Duccio 2003, p. 364; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 498.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
16. Niccolò di Segna
Polittico smembrato con la Madonna col Bambino e i Santi Lucia, Maurizio, Bartolomeo, Caterina d’Alessandria (ordine principale); i Santi Maria Maddalena, Domenico, Giacomo, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Nicola, Andrea, Francesco (ordine superiore) 1340 ca.
16a.
Madonna col Bambino Firenze, Villa I Tatti Tempera e oro su tavola Cm 91,8 x 56,6 (superficie dipinta) Provenienza: Siena, San Maurizio; Pisa e Pontedera, Giuseppe Toscanelli; Firenze, asta Sambon (1883); Regno Unito, ubicazione ignota; Firenze (e Regno Unito), Bernard e Mary Berenson (acquisto entro il 1908).
16b.
San Bartolomeo e i Santi Giovanni Evangelista e Nicola Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 37) Tempera e oro su tavola Cm 117 x 44,5 Provenienza: Siena, San Maurizio. Iscrizioni: “S(ANCTUS) BARTHOLOMEUS”, sotto il santo dell’ordine principale; “[S(ANCTUS)] IOHANNES EVANGELISTA”, “S(ANCTUS) NICHOLAUS”, sotto i santi dell’ordine superiore.
16c.
Santa Lucia Baltimora, Walters Art Gallery (inv. 37.756) Tempera e oro su tavola Cm 68,1 x 43,5 (superficie dipinta) Provenienza: Siena, San Maurizio; Roma, don Marcello Massarenti (1881-1902); Baltimora, Henry Walters (1902).
16d-e.
San Maurizio, Santa Caterina d’Alessandria Atlanta, High Art Museum (inv. 58.51-52) Tempera e oro su tavola Cm 68,5 x 42,5 (San Maurizio, superficie dipinta); cm 67,5 x 41,5 (Santa Caterina, superficie dipinta) Provenienza: Siena, San Maurizio; Londra, Lord Holland; Londra, A. Ruck (1927); Roma, Alessandro Contini Bonacossi; New York, Samuel H. Kress (1929); Washington, D.C., National Gallery of Art (deposito fino al 1958).
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Niccolò di Segna
Cat. 16a
161
Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
16f-g.
Santa Maria Maddalena, San Giacomo S’Heerenberg, Huis Bergh (inv. 26-27) Tempera e oro su tavola Cm 26 x 19,9 (ciascuna) Provenienza: Siena, San Maurizio; Colonia, Johann Anton Ramboux; Colonia, asta Heberle (23 maggio 1867); Colonia, Wallraf-Richatz Museum (fino al 1923); Lucerna, Fine Art Company (1924); Firenze, E. Castelfranco; Lucerna, Fritz W. Steinmeyer; Amsterdam, Otto Lanz; Londra, Annesley Gore; s’Heerenberg, Jan Herman van Heek (dal 1939).
16h-i.
San Domenico, San Giovanni Battista Ubicazione ignota Tempera e oro su tavola Misure non rilevate Provenienza: Siena, San Maurizio; Colonia, Johann Anton Ramboux; Colonia, asta Heberle (23 maggio 1867); Colonia, Wallraf-Richatz Museum (fino al 1923); Lucerna, Fine Art Company (1924); New York, Albert Keller; New York, Schaeffer Galleries (anni Quaranta). Iscrizioni: “EGO VOX CLAMA | NTIS IN DES(ERTO)” (Gv 1,23), cartiglio di san Giovanni Battista.
16l.
Sant’Andrea e San Francesco San Pietroburgo, Hermitage (inv. 2470-2471) Tempera e oro su tavola Cm 29 x 42 Provenienza: Siena, San Maurizio; San Pietroburgo, Karl August Beine (dal 1841 o 1852); San Pietroburgo, Museo dell’Accademia delle Belle Arti (1865-1897); San Pietroburgo, Museo Russo di Sua Maestà Imperiale Alessandro III (1897-1910).
Grazie a diversi contributi è stato possibile individuare i quattro santi e la Madonna col Bambino dell’ordine principale e i santi dell’ordine superiore pertinenti alle tavole laterali, oggi disseminati in diversi musei europei e americani. Spetta a Gertrude Coor il merito di aver riconosciuto, nel 1955, i santi maggiori in occasione di uno studio dedicato alla Santa Lucia conservata a Baltimora, ipotizzando inoltre che il centrale fosse costituito dalla Madonna col Bambino della collezione Cini di Venezia, ora ricondotta al polittico n. 38 (cat. 11). Recentemente Machtelt Brüggen Israëls ha infatti potuto provare, portando riscontri materiali a supporto dell’analisi stilistica, l’identità della tavola principale con la Madonna conservata nella collezione Berenson a Villa I Tatti a Settignano presso Firenze1. L’opera fu acquistata dai coniugi Berenson nei primi anni del Novecento insieme al complesso al cui centro è tuttora montata: un pastiche composto da quattro tavole laterali di Bartolomeo Bulgarini e da un pinnacolo col Redentore – rielaborazione di un San Marco – ricondotto da Israëls a Pietro Lorenzetti (fig. 98). Per adattare la tavola della Madonna alla forma cuspidata delle altre fu rimaneggiata la centina e inoltre il supporto fu parzialmente assottigliato. Nel catalogo della vendita della collezione Toscanelli del 1883 il polittico appare già nella redazione attuale, lasciando credere che l’assemblaggio sia stato realizzato quando i pezzi si trovavano nella raccolta pisana, probabilmente ad opera di Gaetano Bianchi2. Venne ritenuto un prodotto omogeneo di ambito martiniano
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Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 500-504, cat. 80. Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 645-647, cat. 111. Le tavole laterali, dove sono raffigurati San
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o lorenzettiano e accostato ipoteticamente da Berenson e dalla moglie Mary in una lettera del 1921 a Giovanni Poggi all’autore del polittico di Sansepolcro (Niccolò di Segna)3. La comune paternità delle parti è stata messa in discussione nel 1928 da Millard Meiss, il cui parere è stato reso noto solo molti decenni più tardi4, e da Luisa Vertova nel 19695. Le condivise proposte attributive degli elementi principali si devono invece a Boskovits, che nel 1975 assegnava le tavole laterali a Bulgarini e faceva esplicitamente il nome di Niccolò per la Madonna6. La proposta, tempestivamente accolta da De Benedictis e declinata da Stubblebine in riferimento al suo Maestro di
Francesco con San Giacomo, San Giovanni Battista con San Paolo, un Santo Vescovo con San Pietro e Santa Maria Maddalena con San Ludovico di Tolosa, provengono dal polittico della chiesa di San Francesco a Pienza, la cui tavola maggiore era costituita dalla Madonna col Bambino ora conservata nel locale Museo Diocesano. Il pinnacolo centrale, solo recentemente accostato al nome del più anziano dei Lorenzetti, proviene secondo Israëls dallo smembrato polittico dei Santi Leonardo e Cristoforo a Monticchiello, del quale avrebbe costituito una delle cuspidi laterali insieme alle figure degli altri Evangelisti, di cui è noto un San Luca già in collezione van Marle a Perugia (Eadem, ivi, pp. 188-192, cat. 21; pp. 379-383, cat. 54). 3 Nel catalogo del 1883 il polittico viene assegnato da Gaetano Bianchi e Gaetano Milanesi a Simone Martini ed entra in collezione Berenson con l’attribuzione a un seguace di Pietro Lorenzetti (Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 646; si rimanda a questa scheda per la bibliografia completa, comprensiva di attribuzioni). I dubbi dello studioso circa la paternità del complesso si riflettono nella vaghezza dell’attribuzione anonima, con riferimento ai Lorenzetti, riportata nelle sue liste (Berenson 1932, p. 529; 1936, p. 455; 1968, I, p. 221). Inoltre: Firenze, Biblioteca Berenson, Villa I Tatti, Archivio (d’ora in poi Archivio Berenson), Inventario dei beni mobili appartenenti ai Sigg. Berenson Bernardo fu Alberto Mary Wital Berenson fu Roberto, 6 giugno 1942, p. 3. 4 Cfr. Maginnis 1990, pp. 104, 116 nota 2. 5 Vertova 1969, p. 70. 6 Boskovits 1975, pp. 14-15. Per le tavole laterali cfr. Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 188-192, cat. 21.
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Sansepolcro7, è confermata da Franci8 e dal definitivo approfondimento di Israëls, che colloca l’opera verso la metà del quinto decennio del XIV secolo. La sopravvivenza di un foro di cavicchio a destra a 35,9 cm dalla spalla del dipinto – che conserva all’esterno della centina parte della tavola decorata originale – e di tre tracce di chiodi, allineate sul luogo di un battente orizzontale all’altezza della fronte della Vergine, hanno permesso alla studiosa olandese di confermare la pertinenza della Madonna al medesimo complesso di cui faceva parte il San Bartolomeo della Pinacoteca Nazionale di Siena grazie ai dati materiali offerti da quest’ultima tavola, corrispondendo la distanza tra il cavicchio relativo e il battente che ancora corre all’altezza dell’ordine superiore del dipinto senese9. Sebbene gli altri pezzi principali non siano stati analizzati con la stessa acribia, non è in dubbio la loro appartenenza a uno stesso polittico suggerita da Coor (fig. 99). Il San Bartolomeo di Siena, l’unico a conservare relativamente integra la struttura comprensiva dell’ordine superiore, sebbene mancante della cuspide, è entrato ben presto nella raccolta dell’allora Galleria dell’Accademia di Belle Arti ed è menzionato nel primo catalogo del 1842. Cavalcaselle già aveva riconsciuto la comune paternità rispetto alle analoghe tavole del polittico n. 38, individuandovi caratteristiche riferibili a Niccolò di Segna10. Successivamente, esclusa l’opinione di Cesare Brandi, che faceva sorprendentemente il nome di Jacopo del Casentino11, il
De Benedictis 1979, pp. 85, 94. Stubblebine 1979, I, p. 155. Come in seconda battuta già l’americano, Frinta fa ipoteticamente il nome di Francesco di Segna (Frinta 1998, pp. 98, 111, 180, 215, 296, 354, 396, 419, 428, 451; con Bartolomeo Bulgarini). 8 Franci, in Duccio 2003, p. 391; Eadem 2013. La studiosa nota la prossimità cronologica della Madonna dei Tatti col polittico Coor. 9 Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 500. 10 Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 35. 11 Brandi 1933, pp. 24-26. In questo catalogo si dà anche notizia di un restauro realizzato nel 1931. 7
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Cat. 16l dipinto è stato classificato come un prodotto senese di matrice duccesca12 e, fin dall’intervento di Giacomo De Nicola in occasione della mostra del 1912, la critica ha solitamente riproposto l’opinione di Cavalcaselle relativamene all’identità della mano13. Solo però diversi decenni più tardi Gertrude Coor ha finalmente collegato la tavola – con le altre – a Niccolò, seguita tra gli altri da Berenson, van Os, Maginnis e Zeri14. Superata un’attribuzione più cauta ad un anonimo senese, anche Torriti ha concordato sul nome di Niccolò, non più messo in discussione nei contributi recenti (Franci, Fattorini, Matteuzzi, Israëls)15. Le altre tre tavole principali riferite al polittico sono state separate in tempi non precisabili dalle rispettive coppie di santi superiori, tutte individuate ad eccezione dei soggetti corrispondenti alla tavola centrale. La Santa Lucia è giunta a Baltimora (Alabama) grazie all’acquisto nel 1902 della collezione Massarenti da parte di Henry Walters, la cui raccolta ha costituito il nucleo del museo dove l’opera è attualmente conservata16. L’attribuzione a Simone Martini riportata nei cataloghi Massarenti del 1894 e 189717 e il successivo riferimento a Pietro Lorenzetti18 sono
12 Van Marle (1924, II, p. 94; 1934, II, p. 95) parla genericamente di un seguace di Duccio, mentre Berenson (1932, p. 524; 1936, p. 451) fa il nome di Segna. 13 De Nicola, in Mostra 1912, p. 37, cat. 85. Inoltre Lusini 1912, p. 135. 14 Coor Achenbach 1954-1955, pp. 79-80. Eadem 1955, p. 162 nota 45. Berenson 1968, I, p. 42. Van Os 1972, p. 79. Maginnis 1974, p. 214. Zeri 1976, I, p. 37. 15 Cfr. bibliografia specifica. 16 Cfr. Borelli 2016, pp. 97-111. 17 Cfr. Coor Achenbach 1954-1955, p. 81 nota 3. Così anche nel primo catalogo della collezione Walters del 1909, per cui cfr. Zeri 1976, I, p. 38. 18 Berenson 1932, p. 292; Idem 1936, p. 251. Van Marle 1934, II, p. 392 nota 2. Wehle 1940, p. 75; qui l’autore suggeriva la pertinenza della Santa Lucia a un polittico smembrato di Pietro (per cui cfr. Zeri, in La Spezia 1997, pp. 180-183). La stessa attribuzione risulta nei cataloghi della collezione Walters del 1922 e 1929.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
98. “Polittico Toscanelli”, Firenze, Villa I Tatti
stati superati dall’assegnazione a Niccolò da parte di Coor, che vi notava tratti stilistici riferibili anche a Segna e allo stesso Simone, riconoscibili nonostante le non ottimali condizioni della tavola, che ha subito la perdita di gran parte delle velature superficiali degli incarnati e delle vesti19. Il contributo della studiosa americana è stato ugualmente fondamentale per l’assegnazione a Niccolò delle due tavole con Santa Caterina e San Maurizio di Atlanta (Georgia), fino a quel momento poco considerate dalla critica20. Il loro arrivo oltreoceano, probabilmente già ridotte allo stato attuale, resecate a filo della centina, si deve a Samuel Kress, che le acquistò da Alessandro Contini Bonacossi21. La sua collezione, depositata presso la National Gallery di Washington all’inizio degli anni Quaranta, fu poi suddivisa in diversi musei statunitensi22. La stessa Coor aveva individuato i santi dell’ordine superiore delle tavole di sinistra nelle coppie di dipinti coi Santi Maria Maddalena e Domenico e i Santi Giacomo e Giovanni Battista già in collezione Ramboux a Colonia, dove alcune fotografie storiche testimoniano il loro assemblaggio in una sorta di dossale con al centro il Redentore di Luca di Tommè23. Giunte al Wallraf-Richartz Museum a seguito della vendita della collezione nel 1867 e dopo un breve passaggio a Lucerna nel 1924, le due tavolette – fino a quel momento ancora inserite nel pastiche – furono divise e i quattro santi, a coppie invertite, presero strade diverse: la Santa Maria Maddalena e il San Giacomo, transitati in diverse raccolte europee, sono giunti in Olanda in collezione van Heek, mentre del San Domenico e
19 Coor Achenbach 1954-1955, pp. 80-81. Resta testimonianza solo di un restauro effettuato nel 1938 per sanare la fenditura verticale delle tavole che ancora si intravede all’altezza dell’occhio sinistro. 20 Cfr. Shapley 1966, pp. 17-18. Qui sono riportati anche i pareri inediti di Fiocco, Longhi e Perkins, che assegnavano le tavole all’ambito senese con riferimenti a Segna e Pietro, e di Berenson, van Marle e Adolfo Venturi, orientati sul nome di Lippo Vanni. 21 Si veda anche P.L. Roberts, in Corpus 2009, I, pp. 60-63. Per le iscrizioni sul retro delle due tavole, che rimandano in particolare alla permanenza in collezione Kress, cfr. Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 503-504. 22 Cfr. cat. 13 (cuspide con Redentore di Raleigh). Il catalogo del deposito di Washington e quello realizzato per la raccolta di Atlanta riportano un’attribuzione a scuola senese: National Gallery 1941, p. 182, cat. 138-139; W. Suida, in Italian painting 1958, pp. 8-11. 23 Fototeca Zeri, nn. 20054-20055.
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99. Proposta di ricostruzione del polittico di San Maurizio di Niccolò di Segna (Brüggen Israëls 2015) del San Giovanni Battista, insieme in due collezioni newyorkesi entro la prima metà del Novecento, si sono attualmente perse le tracce. Ben noti alla critica e inizialmente riferiti a Duccio24, i quattro santi sono stati precocemente e definitivamente attribuiti a Niccolò da Cavalcaselle nel 186425. A questi Tatiana Kustodieva nel 1979 ha aggiunto, assegnandola a Niccolò su suggerimento di Michel Laclotte, un’analoga coppia con San Francesco e un apostolo forse da identificare con Sant’Andrea, in cui ha individuato l’ordine superiore della tavola di Santa Caterina. Poche le notizie storiche sulla tavoletta, che fu acquistata probabilmente in Italia da Karl August Beine e giunse a San Pietroburgo verso la metà del XIX secolo26. Non è facile neppure stabilire a
Katalog 1862, p. 14 Cavalcaselle-Crowe 1864, II, p. 59 nota 1. 26 Kustodieva 1979, pp. 71-73. Eadem 2011, pp. 154, 229-230, cat. 220-221. Nel secondo intervento Kustodieva rende nota l’attribuzione a Ugolino contenuta nei cataloghi del museo del 1958 e 1976, mentre in precedenti occasioni la tavoletta era stata assegnata ad un anonimo toscano: Mostra 1922, cat. 4-5. Per l’acquisto in Italia si veda Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 504. 24 25
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco quando risalgano gli interventi di restauro e integrazione di alcune parti delle cornici e del fondo oro segnalate da Kustodieva. Il santo cavaliere recante una mazza ferrata (il baculum), in origine collocato in posizione d’onore a destra della Vergine, solitamente identificato con san Vitale27, è stato riconosciuto come il generale nordafricano della legione tebana Maurizio da Gabriele Fattorini, che ha potuto così suggerire la provenienza del polittico dalla chiesa senese a lui dedicata, sul cui altare maggiore numerosi documenti tra il XV e XVIII secolo ricordano una pala a più figure e una predella con scene della vita di san Maurizio, che risulta ancora dispersa28. Dopo un breve spostamento interno nella seconda metà del Seicento, durante il quale fu posto sull’altare maggiore il trittico di Sano di Pietro dall’altare dei Santi Ambrogio e Girolamo in controfacciata (ora all’Osservanza a Siena)29, il complesso di Niccolò dovette essere rimosso dalla chiesa – e così smembrato – dopo il 1783, quando la parrocchia di San Maurizio fu soppressa e unita a quella di Santo Spirito30. Nelle figure del polittico ricostruito la critica ha spesso notato, oltre a un substrato duccesco mediato attraverso lo stile di Segna di Bonaventura, la presenza di elementi martiniani e altri riferibili alla maniera di Pietro Lorenzetti. Il percorso di Niccolò si sviluppa in effetti nel solco degli esempi dei massimi artisti senesi del suo tempo e l’influenza di Simone Martini è meglio percepibile nelle opere più antiche; invece un accostamento ai modi lorenzettiani è evidente nella produzione matura, caratterizzata da figure più solide, e si precisa nel corso del quinto decennio del Trecento, come attestano la Croce n. 46 del 1345, gli affreschi di Siena e Monticchiello, fino al polittico della Resurrezione di Sansepolcro (cat. 18, 20-22). Rispetto a queste ultime opere, in cui il ricordo di Simone appare ormai superato, il polittico Coor-Israëls sembra porsi in un momento un po’ precedente, non troppo distante dal più antico polittico n. 38, dove i riferimenti a Pietro sono ancora assenti. Le fisionomie dei santi del complesso di San Maurizio non sono lontane da quelle probabilmente provenienti da San Michele in Poggio San Donato, rispetto alle quali gli sguardi sono però generalmente più gagliardi e i tratti più marcati e definiti, come anche, ad esempio, nella Madonna di Montesiepi (1336; cat. 15). La somiglianza tra gli elementi che compongono i due polittici è stata più volte sottolineata, sia a livello tecnico sia per la decorazione punzonata. Questa ricalca, nelle aureole dei santi maggiori, l’impostazione degli omologhi vallombrosani, con una fascia di elementi fogliacei a risparmio su fondo granito racchiusa all’esterno da una tripla serie di stampi, in questo caso rifinita per tutte le figure da una corona di punzoni a cuspide, presente anche nei nimbi dei santi dell’ordine superiore che, a differenza di quelli del polittico n. 38, presentano all’interno della fascia granita del San Giacomo e del San Giovanni Battista decorazioni a risparmio. La più recente proposta cronologica per il polittico in questione si deve a Israëls, ma il riferimento alla metà degli anni Quaranta pare troppo avanzato, anche relativamente al polittico n. 38, che viene posto dalla studiosa all’inizio di quel decennio. Più condivisibile invece la proposta di Coor di collocare il complesso da lei ricostruito verso il 134031. Così ricomposto il polittico risulta ancora mancante della predella e delle cuspidi, per le quali è stata presto scartata l’ipotesi di van Os di identificare tre pezzi nel Redentore di Raleigh e nei due Angeli di Cleveland32, accolta solo in un primo momento da Zeri33. Conviene invece prendere in considerazione il frammentario Isaia ora a Esztergom (cat. 17; qui per la prima volta attribuito a Niccolò di Segna), che probabilmente aveva la forma di tavola cuspidata supposta
Kaftal 1952, coll. 1025-1026. Fattorini 2008a, pp. 177-178. Ulteriori notizie, sempre tratte da visite pastorali e inventari, sono state raccolte da Machtelt Brüggen Israëls, in Da Jacopo della Quercia 2010, p. 263, cat. C.33; Eadem, in The Bernard and Mary 2015, pp. 502-505. Gli stessi documenti parlano di una speciale venerazione per la Madonna, coperta da un velo ritenuto miracoloso e adornata da corone votive; la stessa tavola viene detta nel Sei-Settecento “Madonna degli Spagnoli” per via della prossimità con la sepoltura dei soldati delle truppe iberiche tumulati in San Maurizio nel periodo dell’occupazione del 1530-1552. 29 Brüggen Israëls, in Da Jacopo della Quercia 2010, ibidem. 30 Liberati 1951-1952, p. 245. Fattorini 2008a, ibidem. 31 Coor Achenbach 1954-1955, p. 87. Zeri 1976, I, p. 38. Fattorini 2008a, ibidem. In questo caso perde sostanza la suggestiva ipotesi di Israëls di individuare in Scolaro di Lapo de’ Cattani di Staggia, priore della chiesa di San Maurizio dal 1344, il committente del polittico (Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 503). 32 Van Os 1972, p. 80. Cfr. cat. 13. 33 Zeri 1976, I, p. 38. 27 28
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Niccolò di Segna da Israëls nella ricostruzione grafica del polittico per i pezzi di coronamento e suggerita dalla terminazione superiore tradizionalmente trapezoidale della tavola integra di San Bartolomeo, con la cui misura risulta compatibile l’ampiezza della base della tavola ungherese ottenuta dalla proiezione delle linee superstiti alla ricerca del profilo originario. I contorni marcati della figura del profeta e il suo sguardo fiero richiamano in effetti le caratteristiche delle figure ricondotte al polittico Coor-Israëls più che i personaggi vagamente trasognati ed eterei del polittico n. 38. Bibliografia 16a Collection Toscanelli 1883, tav. XXI; Milanesi, in Catalogue 1883, p. 93; Perkins 1931, pp. 27-28, fig. 14; Berenson 1932, p. 529; Brandi 1933, p. 158; Perkins 1933a, pp. 60-61, fig. 60; Berenson 1936, p. 455; Gregorietti 1960; Russoli 1962, n. XVII; Russoli 1964, n. XVII; Berenson 1968, I, p. 221; Vertova 1969, p. 70; Boskovits 1975, pp. 14-15; De Benedictis 1979, p. 85, 94; Stubblebine 1979, I, p. 155; Maginnis 1990, pp. 104, 116 nota 2; Steinhoff Morrison 1990, pp. 403-411, cat. 17; Tamassia 1995, p. 246; Frinta 1998, pp. 98, 111, 180, 215, 296, 354, 396, 419, 428, 451; Franci, in Duccio 2003, p. 391; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 500-504, 645-647, cat. 80, 111; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43. Bibliografia 16b [Pini] 1842; Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 35; Catalogo 1895, p. 17; Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 29; Hutton, in Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 23; De Nicola, in Mostra 1912, p. 37, cat. 85; Lusini 1912, p. 135; van Marle 1924, II, p. 94; Berenson 1932 p. 524; Brandi 1933, p. 24; van Marle 1934, II, p. 95; Berenson 1936, p. 451; Kaftal 1952, col. 138; Sandberg Vavalà 1953, p. 116; Coor Achenbach 1954-1955, pp. 82, 84-85, 90; Coor Achenbach 1955, p. 162 nota 45; Shapley 1966, p. 17; Berenson 1968, I, p. 300; Carli 1968, p. 42; van Os, in Sienese paintings 1969, cat. 30-31; van Os 1972, p. 79; Maginnis 1974, p. 214; Zeri 1976, I, p. 37; Torriti 1977, p. 84; Zeri 1978, p. 149; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, pp. 138, 154; Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 92; Zeri, in Dipinti 1984, p. 12; Guiducci, in Restauri 1988, pp. 17-19, cat. 4; Portheine, in The early Sienese 1989, p. 111; Torriti 1990, p. 40; Franci, in Duccio 2003, pp. 364-365; Fattorini 2008a, pp. 177-178; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Roberts, in Corpus 2009, I, p. 60; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 503-504. Bibliografia 16c Catalogue 1882, p. 8; The Walters collection 1909, cat. 756; de Wald 1929, p. 166; Berenson 1932 p. 292; van Marle 1934, II, p. 392 nota 2; Berenson 1936, p. 251; Wehle 1940, p. 75; Coor Achenbach 1954-1955, pp. 79-80, 90; Shapley 1966, pp. 17-18; Zeri 1968, p. 42; Berenson 1969, I, p. 299; van Os, in Sienese paintings 1969, cat. 30-31; van Os 1972, pp. 78-83; Maginnis 1974, p. 214; Zeri 1976, I, pp. 37-39; Zeri, in Dipinti 1984, p. 12; Portheine, in The early Sienese 1989, p. 111; Franci, in Duccio 2003, pp. 364-365; Roberts, in Corpus 2009, I, p. 60; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Fattorini 2008a, pp. 177-178; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 503. Bibliografia 16d-e National Gallery 1941, pp. 182-184, cat. 138-139; Kaftal 1952, col. 1026; Coor Achenbach 1954-1955, pp. 81-82; Suida, in Italian paintings 1958, pp. 8-11; Masterpieces 1965, p. 4; Shapley 1966, pp. 17-18; Berenson 1968, I, p. 298; van Os, in Sienese paintings 1969, cat. 30-31; Fredericksen-Zeri 1972, pp. 150, 553; van Os 1972, pp. 79, 81; Shapley 1973, p. 382; Maginnis 1974, p. 214; Zeri 1976, I, p. 37; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, pp. 138, 153-154; Zafran, in European 1984, pp. 24-25; Zeri, in Dipinti 1984, p. 12; Boskovits 1985b, p. 126; Portheine, in The early Sienese 1989, p. 111; Frinta 1998, pp. 323, 423, 431, 446; Maginnis, in Sacred Treasures 2002, pp. 24, 68-69, cat. 11; Fattorini 2008a, pp. 177-178; Roberts, in Corpus 2009, I, pp. 60-63; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 503-504. Bibliografia 16f-g, h-i Katalog 1862, p. 14; Heberle 1867, lotti 66-67; Cavalcaselle-Crowe 1864, II, p. 59 nota 1; Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 35; Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 29 nota 4; Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 23 nota 4; Perkins 1913, p. 38; van Marle 1924, II, pp. 106, 153, 156; Berenson 1930, p. 31, fig. 2; Berenson 1930-1931, p. 263, fig. p. 266; Berenson 1932, p. 396; Italiaansche kunst 1934, p. 116, cat. 390; Berenson 1936, p. 341; Coor Achenbach 1954-1955, p. 84; Coor Achenbach 1956, p. 114; Berenson 1968, I, p. 299; Berenson 1969, p. 21; van Os, in Sienese paintings 1969, cat. 30-31; van Os 1972, p. 79; Maginnis 1974, p. 214; Zeri 1976, I, p. 38; van Os 1978, p. 172 nota 11; Torriti 1977, p. 84; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, p. 154, II, figg. 486-487, 489; Wright 1980, p. 345; Zeri, in Dipinti 1984, p. 12; Huis Bergh 1987, p. 140, cat. 26-27; Portheine, in The early Sienese 1989, pp. 109-112; Fattorini 2008a, p. 178; Roberts, in Corpus 2009, I, p. 60; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 503. Bibliografia 16l Voinov 1922, p. 76; Lazarev 1959, p. 285, cat. 264; Kustodieva 1979, pp. 71-73; Kustodieva 1982, pp. 5-7; Zeri, in Dipinti 1984, p. 12; Franci, in Duccio 2003, pp. 364-365; Fattorini 2008a, p. 178; Franci 2013; Kustodieva 2011, pp. 154, 229-230, cat. 220-221; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 504.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
17. Niccolò di Segna
Profeta Isaia Esztergom, Keresztény Múzeum (inv. 55.135) 1340 ca. Tempera e oro su tavola Cm 21,2 x 21 Provenienza: Siena; Colonia, Johann Anton Ramboux (1832/1842-1866); Eger(?), Pest, Besztercebánya, Nagyvárad, Arnold Ipolyi (1867-1886); Nagyvárad, lascito Ipolyi (1886-1920). Iscrizioni: “[IS]AYA|S CO|RPUS | MEU|M DE|DI PE|RCU|TIEN|T(IBUS)” (Isaia 50,6), sul cartiglio.
La tavola, pur frammentaria, permette di apprezzare nella quasi totale interezza la figura di questo profeta barbuto, che il cartiglio identifica con Isaia. La testa inclinata in avanti è cinta da un’aureola punzonata, con la fascia principale decorata con motivi fogliacei a risparmio su fondo granito, contenuta in due giri di punzoni a fiore a cinque petali. Lo scarso oro superstite è molto rovinato, tuttavia a destra si può individuare un tratto rettilineo obliquo, decorato da una serie di punzoni di cui si intuisce la forma a foglia e rifinito almeno sul margine interno da ulteriori stampi floreali. Tale residuo smentisce l’affermazione di Mária Prokopp che la tavola fosse in origine coronata a tutto sesto1, laddove con maggior probabilità aveva una terminazione a cuspide, tipica di un elemento che, in accordo col soggetto, doveva costituire il pinnacolo di un polittico. La proiezione della linea e la sua replica speculare a sinistra rendono poco probabile un’originaria forma triangolare – che avrebbe avuto una base troppo larga (circa 35 cm) – mentre è plausibile che la tavola fosse simile agli elementi sommitali del polittico n. 47 di Duccio (Pinacoteca Nazionale di Siena; fig. 18) e di quello smembrato di Santa Croce a Firenze di Ugolino2, per limitarsi ad esempi notori. La base della tavola risulterebbe così compresa tra i 20 e i 25 cm (fig. 100). Il dipinto con Isaia, giunto al museo di Esztergom attraverso la donazione Ipolyi, come il trittichino di Niccolò di Segna con la Crocifissione, San Giovanni Battista, Stigmate di san Francesco, rispetto al quale dovrebbe aver percorso le medesime tappe3, si trovava come quello nella collezione di Johann Anton Ramboux alla metà dell’Ottocento4. Nel catalogo d’asta del 1867, quando passò nella raccolta del vescovo ungherese, era segnalato come opera di “Bartoli” (ovvero Bartolo di Fredi)5, mentre Arduino Colasanti, sorprendentemente seguito da Berenson, faceva il nome di Lorenzo Veneziano6. Un accostamento alla scuola duccesca e al Maestro di Città di Castello verso il 1310 fu proposto da Coor e poi da Boskovits7. Prokopp, che condivide questa cronologia, pur ritenendo di scorgere nell’Isaia elementi propri di quell’anonimo e di Segna di Bonaventura, ha preferito lasciare indefinito il riferimento all’ambito di Duccio8, senza accogliere il riferimento a Ugolino di Nerio suggerito da Mucsi9. L’opera mostra in realtà caratteri più tardi, che richiamano chiaramente la produzione matura di Niccolò di Segna nella fisionomia del profeta e nella tecnica impiegata nelle parti pittoriche – dove un sensibile chiaroscuro si accom-
Prokopp, in Christian Museum 1993, p. 215. All’intervento di restauro del 1984 a cura di Mária Laurentzy e Szilvia Hernády si deve probabilmente la redazione attuale con integrazione del supporto. 2 Cfr. Loyrette 1978, fig. 21. 3 Cfr. cat. 2 per la genesi della collezione Ramboux e le vicende di quella Ipolyi. 4 Katalog 1862, p. 15, cat. 106. Nel catalogo dei dipinti senesi del Museo di Esztergom (Gerevich 1948. pp. 66, 68) l’opera viene indicata col numero 73 in collezione Ramboux, dando adito a un fraintendimento sanato nel catalogo Lust und Verlust II (1998, p. 558, n. 106), come mi segnala Dóra Sallay. 5 Heberle 1867, lotto 106. 6 Colasanti 1910, pp. 407-408. Berenson 1932, p. 306; Idem 1936, p. 263; Idem 1957, I, p. 99. 7 Coor Achenbach 1956, p. 112. Boskovits, in Boskovits-Mojzer-Mucsi 1964, pp. 36-38. 8 Prokopp, in Christian Museum 1993, pp. 215-216. 9 Mucsi 1975, p. 34. 1
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
100. Proposta di ricostruzione del pinnacolo cat. 17 (elaborazione grafica Arch. Lorenzo Matteoli) pagna alla resa delle parti in luce con tocchi di bianco, più definiti sulla capigliatura e diluiti sul panneggio – e nel fondo oro arricchito da una punzonatura tipicamente molto varia. L’energia dello sguardo e i tratti decisi rimandano a un momento successivo rispetto alle serafiche figure del polittico n. 38 e prossimo semmai a quelle del polittico di San Maurizio, che offre un buon confronto ad esempio nei santi dell’ordine superiore della tavola con San Bartolomeo (fig. 101): simile nel San Giovanni Evangelista la resa dei tratti fisiognomici e del panneggio, sottile e con pieghe superficiali, rese anche qui con velature di bianco. La ricostruzione ideale di questo polittico manca degli elementi apicali. Con cautela si può ipotizzare che potesse farne parte il pezzo ungherese, la cui presunta forma è compatibile con quella già supposta da Israëls nelle integrazioni grafiche della sua proposta ricostruttiva (fig. 99) e converrebbe alla sagomatura superiore delle tavole laterali,
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Niccolò di Segna
101. Niccolò di Segna, Santi Giovanni Evangelista e Nicola (dettaglio cat. 16b), Siena, Pinacoteca Nazionale analoga al polittico di Santa Croce di Ugolino, concluso da una serie di profeti, di cui il secondo a destra del disegno settecentesco (Loyrette) ricorda nella posa inclinata proprio questo di Niccolò. La presunta misura di base risulterebbe ugualmente affine all’imposta offerta dalla tavola del polittico conservata a Siena. La leggera discrepanza nell’ornamento della aureole, che nei santi superiori del polittico di San Maurizio - ad eccezione del San Giacomo e del San Giovanni Battista - hanno la fascia principale decorata non a risparmio ma con composizioni punzonate e all’esterno una finitura assente nell’Isaia, può trovare giustificazione nel già rilevato gusto per la varietas, dimostrato da Niccolò in diverse occasioni (ad esempio nel polittico n. 38, cat. 11). Bibliografia Katalog 1862, p. 15, cat. 106; Heberle 1867, lotto 106; Colasanti 1910, pp. 407-408; Berenson 1932, p. 306; Berenson 1936, p. 263; Gerevich 1948, pp. 66, 68; Coor Achenbach 1956, p. 112; Berenson 1957, I, p. 99; Boskovits, in Boskovits-Mojzer-Mucsi 1964, pp. 36-38; Mucsi 1975, p. 34; Prokopp, in Christian Museum 1993, pp. 215-216, cat. 65; Lust und Verlust II 1998, p. 558, n. 106
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18. Niccolò di Segna (e bottega)
Croce Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 46) 1345 Tempera e oro su tavola Cm 275 x 262 Provenienza: Siena, refettorio del convento dei Carmelitani Scalzi (già badia di San Michele in Poggio San Donato). Iscrizioni: “NICHOLAUS | SEGNE FECIT | HOC OPUS A.D. | MCCCXLV”, in basso.
La presenza della Croce prima del 1835 nel refettorio del convento dei Carmelitani Scalzi di Siena, che alla fine del XVI secolo erano subentrati ai Vallombrosani nelle strutture dell’antica badia di San Michele in Poggio San Donato1, è testimoniata da Ettore Romagnoli2. Non ci sono indizi per ipotizzare una diversa provenienza della Croce, che sarebbe dunque stata commissionata dai monaci di san Giovanni Gualberto al pari del polittico n. 38, sebbene in un momento successivo. Come il complesso d’altare, la Croce potrebbe essere stata rimossa dalla sua collocazione originaria – forse sul tramezzo della chiesa dedicata a San Michele Arcangelo3 – al momento del passaggio di proprietà, tenuto conto che i Carmelitani intrapresero quasi immediatamente lavori al vecchio monastero e alla chiesa stessa. L’opera ha la struttura tipica della produzione senese dell’epoca, con appendici di forma stellare4. Appare piuttosto ben conservata, sebbene mancante degli elementi apicali del cartiglio e della cimasa e probabilmente del golgota in basso. Federico Zeri aveva proposto, con generale consenso, la pertinenza a questa Croce della cimasa erratica col Redentore ora in collezione Salini a Gallico, presso Asciano5 (cat. 19). De Marchi è recentemente tornato a ribadire la correttezza di questa ipotesi, messa in discussione da Bagnoli per la presunta lontananza stilistica tra le due opere e la difformità della cornice del Redentore6, che però è rifatta7. Grazie alla presenza della firma e della data, la Croce ha rappresentato da sempre un punto fermo del corpus di Niccolò ed è stata per molto tempo l’unica opera accostata con certezza al suo nome, ma paradossalmente, essendo uno dei prodotti meno felici del pittore, ha contribuito in modo decisivo ad alimentare una fama negativa, di cui fu propugnatore Cesare Brandi8 prima che Pèleo Bacci accostasse a Niccolò la Madonna col Bambino di Montesiepi e, sulla base della miglior qualità di quella, ipotizzasse per primo l’attività di aiuti almeno per le figure dei Dolenti9 (figg. 9-10). È chiara ormai la necessità di stemperare i giudizi troppo negativi su quest’opera10, che almeno nel Crocifisso (fig. 8) mostra molte delle caratteristiche peculiari di Niccolò – dalla tecnica pittorica a filamenti di colore alla buona qualità dei trapassi chiaroscurali – al di là dell’evidente tentativo di sperimentare una più manifesta volumetria. La Vergine e san Giovanni hanno in effetti forme dilatate, tratti pesanti ed espressioni concitate che poco si conciliano col resto della produzione di Niccolò, caratterizzata da figure più garbate. Tuttavia, nonostante un uso insolito della linea
Cfr. cat. 11. Romagnoli ante 1835 (ed. 1976), II, p. 651. 3 Cfr. Padoa Rizzo 2002, p. 73. 4 Si vedano ad esempio la Croce di Simone Martini della chiesa della Misericordia di San Casciano Val di Pesa, quelle di Segna di Bonaventura per San Francesco a Pienza e per la badia delle Sante Flora e Lucilla ad Arezzo, quella di Ugolino di Nerio per la basilica dei Servi di Siena, quella di Pietro Lorenzetti per San Marco a Cortona. 5 Zeri 1978, p. 149. 6 Bagnoli, in Duccio 2003, p. 376, cat. 62. 7 De Marchi, in Siena 2017, p. 50. 8 Brandi 1933, p. 223. 9 Bacci 1935, p. 1. Si rimanda al saggio §2 per una più completa disamina della fortuna (e sfortuna) critica di Niccolò. 10 Già Cavalcaselle-Crowe 1864, II, pp. 58-59 e ancora Maginnis 1974, p. 214. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco di contorno marcata e di ampie zone chiare a definire, insieme al chiaroscuro, i tratti del volto del Cristo morente dalla capigliatura un po’ schematica, il Crocifisso conserva una compostezza più tipica del pittore, che si rispecchia nelle caratteristiche della cimasa Salini. D’altra parte gli stessi Dolenti rappresentano un interessante elemento di continuità all’interno della produzione di Niccolò, riproponendo con minime variazioni le pose degli omologhi della giovanile Croce di Bibbiena (cat. 7), nei gesti di entrambi i personaggi e negli ondulati capelli sciolti della Vergine. Ciò testimonia la sopravvivenza di modelli all’interno della bottega, reimpiegati a distanza di quasi due decenni con poche varianti compositive. Rispetto alla Croce più antica, in quella del 1345 non cambia poi di molto la resa del perizoma dalle pieghe fitte e sottili, segnate da decise lumeggiature bianche. Invece la struttura del corpo del Cristo, sebbene analogamente tratteggiata nella zona del costato, appare più massiccia e caratterizzata da un minore allungamento, elementi che andranno messi in relazione, con l’abbandono del verticalismo segnesco e con l’accostamento in particolare ai modi di Pietro Lorenzetti. Un differente intervento nella figura del Cristo e in quelle dei Dolenti sembra testimoniato, oltre che dalle caratteristiche formali, anche dalla decorazione punzonata dei nimbi. Il primo ha la struttura tipica degli altri crucigeri prodotti da Niccolò, con girali vegetali a risparmio su fondo granito negli spazi di risulta dei bracci, a loro volta decorati da composizioni di punzoni diversi – in questo caso un quadrilobo inscrivente cinque tondi, un rettangolo con terminazioni cuneiformi e un piccolo fiore a cinque petali, lo stesso che ricorre nelle fasce circolari e rettilinee del nimbo, ma più piccoli di quello della fascia più esterna11. Le aureole dei Dolenti hanno invece un aspetto insolito, pur mostrando elementi ricorrenti in Niccolò e punzoni presenti in questa stessa opera, che però sono ripetuti in modo seriale a riempire l’intero spazio della fascia principale: la Vergine ha tre serie di quadrilobi e polilobi con tondi e san Giovanni una sorta di griglia realizzata coi punzoni allungati arricchiti da tre tondi, nelle cui maglie si inseriscono i fiori a cinque petali; negli spazi di risulta emerge la granitura. Credo si possa leggere in questi elementi l’attività di un collaboratore di Niccolò che impiega strumenti di bottega con l’obiettivo di riproporre un dettaglio tipico delle opere del maestro – che probabilmente realizza il nimbo del Cristo – ma mancando di raggiungere la raffinatezza dei suoi esiti. Bibliografia De Angelis 1816, p. 22; Romagnoli ante 1835 (ed. 1976), II, p. 651; [Pini] 1842, p. 6; [Milanesi] 1852, p. 17; Cavalcaselle-Crowe 1864, II, pp. 58-59; Catalogo 1872, p. 18; Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 34; Catalogo 1895, p. 20; Catalogo 1903, p. 20; Jacobsen 1907, p. 24; Venturi 1907, V, p. 589; Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 29; Catalogo 1909, p. 20; Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 23; Weigelt 1911, p. 263; De Nicola 1912, p. 147; De Nicola, in Mostra 1912, p. 39, cat. 88; Lusini 1912, pp. 137-138, cat. 90; Dami 1924, p. 13; van Marle 1924, II, p. 157; Berenson 1932, p. 397; Brandi 1932, p. 177; Brandi 1933, pp. 223-225; van Marle 1934, II, pp. 64, 150, fig. 100; Bacci 1935, p. 1; Berenson 1936, p. 341; Bacci 1939, p. 207; Bacci 1944, pp. 45-46; Toesca 1951, p. 517; Sandberg Vavalà 1953, p. 115; Carli 1955a, p. 31; Coor achenbach 1954-1955, pp. 87, 90; Carli 1958, p. 22; Vertova 1968, p. 23; Berneson 1968, I, p. 300; Carli 1971, p. 13; van Os 1972, pp. 79-80, fig. 3; Maginnis 1974, p. 214; Maetzke, in Arte nell’Aretino 1974, p. 43; De Benedictis 1976, p. 87; Torriti 1977, p. 78, fig. 10; Zeri 1978, p. 149; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, pp. 153-154; Carli 1981, p. 74; Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 92; Leoncini, in La pittura in Italia 1986, II, p. 642; Torriti 1990, pp. 40-41; Padoa Rizzo 2002, p. 73; Bagnoli, in Duccio 2003, p. 376; Franci, in Duccio 2003, pp. 364-365; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 498; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230; De Marchi, in Siena 2017, p. 50.
Quadrilobo: Frinta 1998, p. 374, n. Ja67 (usato anche da Bartolomeo Bulgarini). Rettangolo: ivi, p. 87, n. Bc4b.
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19. Niccolò di Segna
Redentore Gallico (Asciano), collezione Salini 1345 Tempera e oro su tavola Cm 54 x 55 Provenienza: New York, Frederick F. Sherman; Londra, Old Master Gallery; Londra, Sotheby’s (11 luglio 1973); Londra, Luigi Grassi; vari passaggi, fino alla seconda metà degli anni Novanta del XX secolo.
Fin dalla prima citazione nel 1935, quando l’opera si trovava a New York e risultava di proprietà di Julia Munson Sherman, Jean Lipman riconobbe l’affinità – ma non l’identità di mano – di questo Redentore con il polittico della Resurrezione di Sansepolcro (cat. 22), rispetto al quale proponeva uno stretto confronto con la figura del Cristo Risorto, suggerendo un’attribuzione ad un seguace di Pietro Lorenzetti1. Lipman notava inoltre che l’opera era allora in ottime condizioni e non appariva ritoccata, ad eccezione della mano, in corrispondenza della quale era stata sanata una fenditura; la fotografia a corredo del suo intervento non testimonia differenze rispetto allo stato attuale. Battuta ad un’asta londinese di Sotheby’s con un generico riferimento a scuola senese2, la cimasa è stata assegnata da De Benedictis a Lippo Vanni3, prima di essere riconosciuta come opera di Niccolò di Segna da Federico Zeri, che ne ha proposto la pertinenza alla Croce n. 46 della Pinacoteca Nazionale di Siena4 (cat. 18). Se l’attribuzione è stata accolta in seguito dalla stessa De Benedictis5 e da Stubblebine6, Torriti7 e Bagnoli, il legame con la Croce senese è stato poi messo in dubbio da quest’ultimo per la diversità delle cornici delle due opere e una presunta difformità formale8. È dello stesso avviso Franci, che colloca la cimasa – e la relativa Croce perduta – tra il 1345 del Crocifisso della Pinacoteca e il polittico di Sansepolcro9. De Marchi ha invece ribadito la correttezza dell’accostamento di Zeri, rilevando la non originalità della cornice del Redentore Salini, che manca delle tracce dei punzoni del nimbo, i cui compassi avrebbero dovuto girare anche sui listelli perimetrali antichi (come avviene nelle tavolette della predella del polittico n. 38). Croce e cimasa, appartenenti al medesimo momento stilistico, dovevano raccordarsi in corrispondenza del perduto titulus10. Corretta in ogni caso la relazione con i modi di Pietro Lorenzetti, che fu in effetti modello di riferimento per Niccolò nella sua fase matura. Rispetto alla figura omologa della cuspide conservata a Raleigh (cat. 13a), in cui Bagnoli individuava un diretto precedente, il Redentore Salini declina una fisionomia effettivamente molto somigliante in forme ben più dilatate, con un chiaroscuro più fumoso e una maggiore abilità nella resa dello scorcio della mano, in linea con la cronologia tarda. D’altra parte la malinconica pacatezza del Cristo di Asciano lascia il posto nel Risorto di Sansepolcro a un piglio più risoluto, sottolineato da un ulteriore infittirsi delle ombre. La forma stellare della cimasa è diffusa in ambito senese a partire dal secondo decennio del XIV secolo, adottata, tra gli altri, da Segna di Bonaventura, Ugolino di Nerio e Pietro Lorenzetti11. Del resto lo stesso Niccolò usa già questa struttura nella più antica Croce di Bibbiena (cat. 7).
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Lipman 1935, pp. 68-72. Catalogue 1973, lotto 104. De Benedictis 1976, pp. 70, 76. Zeri 1978, p. 149. De Benedictis 1979, p. 94. Stubblebine 1979, I, p. 154. Torriti 1990, p. 41. Bagnoli, in Duccio 2003, p. 376, cat. 62. Franci, in La Collezione 2009, I, pp. 98-81, cat. 9. Eadem 2013. 10 De Marchi, in Siena 2017, p. 50. 11 Cfr. nota 4 cat. 18. 1 2
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Quest’opera testimonia anche la continuità compositiva delle aureole di Niccolò nel corso degli anni, se si considera che la commistione della decorazione granita a risparmio e di punzoni del nimbo del Redentore risulta molto vicina, ad esempio, a quella del Bambino nella Madonna di Montesiepi, realizzata circa un decennio prima12. Bibliografia Lipman 1935, pp. 86-72; Catalogue 1973, lotto 104; De Benedictis 1976, pp. 70, 76; Zeri 1978, p. 149; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, p. 154; Torriti 1990, p. 41; Bagnoli, in Duccio 2003, p. 376; Franci, in La Collezione 2009, I, pp. 98-101; Franci 2013; De Marchi, in Siena 2017, p. 50.
Cambia il punzone principale della composizione che decora i bracci della croce; quello a quadrilobo schiacciato del Redentore Salini non è schedato da Skaug e Frinta in riferimento a Niccolò di Segna, mentre una forma simile risulta usata da Simone Martini e dalla sua cerchia: Skaug 1994, II, n. 171; Frinta 1998, p. 189, n. Ea1. 12
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Madonna col Bambino con San Leonardo e un Santo Vescovo; San Cristoforo; San Leonardo; San Pietro; Sant’Antonio Abate; Storie di Santa Caterina d’Alessandria Monticchiello (Pienza), pieve dei Santi Leonardo e Cristoforo Prima metà del quinto decennio del XIV secolo Pittura a fresco
Sulle pareti della pieve dei Santi Leonardo e Cristoforo furono ritrovati, grazie al restauro di ripristino del 1930-1934, alcuni pannelli affrescati tra la metà del Trecento e l’inizio del secolo successivo, attribuiti genericamente alla scuola senese, scialbati verso il 1726 in occasione del rimaneggiamento barocco dell’edificio1. La loro disposizione e la struttura a singoli riquadri accostati senza nesso logico o narrativo e la presenza di numerosi ritratti e nomi di committenti chiarisce l’intento devozionale delle pitture, richieste da singoli devoti e realizzate in assenza di un preciso programma iconografico2. In origine la decorazione doveva ricoprire tutte le pareti del corpo longitudinale, spartite in due ordini di riquadri, mentre la zona presbiteriale risultava affollata di soggetti diversi per numero e dimensioni ai due lati del finestrone centrale. Tra questi affreschi, nonostante il cattivo stato di conservazione, dimostrano di appartenere alla stessa mano una Madonna col Bambino con San Leonardo e un Santo Vescovo (forse da identificare con Biagio o Ambrogio) sulla parete sinistra, le Storie di Santa Caterina d’Alessandria e un San Pietro a destra, un grande San Cristoforo e un San Leonardo sulla parete di fondo del coro e un Sant’Antonio Abate posto dietro la colonna sinistra del presbiterio. Il primo ad occuparsi di queste pitture, a pochi anni dal loro ritrovamento, fu Pèleo Bacci, che le riconobbe come prodotto della scuola di Segna di Bonaventura verso il 13403. Più tardi Piero Torriti ha pensato di scorgere nella Madonna col Bambino la mano del segnesco Maestro di Chianciano e ha riferito il San Cristoforo alla fine del XIV secolo e all’ambito di Bartolo di Fredi4. Nel 1999 Paolo Torriti ha fatto il nome di Niccolò di Segna per l’organico gruppo di riquadri qui considerato, con generale consenso della critica più recente (Franci, Laclotte, Romani)5. L’assegnazione a un momento tardo dell’attività del pittore è generalmente sostenuta, ma più che gli accostamenti col polittico di San Giovanni d’Asso (cat. 12) o con la più antica Madonna col Bambino della collezione Cini (cat. 11a), proposti da Paolo Torriti, aiuta a precisare la cronologia il confronto con le figure del polittico di San Maurizio (cat. 16), con cui quelle di Monticchiello dimostrano una buona corrispondenza nelle fisionomie decise, con occhi ben definiti e peculiarmente sagomati (in particolare nelle figure maschili). Torriti nota giustamente le affinità tra i due Bambini di Monticchiello e quelli delle Madonne dell’intera produzione di Niccolò. Il piccolo Gesù portato da san Cristoforo ha una veste svolazzante piuttosto insolita rispetto alle composte figure del pittore, ma che si può contestualizzare con
La chiesa dei Santi Leonardo e Cristoforo a Monticchiello, inizialmente dedicata solo al santo monaco, fu consacrata forse nel 1292, data riportata sulla campana oggi conservata all’interno dell’edificio sacro; un’iscrizione testimonia il periodo dei lavori settecenteschi, che portarono all’occultamento e alla parziale distruzione dei dipinti e alla creazione di nuovi altari, rimossi negli anni Trenta del Novecento (Torriti 1999, pp. 39-61). Gli affreschi non risultano ancora riportati alla luce in Barbacci 1932, pp. 132-144. 2 Un arrangiamento del resto non insolito nel XIV-XV secolo, come testimonia ad esempio la ricca decorazione della chiesa di San Martino a Lucignano o, al di fuori dell’area senese, la ex chiesa agostiniana di San Lorenzo a Pistoia (cfr. Matteuzzi 2015, pp. 107-120). Si veda anche Bacci 2003. 3 Bacci 1932b, p. 481. 4 Torriti 1979, p. 60. 5 Torriti 1999, pp. 45-50, 54, 57; con proposte attributive anche per gli altri affreschi. Franci, in Duccio 2003, p. 365; Eadem 2013. Laclotte-Romani 2005, pp. 62, 66, 71 nota 17. In una nota della Fototeca Zeri di Bologna relativa al San Cristoforo si ricorda l’attribuzione a Niccolò di Segna da parte di Roberto Longhi già nel 1946 (forse in riferimento a una nota manoscritta o a una comunicazione orale, poiché la proposta non è inserita nella monografia dedicata a Piero della Francesca, riedita in quell’anno, dove invece si fa cenno al polittico della Resurrezione: cfr. cat. 22). 1
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altre opere degli anni Quaranta, in particolare con i santi maggiori del polittico di Sansepolcro, dalle pose più sciolte: segnatamente il San Giovanni Evangelista in hanchement e la Sant’Agnese, che impugna la veste in corrispondenza della spalla. Giustamente Torriti trova che le fisionomie degli angeli di questo stesso polittico siano riproposte in quelli della scena del Supplizio delle ruote di Santa Caterina; così come nell’altro riquadro con la frammentaria Disputa di Santa Caterina coi savi di Alessandria alcuni dei sapienti hanno tratti quasi sovrapponibili a quelli dei personaggi del Transito di San Giovanni Evangelista nella cappella Spinelli in Santa Maria dei Servi a Siena (cat. 21). Ciò è vero in particolare per il gruppo di sinistra dell’affresco servita, fin nel dettaglio dei veli avvolti intorno al collo dei vecchioni e tirati sulla testa (figg. 11-12); tuttavia sembra di cogliere una minore confidenza nella resa delle figure affrescate di Monticchiello, che fa pensare a una datazione precedente agli affreschi senesi, dunque verso la prima metà del quinto decennio. Il San Cristoforo ha inoltre un aspetto simile al Risorto del polittico di Sansepolcro, ma si percepisce un controllo meno sicuro nella pittura a fresco, che tradisce l’elegante distacco di quella su tavola e acquista una sorta di concitazione, trasmessa da una sensibile dilatazione dei tratti, che caratterizza anche le rovinate figure di San Pietro e Sant’Antonio Abate. Del resto le limitate testimonianze dell’attività di frescante di Niccolò, al netto delle probabili perdite, sembrano indicare una sua scarsa predilezione per la pittura murale, tuttavia caratterizzata da una buona qualità. Nella figura di San Leonardo si coglie la conoscenza del polittico di Pietro Lorenzetti realizzato per questa stessa chiesa nel secondo decennio del Trecento. L’attenzione di Niccolò verso i maggiori maestri senesi del suo tempo è stata più volte sottolineata, dunque non sorprende riconoscere nella figura del giovane santo le caratteristiche dell’omologo oggi conservato presso il Museo Horne di Firenze insieme alle Sante Caterina e Margherita (la Madonna col Bambino è esposta al Museo di Pienza e la Sant’Agata si trova in Francia al Musée de Tessé di Le Mans)6. Sembra invece da respingere la proposta di Paolo
Volpe 1989, pp. 110-115. Laclotte-Romani 2005, pp. 66-69. Per la ricostruzione del polittico: Brüggen Israëls,
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Torriti di attribuire a Niccolò anche un San Francesco singolarmente raffigurato con il mantello dell’Ordine dei Penitenti di Gesù Cristo, i cosiddetti “Saccati”7. Tuttavia le sue caratteristiche potrebbero indicare la presenza di un collaboratore, che avrebbe derivato il gesto di aprire il foro della veste corrispondente alla ferita del costato da un modello di bottega, proposto nelle figure del santo assisiate della predella del polittico n. 38 e dell’ordine superiore di quello di San Maurizio. Resta da chiedersi se le storie di santa Caterina, che rappresentano uno dei rari esempi di pittura narrativa di Niccolò, esaurissero lo spazio dedicato alla santa con due episodi chiave della sua leggenda o fossero parte di un ciclo più ampio, esteso con altri riquadri a desta e a sinistra di quelli superstiti. Così sembra suggerire la presenza a destra di una scena frammentaria, di cui si conserva la parte inferiore con una figura femminile a torso nudo in mezzo a
in The Bernard and Mary 2015, pp. 379-383, cat. 54, fig. 543; ripresa da Corentin Dury, a cui si rimanda per la probabile Sant’Agata francese: Dury 2016, pp. 42-45. 7 Torriti 1999, p. 57.
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due figure maschili, a cui si affianca a sinistra una figura paludata. La veste della donna risulta bianca per la perdita del colore originario, così come quella della santa Caterina del Supplizio delle ruote. La scena potrebbe raffigurare un momento delle torture della santa, posta tra due aguzzini. Non è facile valutare il frammento dal punto di vista stilistico, tuttavia si può rilevare la concordanza cromatica delle vesti verdi e arancio della figura a sinistra con quelle dei savi della scena più prossima al presbiterio. La disposizione eterogenea delle figure affrescate da Niccolò suggerisce che il pittore non seguisse un programma iconografico definito. Tuttavia l’unitarietà stilistica dei diversi pannelli sembra indicare un intervento unitario, per quanto probabilmente al servizio di committenti diversi, di nessuno dei quali si è conservato il nome o il ritratto. In ogni caso è possibile supporre che la campagna decorativa della chiesa di San Leonardo abbia preso avvio proprio verso gli anni Quaranta, per protrarsi senza continuità per vari decenni con l’intervento di diversi pittori, al di là di alcuni brani più antichi coperti proprio dagli affreschi tre-quattrocenteschi8.
Torriti 1999, p. 54.
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Bibliografia
Bacci 1932b, p. 481; Torriti 1979, p. 60; Torriti 1999, pp. 45-50, 54, 57; Bagnoli 2003, p. 275; Franci, in Duccio 2003, p. 365; Laclotte-Romani 2005, pp. 62, 66, 71; Franci 2013; Bagnoli 2017, p. 468.
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Transito di San Giovanni Evangelista; San Filippo Benizi, San Leonardo, Santo Stefano, Beato Gioacchino Piccolomini, San Lorenzo, San Filippo, San Michele Arcangelo, San Bernardo (clipei); San Gregorio(?), Sant’Ambrogio(?), San Gioacchino, San Giuseppe Siena, basilica di Santa Maria dei Servi 1345 ca. Pittura a fresco
Il presbiterio della basilica di Santa Maria dei Servi a Siena ospita cinque cappelle: quelle esterne appartenevano alle famiglie Spinelli e Petroni e sono decorate a fresco con ampie scene narrative e figure di santi. La cappella Petroni, a destra, era dedicata a san Lorenzo e conserva la scena della Strage degli Innocenti e la figura di Sant’Agnese (fig. 104). La Spinelli, a sinistra, era dedicata ai santi Giovanni Battista ed Evangelista e le pareti laterali del sacello sono decorate con loro storie (fig. 102): a destra il Banchetto di Erode e la decollazione del Battista (fig. 103), a sinistra il Transito di San Giovanni Evangelista. Le fasce perimetrali a fiorami sono cadenzate da tondi contenenti uno stemma araldico (partito: nel primo d’argento; nel secondo di azzurro alla banda d’oro) e busti di beati serviti e santi cari all’Ordine1. La terminazione poligonale della cappella è decorata con quattro santi a figura intera, di cui si conservano i probabili San Gregorio e Sant’Ambrogio in basso2 e il San Gioacchino in alto sopra quest’ultimo, mentre la figura di San Giuseppe – identificata dall’iscrizione in basso – è appena intuibile. L’episodio dedicato all’Evangelista si focalizza sull’ascensione del vecchio Giovanni, accolto in Cielo da Cristo, che appare a mezzo busto da uno squarcio di nubi insieme ad alcuni apostoli, tra cui si riconoscono Pietro e Bartolomeo; in basso la figura femminile inginocchiata con velo bianco è da identificare, secondo l’iscrizione, con Drusiana, resuscitata da Giovanni. La scena è ambientata all’interno della chiesa di Efeso, rappresentata come un edificio coperto con volte a crociera impostate su pilastri a fascio, con frontone a destra in corrispondenza dell’altare, presso cui stanno un vescovo e tre diaconi in veste bianca. Vicino a loro, verso il centro della composizione, assiste al prodigioso evento una coppia di laici, al cui sgomento fa eco quello del gruppo di quattro anziani nella metà sinistra del riquadro, mentre altri due si chinano verso la fossa vuota dalla quale Giovanni è asceso. La decorazione della cappella fu recuperata entro l’8 maggio 1892 sotto uno scialbo risalente all’epoca barocca3. Si riconoscono integrazioni in particolare nelle fasce perimetrali e diverse lacune all’interno delle scene e in corrispondenza dei santi a figura intera: nel Transito sono andate perdute ampie zone della figura dell’Evangelista e la testa di uno dei diaconi e in generale i colori risultano impoveriti e abrasi e sono praticamente scomparsi quelli delle vesti dei vecchioni a sinistra.
I tondi si inseriscono anche nello spessore dell’arco di accesso. In corrispondenza della scena del Battista, partendo dal basso a sinistra e procedendo in senso orario, si vedono: san Basilio, san Lorenzo, san Filippo, san Michele, san Bernardo, san Giorgio e i beati Pellegrino da Forlì e Andrea da Borgo San Sepolcro (cioè Pellegrino Laziosi e Andrea Dotti, posti in basso). Dal basso a sinistra nel Transito si trovano: il beato Filippo da Firenze (san Filippo Benizi, V Generale dell’Ordine dei Servi), san Leonardo, il probabile beato Francesco Patrizi, santa Caterina (rifatta), santo Stefano, il beato Gioacchino Piccolomini, il beato Giovanni di Sassonia e il beato Tommaso da Massa. Sopra la monofora centrale, in posizione preminente, si trova il tondo con Bonfiglio Monaldi, capo dei Sette Santi Fondatori dei Servi e unico di essi raffigurato nella cappella, nonché omonimo del vescovo senese che nel 1250 concesse la licenza di fondare a Firenze la chiesa di Santa Maria di Cafaggio, poi SS. Annunziata, e negli stessi anni accolse a Siena la comunità servita e promosse la costruzione della loro chiesa (cfr. Dal Pino 1972, I, pp. 141, 204). In corrispondenza della Strage degli Innocenti si trovano figure monocrome, tre delle quali originali, oltre a un malridotto stemma Petroni: d’oro, al palo d’azzurro (resta solo la base a morellone), caricato di tre stelle. Ringrazio Laura Cirri per la corretta definizione dello stemma della cappella Spinelli. 2 Da scartare la proposta di Lamberto Crociani (1996) di identificare nel primo santo il papa Benedetto XI, che approvò l’Ordine Servita nel 1304: si tratta infatti di un pontefice legato piuttosto all’Ordine Domenicano, peraltro mai canonizzato. Crociani suggerisce anche di riconoscere Agostino nell’altro santo. 3 Brigidi 1897, p. 131. 1
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco Nel XVII secolo la cappella era stata destinata a sede della Confraternita del SS. Crocifisso e vi era stata trasferita dal 1635 la grandiosa Croce di Ugolino di Nerio, già sopra l’altare maggiore, poi spostata presso la controfacciata e finalmente nella zona destra del transetto4. Tuttavia il sacello risulta in precedenza sotto il patronato della famiglia Spinelli ed è plausibilmente da identificare con quello che Guidoccio di Accorso chiede di costruire per la propria sepoltura presso la cappella di Vitaleone Altimanni nel testamento del 9 novembre 1334, nel quale nomina suoi eredi Duccio e Cecco Spinelli. Nel 1406 Antonio di Bartolomeo Spinelli fa poi un lascito per la cappella dedicata ai Santi Giovanni Battista ed Evangelista, dove ancora risultano celebrate messe in sua memoria nel 1575, all’epoca della visita pastorale di monsignor Francesco Bossio, quando sull’altare viene descritta una tavola (probabilmente un polittico) con la Madonna e santi5. Vittorio Lusini riferiva a questo stesso sacello un documento del 1315 in cui si accenna a una somma di 300 fiorini da ottenere da messer Giovanni fiorentino per la costruzione di una cappella6. La pur generica notizia, che richiama il legame con la città d’origine del movimento servita, è in ogni caso importante per la vicenda costruttiva dell’ampliamento della fabbrica della chiesa senese avviato nei decenni precedenti, forse a un punto tale da consentire l’assegnazione dei primi altari privati, della cui effettiva costruzione non si hanno d’altra parte riscontri immediati7, mentre sembra più probabile che le cappelle presbiteriali siano state realizzate verso il quarto decennio del Trecento, compresa quella a destra concessa a Guglielmaccio Petroni. Grazie ai documenti rintracciati da Lusini è possibile seguire il procedere dei lavori di ingrandimento del transetto, con la conclusione oltre un secolo più tardi della cappella maggiore di patronato di Petrone Petroni (1441) e la creazione delle due dei Luti alle estremità dei bracci8. La ricostruzione della chiesa procedette fino al XVI secolo, ma le caratteristiche degli affreschi superstiti dimostrano che la decorazione delle cappelle presbiteriali fu attuata già entro la metà del Trecento, a breve distanza dal momento della loro probabile edificazione. Gli studiosi che hanno trattato degli affreschi dei due sacelli hanno concordemente sottolineato la loro matrice lorenzettiana, a volte indicando nell’uno o nell’altro dei due fratelli l’autore di uno dei riquadri di entrambe le cappelle: ad Ambrogio pensava Lusini per la Strage degli Innocenti della Petroni e a Pietro van Marle e Toesca, il quale gli riferiva entrambe le scene della Spinelli9. La mancata o inesatta distinzione delle diverse mani attive nelle due cappelle ha complicato la via verso una corretta assegnazione dei diversi affreschi ed è curioso che, sebbene molti studiosi abbiano rilevato la presenza di Niccolò nell’impresa, il suo intervento sia stato frainteso e riferito a brani che invece non gli sono pertinenti: già van Marle nel 1934 lo indicava come collaboratore per la figura di Sant’Agnese nella cappella Petroni, mentre nel 1961 Ferdinando Bologna, seguito vent’anni dopo da Giovanna Damiani, gli ha assegnato la Strage degli Innocenti, notando altresì negli affreschi della Spinelli un legame con l’autore del polittico della Resurrezione, per lui evidentemente distinto da Niccolò10. La stessa scena è creduta invece di Francesco di Segna da De Benedictis, che lo identifica col cosiddetto Maestro dei Servi e lo immagina all’opera insieme a Niccolò e ad altri seguaci di Pietro Lorenzetti, il quale avrebbe progettato gli affreschi di entrambe le cappelle11. Privato del riferimento al secondo figlio di Segna, il nome di questo anonimo è ripreso per entrambe le cappelle da Michel Laclotte, che rifiuta l’ipotesi della partecipazione di Niccolò12. Sebbene non manchi chi pensa ancora a
Cfr. Galli, in Duccio 2003, pp. 358-360, cat. 56. Crociani 1996. L’autore cita documenti reperiti presso la Biblioteca Pubblica (Diplomatico) e l’Archivio di Stato di Siena (ASSi, Conventi, n. 2610, c. 37; n. 2611, c. 5v; n. 2612, cc. 35v-36), rispettivamente per la prima e la seconda data. 6 Lusini 1908, pp. 12, 53 nota 30. Anche Strehlke 2004, p. 339 nota 6. Non è d’aiuto lo stemma già descritto, che non corrisponde a quello degli Spinelli e non è stato possibile accostare a nessuna specifica famiglia o figura. 7 Il testamento di Vitaleone Altimanni risale al 1309 (Lusini 1908, p. 53 nota 35) e la sua cappella risulta compiuta all’epoca del testamento di Guidoccio del 1334 (Crociani 1996). 8 Lusini 1908, pp. 9-17. Per le tappe della ricostruzione della chiesa cfr. anche Pepi 1970, in particolare pp. 18-22, per l’ampliamento del presbiterio nel XIV secolo, con citazione delle notizie più antiche sulle cappelle (tra cui quella relativa a messer Giovanni fiorentino, di cui non è meglio precisata l’identità). La fondazione della cappella Spinelli da parte di Guidoccio di Accorso viene riferita al 1323 a p. 64. 9 Lusini 1908, pp. 40-41. Van Marle 1934, II, p. 150. Toesca 1951, p. 566 nota 88. A Pietro pensano anche Berenson, che gli assegna tutti gli affreschi di entrambe le cappelle, e Carli (cfr. bibliografia specifica). 10 Bologna 1961, p. 36. Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 95. 11 De Benedictis 1979, pp. 31, 83. 12 Laclotte-Mognetti 1976, cat. 160. M. Laclotte, in L’art gothique siennois 1983, p. 120. Lo studioso francese assegna 4 5
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco un generico seguace di Pietro Lorenzetti attivo nei due sacelli13, la critica più recente si è finalmente concentrata sulla scena del Transito di San Giovanni Evangelista, riconoscendovi la mano di Niccolò: così in particolare Paolo Torriti, Beatrice Franci14 e Andrea De Marchi, il quale inoltre, chiarita definitivamente la differenza delle mani attive nei riquadri affrescati, ha suggerito per l’episodio dedicato al Battista la paternità del giovane Niccolò di Ser Sozzo negli anni Quaranta15. L’intervento di Niccolò di Segna si può riconoscere anche in alcune delle figure entro tondi, localizzate perlopiù nelle zone superiori delle due scene, mentre quelle più basse sono riferibili al possibile Niccolò di Ser Sozzo: sono certamente del più anziano i Santi Leonardo, Stefano e Filippo Benizi e il Beato Gioacchino Piccolomini da una parte e i Santi Lorenzo e Bernardo dall’altra; qualche dubbio, a causa del cattivo stato di conservazione, sollevano le figure dei Santi Filippo e Michele e quella del probabile Beato Francesco Patrizi, quasi completamente perduto16. Si tratta dunque di un’impresa di compagnia, in cui i due pittori si consociano e si dividono equamente il lavoro. Relativamente al Transito, gli stessi studiosi fissano la cronologia al quinto decennio del Trecento. Strehlke e De Marchi aggiungono al dato stilistico anche l’osservazione della presenza, tra le figure nei clipei, di diversi frati serviti morti nella prima metà del XIV secolo e in particolare di Pellegrino Laziosi (o Lazise) da 102. Siena, basilica di Santa Maria dei Servi, Forlì, raffigurato come gli altri con l’aureola rotonda propria dei santi e beati non più in vita17. Il momento della sua morte, avcappella ex Spinelli venuta probabilmente verso il 1345, può così essere considerato un congruo e probabilmente ravvicinato terminus post quem per 18 la realizzazione del Transito , che difatti si inserisce bene tra le opere della maturità di Niccolò, caratterizzate da figure più volumetriche ed espressive, risultando tuttavia più vicino al linguaggio della Croce n. 46 (cat. 18) che alle opere estreme legate all’Alta Val Tiberina (cat. 22-23). La presenza del beato Tommaso da Massa (ovvero, probabilmente, da Orvieto), raffigurato con le stesse caratteristiche, fornisce d’altronde, a rigore, un più preciso post quem al 1343, data della sua morte.
al Maestro dei Servi un piccolo corpus di opere di carattere lorenzettiano: la piccola tavola con la Madonna col Bambino, Angeli e Santi del Musée du Petit Palais di Avignone e la Crocifissione dipinta nel chiostro di San Francesco a Montalcino. 13 Così Freuler (1997, p. 18), che propone inoltre di individuare l’intervento del giovane Biagio di Goro Ghezzi nella Sant’Agnese Petroni e in alcune figure del Banchetto di Erode Spinelli. Inoltre Galli, in Duccio 2003, pp. 358, 360. 14 Torriti 1999, pp. 49-50, 62 nota 24; l’autore dà a Niccolò anche i santi a figura intera e quelli nei clipei. Franci, in Duccio 2003, p. 365; Eadem, in La Collezione 2009, I, p. 89; Eadem 2013. Inoltre Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 498, e già Cateni 1982-1983. 15 Comunicazione orale, a seguito di un recente studio dello stesso De Marchi, che aveva già accennato all’intervento nella scena del Banchetto di un aiuto di Pietro, attivo nelle figure superiori del polittico di San Giusto, in Volpe 1989, p. 198. 16 L’iscrizione lascia intendere il nome “[Franc]iscus”, ma la testa incappucciata come quella del Beato Giovanni di Sassonia, insolita nell’iconografia trecentesca del santo di Assisi, fa propendere per l’identificazione col beato servita. 17 L’aureola è in realtà propria dei soli santi, ma non mancano esempi di beati già raffigurati col nimbo: un esempio su tutti è rappresentato da Nicola da Tolentino. 18 Strehlke 2004, p. 339 nota 6. Commento orale di De Marchi. Gli altri serviti a cui si fa riferimento sono, oltre a Tommaso da Massa, Gioacchino Piccolomini, Andrea Dotti e Francesco Patrizi, questi ultimi tre morti rispettivamente nel 1306, 1315 e 1328. Per la figura di Pellegrino Laziosi e l’incertezza della data di morte, per la quale generalmente si dà fede dalla fine del XVI secolo all’indicazione di fra’ Tommaso da Verona, cfr. Serra 1999, pp. 55-109, in particolare pp. 74-75, 81.
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103. Niccolò di Ser Sozzo (?), Banchetto di Erode e decollazione di San Giovanni Battista, Siena, basilica di Santa Maria dei Servi, cappella ex Spinelli È facilmente individuabile la dipendenza iconografica della cappella Spinelli dalla decorazione realizzata da Giotto nella cappella Peruzzi in Santa Croce, ugualmente dedicata ai due san Giovanni, nei cui registri inferiori sono presenti entrambe le scene raffigurate a Siena. Come a Firenze, viene omesso il momento principale della vita del Battista, il Battesimo di Cristo, in favore della scena del Banchetto e si inserisce un evento controverso della leggenda dell’Evangelista quale è il Transito19 (fig. 105). A parte alcune varianti nell’aggiunta di rimandi ad altri episodi, gli impaginati sono affini, soprattutto per quest’ultima scena, molto rara e attestata per la prima volta proprio nella Peruzzi20, la cui datazione è tuttora dibattuta. Nonostante il lascito di Donato Peruzzi del 1292 e l’attestazione di un sepolcro di quella famiglia in Santa Croce nel 1303, Monciatti ha richiamato l’attenzione sulla mancanza di riferimenti sicuri per il momento dell’edificazione della cappella e della sua decorazione, che De Marchi ritiene, anche in base alla lettura organica di tutti gli affreschi del transetto, riferibile ai primi anni del terzo decennio21. Nella Spinelli dunque si riprendono a circa vent’anni di distanza affreschi fiorentini e c’è da chiedersi a chi si debba questa scelta, se al committente, alla comunità servita o al pittore responsabile dell’ideazione del complesso decorativo. Nel primo caso risulta suggestiva la notizia relativa al possibile coinvolgimento del “messer Giovanni da Firenze”, che nel 1315 dovrebbe aver contribuito all’erezione della cappella, per la coincidenza onomastica e la matrice fiorentina della doppia intito-
19 La particolarità della selezione agiografica fiorentina è sottolineata da Alessio Monciatti in Monciatti-Frosinini 2011, pp. 607-622: 613-614 (il contributo specifico di Monciatti, I Peruzzi e la loro cappella in Santa Croce. Appunti in vista di una riconsiderazione, è a pp. 607-617). 20 Tintori-Borsook 1965, pp. 26-28. 21 Monciatti, in Monciatti-Frosinini 2011, pp. 607-611. De Marchi 2010a, p. 17.
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104. Pittore senese della metà del XIV secolo, Strage degli Innocenti, Siena, basilica di Santa Maria dei Servi, cappella ex Petroni lazione, sebbene la data del documento sia decisamente troppo precoce in riferimento alla decorazione del transetto dei Servi come di Santa Croce. Si potrebbe semmai pensare alla possibilità di un intervento iniziale del benefattore fiorentino per la costruzione di un sacello poi passato ad altri, pur mantenendo memoria dell’origine nella dedica di ascendenza francescana22. La stessa comunità dei Servi di Siena potrebbe del resto aver favorito la ripresa di una delle principali imprese artistiche della città d’origine dell’Ordine, così come potrebbe aver avuto una parte importante nell’ingaggio di Niccolò di Segna, essendosi già affidata al padre per un probabile polittico di cui resta la Madonna col Bambino ora esposta presso la cappella Petroni23 e a Ugolino di Nerio, altro pittore vicino al nostro. Guardando al percorso artistico di Niccolò, a cui si può proporre di assegnare un ruolo preminente nella gestione dei lavori della cappella Spinelli per l’estensione del suo intervento anche alle figure dei santi presso le finestre e alla collocazione più prestigiosa dei suoi tondi con santi, non si può escludere un qualche suo merito almeno nella scelta dei soggetti tratti dalla cappella fiorentina, che sono stati certamente il suo modello nel quinto decennio e che egli poteva avere già presenti per averli visti – da poco realizzati – al tempo dell’impresa di Ugolino per i francescani di Santa Croce.
22 Monciatti fa notare come la dedica ai santi Giovanni Battista ed Evangelista, apparsi a San Francesco insieme a Cristo e alla Vergine, sia ben pertinente alla chiesa di Santa Croce e a un ambito francescano (Monciatti, in Monciatti-Frosinini 2011, p. 613); meno stringente invece risulta in una chiesa servita, rimandando così con più forza al modello fiorentino. 23 Non sembra possibile identificare questo polittico perduto con quello citato nella cappella Spinelli nella visita pastorale del 1575 perché, seguendo il ragionamento di Luciano Cateni, che riferisce la cosiddetta “Madonna dei Servi” a un ingente pagamento del 1319, la pala sarebbe stata troppo grande, stando alla cospicua entità della somma stanziata; inoltre questa data precoce rispetto all’erezione del sacello rende improbabile che quell’opera di Segna fosse stata pensata fin dall’origine per quella sede (cfr. Cateni, in Duccio 2003, p. 324).
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105. Giotto, Transito di San Giovanni Evangelista, Firenze, basilica di Santa Croce, cappella Peruzzi
Bibliografia Brigidi 1897, p. 131; Lusini 1908, pp. 40-41; De Wald 1930, pp. 32-34; Berenson 1932, p. 294; Sinibaldi 1933, p. 184; van Marle 1934, II, p. 150; Berenson 1936, p. 253; Toesca 1951, p. 566 nota 88; Bologna 1961, p. 36; Tintori-Borsook 1965, pp. 26, 28; Berenson 1968, I, p. 221; Carli 1970, p. 22; Pepi 1970, p. 64; Laclotte-Mognetti 1976, cat. 160; Maginnis 1977, p. 293; De Benedictis 1979, pp. 31, 83; Carli 1981, pp. 163-166; Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 95; Cateni 1982-1983; Laclotte, in L’art gothique 1983, p. 120; De Benedictis 1986, p. 337; Volpe 1989, pp. 198, 207; Crociani 1996; Freuler 1997, p. 18; Torriti 1999, p. 49; Franci, in Duccio 2003, p. 365; Galli, in Duccio 2003, pp. 358, 360; Strehlke 2004, p. 339 nota 6; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 498; Bagnoli 2017, p. 468.
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22. Niccolò di Segna
Polittico della Resurrezione - Cristo risorto e i Santi Caterina d’Alessandria, Giovanni Evangelista, Benedetto, Agnese (ordine principale); i Santi Bartolomeo e Cecilia(?), due Vescovi, Lorenzo e Ansano, Maria Maddalena e Scolastica, quattro Evangelisti (ordine superiore); i Santi Pietro, Giovanni Battista, Paolo, Romualdo, Mauro(?), Placido(?) (attuali cuspidi); Storie della Passione di Cristo: Flagellazione, Salita al Calvario, Crocifissione, Deposizione dalla croce, Deposizione nel sepolcro (predella) Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista 1348 ca. Tempera e oro su tavola Cm 350 x 250 Provenienza: Sansepolcro, badia camaldolese poi cattedrale di San Giovanni Evangelista; Sansepolcro, chiesa di Santa Chiara (già Sant’Agostino); Sansepolcro, Museo Civico; Firenze, Galleria dell’Accademia, depositi (1942-1946 ca.); Sansepolcro, cattedrale di San Giovanni Evangelista (dal 1955 ca.); Sansepolcro, Museo Civico (fino al 1979).
Nell’ampia tavola centrale del pentittico, conservatosi pressoché integro, è raffigurato il momento della Resurrezione di Cristo, il quale regge il vessillo e pone un piede sul bordo del sepolcro, davanti a cui stanno quattro soldati addormentati. A ciascuno dei quattro santi laterali dell’ordine principale corrisponde in quello superiore una coppia di figure entro archi a sesto acuto, nei cui spazi di risulta si inseriscono le figure degli Evangelisti, mentre all’esterno delle cornici dei santi maggiori si trovano coppie di angeli1. La predella è composta da cinque scomparti con Storie della Passione, con la Crocifissione al centro più ampia. Sei tra santi e monaci camaldolesi a figura intera sono posti a coronamento del complesso, a mo’ di cuspidi. I fondi oro e le aureole di ciascuna tavola sono riccamente decorati, come tipico in Niccolò: è stata utilizzata in particolare la tecnica della granitura con elementi vegetali a risparmio, mentre i punzoni sono impiegati soprattutto per la definizione dei bordi delle fasce così decorate. Prima che Stubblebine ne facesse l’opera eponima del Maestro di Sansepolcro2, la probabile paternità di Niccolò di Segna era stata indicata da Cavalcaselle3, la cui intuizione fu sostenuta più tardi da Roberto Longhi4, che esprimeva grande apprezzamento per il polittico e rifiutava le tradizionali generiche attribuzioni ad anonimi senesi di retaggio duccesco o lorenzettiano, che d’altronde continuarono a essere proposte anche in seguito5. Coor suggerì poi un’attribuzione alternativa al fratello di Niccolò, fatta propria da De Benedictis, che generalmente ha assegna-
1 Resta controversa l’identificazione di alcuni dei santi minori, in particolare i due vescovi corrispondenti al San Giovanni Evangelista, per i quali recentemente Liletta Fornasari (in Il Duomo di Sansepolcro 2012, pp. 236-238, cat. 8) ha proposto i nomi di Ambrogio e Agostino e che invece Christa Gardner von Teuffel (1999, pp. 171, 202 nota 51) aveva messo in relazione con i vescovi di cui l’abbazia camaldolese possedeva delle reliquie: Biagio, Martino e Nicola. Seguendo quest’ultimo criterio, che permette anche di giustificare la presenza dei santi Lorenzo e Maddalena, si potrebbe cercare di riconoscere nella seconda figura da sinistra santa Cecilia, di cui ugualmente l’abbazia aveva delle reliquie. Gardner von Teuffel ha anche proposto per i tre santi camaldolesi delle “cuspidi” i nomi di san Romualdo e, con più incertezza, san Mauro e san Placido. 2 Stubblebine 1979, I, pp. 155-156. 3 Cavalcaselle-Crowe 1864, II, p. 59. 4 Longhi 1946, p. 158; Idem 1951, p. 54. Un poco pertinente accostamento all’ambito di Taddeo di Bartolo era stato proposto da Berenson (1936, p. 454). Perkins (1930, pp. 248-254) rifiuta la proposta di Cavalcaselle, pur riconoscendo nell’opera caratteristiche derivate da Segna di Bonaventura, arricchite con l’esempio di Pietro Lorenzetti. 5 Cfr. Refice 2005, pp. 87-89. Per le attribuzioni antecedenti all’intervento di Longhi si rimanda alla bibliografia specifica (influssi di Pietro Lorenzetti sono segnalati in particolare da Perkins e Chiasserini).
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco to a Francesco le opere di qualità più sostenuta del catalogo di Niccolò6. Sul nome del fratello più noto si sono comunque attestati i pareri più recenti, con rare eccezioni7, confortati anche dai documenti pubblicati da Franco Polcri che testimoniano la commissione di un polittico per la chiesa di Sant’Agostino di Borgo Sansepolcro nel 1346 e il pagamento a Niccolò nel 13488. Polcri ha creduto di poter riferire queste notizie proprio al polittico della Resurrezione, che effettivamente fu in quella chiesa per diversi secoli, quand’era ormai passata alle Clarisse. Tuttavia l’opera non ha un’iconografia agostiniana9: la presenza nell’ordine principale di san Benedetto in veste bianca, come i monaci delle cuspidi, e di altre figure care alla spiritualità camaldolese (come santa Scolastica) chiarisce l’origine in seno a quest’Ordine, a cui apparteneva l’abbazia intitolata – regolarmente dal 1340, anno della riconsacrazione seguita alla parziale riedificazione attuata dal 1300 circa – a san Giovanni Evangelista, che occupa nel polittico la posizione d’onore, confermando così la provenienza dall’attuale cattedrale (titolo acquisito nel 1520)10. Il soggetto centrale, che rimanda all’antica intitolazione dell’abbazia e al nome stesso della città, esplicita inoltre il valore civico dell’opera. Una “cappella de legnamine” commissionata al legnaiolo Muccio di Cecco nel 1402 per l’altare maggiore di San Giovanni Evangelista, citata in un documento reperito da Matteo Mazzalupi, doveva servire dunque a contenere l’opera di Niccolò11. Nel 1979 il polittico è stato ricollocato sull’altare originario, dal quale era stato rimosso nel XVI secolo per essere trasferito nella clausura della chiesa di Sant’Agostino12, intitolata nel frattempo a Santa Chiara per l’avvicendamento coatto delle Clarisse agli Agostiniani, voluto da Cosimo I de’ Medici nel 155513. Del resto entro il 1509 per l’altare maggiore di San Giovanni Evangelista era stata realizzata l’Ascensione del Perugino14. È possibile, come crede Polcri, che corrisponda al polittico della Resurrezione la descrizione riportata in una visita pastorale del 1635 di un “altare supra quod sunt nonnulle imagines et xanti pretiosi et antiqui” in Santa Chiara15. Cavalcaselle nel 1864 lo vide in ogni caso nella sacrestia di questa chiesa, mentre le tavolette della predella e delle “cuspidi” erano state poste sulla cantoria16. Sullo scorcio del secolo Mary Smith Costelloe (futura signora Berenson) descrive nella stessa posizione le tavole minori e le principali sulla parete sinistra della chiesa17. Una fotografia contenuta nel quaderno di ritagli di Helen Clay Frick del 1924 mostra il polittico – segnalato ancora in Santa Chiara – riunito alla predella e coronato dalle sei tavolette con santi a figura intera18. Il complesso fu trasferito di lì a poco nel Museo Civico e, dopo diversi passaggi nel corso del Novecento, fu definitivamente ricollocato nella sua sede attuale.
Coor Achenbach 1954-1955, p. 90. De Benedictis 1979, p. 83. Inoltre Carli 1981, p. 74. Casciu 1992, pp. 34-36 (Maestro di Sansepolcro). 8 Polcri 1995, pp. 35-40, con trascrizione dei documenti. Anche Idem 1996, p. 74. Nel 1322 Fuccio di donna Imeldina stanzia per la realizzazione di una pala per l’altare della chiesa di Sant’Agostino una somma di denaro che risulta disponibile dal 1346 e due anni più tardi servirà per il compenso di Niccolò di Segna (cfr. infra §1). 9 Gardner von Teuffel 1977, pp. 34-36. Eadem 1999, p. 201 nota 35. A smentire l’ipotesi di Polcri, dopo Gardner von Teuffel, è tornato anche Banker 2001, p. 214. 10 Cfr. Pincelli 2012, pp. 44-45. Notizie sui Camaldolesi di Sansepolcro furono raccolte da Mittarelli-Costadoni 1755-1773. 11 Di Lorenzo-Martelli-Mazzalupi 2012, p. 104. 12 Cfr. Israëls 2013, pp. 55-56. 13 Gli Agostiniani si stabilirono presso la pieve di Santa Maria: cfr. Mattei O.S.A. 2009, pp. 75-77. 14 Casciu 1998, pp. 11-42. Gardner von Teuffel 1999, pp. 170 e ss. 15 Polcri 1995, pp. 36, 39 nota 19. L’autore porta la notizia a supporto della pertinenza del polittico della Resurrezione a Sant’Agostino, non tenendo conto degli spostamenti subiti dall’opera. 16 Cavalcaselle-Crowe 1864, II, ibidem. Ancora in Santa Chiara il polittico è citato in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, pp. 29-30; risulta ricomposto nella cappella accanto alla sacrestia in Hutton, in Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 23. Gli scomparti della predella erano già stati notati nel 1832 da Giacomo Mancini (p. 272), che li assegnava a Pietro Lorenzetti; così anche Longhi 1963, pp. 127, 221. 17 Cfr. Israëls 2013, p. 56, fig. 26. In un appunto conservato nell’Archivio Berenson (Mary Berenson Art Notebook, “Umbria”, 1897-1899) con la riproduzione del polittico e la disposizione delle tavolette sul parapetto della cantoria, l’americana attribuisce l’opera a Segna di Bonaventura. 18 Cfr. Silver 2013a, p. 18, fig. 5. 6 7
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco L’importanza dei documenti trecenteschi reperiti da Polcri non è comunque sminuita dalle rettifiche alla loro lettura, poiché essi forniscono utili conferme sulla presenza di Niccolò a Sansepolcro verso la metà del Trecento, dove avrebbe dunque realizzato due polittici, come già hanno sostenuto Christa Gardner von Teuffel e James Banker19. In effetti un testamento del 5 febbraio del 1348, rintracciato da Donal Cooper, documenta che “Gherus q(uondam) Ugutii de Robertis” aveva stanziato una somma di 100 lire, di cui l’abate di San Giovanni Evangelista avrebbe dovuto disporre per la realizzazione di un ornamento per l’altare maggiore, che giustamente lo studioso identifica con il polittico della Resurrezione, in relazione indiretta coi pagamenti per il polittico per Sant’Agostino documentati nel corso dello stesso 134820. Niccolò, contrariamente a quanto spesso sostenuto, deve essere sopravvissuto alla peste e aver portato a compimento la commissione negli anni immediatamente successivi. Del polittico riferito dai documenti alla chiesa di Sant’Agostino invece non resta nulla se, come proposto di recente, si preferisce non riferirvi le otto tavolette con santi a mezzo busto ora conservate in diverse collezioni americane ed europee21 (cat. 23). Esso dovette comunque essere sostituito dal polittico commissionato nel 1454 a Piero della Francesca dagli Agostiniani, che lo portarono con sé quando dovettero lasciare la loro sede storica a metà del Cinquecento. Per quest’opera Piero utilizzò la carpenteria già destinata a un polittico per la chiesa di San Francesco, esemplata a sua volta sulla struttura del polittico della Resurrezione (probabilmente simile a quello di poco precedente per Sant’Agostino) come quella del polittico francescano poi effettivamente realizzato dal Sassetta22; la ricostruzione ideale del complesso di Piero consente di sostenere la presenza originaria anche nell’opera di Niccolò di contrafforti laterali poggianti a terra ai lati dell’altare su cui era posta l’opera23. A questi pilastri sono state ricondotte le sei figure di santi ora poste sulla sommità delle tavole principali come cuspidi, che dovevano invece essere disposte tre per lato in verticale24. Fin dalle prime osservazioni critiche è stato facilmente riconosciuto nelle figure del polittico un forte richiamo alla maniera di Pietro Lorenzetti. I principali modelli della produzione del maestro a cui Niccolò attinge per la sua opera datano ad alcuni decenni prima: il ciclo assisiate delle Storie della Passione, che comprende le analoghe scene della Resurrezione e della Deposizione, citate nella predella, e la Pala del Carmine, realizzata per la chiesa senese dell’Ordine nel 1329, ora alla Pinacoteca Nazionale di Siena, da cui Niccolò riprende la struttura del complesso, con la tavola centrale dilatata e di forma approssimativamente rettangolare25. L’evidenza volumetrica delle figure dei santi, che si inseriscono in maniera sempre più convincente nello spazio con movimenti armoniosi, si accompagna a fisionomie aggraziate in cui i tratti marcati tipici della produzione del quinto decennio sono mitigati da un ritorno all’uso sapiente del chiaroscuro. Un linguaggio che porta a compimento, superandolo, il processo caratterizzato dalla ricerca di tridimensionalità attraverso l’ingrossarsi delle linee e l’inasprirsi delle ombre nella Croce n. 46 (cat. 18) e che risulta sostanzialmente in linea con la produzione a fresco dello stesso decennio, in particolare col ciclo della chiesa dei Santi Leonardo e Cristoforo a Monticchiello (cat. 20). Con le figure dei due santi titolari della pieve pientina sono confrontabili rispettivamente il San Lorenzo dell’ordine superiore e il Risorto, che tuttavia mostrano tratti più raffinati, tipici appunto della produzione estrema di Niccolò. Ancora da Pietro, segnatamente dalla probabile Sant’Agata ora a Le Mans ma già parte del polittico della stessa chiesa di Monticchiello, pare ripreso il gesto informale di trattenere
Gardner von Teuffel 1977, pp. 34-36; Eadem 1999, pp. 167-171. Banker 2001, pp. 214-215. Così anche Israëls 2013, pp. 51-52. 20 Cooper 2004, pp. 125, 128 nota 2. Per il testamento: ASFi, Notarile Antecosimiano, 2263, filza testamenti, n. 34. L’abate in questione è da identificare con Francesco, in carica dal 1338 al 1350, per cui si veda Agnoletti 1976, p. 90 (cfr. Gardner von Teuffel 1999, pp. 169, 201 nota 32). 21 Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499. Laclotte (in La Collezione 2009, I, pp. 158-161) ha inoltre smentito l’ipotesi di Gardner von Teuffel (1999, p. 195) di riconoscere come parti del perduto complesso agostiniano le due coppie di santi provenienti dall’ordine superiore di uno stesso polittico, ora in collezione Salini presso Asciano, assegnate dallo studioso francese a Pietro Lorenzetti. 22 Di Lorenzo 1996, pp. 13-15, 24-27, 36. Banker 2001, p. 214. Israëls 2013, pp. 55-56. 23 Gardner von Teuffel 1977, ibidem. Banker 1991, p. 17. 24 Gardner von Teuffel 1979, pp. 34-35. De Marchi 2004, p. 35; Idem 2009, p. 86. Israëls 2013, p. 52, fig. 25; Eadem, in The Bernard and Mary 2015, ibidem. 25 Cfr. Volpe 1989, pp. 60-64, 77, 84, 135-148. 19
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Niccolò di Segna in alto la veste con una mano, proposto nella Sant’Agnese di Sansepolcro, che per altri versi ricorda quella a figura intera della Pala del Carmine26. Anche la decorazione delle parti dorate dimostra la volontà di proporre nuove soluzioni, con l’aggiunta delle fasce perimetrali con granitura a risparmio, la stessa tecnica usata per le aureole, dove l’impiego dei veri e propri punzoni risulta più marginale, ad eccezione dei nimbi di quattro dei sei santi dei contrafforti27. Se la ricchezza della decorazione e l’eleganza della tavolozza risultano tradizionali elementi identificativi di Niccolò, resta in questo polittico l’unica effettiva testimonianza del cimentarsi del pittore in scene narrative, che guardano ai modelli dei principali maestri senesi e testimoniano la sua capacità di gestione spaziale e registica, che ancora una volta sembra debitrice a Pietro Lorenzetti28. Bibliografia Mancini 1832, p. 272; Cavalcaselle-Crowe 1864, II, p. 59; Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 35; Coleschi 1886, p. 180; Franceschi Marini 1904; Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 29; Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 23; Franceschi Marini 1912, pp. 174-175; van Marle 1924, II, p. 156; Perkins 1930, pp. 248-254; Berenson 1936, p. 454; Longhi 1946, p. 158; Mostra 1947, p. 33; Moriondo, in Mostra 1950, p. 78; Chiasserini 1951, pp. 11-18; Longhi 1951, p. 54; Coor Achenbach 1954-1955, p. 90; Longhi 1963, pp. 127, 199, 221; Zeri 1967, p. 477; Salmi 1971, pp. 81, 91 nota 18; Agnoletti 1977, pp. 23-24; Gardner von Teuffel 1977, pp. 34-36 nota 40; De Benedictis 1979, p. 83; Gardner von Teuffel 1979, pp. 34-35; Stubblebine 1979, I, pp. 155-156; Carli 1981, p. 74; Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 95; Agnoletti 1984, pp. 45-49; De Benedictis 1986, p. 337; Leoncini, in La pittura in Italia 1986, II, pp. 571, 642; Banker 1991, p. 17; Casciu 1992, pp. 34-36; Polcri 1995, pp. 35-40; Di Lorenzo 1996, pp. 24-27, 36; Polcri 1996, p. 74; Casciu 1998, p. 34; Gardner von Teuffel 1999, pp. 167-171; Torriti 1999, pp. 49, 62; Banker 2001; Banker 2003, pp. 175, 193; Franci, in Duccio 2003, p. 365; Cooper 2004, pp. 125, 128 nota 2; Banker 2005, pp. 11-12; Gardner von Teuffel 2005, pp. 432-433; Refice 2005, pp. 87-89; Matteuzzi 2008, p. 326; Banker 2009, p. 567; De Marchi 2009, p. 86; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Israëls 2009, pp. 248-249; Di Lorenzo-Martelli-Mazzalupi 2012, p. 104; Fornasari, in Il Duomo di Sansepolcro 2012, pp. 236-238, cat. 8; Mazzalupi 2012, pp. 14-15; Franci 2013; Israëls 2013, pp. 51-56; Silver 2013a, p. 18, fig. 5; Silver 2013b, pp. 32-33, 38-40; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499; Bagnoli 2017, p. 468.
Cfr. Volpe 1989, p. 113. Il tetralobo dei nimbi dei Santi Paolo e Giovanni Battista è rintracciabile anche nella Madonna col Bambino in collezione Berenson del polittico di San Maurizio (Frinta 1998, p. 396, n. Jb98, come possibile Francesco di Segna) ed è simile a quello usato da Ugolino di Nerio e Bartolomeo Bulgarini (Skaug 1994, II, n. 347). 28 Si vedano ad esempio le scene della predella della Pala del Carmine e la tavoletta raffigurante San Savino con i suoi diaconi Marcello ed Esuperanzio dinanzi al governatore Venustiano ora alla National Gallery di Londra, riferita alla Natività della Vergine per l’altare di San Savino nel Duomo di Siena (Volpe 1989, p. 155). 26 27
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23. Niccolò di Segna
Santi 1348 ca.
23a.
Santo Vescovo (Gregorio?) Firenze, collezione privata Tempera e oro su tavola Cm 30 x 20 ca. Provenienza: Dublin (New Hampshire), Mrs. J. Lindon Smith.
23b-c.
San Giovanni Evangelista e San Giacomo Assisi, Museo Diocesano di San Rufino, collezione Perkins Tempera e oro su tavola Cm 33 x 21 ca. Provenienza: Lastra a Signa (Firenze), Frederick Mason Perkins.
23d-e.
Sant’Agostino e Sant’Ambrogio Ubicazione ignota Tempera e oro su tavola Cm 42 x 26 (con cornici) Provenienza: Genova, Gnecco; Milano, Bigli Art Broker.
23f-g.
Sant’Andrea e Sant’Antonio Abate Fairfield (Connecticut), The Bellarmine Museum of Art (inv. K1224a-b) Tempera e oro su tavola Cm 32,5 x 21 ca. Provenienza: Città di Castello, collezione privata; Firenze, Alessandro Contini Bonacossi; New York, Samuel H. Kress (dal 1939); Bridgeport (Connecticut), Museum of Art Science and Industry.
23h.
San Giuliano Ubicazione ignota Tempera e oro su tavola Cm 33 x 20 Provenienza: Roma, Sestieri; Roma, mercato antiquario (1949); Bruxelles, Cahen.
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Cat. 23a Le otto tavole raffigurano santi a mezzo busto entro una cornice con arco a sesto acuto, col fondo oro decorato lungo il perimetro con serie di punzoni a cuspide; le aureole sono ottenute con decoro fitomorfo a risparmio sulla granitura. Il San Giovanni Evangelista e il Santo Vescovo sono volti a destra, mentre le altre figure guardano più o meno decisamente dalla parte opposta, tranne il San Giacomo che si rivolge verso lo spettatore. Gli spazi di risulta della tavola rettangolare esterni all’ogiva sono decorati con intrecci trilobati o elementi circolari contenenti – dove visibile – piccoli animali, reali o fantastici. Che le tavole provengano dallo stesso contesto è confermato dall’identità della struttura, delle misure e della decorazione punzonata. Fu per primo Federico Zeri nel 1967 ad affermarne la reciproca pertinenza, aggiungendo
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Cat. 23b alle coppie di Sant’Andrea e Sant’Antonio Abate e di San Giovanni Evangelista e San Giacomo, rispettivamente già nelle collezioni Kress a New York e Perkins ad Assisi, le tavole dei tre Santi Vescovi e il San Giuliano (a lungo indicato come san Cristoforo), tutte relative a collezioni private1. Già assegnate genericamente alla scuola sene-
Zeri 1967, p. 477; Idem, in Fredericksen-Zeri 1972, p. 150. Per l’identificazione del presunto san Cristoforo col santo cavaliere dedito alla cura dei viandanti, a cui in effetti si addice la ricca veste con inserti di pelliccia, oltre alla palma del martirio, cfr. Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 499. 1
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Cat. 23c se dallo stesso Perkins oppure all’ambito di Pietro Lorenzetti da Shapley2, Zeri ha riferito le otto tavole all’autore del polittico della Resurrezione di Sansepolcro, da identificare a suo avviso con Niccolò o, meno probabilmente, con Francesco di Segna. A quest’ultimo le ha date De Benedictis, seguita da Leoncini, mentre Stubblebine le
2 Shapley 1966, p. 53, figg. 137-138. L’autrice cita inoltre le attribuzioni manoscritte a Pietro Lorenzetti e al suo ambito, o genericamente alla scuola senese, di Perkins, Suida, Longhi, Fiocco e Venturi.
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Cat. 23d ha assegnate al Maestro di Sansepolcro3. Franci ha poi riproposto il nome di Niccolò4, che è stato accolto dalla critica più recente5. In effetti la vicinanza degli otto santi alle figure del polittico di Sansepolcro, per fisionomie, volumetria e decorazioni, confortano nell’assegnazione al suo autore in un momento molto ravvicinato. Un confronto convincente è
De Benedictis 1979, pp. 11, 83; Eadem 1986, pp. 336 e ss. Stubblebine 1979, p. 156. Leoncini, in La pittura in Italia 1986, II, p. 571. 4 Franci, in Duccio 2003, p. 365. 5 Vedi bibliografia specifica. 3
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Cat. 23e offerto dal Santo Vescovo ora a Firenze con l’omologo dell’ordine superiore del polittico biturgense e d’altronde il San Giacomo già Perkins è il gemello di quello proveniente dal polittico di San Maurizio, ora in Olanda (cat. 16g). Superata la tentazione di riconoscere in queste tavole elementi del perduto polittico per Sant’Agostino a Sansepolcro per la presenza di due vescovi identificabili con Agostino e Ambrogio, De Benedictis ne ha ipotizzato la pertinenza ad un polittico forse originario di Città di Castello6, da dove provengono i due pezzi ora a Bridgeport, venduti a Samuel Kress nel 1939 da Alessandro Contini Bonacossi7. Nulla si conosce invece delle più antiche pro-
De Benedictis 1979, ibidem. Shapley 1966, ibidem.
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Cat. 23f venienze delle altre tavole, di molte delle quali, transitate sul mercato antiquario o in collezioni private europee e americane, si sono attualmente perse le tracce. Non si conoscono neppure le circostanze dell’acquisizione da parte di Frederick Mason Perkins delle due tavole che erano conservate nella sede assisiate della sua raccolta d’arte e poi nella sala della musica della sua abitazione a Villa Sassoforte a Lastra a Signa, presso Firenze, dove sono citate nell’inventario redatto dal collezionista nel 1947, edito a cura di Giuseppe Palumbo nel 19738. Molte opere sono
Palumbo O.F.M. 1973, pp. 71, 79, cat. 11-12. L’inventario è ripubblicato anche in Zeri 1988, p. 147. Durante la Seconda Guerra Mondiale furono sequestrati nel 1942 dalla villa di Lastra a Signa tre sculture e diciotto dipinti, solo
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Cat. 23g tornate ad Assisi nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso presso il Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco e il Museo Diocesano di San Rufino9, dove il San Giovanni Evangelista e il San Giacomo sono stati trasferiti più recentemente.
quattro di questi recuperati a Vienna nel 1948; tra il 1943 e il 1944 le opere assisiati furono conservate al sicuro all’interno del complesso di San Franscesco (Palumbo 1973, pp. 9, 12; le opere recuperate corrispondono nel catalogo ai nn. 54-57). 9 Cfr. Lunghi 1987; le due tavolette ora ad Assisi non vi sono schedate.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco
Cat. 23h La venatura verticale del legno dei supporti fa escludere che gli otto pezzi fossero in origine scomparti di predella; in generale le caratteristiche delle tavole non favoriscono una univoca proposta di destinazione. Sulla base anche dei dati materiali raccolti dalle analisi sul Sant’Antonio Abate e sul Sant’Andrea da Jill Deupi, che ha rintracciato possibili cavicchi laterali e fori di chiodi forse riferibili a un antico battente, Israëls ha suggerito che le otto tavole potessero aver composto, insieme ad altri elementi analoghi, i contrafforti di un imponente polittico o – suggestivamente – aver fatto parte di un dossale a doppio ordine, simile a quello di Memmo di Filippuccio nella Pinacoteca di San Gimignano, così come al dossale di Cecco di Pietro in Santa Marta a Pisa. Questi complessi, tuttavia,
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Niccolò di Segna sono composti da pezzi più grandi e d’altra parte la disposizione degli otto santi di Niccolò, cinque dei quali volti decisamente a sinistra, presupporrebbe la presenza di tre doppie serie di figure su entrambi i lati della plausibile Madonna col Bambino centrale e dunque la perdita di almeno quattro pezzi. La studiosa olandese è tornata inoltre sull’ipotesi di una provenienza umbra e ha notato come la collocazione periferica che parrebbe spettare al Sant’Agostino giochi a sfavore dell’identificazione di questi pezzi con quelli del polittico citato nei documenti reperiti da Polcri10. Del resto, come argomentato in questo volume (cat. 22), il polittico agostiniano biturgense aveva probabilmente forme simili a quelle del polittico della Resurrezione, con cui le otto tavolette non paiono compatibili. Rimane tuttavia aperta la possibilità che componessero l’ordine superiore di un ulteriore polittico, non ostando la forma e le misure. Resta il fatto che Niccolò fu molto attivo nel territorio dell’Alta Val Tiberina verso la metà del Trecento, con una produzione di alto livello e probabilmente per commissioni importanti di grandi dimensioni. La qualità di queste otto tavole è analoga a quella del polittico della Resurrezione ed esse appaiono ugualmente sviluppate nel solco dell’esempio lorenzettiano, sebbene perfettamente riconoscibili come opere di Niccolò di Segna. Bibliografia Berenson 1936, p. 340; Shapley 1966, p. 53, figg. 137-138; Zeri 1967, p. 477; Berenson 1968, I, 299; Fredericksen-Zeri 1972, p. 150; Palumbo O.F.M. 1973, pp. 71, 79; De Benedictis 1979, pp. 11, 83; Stubblebine 1979, I, p. 156; De Benedictis 1986, pp. 336 e ss.; Leoncini, in La pittura in Italia 1986, II, p. 571; Zeri 1988, p. 147; Franci, in Duccio 2003, p. 365; Franci 2013; Israëls 2013, pp. 51-52; Israëls, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499.
Israëls 2013, pp. 51-52, nota 45. Le indagini condotte da Deupi furono realizzate nel 2011-2012 presso l’Institute of Fine Arts Conservation Department della New York University, con la supervisione di Diane Modestini. Inoltre Eadem, in The Bernard and Mary 2015, pp. 498-499; Franci 2013. Cfr. cat. 22. 10
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Tavoletta di Biccherna Ginevra, collezione privata 1350 Tempera su tavola Cm 39,5 x 25 Provenienza: Colonia, Johann Anton Ramboux; Parigi, Henri Bordier (dal 1867). Iscrizioni: “LIBRO DE LENTRATA E DE LESCI|TA DE LA BICHERNA DEL COMUNE DI | SIENA DA KAL(ENDE) GIENAIO MCCCXL[V]IIII | A KAL(ENDE) LUGLIO MCCCL DO[N] LONARDO | MONACHO DI S(AN)CT(O) GALGANO NICHOLO | DI CIECHO MANETTI RICIARDO DI MIS(SERE) | PEPO UGURUGIERI ANDREA DI FRAN|CIESCHO PICHOLIUOMINI FRANCIESC|HO DI GHABRIELO KAMARLENGO E QU|ATRO AL DETTO TENPO FRANCIESCHO | DI MIS(SERE) DONATO LORO SCHRITTORE”.
Secondo lo schema tradizionale delle coperte dei registri semestrali della Biccherna, ufficio finanziario del Comune di Siena1, la metà inferiore della tavoletta è occupata da un’iscrizione in cui sono nominati i quattro tesorieri in carica: Niccolò di Cecco Manetti, Ricciardo di messer Pepo Ugurgieri, Andrea di Francesco Piccolomini, Francesco di Gabriello, i cui stemmi compaiono nella metà superiore sinistra. A destra è invece rappresentato il tesoriere don Leonardo, ugualmente citato in basso insieme allo scrittore Francesco di messer Donato. Il monaco cistercense, in cappa bianca, si trova dietro al bancone dell’ufficio della Biccherna su cui poggiano le monete del tesoro, i sacchi pieni e il calamaio; alle sue spalle si vede il cassone usato per riporre i denari. L’opera è ben conservata ed è stata sottoposta ad un leggero restauro di integrazione e ritocco nel 19832. L’incongruenza delle date riportate sulla tavoletta, gennaio 1344 e luglio 1350, è stata notata da Gaudenz Freuler, che ricorda che le cariche della Biccherna erano semestrali e indica la necessità di integrare la prima data con una V (MCCCXL[V]III), in modo che risulti quella del gennaio 1349 (1350 stile comune), momento in cui sono effettivamente attestati in carica i quattro personaggi citati nell’iscrizione3. La tavoletta, acquistata con altre trentuno da Johann Anton Ramboux a Siena4, entrò nella collezione parigina di Henri Bordier a seguito della vendita della raccolta del pittore tedesco, nel cui catalogo d’asta si trova la sua prima citazione5. In occasione della mostra di Avignone del 1983 la tavoletta è stata assegnata a Bartolomeo Bulgarini e messa in relazione ad altri pezzi dello stesso tipo6, tra cui Freuler rileva affinità in particolare con quelle relative agli anni 1339 e 1346 per l’impaginazione della scena figurata col tesoriere dietro al banco. Lo studioso svizzero tuttavia non accoglie l’attribuzione e si rifà invece a una proposta di Boskovits, secondo il quale l’autore del dipinto potrebbe essere individuato in Niccolò di Segna7. Freuler trova conveniente alla portata di questo pittore la resa più incerta dello spazio8, coi piani squadernati che in effetti ritroviamo in alcune delle sue rare scene narrative, come il Transito di San Giovanni Evangelista affrescato nella cappella Spinelli nella chiesa dei Servi di Siena (cat. 21). La fisionomia di don Leonardo contribuisce a confermare questa supposizione, mentre l’attenzione ai dettagli realistici viene messa da Freuler in relazione alla ripresa di elementi derivati dai Lorenzetti. Del resto, che Niccolò fosse sopravvissuto alla pestilenza del 1348 è confermato, più che dai pagamenti per il polittico agostiniano di Sansepolcro reperiti da Polcri e Cooper, riferibili a quell’anno, dalla effettiva realizzazione del polittico
Cfr. Le Biccherne 1984. G. Freuler, in Manifestatori 1991, p. 44, cat. 8. 3 Freuler, in Manifestatori 1991, ibidem. 4 Geffroy 1882, pp. 418-419. F. Avril, in Art gothique siennois 1983, p. 198. 5 Katalog 1862, pp. 60-61, cat. 17. 6 M.C. Léonelli, in Art gothique siennois 1983, pp. 199-200. 7 Boskovits 1985a, p. 337, n. 32. 8 Freuler, in Manifestatori 1991, p. 45. Più cauta Giorgia Corso, in Le Biccherne di Siena 2002, p. 154. 1 2
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della Resurrezione, commissionatogli con ogni probabilità dai monaci camaldolesi biturgensi a seguito del testamento del febbraio 1348, rintracciato dallo stesso Cooper9. Bibliografia Romagnoli ante 1835 (ed. 1976), II, pp. 505-514; Katalog 1862, pp. 60-61, cat. 17; Geffroy 1882, pp. 418-419; Avril-Léonelli, in Art gothique siennois 1983, pp. 198-200; Ceppari-Sinibaldi-Zarrilli, in Le Biccherne 1984, p. 104; Boskovits 1985a, p. 337; Freuler, in Manifestatori 1991, pp. 44-45, cat. 8; Corso, in Le Biccherne di Siena 2002, p. 154; Matteuzzi 2008, p. 325.
Cooper 2004, p. 125. Cfr. cat. 22.
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San Gregorio Magno appare a Santa Fina morente San Gimignano, collegiata di Santa Maria Assunta 1326 ca. Pittura a fresco Iscrizioni: “APPARET FINE DOC|TOR GREGORIUS AL|ME REVELANS OBI|TUM PROMICTENS | MUNERA PALME”, in basso a sinistra.
La lunetta sinistra della settima campata della navatella destra della collegiata di Santa Maria Assunta a San Gimignano è decorata con la scena dell’apparizione di san Gregorio Magno a Fina, da anni inferma a causa di una grave malattia, per predirle la prossima morte, che sarebbe avvenuta il 12 marzo 1253, nel giorno a lui dedicato. La giovane, con le mani giunte, è distesa su un’asse e la balia Beldia le sorregge il capo; in basso alcuni topi si avvicinano al suo corpo per cibarsi delle sue carni, piagate dalla lunga immobilità, secondo quanto tramandato dalle leggende della piccola santa1. L’affresco viene a trovarsi di fronte all’ingresso della cappella di Santa Fina, edificata da Benedetto da Maiano negli anni Settanta del XV secolo per accogliere il sepolcro da lui stesso realizzato e decorata da Domenico Ghirlandaio con due storie affrescate della santa: la stessa Apparizione di San Gregorio e le Esequie di Santa Fina2. Le recenti ricerche sulle strutture e la decorazione della collegiata e sulla relativa documentazione hanno permesso a Bagnoli di contestualizzare l’affresco nella storia costruttiva e devozionale dell’edificio sacro, ipotizzando che l’apertura dell’arco di accesso al sacello quattrocentesco abbia comportato la perdita di un’altra lunetta dedicata alla patrona di San Gimignano, raffigurante probabilmente i suoi funerali3. Lo studioso ha potuto formulare la fondata ipotesi che la settima campata fosse stata destinata alla venerazione della giovane santa a seguito della delibera dei Signori Nove di San Gimignano nel 1323 di traslare il corpo dalla pieve alla collegiata, entro un degno sepolcro, menzionato in effetti in un successivo documento del 1326, dove si fa riferimento anche a un altare e alla realizzazione della decorazione4. A queste date Bagnoli riferisce dunque l’affresco superstite, in relazione alla consuetudine di fornire le tombe dei santi novelli di rappresentazioni di significativi episodi delle loro vite. La lunetta precederebbe così di circa un decennio la decorazione delle navate con scene del Nuovo Testamento, realizzate dai fratelli Lippo e Tederigo Memmi5. Diversa rispetto a quella a cielo stellato delle campate corrispondenti a questo ciclo, la decorazione a quadrilobi della volta della settima campata, insieme agli elementi geometrici delle cornici e dei costoloni, dovrebbe essere pressoché coeva all’affresco della lunetta e rimandare alle fasi più antiche della costruzione della collegiata, nella zona del transetto verso il 1314 e poi nelle navate – a partire dalla destra – tra la fine del terzo e l’inizio del quarto decennio, secondo le testimonianze di alcuni documenti relativi a stanziamenti per le costruzioni (1327, 1333)6. Finora solo Bellosi nel 1970 si era espresso circa la possibile datazione dell’affresco, riferendolo all’inizio del terzo decennio e considerando il suo autore un pittore vicino a Segna di Bonaventura e Niccolò di Segna, a cui assegnare la Madonna col Bambino del Museo di Lucignano, gli affreschi della cappella Agazzari in San Martino a Siena (cat. 28-29) e, in modo meno pertinente, la Madonna di Cortona, opera dello stesso Niccolò (cat. 9). È sempre questo studioso a indirizzare Bagnoli ad assegnare a Francesco di Segna questo piccolo gruppo di opere7, confermato recen-
Cfr. Castaldi 1927. Beldia è protagonista di uno dei primi miracoli post mortem, avvenuti presso il corpo esposto della santa, che le avrebbe risanato la mano rattrappita per la lunga e costante opera di assistenza. 2 Cfr. Migliorini 2008. 3 Bagnoli 2009b, pp. 437, 439. 4 Cfr. Appendice (a cura di F. Pozzi), in La Collegiata 2009, nn. 32-34. 5 Spannocchi 2009, pp. 445-458. 6 Bagnoli 2009a, pp. 386-389; Idem 2009b, ibidem. 7 Bagnoli 1997, p. 18. 1
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco temente con alcune aggiunte. Le prime citazioni della lunetta proponevano invece il nome di Niccolò, sulla scia del parere di Cavalcaselle riportato nella guida di San Gimignano di Romualdo Pantini del 19118. Tuttavia già Carli aveva espresso dubbi su questa attribuzione9 e Padovani, notando la differenza di mano rispetto a Niccolò, aveva inserito l’affresco nel catalogo del Maestro della Croce di Buonconvento10, in parte coincidente col primo raggruppamento di Bellosi e in parte composto da altre opere, molte delle quali effettivamente da confermare a Francesco di Segna, pittore in cui si può identificare l’anonimo autore della Croce del Museo della Val d’Arbia (cat. 26). L’attribuzione a Niccolò non rende in effetti giustizia al più abile dei figli di Segna, con la cui produzione questa lunetta non mostra peraltro particolari affinità. Tra le opere assegnate a Francesco, la Madonna col Bambino di Lucignano offre invece nella piccola immagine di monna Muccia Ciantari (fig. 107) un buon confronto – per quanto più maturo – per la rappresentazione di santa Fina, per la linea della figura e delle mani poco definite e soprattutto per le caratteristiche del volto, in particolare il naso e la struttura ovale, che ritornano in molti altri affreschi di Francesco, come quelli di Santa Colomba (cat. 30) e della cappella Agazzari. In alcuni brani di questi ultimi ricorre inoltre l’effetto di ribaltamento dei piani che caratterizza la tavola su cui giace Fina, che contribuisce alla definizione di uno spazio schematico quanto illogico. Nella lunetta sono recuperati dettagli delle storie della Maestà di Duccio, in particolare il soffitto cuspidato del pinnacolo dell’Incredulità di San Tommaso, il cui effetto cassettonato viene ripreso anche da Simone Martini ad Assisi ed è del resto piuttosto diffuso a Siena. L’essenzialità e la scarsa padronanza dello spazio, in cui si inseriscono poco abilmente figure di qualità ancora acerba, confermano la collocazione proposta da Bagnoli nei primi anni di attività di Francesco, che probabilmente risente nella struttura dei personaggi e nelle profonde pieghe del panneggio di Beldia delle pitture già realizzate nella collegiata nei decenni precedenti ad opera di Memmo di Filippuccio e della sua bottega. Bibliografia Pantini 1911, p. 40; Chellini 1921, pp. 57-58; Perkins 1932b, p. 83; Carli-Cecchini 1962, p. 75, tavv. 52-53; Bellosi, in Arte in Valdichiana 1970, p. 9; De Benedictis 1979, p. 94; Padovani, in Mostra 1979, pp. 68-70; Boskovits 1982, p. 502; Padovani, in Mostra 1983, pp. 37-40; Bagnoli 1997, p. 18; Bagnoli 2003, pp. 276-277 nota 26; Bagnoli 2009b, p. 437; Franci 2013.
Pantini 1911, p. 40. Con l’eccezione di Perkins, che parla di un duccesco tardo, cfr. bibliografia specifica. Carli-Cecchini 1962, p. 75. 10 Padovani, in Mostra 1979, p. 68; Eadem, in Mostra 1983, pp. 37-40. Così anche Boskovits 1982, p. 502. 8 9
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Croce Buonconvento, Museo d’Arte Sacra della Val d’Arbia Fine del terzo decennio del XIV secolo Tempera su tavola Cm 154 x 192 Provenienza: Buonconvento, pieve dei Santi Pietro e Paolo.
Rintracciata dal pievano di Buonconvento don Crescenzio Massari nel sottotetto della chiesa, la Croce fu collocata nel 1926 nel piccolo museo da lui stesso creato in un locale a fianco della pieve dei santi Pietro e Paolo, che ha costituito il primo nucleo del Museo della Val d’Arbia1. L’opera si presenta in cattive condizioni, con importanti integrazioni del supporto ligneo, in particolare nelle cornici e in basso, dove la pittura originaria si interrompe poco sopra le caviglie del Cristo. Anche la superficie dipinta è in parte integrata, soprattutto in corrispondenza dei riquadri dei Dolenti e del tabellone, dove la decorazione geometrica è appena intuibile; in basso si scorgono due piccoli devoti, un uomo a sinistra e una donna a destra. Vecchie integrazioni lignee e pittoriche sono visibili in una fotografia del della Fototeca Berenson di Firenze, mentre altre immagini testimoniano il forte e a tratti irrimediabile degrado dell’opera2 (fig. 106). Il restauro realizzato entro il 1979 da Alfio Del Serra ha permesso il consolidamento della struttura, la fermatura della mestica e l’eliminazione di patine e ridipinture dalla superficie pittorica, le cui lacune sono state integrate con ritocco neutro; la cornice attuale è stata realizzata sull’esempio di un frammento originale. L’intervento ha permesso di apprezzare anche la decorazione delle parti in origine laminate d’argento: sul bolo si conserva una variegata punzonatura, che sottolinea il profilo della tavola e contribuisce a definire il motivo aniconico del tabellone, a quadrilobi inclusi in una griglia quadrata e contenenti un fiore, probabilmente già rifiniti a tempera3. Anche i nimbi sono punzonati e tra i bracci dell’aureola crucigera del Cristo si inseriscono elementi vegetali risparmiati alla granitura di fondo. Berenson aveva già assegnato la Croce a Niccolò di Segna4, ma Stubblebine ne fece l’opera eponima di un maestro di sua creazione, al quale riferiva anche la Croce n. 20 IBS della Pinacoteca Nazionale di Siena e quella di Valdipugna5. Espunta quest’ultima, Serena Padovani e Anna Maria Guiducci hanno potuto concordare sull’identica paternità delle prime due Croci. In particolare la prima studiosa, seguendo un’intuizione di Carli, che citava la tavola insieme agli affreschi di Santa Colomba6, ha accresciuto il catalogo di questo anonimo, che veniva a coincidere con quello da lei inizialmente denominato Maestro della Madonna di Lucignano7, sottolineando come molte delle caratteristiche delle due Croci, impregnate di elementi derivati da Ugolino di Nerio, fossero assai vicine e spesso sovrapponibili alle opere di Niccolò. A lui Guiducci – come già De Benedictis – ha nuovamente pensato di poter dare la Croce di Buonconvento, tornando poi a riferirla all’anonimo Maestro della Croce di Buonconvento nel catalogo del museo8.
Cfr. Guiducci 1998, p. 12. Fototeca Berenson, “Niccolò di Segna”, fasc. S 22.1. Inoltre Fototeca Zeri, nn. 20893-20894; la prima di queste fotografie (Lombardi) è databile ai decenni a cavallo tra Otto e Novecento. 3 Cfr. Padovani, in Mostra 1979, p. 70. 4 Berenson 1932, p. 396. 5 Stubblebine 1979, I, pp. 184-185. 6 Carli 1955a, p. 62. 7 Padovani, in Mostra 1979, p. 68; Eadem, in Padovani-Santi 1981, p. 18; Eadem, in Mostra 1983, pp. 37-40. 8 De Benedictis 1979, p. 9. A.M. Guiducci, in Monteriggioni 1988, p. 38; Eadem, in Museo 1998, pp. 26-28, 32. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco Convince la proposta di Bagnoli di riferire a Francesco di Segna buona parte delle opere acutamente riunite dalle due studiose a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, posticipandole così di qualche decennio rispetto alla cronologia alta secondo cui il loro autore sarebbe stato attivo nel primo trentennio del Trecento9. Il confronto della Croce di Buonconvento – e dell’affine Croce n. 20 IBS (cat. 28) – con quella di Bibbiena di Niccolò di Segna dimostra una certa vicinanza nella verticalità della figura snella del Cristo, tuttavia meno allungata nelle versioni di Francesco. I tratti fisiognomici del Cristo risultano più duri nell’opera del fratello meno noto, che manifesta d’altra parte una vicinanza più stretta con la produzione del padre Segna di Bonaventura, in particolare con le Croci di San Polo in Rosso e di San Giusto (ora in Pinacoteca Nazionale; fig. 64), ma anche con quella di San Francesco a Pienza. Rispetto a queste la Croce di Buonconvento mostra affinità nella resa grafica dei dettagli anatomici del più dilatato corpo di Cristo e nel forte patetismo del suo volto, assente in Niccolò, espresso come nei Crocifissi di San Polo e soprattutto di San Giusto nella bocca ansante e negli occhi semiaperti, cerchiati da un alone scuro, definito da un analogo arco sopraciliare. L’autore della Croce di Buonconvento, in ogni caso, schematizza i tratti dei Crocifissi di Segna, rendendoli più secchi e meno sensibili. La barba allungata e la resa delle ciocche dei capelli costituiscono ulteriori elementi di raffronto, così come il panneggio schiacciato della veste del san Giovanni e il perizoma, che paiono semplificare i corrispondenti elementi in particolare della Croce di San Polo. Si può pensare di essere di fronte a un pittore ancora in fase di sperimentazione ed emulazione, come doveva essere in effetti Francesco sul finire del terzo decennio rispetto a Segna e, probabilmente ancora in misura minore, a Niccolò. Bibliografia Berenson 1932, p. 396; van Marle 1934, II, p. 118; Berenson 1936, p. 341; Carli 1955a, p. 62; Berenson 1968, I, p. 299; De Benedictis 1979, p. 9; Padovani, in Mostra 1979, pp. 68-70; Stubblebine 1979, I, pp. 184-185, II, figg. 461-462; Padovani, in Padovani-Santi 1981, p. 18; Padovani, in Mostra 1983, pp. 37-40; Guiducci, in Monteriggioni 1988, p. 38; Guiducci 1998, pp. 12, 26-28, 32; Bagnoli 2003, p. 277 nota 29; Guiducci 2006, p. 279; Bagnoli 2009b, p. 442.
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Bagnoli 2003, p. 277 nota 29; Idem 2009b.
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106. Cat. 26, durante il restauro
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Miracoli di San Leonardo; Cristo Giudice; quattro Evangelisti, Sant’Agostino, San Francesco, San Frediano(?), Santa Siena, chiesa di San Martino 1333 Pittura a fresco Iscrizioni: “HOC OP(US) FE[CIT] F[IER]I BA[…]S DE SENIS AN(N)O D(OMI)NI MCCCXXXIII”, sotto le scene dell’ordine inferiore.
La cappella Agazzari, ricavata alla base del campanile della chiesa di San Martino a Siena, conserva diversi affreschi, resi nuovamente leggibili da un recente restauro, grazie al quale è stato possibile recuperare anche un’iscrizione frammentaria che conserva la data 13331. Sul sottarco ogivale della parete sinistra sono raffigurati i quattro Evangelisti, una Santa non identificata e i Santi Agostino, Francesco e probabilmente Frediano. Sopra la finestra si trova un Cristo Giudice, sul sottarco a tutto sesto della parete destra alcuni Apostoli ed entro una nicchia una Crocifissione riferibile a un seguace di Simone Martini. Nella lunetta della parete sinistra è raffigurata invece una scena della leggenda di san Leonardo, ossia il suo intervento in aiuto della regina Clotilde durante il parto2. Il santo francese è raffigurato in atto di benedire il neonato in fasce che gli viene accostato da un’ancella, mentre su un’alcova rifinita con un cuscino decorato coi gigli di Francia, a sottolinearne il lignaggio regale, si trova, circondata da altre tre donne, la puerpera provata dai dolori del parto, che Leonardo ha provvidenzialmente contribuito a placare. A fianco del vano principale, seduti entro una sorta di atrio, stanno due uomini, uno dei quali, coronato, è identificabile col re dei Franchi Clodoveo. Tutto intorno al palazzo in primo piano si stende un rigoglioso paesaggio boschivo abitato da ogni specie di uccelli, a ricordare la circostanza dell’evento, occorso durante una battuta di caccia; il contesto collinare è completato in alto dalla sagoma di un castello e a sinistra da una chiesa. Lo spazio del registro inferiore è spartito in tre scene, almeno le prime due raffiguranti episodi postumi riferibili al santo, che appare a mezza figura sospeso in una piccola nube. A sinistra Leonardo interviene durante il letale crollo di un edificio; al centro scoperchia una torre e così, nonostante la presenza di due soldati, libera un prigioniero in veste bianca e catena al collo3. Nella scena di destra Leonardo è in piedi presso un altare, davanti al quale sono inginocchiate due figure difficilmente identificabili a causa della lacuna in corrispondenza dei loro volti: potrebbero tuttavia rappresentare una coppia di committenti della famiglia Agazzari, i cui stemmi sono presenti all’interno della cappella4. L’abito canonicale bianco con cappa nera con cui è insolitamente raffigurato san Leonardo – così come sant’Agostino e san Frediano – ricorda la reggenza della chiesa di San Martino da parte dei Canonici Regolari di San Frediano a Lucca che, come pensa Bagnoli, potrebbero aver avuto un ruolo nella definizione del programma iconografico della cappella5. L’attribuzione a Niccolò di Segna proposta da Berenson nel 1932 è stata sostenuta dalle pur non numerose voci critiche che negli anni Trenta si sono occupate dei rovinati affreschi senesi (Brandi, van Marle); così ancora De
Bagnoli 2003, pp. 272, 276 nota 28. La prima corretta identificazione del soggetto principale della decorazione della cappella Agazzari si deve a Raffaele Argenziano (in Bagnoli 2003, p. 276 nota 28). 3 Cfr. Kaftal 1952, coll. 628-633; qui sono segnalati solo l’episodio principale del parto di Clotilde e la generica quanto topica liberazione di un prigioniero, che corrisponde all’azione di san Leonardo nella scena centrale del registro inferiore. Nella chiesa dell’eremo di San Leonardo al Lago, sul piedritto dell’arco del presbiterio, Lippo Vanni ha affrescato quattro miracoli post mortem del santo titolare, ugualmente raffigurato in mezzo a una nuvola, ma solo la liberazione di un prigioniero è assimilabile alle scene in San Martino a Siena (cfr. Cornice 1990, p. 289). 4 Di rosso, alla croce doppiomerlata d’argento. 5 Bagnoli 2003, p. 272. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco Benedictis nel 1979, che ha creduto di riconoscere nella scena narrativa principale un episodio della vita del beato Pippo Ancarani. Già in precedenza, tuttavia, Bellosi aveva preferito inserire gli affreschi di San Martino nel piccolo corpus dell’anonimo poi identificato con Francesco di Segna e lo stesso aveva fatto Padovani, seguita da Boskovits, assegnandoli al Maestro della Croce di Buonconvento. Bagnoli ha riferito a Francesco gli affreschi fin dal 1997 e nel 2003, grazie alla rinnovata leggibilità delle pitture, ha ritenuto di poter individuare nelle figure di Apostoli del sottarco la mano del padre Segna, che avrebbe dunque avviato la decorazione in un momento precedente (essendo già morto nel 1331)6. In effetti la qualità del loro modellato e l’articolazione dei volti, diversa ad esempio da quella del Cristo Giudice, spinge a ipotizzare la presenza di un altro pittore, del quale tuttavia le cattive condizioni delle pitture non permettono di precisare con sicurezza l’identità. Il tradizionale accostamento a Niccolò rende conto delle già sottolineate affinità di Francesco con la produzione del fratello, dalla quale comunque gli affreschi della cappella Agazzari sono facilmente scorporabili, se confrontati con quelli più certamente riferibili alla mano del più abile tra i due pittori. Pur tenendo conto della discrepanza cronologica, si deve notare che, rispetto a queste in San Martino, le figure del Transito di San Giovanni Evangelista mostrano una maggiore sensibilità nella resa dei volti meglio caratterizzati e delle strutture fisiche più definite. I personaggi della scena principale dei Miracoli di San Leonardo sono invece prossimi a quelli degli affreschi di santa Fina a San Gimignano e della chiesa di Santa Colomba presso Monteriggioni (cat. 25, 30), in cui ricorre tra l’altro la resa ovale e piena dei volti più giovani, con occhi solitamente allungati. Rispetto alla lunetta sangimignanese è chiara la maturazione che permette a Francesco di organizzare piacevolmente uno spazio architettonico articolato, che ricorda nel piccolo vano che ospita re Clodoveo le sperimentazioni spaziali già proposte da Pietro Lorenzetti ad Assisi e riprese di lì a poco nella Natività della Vergine per il Duomo di Siena. Bagnoli imputa alla frequentazione di questo maestro l’accresciuta capacità di Francesco di tornire volumetricamente le figure e di inserirle nello spazio; un’osservazione che vale in particolare proprio per la buona resa del vano minore, mentre la scena principale conserva alcune schematizzazioni che rimandano alla produzione precedente (lunetta di santa Fina), come la compressione prospettica, il forte ribaltamento del letto su cui giace Clotilde e un certo imbarazzo nella costruzione della volta cassettonata. La presenza dell’inatteso e ricco paesaggio naturale, un unicum nella produzione nota di Francesco, che nella Natività di Santa Colomba offre la visione di una campagna ben più semplificata, trova pochi riscontri nella coeva pittura senese e sembra semmai sviluppare singolarmente i più austeri sfondi naturalistici ducceschi prima delle vedute di Ambrogio nel Buongoverno7. Bibliografia Berenson 1932, p. 396; Perkins 1932c, p. 238; Brandi 1933, p. 225; van Marle 1934, II, p. 150, fig. 101; Berenson 1936, p. 341; Berenson 1968, I, p. 300; Bellosi, in Arte in Valdichiana 1970, p. 9; De Benedictis 1979, p. 94; Padovani, in Mostra 1979, p. 68; Boskovits 1982, p. 502; Bagnoli 1997, p. 18; Bagnoli 2003, pp. 272, 276 nota 28; Bagnoli 2009b, pp. 440, 442, fig. 5; Franci 2013.
Cfr. bibliografia specifica. Cfr. Bellosi 2006a, pp. 295-303; Idem 2006b, pp. 85-103.
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Croce Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 20 IBS) Inizio del quarto decennio del XIV secolo Tempera su tavola Cm 184 x 130 Provenienza: Siena, convento delle Cappuccine; Siena(?), Giuseppe Bulgarini (1923?-1980).
La Croce è stata privata in un momento non precisabile dei tabelloni laterali dei Dolenti, della base raffigurante probabilmente il golgota e della cimasa; si sono conservate invece le piccole figure dei due committenti, inginocchiati ai lati del suppedaneo. Il complesso restauro realizzato da Giuseppe Rosi all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso ha previsto la pulitura e il consolidamento della superficie pittorica e della struttura, con la rimozione delle ridipinture precedenti. Per garantire l’efficacia della procedura si è provveduto allo stacco della tela dalla tavola, successivamente ricollocata sul supporto originario ma con la mediazione di una nuova superficie di poliestere1. L’opera è stata conservata presso il convento delle Cappuccine di Siena fino al momento della demolizione del complesso all’inizio del Novecento, dopodiché fu venduta nel 1923 al conte Giuseppe Bulgarini, presso cui rimase fino al 1980, quando fu acquisita dallo Stato Italiano per essere poi depositata presso la Pinacoteca senese2. La Croce è stata considerata solitamente in relazione a quella di Buonconvento e ne condivide sostanzialmente la storia critica3, da integrare con la citazione negli anni Trenta di Bacci, che vi notava un carattere “ugolinesco”4. Le proposte di Padovani e Guiducci per la ricostruzione del gruppo di opere intorno alle due Croci di Buonconvento e Siena sono valutate positivamente da Torriti, che tuttavia ha preferito porre il pezzo della Pinacoteca sotto una generica denominazione anonima, evitando quella del Maestro della Croce di Buonconvento, ma d’altra parte non escludendo la possibilità di trovarsi davanti a un’opera di Niccolò di Segna5. Bagnoli accoglie la Croce nel catalogo di Francesco di Segna6, del quale può essere indicata come una delle opere più felici, come dimostrano peraltro le considerazioni di Pierluigi Leone De Castris, unica voce fuori da questo coro pressoché unanime, che vorrebbe addirittura riferire la tavola a una fase giovanile di Simone Martini, in parallelo con la Madonna col Bambino n. 583 della Pinacoteca senese, sconfessando recisamente il legame con Niccolò – di cui ha un’opinione piuttosto negativa – e con la stessa Croce di Buonconvento7. Tuttavia le affinità con l’opera omologa ora nel Museo della Val d’Arbia sono in effetti molteplici: dal corpo di Cristo ugualmente segnato nei dettagli anatomici della cassa toracica al volto sofferente e fortemente ombreggiato nella zona oculare, dove anche la Croce senese conserva una certa tendenza alla semplificazione, dalla canna nasale dritta e affilata fino alla resa schematica delle ciocche di capelli. È evidente, d’altronde, una più sensibile delicatezza del modellato e dei tratti fisiognomici del Crocifisso dell’opera in Pinacoteca, dove scompaiono le forzature espressive
Padovani, in Mostra 1983, p. 40. Torriti 1990, pp. 42-43. Una fotografia storica della Croce conservata presso la Fototeca Berenson (“Niccolò di Segna”, fasc. S 22.8) reca sul retro, oltre all’attribuzione “con Niccolò di Segna”, un riferimento a una possibile temporanea collocazione alternativa a Chiavari presso Luigi Romolo Sanguineti (1883-1965), saggista e poeta con lo pseudonimo Luigi Amaro, già direttore della rivista «Ebe»: “Sent by Luigi Amaro. Chiavari, 1 marzo 1928”. D’altra parte Stubblebine afferma che nel 1931 l’opera era sul mercato a Firenze, mentre pare si trovasse in precedenza, fino al 1928, presso un’abitazione privata a Siena (Stubblebine 1979, I, p. 184): forse il presunto passaggio a Chiavari potrebbe essere circoscritto al periodo 1928-1931. 3 Cfr. cat. 26. 4 Bacci 1932a, p. 185. 5 Torriti 1977, p. 71; Idem 1990, ibidem. 6 Bagnoli 2003, p. 277 nota 29; Bagnoli 2009b, p. 442. 7 Leone De Castris 2003, pp. 60, 64. 1 2
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e certi arcaismi, come la sottolineatura grafica dell’attaccatura della canna nasale tra le sopracciglia; il chiaroscuro è meglio padroneggiato e abilmente sfumato e le pieghe del perizoma – più vicino a quello della Crocifissione di Santa Colomba (cat. 30) – sono definite con maggiore finezza e abilità. Questi elementi suggeriscono di scalare la Croce delle Cappuccine in un periodo più tardo del percorso di Francesco di Segna, che nella maturità si mostra ricettivo anche nei confronti delle opere dei maggiori maestri contemporanei. Bibliografia Bacci 1932a, p. 185; Torriti 1977, p. 71; Padovani, in Mostra 1979, p. 68; Stubblebine 1979, I, p. 184; Padovani, in Padovani-Santi 1981, p. 18; Padovani, in Mostra 1983, p. 37; Guiducci, in Monteriggioni 1988, p. 38; Torriti 1990, pp. 42-43; Bagnoli 2003, p. 277 nota 29; Leone De Castris 2003, pp. 60, 64; Bagnoli 2009b, p. 442.
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Madonna col Bambino e donatrice Lucignano, Museo Comunale Metà del quarto decennio del XIV secolo Tempera e oro su tavola Cm 166 x 90 Iscrizioni: “MON(N)A MUCCIA MOGLIE CHE FU DI GUER(R)INO CIANTARI”, alzata della pedana del trono. Provenienza: Lucignano, San Francesco.
La tavola cuspidata rappresenta la Madonna col Bambino seduta su un ampio trono marmoreo con decori fogliacei e a dentelli, coperto da un drappo. La Vergine inclina il capo verso la piccola figura di una supplice, monna Muccia, vedova di Guerrino Ciantari, identificata dall’iscrizione inserita alla base del trono (fig. 107). La presenza del nome e dell’immagine della committente è coerente con il contesto di provenienza dell’opera, il secondo altare a destra della chiesa di San Francesco a Lucignano in territorio aretino1, le pareti della quale sono completamente decorate da numerosi pannelli ad affresco di carattere devozionale, giustapposti senza un preciso progetto decorativo ma evidentemente affidati all’iniziativa di singole persone o famiglie, di cui spesso si conservano i ritratti o i nomi2. La tavola è stata esposta alla mostra dedicata all’arte in Val di Chiana nel 1970 ed è poi stata trasferita nel locale Museo Comunale. L’opera è nota alla critica fin dalla fine dell’Ottocento, quando Cavalcaselle la attribuì a Segna di Bonaventura, seguito più tardi da Berenson3. Nonostante il giudizio piuttosto negativo di De Nicola, che riferiva il dipinto a un imprecisabile pittore del seguito di Duccio4, è stato anche proposto il nome di Ugolino di Nerio, in termini generici da Lusini e più tardi, con maggior decisione, da Margherita Moriondo5; ma se van Marle trovava l’autore della tavola addirittura migliore di Ugolino, Longhi giustamente esprimeva un giudizio opposto6. Bellosi nel 1970 si è soffermato con più attenzione sull’opera, assegnandola a un anonimo senese verso il 1320 e riunendole intorno un piccolo corpus, che comprendeva gli affreschi di santa Fina nella collegiata di San Gimignano e della cappella Agazzari in San Martino a Siena7, poi assegnati dallo stesso studioso e da Alessandro Bagnoli a Francesco, insieme alla Madonna di Lucignano8. Il gruppo di opere del 1970 comprendeva anche la Madonna col Bambino di Cortona di Niccolò di Segna, autore a cui Bellosi escludeva di poter assegnare la tavola di Lucignano, che invece gli veniva riferita da Stubblebine9, la cui opinione ha trovato scarso seguito10, sebbene recentemente Paola Refice abbia nuovamente proposto confronti con Niccolò e Ugolino11. La Madonna col Bambino lucignanese denuncia i propri modelli compositivi nella forma della tavola, nella disposizione dei soggetti e nella struttura del trono monumentale, che unisce elementi tratti dalla Madonna col Bambino e i Santi
Dietro l’altare seicentesco della Santissima Concezione è ancora visibile l’impronta della tavola: cfr. Pegazzano 1997, p. 38. 2 Per la chiesa di San Francesco si veda P. Semoli, in Cortona 2000, pp. 125-126. Degli affreschi si è in parte occupato Gabriele Fattorini (2008b). Per la pittura votiva cfr. Bacci 2003. 3 Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 33. Berenson 1932, p. 523; Idem 1968, I, p. 393. 4 De Nicola 1912, p. 147. 5 Lusini 1912, pp. 127-128. Moriondo, in Mostra 1950, p. 78, cat. 236. 6 Van Marle 1924, II, p. 111. Longhi 1951, p. 54. 7 Bellosi, in Arte in Valdichiana 1970, p. 9. 8 Bagnoli 1997, p. 18; Idem 2003, pp. 276-277 nota 26; Idem 2009b, pp. 440, 442. Così anche Franci 2013. Cfr. infra §5. 9 Stubblebine 1979, I, pp. 138-141. Lo studioso americano, pensando a una collaborazione tra padre e figlio, assegnava a Segna la figura di Monna Muccia. 10 Pegazzano 1997, ibidem. 11 Refice 2005, pp. 79-81. 1
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco Bartolomeo e Ansano e donatrice attribuita a Segna di Bonaventura, ora nella collezione del Monte dei Paschi di Siena12 (fig. 108), e dalla piccola Maestà di Ugolino di Nerio nella chiesa di Santa Maria sul Prato o della Misericordia di San Casciano Val di Pesa13 (fig. 109). Dalla prima sembra derivare l’articolata base del seggio, mentre dalla seconda la forma regolare e prospettica dello schienale e la simulazione di un rilievo a elementi vegetali, che a Lucignano sono utilizzati anche per abbellire i braccioli. Non meno importante è, inoltre, l’esempio di Niccolò di Segna, che traspare con chiarezza nell’aspetto della Vergine e in particolare del Bambino, tanto somigliante nella posa e nel volto a quello della Madonna della Fondazione Cini di Venezia (cat. 11a). Tuttavia né a lui né tantomeno a Ugolino di Nerio può essere attribuita la Madonna lucignanese, meno sensibile nel trattamento pittorico delle figure, costruite soprattutto dalla linea di contorno. Questo affidamento al tratto grafico si percepisce anche nel complicato bordo del manto della Vergine, espressione di un gusto tutto decorativo e non di una reale comprensione dell’andamento della veste. La correttezza degli accostamenti di opere intorno a questa tavola, che si sono succeduti nel tempo e che hanno portato alla proposta di individuazione del loro artefice in Francesco di Segna, sono confermati da una serie di confronti. Oltre alla vicinanza tra monna Muccia e, tra le altre, la figura di santa Fina a San Gimignano (cat. 25), si notano somiglianze palmari tra le mani dei due personaggi sacri di Lucignano e quelle della Madonna col Bambino di Palazzo Barberini a Roma e soprattutto della n. 41 della Pinacoteca di Siena14 (cat. 31-32), la sottile mano destra della cui Vergine risulta perfettamente sovrapponibile a quella dell’opera qui schedata. Ricorrono nella tavola senese 107. Cat. 29, dettaglio con monna Muccia la posa e in parte i tratti del Bambino – con la tipica tendenza ad arcuare la palpebra superiore e regolarizzare l’inferiore e ad accentuare l’inclinazione delle brevi sopracciglia – e inoltre la terminazione triangolare del lembo del suo drappo. Rispetto a queste due Madonne, d’altra parte, quella di Lucignano sembra appartenere ad una fase un poco precedente, se si osserva il diverso modo di rendere questo stesso panneggio con pieghe più piatte e taglienti rispetto a quelle più morbide della Madonna n. 41 e soprattutto di quella romana. Lo stesso elemento mostra, piuttosto, che la tavola di Lucignano appartiene ad un momento prossimo alla Croce n. 20 IBS (cat. 28), che per contro potrebbe apparire
L’opera, acquistata dal Monte dei Paschi alla fine del 2008 (Londra, Christie’s, 2 dicembre 2008, lotto 31), era già stata attribuita a Segna da Berenson (1968, I, p. 393), pittore a cui l’ha recentemente confermata Bagnoli (2009b, p. 443 nota 15) dopo che Stubblebine (1979, I, p. 154; II, fig. 501) aveva preferito inserirla nel catalogo del Maestro del Polittico di Montalcino. 13 Galli, in Duccio 2003, pp. 354-356, cat. 55. 14 La vicinanza tra le Madonne di Lucignano e n. 41 era già stata notata da Perkins (1928, pp. 107-108), ma poco dopo ingiustamente sconfessata da Brandi (1933, p. 279). 12
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108. Segna di Bonaventura, Madonna col Bambino, i Santi Bartolomeo e Ansano e donatrice, Siena, Fondazione Monte dei Paschi
109. Ugolino di Nerio, Madonna col Bambino e donatore, San Casciano Val di Pesa, chiesa di Santa Maria sul Prato o della Misericordia
solo lontanamente imparentata con le altre Madonne citate, per una sorta di sottile pacatezza dei tratti che non si trova in quelle – segnate da linee più decise e prossime semmai al frammento di affresco di San Francesco a Lucca (cat. 34) – ma che caratterizza la tavola di monna Muccia, il volto della cui Vergine ha ad esempio la canna nasale dritta e la bocca lumeggiata sul labbro inferiore come il Cristo crocifisso della Pinacoteca senese. Una datazione verso la metà degli anni Trenta del Trecento sembra così la più appropriata (anche in rapporto alla produzione di Niccolò). Bibliografia Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 33; Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 27; Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 22; De Nicola 1912, p. 147; Lusini 1912, pp. 127-128, figg. 17-18; De Grüneisen 1913, p. 127, n. 58, figg. 17-18; De Nicola 1916, p. 13; van Marle 1924, II, p. 111; Perkins 1928, pp. 107-108; Berenson 1932, p. 523; Brandi 1933, p. 279; Berenson 1936, p. 450; Coletti 1946, p. 14; Moriondo, in Mostra 1950, p. 78, cat. 236; Longhi 1951, p. 54; Berenson 1968, I, p. 393; Bellosi, in Arte in Valdichiana 1970, p. 9; Stubblebine 1979, I, pp. 138-141; Bagnoli 1997, p. 18; Pegazzano 1997, pp. 36, 38; Bagnoli 2003, pp. 276-277 nota 26; Bellosi 2003, p. 276 nota 29; Refice 2005, pp. 79-81; Schmidt 2005, p. 112; Bagnoli 2009b, pp. 440, 442; Franci 2013.
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30. Francesco di Segna e aiuti
Natività di Cristo con annuncio ai pastori e bagno del Bambino; Crocifissione Santa Colomba (Monteriggioni), pieve dei Santi Pietro e Paolo Seconda metà del quarto decennio del XIV secolo Pittura a fresco Iscrizioni: “(IESUS) [NAZA]RENUS | REX | IUDEORUM”, sul cartiglio nella Crocifissione.
Due grandi riquadri affrescati terminanti a cuspide ribassata decorano la parete di fondo della pieve presso Santa Colomba a Monteriggioni1 (fig. 110). La Natività di Cristo a sinistra si presenta come una scena composita inserita in un paesaggio roccioso, addolcito da poche piante: la capanna della mangiatoia, presso cui stanno un corrucciato san Giuseppe e la Vergine semidistesa, è affiancata dalla scena dell’Annuncio ai pastori, a cui si collega il gregge sorvegliato da un cane; in basso due ancelle si apprestano a lavare il piccolo Gesù, tenuto in braccio dalla donna seduta mentre quella in ginocchio versa l’acqua nella bacinella; in alto sta un composto coro di angeli. A destra la più tradizionale scena della Crocifissione prevede la presenza del solo Cristo crocifisso al centro, circondato da angeli dolenti, mentre in basso si trovano da una parte un manipolo di soldati, tra cui si riconosce Longino, e dall’altra il gruppo delle donne che sostengono Maria svenuta, affiancate da san Giovanni Evangelista. Entrambi i riquadri sono delimitati da una fascia a decori geometrici, l’una intervallata da quadrilobi contenenti testine, l’altra, più semplice, interrotta da piccoli nodi a losanga e arricchita da quadrilobi con il pellicano al centro in alto e negli angoli i simboli del Tetramorfo (non si conserva il leone di san Marco). Al di sotto dei due riquadri è parzialmente conservata una decorazione a velario che simula una pelliccia di vaio; la misura del pannello della Natività è integrata tra la cornice inferiore e questo elemento da una serie di specchiature a finto marmo. In alto, in mezzo ai due riquadri, la testa della Madonna entro una mandorla decorata con gigli e sostenuta da numerosi angeli è quanto resta di un’Assunzione della Vergine, perduta a causa dell’apertura dell’arco della scarsella, che ha rovinato anche le parti esterne della Natività e della Crocifissione. Fa probabilmente parte di questa stessa campagna decorativa il paramento a finti mattoni visibile al di sopra dei due riquadri, ai lati dell’Assunzione. Gli affreschi furono recuperati sotto lo scialbo all’inizio del Novecento2 e grazie a un restauro realizzato nella seconda metà del secolo scorso sono stati ripuliti e risanati rispetto alle cattive condizioni testimoniate da alcune immagini fotografiche3, in cui sono evidenti le lacune che interessano in particolare la Natività nell’angolo in basso a destra, in quello opposto in alto e in corrispondenza della capanna e del volto di Maria. Su entrambi i lati in basso l’apertura di una porta ha causato la perdita di alcune parti e sulla Crocifissione è ben visibile la lacuna dovuta all’apposizione di una targa commemorativa riferibile alla fine del XIX secolo, ora rimossa. Sebbene le superfici dipinte siano un po’ impoverite, le due scene sono ben apprezzabili e la cromia originaria è sostanzialmente conservata. Al momento del loro ritrovamento, la Natività e la Crocifissione furono riferite a Niccolò di Segna da De Nicola4, seguito da van Marle, Berenson e Brandi5. A lui aveva pensato in un primo momento anche Perkins (parallelamente a De Nicola), che in seguito si mostra più dubbioso, proponendo di interpretare i caratteri prossimi a questo artista, che denunciano il retaggio di Segna, quali espressione di una sua fase diversa da quella testimoniata dalla Croce n. 46, oppure come opera di un pittore differente ma vicino6. Solo Carli, mettendo le due scene in relazione con la Croce
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Su tutte le pareti della chiesa restano frammenti di affreschi trecenteschi, riferibili a mani diverse. Perkins 1933a, p. 53. Fototeca Berenson, “Niccolò di Segna”, fasc. S 22.5; per la sola Crocifissione: Fototeca Zeri, n. 20099 (entro il 1950). De Nicola 1912, p. 147. Van Marle 1927, II, p. 158; Idem 1934, II, p. 152. Berenson 1932, p. 397; Idem 1936, p. 341. Brandi 1933, p. 224. Perkins 1913, p. 36; Idem 1933b, pp. 53-54.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco di Buonconvento e gli affreschi di San Polo in Rosso (Gaiole in Chianti), aveva escluso la possibilità che si trattasse di Niccolò7, prima che Padovani e Guiducci inserissero gli affreschi di Santa Colomba nel catalogo del Maestro della Croce di Buonconvento8. Al di là del confuso riferimento di Piero Torriti alternativamente a questo pittore e ancora a Niccolò9, la proposta delle due studiose risulta finora la più pertinente, se si tiene conto che il catalogo di questo anonimo va ampiamente ricondotto al nome di Francesco di Segna, al quale mi sembrano da riferire anche i due affreschi di Santa Colomba, sebbene non siano stati presi in considerazione da Bagnoli10. Come già aveva notato Padovani, nel patetico Crocifisso di Santa Colomba si riconoscono le caratteristiche del volto del Cristo della Croce di Buonconvento, con cui ha in comune la deformazione dolorosa della bocca semiaperta – in questo caso sottolineata dalla dentatura a vista – e gli occhi socchiusi, allungati con linee nette e segnati da occhiaie che delimitano una zona d’ombra con l’arcata sopraciliare. I tratti del Crocifisso affrescato sono tuttavia meno secchi e la resa della capigliatura meno grafica e favoriscono il confronto con la Croce n. 20 IBS. Il perizoma a pieghe piatte di Santa Colomba sembra un’evoluzione di quello di Buonconvento ed è vicino in particolare al dettaglio della stessa Croce n. 20 IBS, mentre il lembo a sinistra somiglia a quelli delle vesti del Bambino nelle Madonne di Lucignano e Siena (n. 41). Si tratta in ogni caso di elementi che sconfessano l’accostamento a Niccolò di Segna, il cui Crocifisso della Pinacoteca di Siena (n. 46) ha una delicatezza di trapassi chiaroscurali e – nonostante sia una delle sue opere in questo senso meno significative – una morbidezza di linee sconosciuta al pur interessante omologo di Santa Colomba, al di là di alcune soluzioni di base analoghe (ad esempio l’impostazione dell’area oculare). L’aspetto articolato e sbilanciato del Cristo di Santa Colomba non ha nulla del corpo composto e molto verticale della versione di Niccolò e diverge peraltro anche dalle due Croci dello stesso Francesco, trovando però una chiara giustificazione nel modello prestigioso dell’affresco, che è una citazione puntuale della Crocifissione realizzata da Pietro Lorenzetti probabilmente entro il terzo decennio del Trecento nella sala capitolare del convento di San Francesco a Siena, ora staccata e trasferita in chiesa11. Oltre al vigoroso Cristo appeso alla croce lignea e col nimbo decorato con forme di punzoni, sono analoghi la composizione, i personaggi e la loro disposizione; in particolare appaiono sovrapponibili le figure del san Giovanni e dei soldati a destra, che rappresentano forse il brano migliore dell’intero mini-ciclo. Le fisionomie conservano in ogni caso le caratteristiche tipiche di Francesco e un evidente retaggio duccesco, percepibile anche nei volti degli angeli. Nel gruppo delle donne, dove la qualità è un po’ calante e la fedeltà al modello è sacrificata in nome del patetismo, la Vergine ha il tipico profilo ovale delle figure femminili della cappella Agazzari (si veda la regina sofferente), che ritroviamo nella scena della Natività. L’ancella che qui tiene in braccio il Bambino è sorella delle dame del seguito di Clotilde, in particolare di quella che siede accanto alla regina e di quella che porge il neonato a san Leonardo, ugualmente pettinate. Analoga è poi la vena piacevolmente descrittiva che si ritrova nella Natività che, per quanto ambientata entro un paesaggio più scarno, paratattica nell’impaginazione e quasi priva di prospettiva, è ricca di dettagli soprattutto nella resa degli animali. Le caratteristiche dell’affresco dell’Assunzione e i volti ducceschi degli angeli dichiarano la coerenza di questa figurazione con i due riquadri laterali, ma il debole volto della Vergine – pur al netto del degrado della pittura – sembra denunciare la presenza di collaboratori, del resto adombrata da altre discontinuità qualitative notate nelle due scene principali (come negli angeli sopra la capanna). Simili elementi stilistici permettono di collocare gli affreschi di Santa Colomba in un momento vicino alla decorazione della cappella Agazzari in San Martino (1333), ma comunque successivo, per la maturazione che si nota in particolare nella Crocifissione.
Carli 1955a, p. 62. Per un cenno alle Storie della Vita di Cristo della pieve chiantigiana si rimanda al saggio §5. Padovani, in Mostra 1979, p. 68; Eadem, in Mostra 1983, p. 40. Guiducci, in Monteriggioni 1988, p. 38. Conferma questa proposta Boskovits 1982, p. 502. 9 Torriti 1990, p. 43. 10 Cfr. Bagnoli 2009b. 11 Così Boskovits (1986, pp. 3-16) e recentemente De Marchi (in Siena 2017, p. 74), il quale pensa al 1325 circa. Degli affreschi lorenzettiani di San Francesco a Siena si era occupato Max Seidel, che citava una notizia riportata da Fabio Chigi con un riferimento al 1340: Seidel 1979, pp. 10-19; su questa scorta Monciatti 2002, pp. 97-100. Già De Nicola (1912, ibidem) aveva individuato la fonte di ispirazione per Santa Colomba, sottolineando come l’imitazione del Lorenzetti non desse adito ad una vera interiorizzazione dei suoi valori stilistici, la cui forza viene rimpiazzata dal colore e da panneggi corsivi. 7 8
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110. Santa Colomba (Monteriggioni), pieve dei Santi Pietro e Paolo, interno, zona presbiteriale Bibliografia De Nicola 1912, p. 147; Perkins 1913, p. 36; van Marle 1927, II, p. 158; Berenson 1932, p. 397; Brandi 1933, p. 224; Perkins 1933a, pp. 53-54; van Marle 1934, II, p. 152; Berenson 1936, p. 341; Carli 1955a, p. 62; Berenson 1968, I, p. 300; Torriti 1977, p. 80; Padovani, in Mostra 1979, pp. 68-70; Boskovits 1982, p. 502; Padovani, in Mostra 1983, p. 40; Guiducci, in Monteriggioni 1988, p. 38; Torriti 1990, p. 43.
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31. Francesco di Segna
Madonna col Bambino Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 41) Inizio del quinto decennio del XIV secolo Tempera e oro su tavola Cm 96,5 x 42 Provenienza: Sovicille, Santa Mustiola a Torri, canonica (fino al 1892).
La tavola cuspidata mostra le figure della Vergine e del Figlio, che le tiene un lembo del velo, contro un fondo rovinato e mancante della doratura originaria. Anna Maria Guiducci nota numerose ridipinture e già Brogi nel 1862 l’aveva trovata in cattivo stato – con scrostature di colore e perdita di alcuni dettagli in corrispondenza degli arti – quando la vide nella canonica della chiesa di Santa Mustiola a Torri, presso Sovicille, da cui fu trasferita nella Pinacoteca Nazionale di Siena alla fine del XIX secolo1. Considerata per lo più superficialmente dalla critica, quest’opera è stata ben presto accostata all’ambito di Segna di Bonaventura da Bacci, Brandi e van Marle e così ancora da Piero Torriti nel 19902. La proposta di Berenson di ricondurre la tavola alla mano di Niccolò di Segna è stata considerata da Guiducci, la quale però, notando una qualità modesta, ha preferito immaginare all’opera un suo stretto seguace, possibile autore anche della Madonna col Bambino di Palazzo Barberini a Roma3 (cat. 32). In effetti Alessandro Bagnoli ha recentemente incluso entrambe le tavole nel corpus di Francesco di Segna4, pittore a cui si addice la notevole vicinanza alle fisionomie e agli atteggiamenti delle figure del fratello, rese però con tratto meno lieve. In particolare la Madonna col Bambino n. 41 somiglia, come l’altra, all’omologa del Museo Diocesano di Cortona di Niccolò (cat. 9), che del resto Bagnoli ha assegnato allo stesso Francesco. Proprio un confronto con i tratti pittorici della tavola cortonese e tra il distacco un po’ manierato del suo sguardo rispetto alla vivacità di quello della Vergine da Sovicille serve tuttavia a rafforzare l’impressione che si tratti di due autori diversi. La paternità di Francesco è confermata in particolare dal confronto con la Madonna col Bambino ora a Roma, rispetto alla quale concordano le fisionomie, i tratti marcati, il modellato un po’ pesante e i panneggi piuttosto sciolti. Interessante, a margine della discussione critica, il riferimento di Stubblebine al cosiddetto Maestro del polittico di Montalcino5, nella cui opera eponima, che mostra caratteristiche riconducibili alla stretta cerchia di Segna, si può provare a riconoscere i primi segni dell’attività dei due fratelli all’epoca dell’apprendistato nella bottega paterna6. Bibliografia Catalogo 1895, p. 19; Brogi 1897, p. 568; Catalogo 1903, p. 19; Dami 1924, p. 13; Bacci 1932a, p. 177; Brandi 1933, p. 279; van Marle 1934, II, p. 147; Berenson 1936, p. 341; Berenson 1968, I, p. 300; Torriti 1977, p. 71; Stubblebine 1979, I, p. 154; Guiducci 1988, pp. 93, 101 note 2-3; Torriti 1990, p. 36; Bagnoli 2009b, p. 442.
Brogi 1897, p. 586. Guiducci 1988, pp. 93, 101 note 2-3. Cfr. bibliografia specifica. 3 Berenson 1936, p. 341; Idem 1968, I, p. 300. Guiducci 1988, ibidem. 4 Bagnoli 2009b, p. 442. 5 Stubblebine 1979, I, p. 154. L’americano gli riferiva inoltre la piccola figura di Santa Maria Maddalena della Pinacoteca Nazionale di Siena (inv. 23). 6 Cfr. infra §3. 1 2
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32. Francesco di Segna
Madonna col Bambino Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini (inv. 1609) Inizio del quinto decennio del XIV secolo Tempera e oro su tavola Cm 65 x 54 Provenienza: Tivoli, Museo Civico, depositi; Roma, Galleria Borghese; Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Venezia (fino al 1978). Iscrizioni: “AV|E G|RA|TI|A P|LE|[NA] | D(OMI)N(US TECUM)”, sull’aureola della Vergine.
La forma ovale della tavola ne denuncia la manomissione, avvenuta in un momento non precisabile, che ha comportato almeno la resecatura della parte inferiore e la conseguente perdita del piede destro del Bambino e di gran parte della mano sinistra della Vergine. Nonostante le decurtazioni anche sui lati, a sinistra è ancora in parte leggibile la linea della centina e la sua base d’imposta: un dettaglio comune alle tavole provenienti da polittici, già rifinite con cornici e contrafforti. Si può dunque supporre che l’opera romana fosse il centrale di un simile complesso, a cui non è possibile ricondurre nessun’altro pezzo. Non è nota, d’altra parte, la sua provenienza originaria. Dopo un intervento integrativo a cura dell’Istituto Centrale del Restauro nel 19451, l’opera ha riacquistato la forma attuale – già testimoniata da una descrizione di inizio Novecento, quando si trovava presso il Museo Civico di Tivoli – grazie al restauro condotto da Silvana Franchini negli anni Ottanta, che ha previsto la rimozione delle cornici e delle parti con cui la tavola era stata regolarizzata in basso. Sono stati effettuati inoltre la pulitura, la reintegrazione e il consolidamento della superficie pittorica, già comunque in discrete condizioni2. A parte qualche piccolo ritocco il fondo oro appare piuttosto ben conservato, anche nei dettagli punzonati della bella aureola della Vergine, che presenta nella fascia centrale granita una decorazione a tondi contenenti coppie di lettere ottenute a risparmio, che compongono l’iscrizione “AVE GRATIA PLE[NA] D(OMI)N(US TECUM)”; i compassi esterni della fascia sono decorati con una serie di punzoni rotondi e gruppi di tre stampi simili ornano l’esterno. Peggio conservata appare l’aureola del Bambino, che doveva essere in ogni caso decorata con motivi vegetali a risparmio. Classificata genericamente come opera senese del Trecento nel catalogo del Museo di Tivoli3, la tavola è stata accostata a Segna di Bonaventura da Douglas e, con qualche dubbio, da Berenson4 per poi essere riferita a Niccolò di Segna a partire da Antonino Santangelo5. Stubblebine la inseriva nel corpus del suo Maestro del polittico di Montalcino6, ricondotto quasi interamente a Francesco da Bagnoli, che difatti gli ha opportunamente assegnato anche la tavola romana, seguendo un suggerimento di Bellosi7. Confermata anche nei suoi interventi più recenti, la proposta è stata accolta pure da Beatrice Franci. L’accostamento dell’opera di Palazzo Barberini a Niccolò è giustificata dalle forti tangenze in particolare con la Madonna col Bambino del Museo Diocesano di Cortona, che spetta al più noto dei due fratelli, nonostante sia stata a volte inserita nel catalogo di Francesco8. Il confronto tra le due tavole ne chiarisce tuttavia la diversa paternità perché, al di là delle somiglianze nella posa e nell’aspetto delle due figure, oltre che nella resa dei nimbi, queste opere sono caratterizzate da modi peculiari di tratteggiare le figure, con una linea di contorno più evidente nella tavola di Roma,
A. Santangelo, in Museo di Palazzo Venezia 1947, p. 28. V. Tiberia, in Laboratorio 1988, pp. 99-100. La parchettatura del retro risaliva forse agli anni Cinquanta. 3 Sapori 1916, p. 98. 4 Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 28 nota 1; l’autore cita l’opera nell’ufficio del direttore della Galleria Borghese. Berenson 1936, p. 451; con un’indicazione relativa alla collezione del senatore Raffalele Bastianelli. 5 Santangelo 1947, ibidem. Berenson 1968, I, p. 300. De Benedictis 1979, p. 94. Tiberia, in Laboratorio 1988, ibidem. 6 Stubblebine 1979, I, p. 154. 7 Bagnoli 1997, p. 18; Idem 2003, p. 277 nota 29; Idem 2009b, pp. 440, 442. 8 Cfr. cat. 9. 1 2
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che conferisce anche ai volti un aspetto meno leggero e, si direbbe, più popolaresco. A questo effetto contribuisce lo sguardo della Vergine che, a differenza delle figure di Niccolò ma in linea con quelle di Francesco, è tutt’altro che sfuggente e si rivolge con decisione verso lo spettatore. Si nota inoltre una maggiore abbondanza e morbidezza nella resa dei panneggi che, rispetto alla schematicità della giovanile Madonna di Niccolò, suggeriscono di scalare questa di Francesco un in momento probabilmente successivo, già entro il quinto decennio9. Bibliografia Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 28 nota 1; Sapori 1916, p. 98; Berenson 1936, p. 451; Santangelo, in Museo di Palazzo Venezia 1947, p. 28; Berenson 1968, I, p. 300; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, p. 154, II, fig. 503; Tiberia, in Laboratorio 1988, pp. 99-100; Bagnoli 1997, p. 18; Bagnoli 2003, p. 277 nota 29; Bagnoli 2009b, p. 440, 442; Franci 2013.
9 A questo periodo già si riferivano Stubblebine (1979, ibidem) e Tiberia (in Laboratorio 1988, ibidem), quest’ultimo pensando al secondo lustro.
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33. Francesco di Segna
Madonna col Bambino e due Santi Siena, pieve di Santa Maria a Tressa Quinto decennio del XIV secolo Sinopia
Della decorazione della lunetta di un’antica porta sul fianco destro della pieve di Tressa, presso Siena, resta oggi solo la sinopia coi graffi impressi sull’intonaco per farvi aderire la pittura soprastante. È ben leggibile, per quanto rovinato, solo il gruppo centrale con la Madonna col Bambino, mentre dei due santi laterali restano poche tracce, più definite nel giovane di sinistra e flebili nell’anziano vescovo a destra. Le perdite più gravi corrispondono alle pietre della centina sottostante. La lunetta è stata restaurata nel 1969 a cura della Soprintendenza senese. La sinopia era già visibile nel 1862, al momento del sopralluogo di Brogi. Un primo tentativo di classificazione della pittura arriva quasi un secolo più tardi, quando Carli la definisce un buon prodotto di stretta osservanza duccesca. La proposta di Stubblebine di riconoscervi l’intervento di un effimero e non pertinente Casole Fresco Master verso il 1315 è respinta da Boskovits, ma solo nel 2003 Bagnoli è tornato a considerare la lunetta suggerendo il nome di Niccolò di Segna, poi confermato da Franci1. Lo studioso è riuscito a formulare un’ipotesi pertinente, che rende conto dei pochi dettagli analizzabili attraverso le cattive condizioni dell’opera, come il profilo della Vergine e la disposizione del velo intorno al collo, probabilmente tenuto con una mano dal Bambino, com’è frequente nelle opere di quel pittore. Tuttavia colpisce lo sguardo diretto di Maria, che sembra osservare lo spettatore come nessuna delle figure trasognate di Niccolò riesce a fare, a differenza di quelle del fratello Francesco, che sembra il più papabile autore di questa lunetta, se si tiene conto anche che i tratti decisi della Vergine ricordano ad esempio la Madonna col Bambino ora a Roma (cat. 32), a cui somigliano almeno la linea arrotondata del naso della Madre e, pur vagamente, i tratti del Figlio. Bibliografia Brogi 1897, p. 190; Carli 1955a, pp. 74-76; Carli 1955b, p. 179; Stubblebine 1973, p. 194; Stubblebine 1979, I, p. 112; Boskovits 1982, p. 502; Bagnoli 2003, p. 277 nota 32; Franci 2013.
Cfr. bibliografia specifica.
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34. Francesco di Segna
Testa della Madonna Lucca, chiesa di San Francesco 1348 ca. Pittura a fresco
Sulla porta che dall’interno della chiesa di San Francesco a Lucca conduce nel secondo chiostro del convento una lunetta tardo-cinquecentesca con la Madonna col Bambino e i Santi Francesco e Stefano (fig. 111) incornicia la testa di una Vergine riferibile alla redazione originaria della decorazione. Il restauro realizzato nel 1998 da Sandro Baroni e Barbara Segre ha permesso di ritrovare sotto il moderno santo Stefano alcuni tratti di un trecentesco san Ludovico di Tolosa e altre tracce dell’antica sinopia1. In passato il frammento ha ricevuto una blanda attenzione e, a parte una prima classificazione come dipinto cimabuesco2, è stato attribuito genericamente all’ambito senese di primo Trecento3. Angelo Tartuferi e Andrea De Marchi lo hanno contestualizzato con maggior precisione, riconoscendovi elementi vicini in particolare a Ugolino di Nerio4,
111. Pittore della seconda metà del XVI secolo e Francesco di Segna, lunetta con la Madonna col Bambino e i Santi Francesco e Stefano, Lucca, chiesa di San Francesco
R. Massagli-B. Segre, in Restauri 2000, pp. 23-27, cat. 2. Ross-Erichsen 1912, p. 232. 3 Ferretti 1976, p. 33 nota 9. Donati 2009, pp. 67-68. 4 De Marchi 1998, p. 402. Tartuferi 1998, p. 44. 1 2
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco ma spetta a Bagnoli il merito di avervi riconosciuto la mano di Francesco di Segna in base a confronti con gli affreschi della cappella Agazzari e con la Madonna col Bambino di Lucignano5 (cat. 27, 29). Lo studioso ha inoltre messo in relazione a questa probabile testimonianza dell’attività lucchese del pittore un documento noto ma sottovalutato: un contratto di locazione per una casa già affittata in contrada San Quirico all’Olivo a Lucca stipulato da Nuta, moglie di Francesco, nel 13486. Questa data viene così a costituire un termine generico ma non meno importante per la collocazione cronologica nel quinto decennio del Trecento del frammento di San Francesco, che dunque diventa un elemento indiziario fondamentale per la ricostruzione della personalità artistica di Francesco di Segna. I giusti accostamenti proposti da Bagnoli mostrano la vicinanza tra il volto ovale e pieno delle Vergine lucchese e quelli delle donne degli affreschi in San Martino a Siena e di Santa Colomba (cat. 30), mentre la resa generale del capo velato è in effetti molto prossima non solo alla tavola di Lucignano ma anche alle altre Madonne assegnate a Francesco – in particolare con la n. 41 della Pinacoteca di Siena –, mostrando come il pittore continui a seguire uno schema costante durante il corso della sua carriera. Tuttavia, rispetto a queste, probabilmente da collocare entro la prima metà del quinto decennio, la testa di Lucca dimostra un carattere in un certo senso più ammiccante e un più deciso tentativo di scorciare il profilo di tre quarti, che potrebbe richiamare la stessa tendenza messa in atto da Niccolò di Segna nelle opere mature, tra cui la Madonna col Bambino di Villa I Tatti dal polittico di San Maurizio7. Bibliografia Ross-Erichsen 1912, p. 232; Ferretti 1976, p. 33 nota 9; De Marchi 1998, p. 402; Tartuferi 1998, p. 44; Massagli-Segre, in Restauri 2000, pp. 23-27, cat. 2; Donati 2009, pp. 67-68; Bagnoli 2003, pp. 272, 276 note 26, 29; Bagnoli 2009b, pp. 441-442; Franci 2013.
Bagnoli 2003, pp. 272, 277 nota 29; Idem 2009b, pp. 441-442. Così anche Franci 2013. La prima citazione del documenti si trova in Lazzareschi 1938, p. 140 nota 2 (con riferimento al 1344: cfr. infra §5). Cfr. Concioni-Ferri-Ghilarducci 1994, p. 296, n. 68. 7 Cfr. cat. 16a. 5 6
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Elenco delle opere espunte dal catalogo di Niccolò di Segna1
I.1 Altenburg, Herzogl Museum San Francesco Tavola, inv. 46 Bibliografia: Weigelt 1911, pp. 191, 263, tav. 53; van Marle 1924, II, p. 157. II. Arezzo, badia delle Sante Flora e Lucilla Croce Tavola Bibliografia: Weigelt 1911, p. 263. III. Asciano, Museo d’Arte Sacra Madonna col Bambino Tavola Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 138, II, fig. 332. IV. Berlino, collezione Kaufmann Natività Tavola Bibliografia: Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 30 nota 1. V. Boston, Museum of Fine Arts Angelo (con cat. XXV) Tavola Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 155, II, figg. 534-535.
VI. Budapest, Szépművészeti Muzeum Incoronazione della Vergine, frammento Tavola, inv. 16 Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 154, II, fig. 475. VII. Budapest, Szépművészeti Muzeum Santa Lucia (con cat. XXVIII, XLIX) Tavola, inv. 14 Bibliografia: Cavalcaselle-Crowe 1864, II, p. 59; Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 30 nota 1; Perkins 1913, p. 36; Stubblebine 1979, I, p. 154, II, fig. 473. VIII. Buonconvento, Museo d’Arte Sacra della Val d’Arbia Croce (Francesco di Segna, cat. 26) Tavola Bibliografia: Berenson 1932, p. 396; Idem 1936, p. 341; Idem 1968, I, p. 299. IX. Gaiole in Chianti, pieve di San Polo in Rosso Storie della Vita di Cristo Pittura a fresco Bibliografia: Brandi 1933, p. 224. X. Helsinki, Atheneum Madonna col Bambino e Angeli, frammento Tavola, inv. 1765 Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 140, II, fig. 336.
1 Le voci dell’elenco sono disposte in ordine alfabetico rispetto alla collocazione geografica attuale o all’ultima nota; sono corredate di una bibliografia essenziale degli autori che hanno attribuito l’opera a Niccolò di Segna (dal volume di Stubblebine del 1979 sono stati considerati, oltre ai pezzi riferiti a Niccolò, anche quelli dati al Maestro di Sansepolcro e al possibile Niccolò giovane nella bottega di Segna). Al di là delle opere assegnate in questo volume a Francesco di Segna, di cui sono segnalate le attribuzioni con riferimento alle relative schede, sono citate in questo testo i cat. II, V, VII, IX, XIII, XXIV, XXV, XXVIII, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVIII, XXXIX, XLIII, XLIV, XLV, XLVIII.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco XI. Locko Park (Derby), collezione Drury Lowe Madonna col Bambino Tavola Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 139, II, fig. 333. XII. Londra, collezione Harris Madonna col Bambino, San Francesco e due Angeli Tavola Bibliografia: van Marle 1934, II, p. 152. XIII. Lucca, chiesa di Santa Maria a Moriano Redentore e due Angeli Pittura a fresco Bibliografia: Bagnoli 2003, p. 276 nota 26; Franci 2013. XIV. Lucignano, Museo Comunale Annunciazione, Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista e Paolo, i Santi Caterina, Michele, Maria Maddalena, Francesco Tavola Bibliografia: Berenson 1968, I, p. 299. XV. Lucignano, Museo Comunale Madonna col Bambino e donatrice (Francesco di Segna, cat. 29). Tavola Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 141, II, fig. 337. XVI. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek Santa Maria Maddalena Tavola, inv. 9038 Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 139, II, fig. 334. XVII. Montalcino, Museo Civico e Diocesano Madonna col Bambino Tavola, inv. 6MD Bibliografia: Berenson 1932, p. 396; Idem 1936, p. 341. XVIII. Monteroni d’Arbia, chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo a Cuna Madonna col Bambino e Santi; Sant’Anna Metterza e Santi; Presentazione di Gesù al Tempio; varie figure di Santi
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(Francesco di Segna?, §5) Pittura a fresco Bibliografia: van Marle 1934, II, pp. 150-151; Bagnoli 2003, pp. 271, 276 nota 26; Franci 2013. XIX. New York, collezione Fuller Madonna col Bambino Tavola Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 140, II, fig. 335. XX. New York, Metropolitan Museum of Art Madonna col Bambino con Annunciazione e Natività Tavola, inv. D851S-1 Bibliografia: Berenson 1932, p. 396; Idem 1936, p. 341. XXI. New York, Metropolitan Museum of Art Redentore Tavola, inv. 65.181.2 Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 154, II, fig. 476. XXII. Parigi, Musée du Louvre Madonna col Bambino, Santi e donatori Tavola, inv. M.I.411 Bibliografia: Berenson 1932, p. 396; Idem 1936, p. 341; Idem 1968, I, p. 300. XXIII. Philadelphia, Museum of Art, Johnson Collection Natività Tavola, inv. 116 Bibliografia: Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 28 nota 1. XXIV. Pienza, chiesa di San Francesco Croce Tavola Bibliografia: Perkins 1913, p. 36. XXV. Pittsburgh, Frick Art Museum Angelo (con cat. V) Tavola Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 155, II, figg. 534535.
Elenco delle opere espunte dal catalogo di Niccolò di Segna XXVI. Poggibonsi, San Lucchese, sacrestia Santi Decorazioni di armadio Bibliografia: Perkins 1913, p. 36 nota 1; van Marle 1924, II, p. 158; Idem 1934, II, p. 152. XXVII. Ponce (Puerto Rico), Museo de Arte Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Giovanni Battista, il Redentore e due Angeli Polittico frammentario, inv. 255 K.P. I. (ex Kress n. 577) Bibliografia: Berenson 1968, I, p. 300. XXVIII. Portland, Art Museum Santa Margherita (con cat. VII, XLIX) Tavola, inv. 61.41 (ex Kress n. 1102) Bibliografia: Cavalcaselle-Crowe 1864, II, p. 59; Berenson 1968, I, p. 300; Stubblebine 1979, I, p. 154, II, fig. 474. XXIX. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini Madonna col Bambino (Francesco di Segna, cat. 32). Tavola, inv. 1609 Bibliografia: Berenson 1968, I, p. 300; De Benedictis 1979, p. 94. XXX. San Gimignano, chiesa di San Pietro Dolenti sotto la Croce Pittura a fresco Bibliografia: Perkins 1913, p. 36; Berenson 1932, p. 396; Idem 1936, p. 341; Idem 1968, I, p. 300; De Benedictis 1979, p. 94. XXXI. San Gimignano, collegiata di Santa Maria San Gregorio Magno appare a Santa Fina morente (Francesco di Segna, cat. 25) Pittura a fresco Bibliografia: Cavalcaselle, in Pantini 1911, p. 40; Brandi 1933, p. 244; Berenson 1968, I, p. 300; De Benedictis 1979, p. 94. XXXII. Santa Colomba (Monteriggioni), pieve dei Santi Pietro e Paolo
Natività con annuncio ai pastori e bagno del Bambino; Crocifissione (Francesco di Segna, cat. 30) Pittura a fresco Bibliografia: De Nicola 1912, p. 147; Perkins 1913, p. 36; van Marle 1924, II, p. 158; Berenson 1932, p. 397; Brandi 1933, p. 224; van Marle 1934, II, p. 152; Berenson 1968, I, p. 300. XXXIII. Siena, Palazzo Pubblico Crocifissione Tavola Bibliografia: van Marle 1934, II, p. 152. XXXIV. Siena, Pinacoteca Nazionale Sant’Ansano, San Galgano Tavole, inv. 42-43 Bibliografia: Weigelt 1911, p. 263. XXXV. Siena, Pinacoteca Nazionale San Francesco, San Ludovico di Tolosa Tavole, inv. 48-49 Bibliografia: Weigelt 1911, p. 263. XXXVI. Siena, Pinacoteca Nazionale Croce Tavola, inv. 21 Bibliografia: Douglas, in Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 30 nota 1; Perkins 1913, p. 36; Berenson 1932, p. 397; Idem 1936, p. 341; Idem 1968, I, p. 300. XXXVII. Siena, Pinacoteca Nazionale Madonna col Bambino (Francesco di Segna, cat. 31) Tavola, inv. 41 Bibliografia: Berenson 1932, p. 397; Idem 1936, p. 341; Idem 1968, I, p. 300. XXXVIII. Siena, Pinacoteca Nazionale Madonna della Misericordia Tavola Bibliografia: Perkins 1913, p. 36; Berenson 1932, p. 297; Idem 1936, p. 341; Carli 1955a, p. 60; Berenson 1968, I, p. 300; Torriti 1977, p. 76; De Benedictis 1979, p. 94.
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Niccolò di Segna e suo fratello Francesco XXXIX. Siena, Pinacoteca Nazionale Crocifissione Tavola, inv. 68 Bibliografia: Brandi 1933, p. 224; Torriti 1977, p. 80.
XLV. Siena, Società di Esecutori di Pie Disposizioni Crocifissione con i due ladroni Tavola Bibliografia: De Benedictis 1979, p. 94.
XL. Siena, Pinacoteca Nazionale Madonna col Bambino Tavola, inv. 18 Bibliografia: Cavalcaselle-Crowe 1864, II, p. 58.
XLVI. Ubicazione ignota (già Bruxelles, collezione Stoclet) Crocifissione Tavola Bibliografia: Berenson 1932, p. 396; Idem 1936, p. 340; Idem 1968, I, p. 299; Strehlke 2004, p. 340.
XLI. Siena, chiesa di San Martino, cappella Agazzari Miracoli di San Leonardo; Cristo Giudice; quattro Evangelisti; Sant’Agostino, San Francesco, San Frediano(?), Santa (Francesco di Segna, cat. 27) Pittura a fresco Bibliografia: Berenson 1932, p. 397; Brandi 1933, p. 224; van Marle 1934, II, p. 150; Berenson 1936, p. 341; Berenson 1968, I, p. 300; De Benedictis 1979, p. 94. XLII. Siena, pieve di Santa Maria a Tressa Madonna col Bambino e due Santi (Francesco di Segna, cat. 33) Sinopia Bibliografia: Bagnoli 2003, p. 277 nota 32; Franci 2013. XLIII. Siena, basilica di Santa Maria dei Servi, cappella ex Petroni Strage degli Innocenti; Sant’Agnese Pittura a fresco Bibliografia: van Marle 1934, II, p. 150; Bologna 1961, p. 36; Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 93. XLIV. Siena, basilica di Santa Maria dei Servi Croce Tavola Bibliografia: Weigelt 1911, p. 263; van Marle 1924, II, p. 157; Carli 1955a, p. 62; De Benedictis 1979, p. 94.
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XLVII. Ubicazione ignota (già Englewood, N.J., collezione Platt) Croce Tavola Bibliografia: Berenson 1932, p. 396. XLVIII. Ubicazione ignota (già Colonia, Wallraf-Richartz Museum) Redentore Tavola Bibliografia: Stubblebine 1979, I, p. 154, II, fig. 486. XLIX. Ubicazione ignota (già Colonia, collezione Ramboux, nn. 38-39) Sant’Ambrogio, Sant’Agostino (con cat. VII, XXVII) Tavole Bibliografia: Cavalcaselle-Crowe 1864, II, p. 59. L. Wiesbaden, collezione von Henkell Natività Tavola Bibliografia: Berenson 1932, p. 297; Idem 1936, p. 341; Idem 1968, I, p. 300; De Benedictis 1979, p. 95.
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FONTI INFORMATICHE http://www.sanminiato.chiesacattolica.it/pls/cci_dioc_new/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=14200
Legenda delle abbreviazioni ACS: Archivio Comunale di Sansepolcro ASFi: Archivio di Stato di Firenze ASLu: Archivio di Stato di Lucca ASSi: Archivio di Stato di Siena SABAP: Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio
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Referenze fotografiche
Referenze fotografiche Arcidiocesi di Siena; Atlanta, High Art Museum: 5, 49, cat. 16d, cat. 16e; Autrice: 13, 17, 23, 25, 27, 28, 29, 40, cat. 4, 41, 51, cat. 11g, 53, cat. 11h, 68, 71, 72, 78, 82, cat. 5, cat. 6, 85, 86, cat. 11d, cat. 11l, 94, cat. 13a, 99, cat. 19, 102, 110, cat. 24, cat. 33; Baltimore, Walters Art Gallery: 3, cat. 16c; Biblioteca Berenson, Fototeca, Villa I Tatti - The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies: 6, 7, 16, 21, 22, 24, 32, 34, 35, 45, 46, 47, 48, 50, 52, 54, 55, 59, 60, 62, 63, 83, 84, 89, 97, cat. 16l, 106; Cleveland Museum of Art: cat. 13b, cat. 13c; Edifir: 15, 81, 105; Fondazione Giorgio Cini, Archivio fotografico dell’Istituto di Storia dell’Arte, Venezia: 88, 90, cat. 11a; Fondazione Monte dei Paschi di Siena: 108; La riproduzione fotografica è tratta dalla Fototeca della Fondazione Federico Zeri. I diritti patrimoniali d’autore risultano esauriti: 19, 20, 30, 31, 33, 56, 57, 103, 104, cat. 16f-i, cat. 23a-h; Per gentile concessione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma. Palazzo Barberini: cat. 32; Claudio Giusti: 12, 69, 70, 79, 80, 87, cat. 1, cat. 10, cat. 20; Keresztény Múzeum, Esztergom. Photograph by Attila Mudrák: 38, 42, cat.2, cat. 17; Kunsthistorisches Institut in Florenz: 93; Andrea e Fabio Lensini: 2, 4, 11, 36, 37, 61, 67, 73, 74, 75, 76, 77, cat. 12, cat. 15, cat. 21, cat. 22 (per gentile concessione dell’Ufficio Beni Culturali e l’Arte Sacra della Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro), cat. 25, cat. 27, cat. 30; Luca Lupi: 39, 109; Giovanni Martellucci, Università di Firenze: cat. 11c; Lorenzo Matteoli: 65, 91, 92, 95, 96, 100, 111, cat. 26, cat. 34; Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Polo Museale della Toscana. Foto Archivio Pinacoteca Nazionale di Siena: 1, 8, 9, 10, 14, 18, 26, 58, 64, 66, 101, cat. 11b, cat. 14, cat. 16b, cat. 18, cat. 28, cat. 31; Museo Comunale di Lucignano: 107, cat. 29; Philadelphia Museum of Art: cat. 3; Antonio Quattrone: 43, cat. 8; Roberto Sigismondi: cat. 7; Per gentile concessione dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Arezzo Cortona Sansepolcro. Cortona, Museo Diocesano: 44, cat. 9; Villa I Tatti, Collezione Berenson, Florence, reproduced by permission of the President and Fellows of Harvard College. Photo: Paolo De Rocco, Centrica srl, Firenze: 98, cat. 16a
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Finito di stampare in Italia da Pacini Editore Industrie Grafiche - Ospedaletto (Pisa) per conto di Edifir-Edizioni Firenze
La cospicua produzione del pittore senese Niccolò di Segna si dispiega, nel corso del secondo quarto del Trecento, nel solco della tradizione di Duccio di Buoninsegna, mediata dal padre Segna di Bonaventura e da Ugolino di Nerio e arricchita dagli esempi di Simone Martini e dei fratelli Lorenzetti, di cui Niccolò sa cogliere e interpretare spunti e novità. L’analisi del corpus delle sue opere, che dimostrano una qualità sostenuta e costante lungo le varie fasi della sua carriera, è preceduta da un saggio che ne ripercorre l’attività e la complessa vicenda critica. Una sezione è dedicata al meno noto fratello Francesco, anch’egli pittore.
Nicoletta Matteuzzi si è laureata presso l’Università di Firenze, dove ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia dell’Arte. Dal 2013 è coordinatore scientifico del Sistema Museale del Chianti e Valdarno fiorentino ed è inoltre direttore del Museo Giuliano Ghelli di San Casciano Val di Pesa e del Museo Masaccio d’arte sacra di Reggello. Parallelamente continua a svolgere ricerche sulla pittura trecentesca e sul romanico toscano.
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