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cavallo o asino, qualche rara vettura, il filobus (el tran co·e tirache). Per i passaggi pedonali non c’erano strisce ma borchie, si diceva inventate a Trieste per impedire alla bora di portar via le strade; con un po’ di attenzione si passava da un marciapiede all’altro senza pericolo. Attraversavo la strada e andavo verso il centro per un centinaio di metri. Lì c’era il castagnaciaro, il primo extracomunitario che ho conosciuto. Forse extracomunitario è un po’ esagerato: era solo toscano, ma tutti gli altri erano vicentini, veneti. Faceva castagnaccio semplice, con i pinoli e non so con cos’altro, buono e caldo. Faceva anche il barbiere: nella bottega del barbiere titolare più di una volta è stato lui a tagliarmi i capelli e siccome mamma non diceva niente, credo fosse bravo anche in quello. In sua assenza c’era la castagnaciara, sua moglie: non credo facesse anche la parrucchiera, ma qualche tempo dopo oltre al castagnaccio vendeva panna montata d’inverno e gelati d’estate. Attraversavo la via e mi trovavo in uno spiazzo in fondo al quale c’era il cancello della scuola: si entrava in un vasto cortile con grandi alberi. Se si usciva dalla parte opposta si era davanti al ricreatorio, confinante con la scuola. Credo di non essere mai arrivato in ritardo, sia perché abitavo vicino sia perché in quel cortile si poteva giocare fino a quando i maestri non ci dicevano di fare le file per entrare sia perché – nella giusta stagione – dai grandi alberi cadevano dolcissime pàpo·e. Non chiedetemi cosa sono: non lo so, ma mi piacevano. PS - Mi dicono che le pàpo·e sono il frutto del bagolàro.