Le studiate morbidezze di un interprete della tradizione: per Niccolò di Segna, trecentista senese in solitaria
Lo studio della figura di Niccolò di Segna dal punto di vista del metodo è estremamente stimolante. Non sorprende che in anni lontani sia stato liquidato dal palato fine di una critica imbevuta di idealismo crociano come “decadente e ritardatario” (così da Cesare Brandi nel 1933). Oggi però è necessario inquadrarlo nella specificità e complessità del suo profilo, quello cioè di un artista, nipote di Bonaventura, fratello di Duccio, che si sentiva, dopo la morte del padre Segna (tra 1326 e 1331) e di Ugolino (dopo il 1327), forse suo vero maestro, investito più di tutti della difficile eredità del patriarca della pittura senese, tanto aurorato quanto radicalmente superato, ma al tempo stesso voleva vivere consapevolmente la sua contemporaneità, riaffermare la validità di un linguaggio antico impregnandolo quasi in maniera subliminale di sensi più naturalistici ed espressivi, di un’eleganza più sciolta e suadente. L’inquadramento della figura di Niccolò di Segna nella Siena di Simone Martini e dei Lorenzetti, nei ruggenti anni Trenta e Quaranta, pone il problema delle diverse velocità dell’acculturazione, dello spettro differenziato di reazioni innescate anche dai rivolgimenti più profondi, alla luce di atavici conservatorismi del gusto e alla luce del prestigio di un mestiere perpetuato di padre in figlio, di maestro in allievo: il prestigio sempre risorgente della tradizione! Veteres et novissimi nella pittura di Niccolò di Segna convivono e provano ad amalgamarsi secondo una sfida obiettivamente ammirevole. Avendo studiato da anni i grandi trecentisti veneziani, giotteschi per i bizantinisti, bizantini per i trecentisti, e avendo cercato di riscattarne la peculiarità altissima, sono particolarmente intrigato dall’ingannevole tradizionalismo di Niccolò di Segna. Credo gli si debba riconoscere intanto un mestiere spesso assai virtuoso, che trionfa nelle tessiture studiate dei carnati sopra le basi scure, nella forbitezza lucente e metallica delle capigliature, nell’equilibrio fra disegno accurato e mollezze pittoriche, nelle copiose ornamentazioni degli oggetti gemmati e dei nimbi colmati da fantasie incise con lo stiletto, emergenti dalla granitura, e da varie combinazioni di punzoni. Ma credo che gli si debba riconoscere pure l’intelligenza di aver assimilato dapprima, sul 1330, qualcosa dell’eleganza di Simone Martini e Lippo Memmi, poi in maniera crescente negli anni Quaranta qualcosa della soda carnosità dei Lorenzetti, dell’ultimo Pietro specialmente, senza darlo a vedere, quasi sotto traccia, dissimulando tale aggiornamento nella perpetuazione apparente della solennità arcana appresa dal padre Segna e da Ugolino. La grandezza sempre stupefacente della produzione pittorica di Siena nella prima metà del Trecento riposa anche nella sua vivacità, nella polifonia di tendenze contrastanti, nella sorprendente coabitazione di tradizione e sperimentalismi, nel fatto che Simone e i Lorenzetti non svettino isolati, ma siano immersi in un mare magnum contraddittorio e plurale. La vicenda critica di Niccolò è stata assai tormentata e spesso gli sono state negate alcune delle sue opere più importanti, forse per il pregiudizio sul suo livello qualitativo e per l’idea che un pittore un po’ conservatore non potesse aver avuto un percorso così variegato. Tale persistente pregiudizio non faceva velo però al grande Giovan Battista Cavalcaselle, da cui prese le mosse la moderna ricostruzione critica dell’artista. Con discernimento saldo a partire da una sola opera firmata e datata, la Croce 7