Inoltre Birmania/Myanmar “Liberata Aung San Suu Kyi dalla giunta militare, il mondo guarda alla farsa del ritorno alla democrazia”.
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“Parlerò con chiunque voglia lavorare per il bene del Paese e per la democrazia, anche se la riconciliazione nazionale significa riconoscere che vi sono differenze. Non nutro ostilità nei confronti del governo per avermi tenuta prigioniera per tanto tempo: gli ufficiali della sicurezza mi hanno trattato bene; chiedo loro di trattare bene anche il popolo birmano”. È il 14 novembre 2010 Aung San Suu Kyi, liberata appena un giorno prima, pronuncia il suo primo discorso. Finiscono così 20 anni di reclusione per la donna che vinse le elezioni del 1990, ma non potè mai governare. La liberazione del premio Nobel per la pace ha suscitato negli analisti di politica internazionale più di una interpretazione, più di una perplessità. Perchè? Il timore è che i passi in avanti fatti dal governo legittimo siano in realtà passetti di facciata realizzati per ammorbidire l’opinione pubblica internazionale (che si è mobilitata per la causa di San Suu Kyi) e spingere la stessa comunità a revocare le sanzioni economiche internazionali che di fatto hanno isolato la Birmania dalla politica economica del mondo, legandola a quattro mani con la Cina che in questo periodo ha fatto grandi affari nei territori birmani. Le azioni di facciata, tra l’altro non sono nuove al Paese. Ne sono un esempio le elezioni del 7 novembre 2010 che portarono alla nascita del nuovo governo con la vittoria del partito dell’Unione della solidarietà e sviluppo sostenuto dalla ex giunta militare al potere da più di 50 anni. Il partito filo governativo ottenne l’80% dei consensi, ma dalle stesse lezioni vennero esclusi i sostenitori della Lega nazionale per la democrazia con la legge-pretesto che non poUNHCR/G.M.B.Akash
UNHCR/G.M.B.Akash
tevano prendere parte alle elezioni coloro macchiati da vari “precedenti” ed escludendo, di fatto, tutti i sostenitori e gli attivisti del partito di San Suu Kyi. La faccia pulita della democrazia ha dato i suoi frutti. In gennaio la comunità internazionale parla della possibilità di ridurre se non, addirittura, eliminare le restrizioni economiche verso il regime. Ma la cautela rimane d’obbligo visto che tutti si sono resi conto che poco o niente è cambiato nel Paese. Il fulcro della decisione in questo caso girerebbe intorno a un’altra questione: a chi giovano le restrizioni? Chi ne soffre di più? Il popolo oppure il regime militare? E cosa assai importante, se si continua con la politica della restrizione non si lascia ancora più spazio alla Cina che in questi ultimi 20 anni ha fatto della Birmania (ricco di gas, oro, giada, tungsteno, legno, etc..) terreno di grossi investimenti? Intanto, il governo birmano fa un ulteriore passo avanti e in maggio annuncia “l’amnistia collettiva per 17mila detenuti”. In realtà si tratta della riduzione della pena di un anno. Una soluzione che Human Rights Watch ha definito uno “schiaffo. Una risposta patetica agli appelli internazionali”. Bisogna ricordare che il numero delle persone detenute nelle prigioni del Paese è sconosciuto mentre oltre 2000 sarebbero i prigionieri politici. Intanto si consuma un altro effetto del “processo democratico”. I paesi che in questi 20 anni hanno accolto i profughi birmani chiedono il conto. Un ulteriore dato per comprendere la geografia dei cambiamenti in terra di Birmania ci viene dato dal Rapporto dell’ufficio antidroga delle Nazioni Unite che indica per il 2010 un incremento del 20% della coltivazione di oppio e di un +76% del raccolto rispetto al 2009. Il 92% di questa produzione si concentra nella regione orientale dello Shan, in mano ai ribelli ostili al governo. I ribelli birmani usano l’oppio per finanziare l’acquisto delle armi e della guerriglia. Cosa succederà quando tutti questi soldi entreranno nel circolo vizioso della guerra? É un caso che questa aumento spropositato sia coinciso con le elezioni farsa?