Evoluzione dei conflitti Elena Dundovich
UNHCR/C. Clark
Vi sono in questo momento in corso nel mondo molte guerre che vedono coinvolti non solo eserciti e soldati, ma uomini disarmati, donne e bambini inermi di fronte alle atrocità commesse. La maggior parte di esse possono essere definite “guerre dimenticate”, ovvero conflitti a cui i mezzi di informazione dedicano scarsa attenzione complice un’opinione pubblica distratta. Nell’analizzare il turbolento contesto internazionale in cui queste guerre hanno luogo è ovvio ricercare una griglia interpretativa nei mutamenti intercorsi dopo il biennio 1989-1991: il crollo dell’Urss e la fine della guerra fredda da un lato, il ritorno a un sistema multipolare, dall’altro, caratterizzato dalla presenza anomala nel decennio seguente di un Impero americano sicuramente più potente degli altri ma non per questo privo di esitazioni. Un’operazione legittima che non esaurisce però di per sé tutti gli interrogativi e non deve far dimenticare che lo scoppio di molti di questi conflitti, si pensi solo a quello arabo-israeliano o a quello afgano, hanno origini ben più antiche. Fatte queste premesse, è facile osservare come proprio nei due decenni che ci separano da quel 1991 siano comparsi fenomeni prima assolutamente o relativamente sconosciuti che sicuramente ci aiutano a comprendere le ragioni di un così forte indice di conflittualità presente nel sistema internazionale attuale: si pensi allo sviluppo demografico, impressionante da quindici anni a questa parte, o alla relativa scarsità di beni di sussistenza come l’acqua che contraddistingue alcune regioni del pianeta. Ed è ancora una volta in questo ventennio che si colloca la genesi di un altro fenomeno fondamentale dell’epoca contemporanea, ovvero la perdita di centralità dello stato. In quello che molti hanno definito come un sistema di “postdemocrazia” gli Stati hanno perso alcune delle loro fondamentali connotazioni tradizionali: la globalizzazione economica ha corroso in gran parte la loro autonomia finanziaria riducendone in politica interna il ruolo di promotori di politiche sociali a favore di un processo di privatizzazione di beni e servizi pubblici prima considerati intoccabile patrimonio comune. Anche sui teatri di guerra il loro protagonismo si è ridotto: da un lato a vantaggio di organizzazioni paramilitari ed eserciti mercenari spesso al soldo dei locali “signori della guerra”; dall’altro sotto gli attacchi, dopo il 2001, di una guerra terroristica transnazionale che ha reso ancora più evidente la loro vulnerabilità; infine, sotto un certo punto di vista, il fenomeno della “destatualizzazione” dei conflitti è confermata anche dalle iniziative militari condotte sotto l’egida dell’ONU per imporre la pace e il rispetto dei diritti umani (Kuwait 1991, Nato in Bosnia Eerzegovina nel 1995, Nato in Kossovo nel 1999) o da coalizioni internazionali non sempre coese (Iraq, Afghanistan e Libia). Tutto ciò mentre sempre più spesso si affiancano a una diplomazia ufficiale ridondante ma spesso in evidente fase di stallo iniziative silenziose ma efficaci di “second track diplomacy” come quella della Comunità di Sant’Egidio di Roma mediatrice durante i negoziati per la pace in Mozambico. Nello stesso modo la cesura degli anni 1989-1991 rappresenta un punto di riferimento ineludibile anche per chi intenda riflettere se e il modo in cui la guerra sia cambiata nell’ultimo ventennio. Una domanda a cui non sempre gli studiosi hanno dato una risposta univoca corresponsabile anche la contemporaneità degli eventi e la difficoltà quindi di accedere alle fonti documentarie. Un dato è però ormai certo: se all’apparenza conflitti della guerra fredda e conflitti postbipolari non sembrano più gli stessi, il confine tra loro non sempre invece è così netto. Così che anche la triade che divide tra guerre di primo (guerra interstatale tradizionale), secondo (guerra nucleare) e terzo tipo (le guerre, spesso “asimmetriche” del periodo postbipolare) non appare sempre del tutto convincente.
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Piccoli eserciti per grandi stragi Come è cambiata la guerra