Aurea dicta - Storia e testi della letteratura latina

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L’ETÀ DI AUGUSTO

3. Orazio

Quid voveat dulci nutricula maius alumno, qui sapere et fari possit quae sentiat, et cui 10 gratia, fama, valetudo contingat abunde, et mundus victus non deficiente crumina?

PERCORSO ANTOLOGICO

intelligenza e sensibilità che secondo gli antichi albergano nel pectus (noi diremmo «nell’anima») e che tuttora le possiede (= «non eri e non sei»). – di tibi... di tibi: l’enfasi asseverativa dell’anafora è potenziata dalle vistose serie allitteranti (vv. 6-7). – formam: nella breve Vita svetoniana Tibullo è detto insignis forma cultuque corporis observabilis («insigne per bellezza e degno di nota per l’eleganza e la cura della persona»). – divitias: sappiamo che Tibullo era di condizione agiata, sebbene avesse perduto parte delle sue terre in seguito agli espropri di cui beneficiarono i veterani delle guerre civili. – dedĕrunt: la desinenza del perfetto di terza persona plurale con la penultima sillaba breve è un arcaismo dovuto a esigenze metriche. – artemque fruendi: artem, accusativo oggetto, come formam e divitias, di dederunt, regge il gerundio genitivo di fruor, frui, deponente. È la dote più importante, e l’espressione-chiave che segna il passaggio alla seconda parte dell’epistola: senza la «capacità di goderne» (o la volontà di esercitarli) i doni degli dèi sono

vani, come Orazio ricorda in diversi luoghi della sua opera. – Quid... alumno: costruisci Quid maius nutricula voveat dulci alumno. – voveat: congiuntivo presente potenziale di voveo, ˉere («far voti», «augurare»). Nelle neniae che cantavano cullando i lattanti per farli dormire, le nutrici e le madri scongiuravano le forze ostili di tenersi lontane dal piccolo e invocavano per lui un felice avvenire. – dulci... alumno: dativo di vantaggio. Propriamente alumnus designa chi viene «nutrito», «alimentato» (da alo, alĕre): il «lattante», perciò anche il «figlio»; per la balia o nutrice si usava l’espressione «figlio di latte». – nutricula: diminutivo-vezzeggiativo del sermo cotidianus, soggetto di voveat. Intraducibile, richiede in italiano l’ausilio di un aggettivo («cara», «tenera»). – qui... et cui: i due pronomi introducono proposizioni relative improprie dipendenti da voveat nel modo congiuntivo, che alcuni studiosi considerano completive di valore finale (= nisi ut is possit... eique... contingat: così nella nostra traduzione); altri le ritengono proposizioni temporali («quan-

do uno può... e a lui tocchino»), altri infine ipotetiche («se uno può... e se gli tocchino»). – gratia, fama, valetudo: enumerazione per asindeto; gratia non sembra alludere qui esclusivamente allo speciale «favore» dei potenti, ma piuttosto alla felice condizione di chi può contare nella vita sul confortante appoggio di sicure «amicizie»; fama non indica necessariamente una «gloria» eccezionale, ma il «buon nome», una reputazione senza macchia; infine valetudo, vox media, vale ovviamente qui «buona salute». – contingat: il verbo al singolare si riferisce a ben quattro soggetti, enumerati nei vv. 10-11 (gratia, fama, valetudo... victus). – mundus: l’aggettivo significa propriamente «pulito», e per traslato «dignitoso», «decoroso». – non deficiente crumina: ablativo assoluto di valore causale-strumentale; la crumıˉna, altro vocabolo del sermo familiaris (attestato in Plauto), è una piccola borsa che si portava appesa al collo, ed indica per metonimia il denaro in essa contenuto.

Le FORME dell’ESPRESSIONE Collocatio verborum Nei testi oraziani l’attenzione è rivolta in modo particolare alla sapiente collocazione delle parole, che si rivela uno degli espedienti tecnico-stilistici di maggiore efficacia espressiva messi in atto dal poeta.

▰ Omnem crede diem tibi diluxisse supremum (v. 13)  In posizione forte, al centro dell’esametro prima della cesura, e ulteriormente enfatizzata dalle espressive allitterazioni, sta diem, la parola-chiave; diluxisse, il verbo che indica precisamente il sorgere del sole e l’inizio del nuovo giorno, evoca con singolare intensità anche a livello fonico e quasi irradia da sé, nelle sillabe centrali, la «luce» (lux) che è fonte concreta e insieme metafora poetica della vita, mentre con l’aggettivo che immediatamente lo segue, supremum («estremo», «ultimo») subentra il pensiero della morte.

▰ Grata superveniet quae non sperabitur hora (v. 14)  Anche nel verso successivo la scelta e la 262

collocazione delle parole sono curate con magistrale perizia e straordinaria efficacia: all’inizio e alla fine del verso l’aggettivo (grata, predicativo) e il sostantivo (hora), esprimono la serena felicità conquistata dal saggio e insieme l’accettazione consapevole della brevità e fugacità di ogni cosa umana; al centro, legati dall’allitterazione, i due verbi nel tempo futuro, superveniet («giungerà in sovrappiù», «si aggiungerà») e non sperabitur, in antitesi, mediante la decisa negazione, con spem (v. 12).

▰ Un monito di matrice epicurea  In questi tre

versi (12-14) è racchiuso il monito che il poeta rivolge all’amico Tibullo, un vero e proprio Leitmotiv oraziano di chiara matrice epicurea. Già Filodemo di Gàdara, filosofo epicureo e poeta ancora attivo durante la giovinezza di Orazio, aveva scritto che il saggio deve essere «grato per ogni istante raggiunto, come se avesse conseguito una fortuna insperata» (De morte IV, 14).

@ Casa Editrice G.Principato


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