Aurea dicta edizione Gialla - V3

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3 Aurea dicta

edizione gialla

a cura di

Gianluca Pasqual

edizione gialla

Aurea dicta, dal De rerum natura di Lucrezio (III, 12), vuole mettere l’attenzione proprio sul valore fortemente esemplare e pedagogico della letteratura latina: parole che irradiano la luce di una grande civiltà nella quale - e senza alcuna retorica - ancora oggi ci dobbiamo riconoscere.

Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi

Floriferis ut apes in saltibus omnia libant, omnia nos itidem depascimur aurea dicta, aurea, perpetua semper dignissima vita.

Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi Aurea dicta edizione gialla vol. 1 a cura di Gianluca Pasqual + Maria Belponer Laura Forcella Versioni latine CODICE PAS001C01X   ISBN 978-88-6706-534-9

Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi Aurea dicta edizione gialla vol. 1 a cura di Gianluca Pasqual CODICE PAS00101   ISBN 978-88-416-5128-5

Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi Aurea dicta edizione gialla vol. 1 a cura di Gianluca Pasqual CODICE PAS00101X   ISBN 978-88-6706-504-2

Maria Belponer Laura Forcella Versioni latine CODICE PAS00104   ISBN 978-88-416-5145-2

Maria Belponer Laura Forcella Versioni latine CODICE PAS00104X   ISBN 978-88-6706-513-4

Aurea dicta edizione gialla vol. 2 a cura di Gianluca Pasqual CODICE PAS00102   ISBN 978-88-416-5129-2

Aurea dicta edizione gialla vol. 2 a cura di Gianluca Pasqual CODICE PAS00102X   ISBN 978-88-6706-505-9

Aurea dicta edizione gialla vol. 3 a cura di Gianluca Pasqual CODICE PAS00103   ISBN 978-88-416-5130-8

Aurea dicta edizione gialla vol. 3 a cura di Gianluca Pasqual CODICE PAS00103X   ISBN 978-88-6706-506-6

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AUREA DICTA EDIZIONE GIALLA VOL. 3

Dalla prima età imperiale ai regni romano-barbarici

Aurea dicta 3 Dalla prima età imperiale ai regni romano-barbarici

Aurea dicta

Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi Aurea dicta edizione gialla vol. 1 a cura di Gianluca Pasqual + Maria Belponer Laura Forcella Versioni latine CODICE PAS001C01   ISBN 978-88-416-5127-8

Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi

Storia e testi della letteratura latina

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edizione gialla

EDUCAZIONE CIVICA LABORATORI DIDATTICI MAPPE DI SINTESI

Il piacere di apprendere

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edizione gialla a cura di

Gianluca Pasqual

Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi

Aurea dicta Storia e testi della letteratura latina

3

EDUCAZIONE CIVICA LABORATORI DIDATTICI

Dalla prima età imperiale ai regni romano-barbarici

MAPPE DI SINTESI

Il piacere di apprendere © Casa Editrice G. Principato

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Coordinamento redazionale: Marco Mauri Progetto grafico: Enrica Bologni Impaginazione: Controlx Copertina: Enrica Bologni Referenze iconografiche: Archivio Principato, Gettyimages, Shutterstock In copertina: Mosaico del leone da Efeso, Turchia Per le riproduzioni di testi e immagini appartenenti a terzi, inserite in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire, nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. L’opera è a cura di Gianluca Pasqual, a cui si devono in particolare le schede Educazione civica e Cultura e società. La prova di certificazione linguistica è a cura di Maria Belponer e Laura Forcella. Si ringrazia la prof.ssa Lucia Olini per la preziosa consulenza didattica.

Contenuti digitali Progettazione: Marco Mauri, Giovanna Moraglia Realizzazione: Alberto Vailati Canta, BSmart Labs AUREA DICTA EDIZIONE GIALLA Volume 3 ISBN 978-88-416-5130-9 Versione digitale ISBN 978-88-6706-506-6

Prima edizione: aprile 2022

Printed in Italy © 2022 - Proprietà letteraria riservata È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi (Centro licenze e autorizzazioni per le riproduzioni editoriali), corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org. L’editore fornisce – per il tramite dei testi scolastici da esso pubblicati e attraverso i relativi supporti o nel sito www.principato. it e www.gruppoeli.it – materiali e link a siti di terze parti esclusivamente per fini didattici o perché indicati e consigliati da altri siti istituzionali. Pertanto l’editore non è responsabile, neppure indirettamente, del contenuto e delle immagini riprodotte su tali siti in data successiva a quella della pubblicazione, dopo aver controllato la correttezza degli indirizzi web ai quali si rimanda.

Casa Editrice G. Principato Via G.B. Fauché 10 - 20154 Milano sito web: http://www.principato.it e www.gruppoeli.it e-mail: info@principato.it Stampa: Tecnostampa - Pigini Group Printing Division - Loreto - Trevi 21.85.019.0P

La casa editrice attua procedure idonee ad assicurare la qualità nel processo di progettazione, realizzazione e distribuzione dei prodotti editoriali. La realizzazione di un libro scolastico è infatti un’attività complessa che comporta controlli di varia natura. È pertanto possibile che, dopo la pubblicazione, siano riscontrabili errori e imprecisioni. La casa editrice ringrazia fin da ora chi vorrà segnalarli a: Servizio clienti Principato e-mail: info@principato.it

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Aurea dicta

Exegi monumentum aere perennius

Aurea mediocritas brevitas Aequa mens Miscere utile dulci Fortuna dias in luminis oras L’ETÀ DI AUGUSTO

5. Ovidio

T 14 Il mito di Pigmalione

Carpe diem

Contenuti digitali integrativi

PERCORSO ANTOLOGICO

Est modus in rebus

LATINO

ITALIANO

Due scrittori cristiani (Clemente e Arnobio) ci informano che Filostefano di Cirene, un mitografo greco del III secolo a.C., aveva narrato in un ciclo di storie cipriote per noi perdute la vicenda di Pigmalione, il re di Cipro che si era innamorato della statua di Afrodite al punto da crederla una donna vera e da immaginare di potersi congiungere con essa. In Ovidio la vicenda viene trasformata: Pigmalione non è più un re ma un artista che si innamora della propria creazione, una bellissima statua che non raffigura la dea ma una donna mortale. Afrodite interviene solo nella conclusione della vicenda per esaudire il voto di Pigmalione, trasformando la scultura in un corpo vero. Con la vicenda, muta anche il tema centrale della favola, che non è più quello dell’amore ma quello dell’arte, di cui Ovidio spiega l’impulso originario (evadere da una realtà disgustosa: vv. 243-246) e il carattere ideale (la perfezione estetica, la purezza delle linee, che rendono la statua superiore per bellezza a ogni donna vivente: vv. 248-249). L’episodio è scandito in due tempi: il primo (vv. 250-269), soffuso di una luce ardente e malinconica, è quello della creazione e dell’illusione; il secondo (vv. 280-294) è il momento in cui l’illusione si fa realtà. Il passaggio da un tempo all’altro è reso possibile dall’intervento miracoloso di Venere (vv. 270279). L’episodio si conclude con un inserto eziologico (vv. 295297): il poeta indica infatti la «causa» per cui l’isola di Cipro viene anche detta Paphia e Pafo si chiama una delle sue città.

Nota metrica: esametri. 245

245

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PERCORSO ANTOLO GICO

Venere di Capua, II secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quas quia Pygmalion aevum per crimen agentes viderat, offensus vitiis, quae plurima menti femineae natura dedit, sine coniuge caelebs vivebat, thalamique diu consorte carebat. Interea niveum mira feliciter arte sculpsit ebur, formamque dedit, qua femina nasci nulla potest, operisque sui concepit amorem.

Propetidi, le fanciulle di Amatunte che a causa della loro impudi-

L’aspetto è quello di fanciulla vera, e diresti che è viva, che potrebbe muov ersi, se non la frenas tanta è l’arte che se ritrosia: nell’ar te si cela. Pigmalione ne e in cuore brucia è incantato di passione per quel corpo simul Spesso passa la ato. mano sulla statua 255 se è carne per sentire o avorio, e non vuole amme La bacia e imma ttere che sia solo gina che lei lo baci, avorio. le parla, l’abbraccia, ha l’impression e che le dita affond ino nelle memb e teme che la pressi ra che tocca one lasci lividi sulla Ora la vezzeggia, carne. ora le porge doni 260 alle fanciu graditi lle: conchiglie, pietru zze levigate, piccoli uccelli, fiori di mille colori , gigli, biglie dipint e e lacrime d’amb ra stillate dall’albero delle Eliadi. Le addob ba poi il corpo le infila brillanti di vesti, alle dita e al collo 265 piccole monili preziosi; perle le pendono dalle orecchie e Tutto le sta bene, nastrini sul petto. ma nuda non appar L’adagia su tappe e meno bella. ti tinti con porpo ra di Sidone, 250

Avendole viste condurre vita dissoluta, Pigmalione, disgustato dei vizi illimitati che natura ha dato alla donna, viveva celibe, senza sposarsi, e senza una compagna che dividesse il suo letto a lungo rimase. Ma un giorno, con arte invidiabile scolpí nel bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna vivente è in grado di vantare; e s’innamorò dell’opera sua.

243. Quas: Ovidio ha appena terminato di narrare il mito delle

Virginis est verae facies, quam vivere credas et, si non obstet reverentia, velle moveri: ars adeo latet arte sua. Miratur, et haurit pectore Pygmalion simulati corporis ignes. Saepe manus operi temptantes admo 255 corpus, vet, an sit an illud ebur, nec adhuc ebur esse Oscula dat, reddiq fatetur. ue putat, loquit urque tenetque, et credit tactis digito s insidere memb ris et metuit, presso s veniat ne livor in artus. Et modo bland itias adhibet, modo 260 munera grata puellis fert illi conchas terete sque lapillos et parvas volucr es et flores mille colorum liliaque pictasque pilas et ab arbore lapsas Heliadum lacrim as. Ornat quoqu e vestibus artus, dat digitis gemm as, dat longa monil 265 aure leves ia collo; bacae, redimicula pectore pendent: cuncta decent; nec nuda minus formosa videtu Collocat hanc stratis r. concha Sidonide tinctis 250

Metamorphoses X, 243-297

cizia erano state trasformate in pietre.

392

263. Heliadum: figlie di Helios (il Sole) e della ninfa na Clíme ne, pianser oceanite del fratello Fetonteo la morsulle rive dell’Erídano (il Po), dove furono

mutate in pioppi; le loro lacrime si rappresero in gocce d’ambra. La trasformazione è narrata morphoses II, 340-366 in Meta. 267. concha Sidonid e: Sidone

era una delle maggio ri Fenicia, dove, secondo città della un’antica tradizione, era stato inventato il procedimento per ricavare la porpora da una conchig lia marina.

393

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3 © Casa Editrice G. Principato


INDICE

1 L’età giulio-claudia Lo scenario temporale

Dal principato di Tiberio alla morte di Nerone (14-68 d.C.)

1 Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

24 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 Gli eventi: dal principato di Tiberio a quello di Nerone (14-68 d.C.) 24

sulloscaffale Uno studio su Tiberio; due poemetti di Giovanni Pascoli 27 fontivisive La gemma Claudia 28 2 Storici e biografi di tendenza senatoria 29 3 Le Historiae di Velleio Patercolo 31 T1

Elogio di Seiano, homo novus (Historiae II, 127-128) IT 32 ONLINE

4 I Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo 33 T2

Clamoroso esempio di ingratitudine (Factorum et dictorum memorabilium libri V, 3, 4)

IT

33

5 Le Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo 35

Gli SCRITTORI e la STORIA La figura di Alessandro nella letteratura antica 35 Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno 37 T 3 In viaggio verso l’oracolo di Giove Ammone (Historiae Alexandri Magni IV, 7, 5-31) LAT IT 37 Bibliografia essenziale 38   Sintesi 39 fontivisive La Domus transitoria di Nerone 39 MAPPA Verifica finale

ONLINE

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE 40 • Il processo e la morte di Cremuzio Cordo nei racconti di Seneca e 41 di Tacito LETTURE PARALLELE Alexandros di Pascoli e L’immortale di Borges BIBLIOGRAFIA ESTESA

2 Poesia nell’età giulio-claudia

42

PROFILO STORICO

1 Poesia e cultura nell’età giulio-claudia 42 Le nuove forme del dissenso nell’età del principato 44 Spettacoli nel I secolo dell’impero 46

2 La poesia didascalica: Manilio e Germanico 47 3 Le favole di Fedro 48

Il genere LETTERARIO La favola 49 T1

La favola del lupo e dell’agnello (Fabulae I, 1)

LAT IT

50

Dialogo con i MODELLI Fedro ed Esopo 52 T2

Un aneddoto di attualità (Fabulae II, 5)

4 © Casa Editrice G. Principato

IT

53


Materiali ONLINE PROFILO STORICO

4 La poesia bucolica: Calpurnio Siculo e i Priapea 54

Calpurnio Siculo, Eclogae 55 Bucolica Einsidlensia: due ecloghe celebrative di età neroniana 55

5 La poesia satirica: Persio 56 T3

Una dichiarazione di poetica (Choliambi) LAT IT 57 Le Satire II-VI di Persio: i temi trattati 59 Le FORME dell’ESPRESSIONE Oscurità di Persio: un esempio di iunctura acris 60 Persio nel tempo 62

6 La poesia epica: Lucano 63

PERCORSO ANTOLOGICO

Le opere perdute di Lucano 64 T 4 «Guerre più atroci delle civili»: il proemio (Pharsalia I, 1-7) LAT IT 66 Lucano nel tempo 72 FEDRO NEL TEMPO COMPITO DI REALTÀ Un mondo di favole molto reali 73 CALPURNIO SICULO Lucano, Bellum civile o Pharsalia 74 NEL TEMPO BIBLIOGRAFIA ESTESA Bibliografia essenziale 75   Sintesi 76

Manilio T5 T6

Il proemio (Astronomica I, 1-37) Le influenze zodiacali sulle diverse regioni del corpo (Astronomica II, 448-465)

LAT IT

78

ONLINE

LAT IT

78

ONLINE

O curas hominum, o quantum est in rebus inane! (Saturae I) Malattie del corpo e malattie dell’animo (Saturae III, 60-118) Elogio del maestro Anneo Cornuto (Saturae V, 1-51) Sulla spiaggia di Luni, d’inverno (Saturae VI, 1-33)

LAT IT

78 78 82 83

ONLINE

Persio T7 T8 T9 T 10

LAT IT LAT IT LAT IT

ONLINE

Lucano T 11 La quercia ed il fulmine (Pharsalia I, 129-157) LAT IT Leggere un TESTO CRITICO Il simbolismo della quercia e del fulmine (E. Narducci) T 12 Macabro rito di necromanzia (Pharsalia VI, 719-729; 750-821) IT Dialogo con i MODELLI Il monologo della maga Erìttone nel Faust di Goethe

84 86 87 91

5 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

INDICE

1 L’età giulio-claudia

T 13 Cesare contempla il campo di Farsalo dopo la strage (Pharsalia VII, 786-846) LAT IT T 14 La virtù di Catone (Pharsalia IX, 378-410) LAT IT T 15 «Al nume non occorrono parole» (Pharsalia IX, 544-586) IT Un personaggio contraddittorio: il Catone di Lucano

Materiali ONLINE 92 92 92 93

ONLINE ONLINE

MAPPA

94

Verifica finale

95

3 Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

96 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La prosa tecnica e scientifica nel I secolo d.C. 96 2 Il progetto enciclopedico di Celso 98 3 Gastronomia: il De re coquinaria di Apicio 99 T1

Un piatto di acciughe (De re coquinaria IV, 2, 11)

LAT IT

100

4 Medicina: le Compositiones di Scribonio Largo 100 Educazione CIVICA

Salus, valetudo, humanitas 101

5 Geografia: la Chorographia di Pomponio Mela 102 Studi geografici e cartografia in Roma 102

6 Agricoltura: il De re rustica di Columella 103 T2

La crisi dell’agricoltura italica: analisi e proposte T4 Varie dicerie sui Mani (De re rustica, praefatio1-4 passim) IT 104 (Naturalis historia VII,

7 La Naturalis historia di Plinio il Vecchio 105 T3

188-190)

T5 Notizie sui lupi

Le opere non pervenute di Plinio: un vasto e variegato catalogo 106 (Naturalis historia VIII, 80-84) Miracula naturae: le popolazioni dell’India DOCUMENTI E (Naturalis historia VII, 21-32 passim) IT 110 TESTIMONIANZE Educazione CIVICA

• Vita e morte di Plinio il Plinio il Vecchio, eroe del pensiero e dell’umanità 112 Vecchio nelle lettere del

nipote Plinio il Giovane 8 I trattati di Sesto Giulio Frontino, curator aquarum 113

Bibliografia essenziale 115    Sintesi 115

BIBLIOGRAFIA ESTESA

MAPPA

116

Verifica finale

117

6 © Casa Editrice G. Principato


4 Seneca

118 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La vita e le opere 118 Le opere di Seneca non pervenute 121

2 Filosofia e potere 122 3 La scoperta dell’interiorità 124 4 Le forme del filosofare 126 5 Filosofia e scienza: le Naturales quaestiones 129 Prologhi ed epiloghi delle Naturales quaestiones: una cornice etico-filosofica 129 6 Una satira menippea: l’Apokolokyntosis 130

PERCORSO ANTOLOGICO

Un titolo oscuro e variamente decifrato: Apokolokyntosis 131 Il genere LETTERARIO La satira menippea 132 7 Le tragedie 133 Le tragedie spurie o sospette 133 DOCUMENTI E fontivisive La Medea di Euripide 136 TESTIMONIANZE Seneca nel tempo 137 • La morte di Seneca nel racconto di Tacito Opere filosofiche di Seneca 139 BIBLIOGRAFIA ESTESA Bibliografia essenziale 141   Sintesi 142 T1 T2 T3 T4 T5

Solo la morte ci rende liberi (Consolatio ad Marciam 19, 3-20, 3) Esempi di ferocia bestiale: Alessandro, Silla, Catilina, Caligola (De ira III, 17-19) LAT L’esame di coscienza (De ira III, 36) LAT Elogio di Claudio (Consolatio ad Polybium 7) LAT Otiosi e occupati (De brevitate vitae 14) LAT Educazione CIVICA

IT

144

IT

146 146 147 147

IT IT IT

ONLINE

ONLINE

Occupati, assediati, allineati 150

T6

Elogio di Nerone (De clementia I, 1)

T7 T8

Il paternalismo politico, dalla clementia al nudging 152 Beata est vita conveniens naturae suae (De vita beata 3) LAT IT 153 ONLINE Taedium vitae e commutatio loci (De tranquillitate animi 2, 13-15) LAT 153 Dialogo con i MODELLI Il motivo del taedium vitae in Lucrezio e in Orazio 155

IT

150

Educazione CIVICA

7 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

INDICE

1 L’età giulio-claudia

Materiali ONLINE

T9

L’uso del tempo (Epistulae ad Lucilium 1) LAT 156 Le FORME dell’ESPRESSIONE Il linguaggio dell’interiorità 157 T 10 Le letture (Epistulae ad Lucilium 2) LAT IT 159 Leggere un TESTO CRITICO Un tema centrale nelle filosofie ellenistiche: la «cura di sé» (M. Foucault) 161 T 11 Il potere corruttore della folla (Epistulae ad Lucilium 7, 1-5) LAT 162 Vita QUOTIDIANA a ROMA Gli spettacoli circensi nell’epistola 7 a Lucilio 165 Confronti INTERTESTUALI Dalle Confessioni di Agostino: il contagio della folla 166 T 12 La libertà del saggio (Epistulae ad Lucilium 8, 1-7) IT 167 T 13 Cotidie morimur (Epistulae ad Lucilium 24, 17-21) LAT 168 Il dibattito FILOSOFICO I timori delle pene infernali: anche Cicerone confuta Epicuro 168 T 14 Dio è in noi (Epistulae ad Lucilium 41, 1-5) LAT 169 Leggere un TESTO CRITICO Il senso del sacro nei culti di Roma arcaica (R. Bloch) 173 T 15 Anche gli schiavi sono uomini (Epistulae ad Lucilium 47, 1-6; 15-21) IT 174 Seneca, De beneficiis: «Nessuno è escluso dalla virtù» 174 La condizione degli schiavi nel pensiero cristiano delle origini: le lettere degli apostoli 175 T 16 Membra sumus corporis magni (Epistulae ad Lucilium 95, 51-53) LAT 177 T 17 Un’altra nascita ci attende (Epistulae ad Lucilium 102, 21-30) LAT IT 179 T 18 L’epoca della mia prima giovinezza: gli studi filosofici (Epistulae ad Lucilium 108, 1-7; 13-29) IT 179 T 19 Il progresso delle scienze (Naturales quaestiones VII, 25, 1-4) LAT IT 179 T 20 Claudio sale in cielo (Apokolokyntosis 5-7, 1) IT 181 T 21 Il furore di Medea (Medea 116-178) IT 182 Leggere un TESTO SCENICO Staticità dell’azione, dinamismo tragico delle parole 186 T 22 Un nefando banchetto (Thyestes 920-1068) IT 187 COMPITO DI REALTÀ Lettere a Seneca 187 LABORATORIO

Magni animi est magna contemnere (Epistulae ad Lucilium 39, 4-5)

ONLINE

ONLINE ONLINE

ONLINE

188

MAPPA

190

Verifica finale

191

5 Il Satyricon di Petronio

192 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 L’autore e l’opera 192

2 Il Satyricon 194 La questione petroniana 194 Satyricon: che cosa significa questo titolo? 195

3 Il problema del genere e i modelli 197

Il genere LETTERARIO Il romanzo antico 198 4 Struttura del romanzo e strategie narrative 198

Leggere un TESTO CRITICO Soggettivismo e obiettività: un’illusione

di vita concreta nello «specchio doppio» della narrazione (E. Auerbach) 203 Ambiguità prospettica del Satyricon: le discussioni letterarie 204 5 Realismo mimetico ed effetti di pluristilismo 205 Bibliografia essenziale 206 Il Satyricon nel tempo 207 Sintesi 208

8 © Casa Editrice G. Principato

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Ritratto di Petronio (Tacito) • Il Satyricon di Des Esseintes (Huysmans) BIBLIOGRAFIA ESTESA


PERCORSO ANTOLOGICO

T1 T2 T3 T4 T5

T6 T7 T8

Materiali ONLINE Una disputa de causis corruptae eloquentiae (Satyricon 1-4) IT 209 Cena Trimalchionis: l’ingresso di Trimalchione (Satyricon 32-34) LAT IT 212 I conviti di Nerone in Svetonio e la Cena del Satyricon 215 Cena Trimalchionis: il lupo mannaro e altre storie (Satyricon 61-64) LAT IT 215 CULTURA e SOCIETÀ Gli uomini-lupo 220 La novella della matrona di Efeso (Satyricon 110, 6-113, 2) IT 221 Dialogo con i MODELLI Un racconto filosofico di Voltaire: Zadig 223 La città rovesciata: Crotone (Satyricon 116) LAT IT 224 Le FORME dell’ESPRESSIONE Il discorso del villico 224 Leggere un TESTO CRITICO Una chiave di lettura per l’episodio di Crotone: la legge dell’inversione (P. Fedeli) 226 Contro l’epica storica (Satyricon 118) IT 227 ONLINE Un’ambigua dichiarazione di poetica (Satyricon 132, 15) LAT IT 227 ONLINE Una suasoria antropofagica (Satyricon 141) LAT IT 227 LABORATORIO

Dum versas te, nox fit (Satyricon 41, 9-12)

228

MAPPA

229

Verifica finale

230

2 L’età dei Flavi e di Traiano Lo scenario temporale

Dall’anno dei quattro imperatori alla morte di Traiano (69-117 d.C.)

6 Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

232 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 Gli avvenimenti 232 2 I prìncipi e la cultura 236 Fine del mecenatismo nell’età dei Flavi 237

3 Grammatici e filologi nel I secolo d.C. 239 4 Quintiliano 240 T1

Institutio oratoria Struttura e contenuti dell’opera: i dodici libri 241 Vantaggi della scuola pubblica (Institutio oratoria I, 2, 17-22) IT 242

Scuola e istruzione 243 T3 Il valore formativo T 2 Lo stile corruttore di Seneca (Institutio oratoria X, 1, 125-131) LAT IT 245 delle letture (Institutio Quintiliano nel tempo 248 oratoria I, 8, 1-5) BIBLIOGRAFIA ESTESA Bibliografia essenziale 248   Sintesi 249 Educazione CIVICA

MAPPA

258

Verifica finale

259

9 © Casa Editrice G. Principato


INDICE

2 L’età dei Flavi e di Traiano

7 Epica nell’età dei Flavi

252 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 Stazio 252

T1

fontivisive Un mondo prezioso ed elegante Tebaide Riassunto del poema fontivisive Achille e Chirone Dal proemio della Tebaide (Thebais I, 1-4) LAT IT Achilleide Riassunto del “frammento”: i versi scritti (libro I; libro II, incompleto)

254 254 256 256 258

2 Gli Argonautica di Valerio Flacco 260 T2

Argonautica Riassunto del poema 260 Dal proemio delle Argonautiche (Argonautica I, 1-4) LAT IT 261

3 I Punica di Silio Italico 263 Punica Riassunto del poema 264 Bibliografia essenziale 266   Sintesi 266

BIBLIOGRAFIA ESTESA

PERCORSO ANTOLOGICO

Stazio T3

Il duello mortale fra Eteocle e Polinice (Thebais XI, 518-579)

LAT IT

267

Valerio Flacco T4

Il dissidio interiore di Medea (Argonautica VII, 305-326)

IT

269

IT

269

Silio Italico T5

La traversata delle Alpi (Punica III, 477-534)

ONLINE

MAPPA

270

Verifica finale

271

8 Marziale e la poesia epigrammatica

272 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La vita e le opere 272

fontivisive Preziose suppellettili 275 Istituzioni ROMANE I Saturnali 275 T1

Doni preziosi e doni umili (Apophoreta 97; 98)

LAT IT

276

ONLINE

Il genere LETTERARIO L’epigramma in Grecia e in Roma 277 fontivisive Un cruento spettacolo 278 2 La poetica 278 T2 T3

Hominem pagina nostra sapit (Epigrammata X, 4) Lasciva est nobis pagina, vita proba (Epigrammata I, 4)

LAT IT

279 280

ONLINE

3 Aspetti della poesia di Marziale 281 4 La tecnica e lo stile 282 Marziale nel tempo COMPITO DI REALTÀ Epigrammi moderni Bibliografia essenziale 286   Sintesi 286

10 © Casa Editrice G. Principato

284 285

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Ricordo di Marziale (Plinio il Giovane) BIBLIOGRAFIA ESTESA


PERCORSO ANTOLOGICO

T4 T5 T6 T7 T8 T9

La vita a Bilbili (Epigrammata XII, 18) LAT IT Spettacoli: la sfilata dei delatori (Liber de spectaculis 4) LAT IT Spettacoli: un cruento pantomimo (Liber de spectaculis 7) LAT IT Spettacoli: i ludi venatorii (Liber de spectaculis 13) LAT IT Spettacoli: una naumachia (Liber de spectaculis 24) LAT IT Epigrammi satirici (Epigrammata I, 10; I, 47; II, 38; VIII, 10; X, 8; X, 91) LAT IT Leggere un TESTO CRITICO Il realismo di Marziale (M. Citroni) T 10 Quadri di vita romana: lo sfratto di Vacerra (Epigrammata XII, 32) LAT IT Dialogo con i MODELLI Carlo Emilio Gadda e Marziale: il trasloco della signora Inzaghi T 11 Epigrammi funebri (Epigrammata V, 34 e 37) LAT IT T 12 Nuovi spettacoli: il pugnale di ghiaccio (Epigrammata IV, 18) LAT IT

288 289 290 291 291 292 293 294

Materiali ONLINE

ONLINE ONLINE

296 297 299

MAPPA

300

Verifica finale

301

9 La satira di Giovenale

302 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La vita 302

2 La poetica dell’indignatio 304 T1

Facit indignatio versum (Saturae I, 63-80)

LAT IT

304

Il genere LETTERARIO Una satira “tragica”? 305 3 Aspetti delle Satire di Giovenale 307 Le Saturae di Giovenale 308

4 Lingua e stile 310 Giovenale nel tempo Bibliografia essenziale 3112   Sintesi 312

311

BIBLIOGRAFIA ESTESA

11 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

INDICE T2 T3 T4

2 L’età dei Flavi e di Traiano

Una satira programmatica: Facit indignatio versum (Saturae I, 1-87; 147-171) LAT IT La ridda infernale nelle strade di Roma (Saturae III, 232-267) LAT IT Leggere un TESTO CRITICO Una poetica della deformazione (I. Lana) Ritratti di donne: la saccente e la dama (Saturae VI, 434-473) LAT IT Educazione CIVICA

Materiali ONLINE 313 313 315

ONLINE

316

Dall’indignazione all’hate speech 319

Letture PARALLELE Accenti misogini in Lucrezio e in Carlo Emilio Gadda 319 T5

Panem et circenses (Saturae X, 56-107)

LAT IT

319

ONLINE

MAPPA

320

Verifica finale

321

10 Le epistole di Plinio il Giovane

322 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La vita e le opere 322

2 Il Panegirico di Traiano 324 T1

Inviando a un amico il Panegirico di Traiano (Epistulae III, 13)

IT

324

3 L’Epistolario 325 T2

Dalla villa in Tuscis: la mia giornata-tipo (Epistulae IX, 36) IT 326

fontivisive La villa in Tuscis 327 4 Il carteggio Plinio-Traiano 328

5 Lo stile e i modelli delle Epistole 328 329

PERCORSO ANTOLOGICO

Plinio il Giovane nel tempo Bibliografia essenziale 330   Sintesi 330 T3 T4 T5 T6

Un rito mondano: le recitationes (Epistulae I, 13) LAT Le fonti del Clitumno (Epistulae VIII, 8) LAT Elogio di Traiano, il migliore degli imperatori possibili (Panegyricus Traiano imperatori 64) LAT Carteggio Plinio-Traiano: due lettere sui cristiani d’Asia (Epistulae X, 96-97)

BIBLIOGRAFIA ESTESA

ONLINE

IT

331 331

IT

333

ONLINE

IT

334

IT

MAPPA

336

Verifica finale

337

12 © Casa Editrice G. Principato


11 La storiografia di Tacito

338 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La vita e le opere 338

2 Il Dialogus de oratoribus 341 Dialogus de oratoribus Struttura e contenuti dell’opera 341

3 Le monografie: Agricola e Germania 342 Agricola Struttura e contenuti dell’opera 343 Germania Struttura e contenuti dell’opera 345 Le FIGURE e gli EVENTI della STORIA I Germani e Roma 346

4 Le Historiae e gli Annales 347 Historiae Struttura e contenuti dell’opera 348 Annales Struttura e contenuti dell’opera 349

5 Principato e libertà: realismo politico e giudizio morale 350 6 Una visione problematica della storia e della storiografia 351

PERCORSO ANTOLOGICO

7 Lingua e stile 355 Tacito nel tempo

356

COMPITO DI REALTÀ L’immagine del nemico e dello straniero Bibliografia essenziale

358 359

Sintesi

360

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Plinio scrive a Tacito: due lettere LETTURE PARALLELE • Due testi di G. Leopardi: Del sole, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi IX, passim; Canzone Ad Angelo Mai, vv. 76-105 BIBLIOGRAFIA ESTESA

T1 T2 T3 T4 T5

L’antica fiamma dell’eloquenza (Dialogus de oratoribus 36) LAT IT 362 Il proemio (Agricola 1-3) LAT IT 364 L’anti-eroismo esemplare di Agricola (Agricola 42) LAT IT 366 I confini della Germania (Germania 1) LAT 368 Autoctonia, origine e divisione del popolo germanico (Germania 2) LAT 370 Nomi e parole degli antichi Germania, Germani 370 Le FIGURE del MITO Genealogia mitica dei Germani secondo Tacito 374 T 6 Purezza della stirpe germanica (Germania 4) LAT 375 Leggere un TESTO CRITICO Arbitrarie interpretazioni del testo tacitiano (L. Canfora) 377 T 7 Natura e risorse del territorio germanico (Germania 5) LAT 378 ONLINE T 8 La consegna delle armi e il comitatus (Germania 13) LAT 379 T 9 Passione dei Germani per la guerra (Germania 14) LAT 382 ONLINE T 10 Fierezza e integrità delle donne germaniche (Germania 18-19) LAT IT 382 Leggere un TESTO CRITICO La Germania di Tacito: una meditazione sulle perdute virtù di Roma (A. Michel) 384 T 11 Un popolo di navigatori: i Suioni (Germania 44) LAT IT 385 ONLINE T 12 Il mare immoto e l’ambra (Germania 45) LAT 385 T 13 Notizie dai confini del mondo (Germania 46) LAT IT 386 T 14 Il proemio (Historiae I, 1-3) LAT IT 388 T 15 Discorso di Galba a Pisone (Historiae I, 16) IT 391 T 16 Il degrado morale del popolo romano (Historiae III, 83) LAT IT 392 ONLINE T 17 Morte ingloriosa di Vitellio (Historiae III, 84, 4-85) IT 392 Gli SCRITTORI e la STORIA La morte di Vitellio nella Vita di Svetonio 393 T 18 Sine ira et studio: dal proemio degli Annales (Annales I, 2-3) LAT IT 394

13 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

INDICE

T 19 T 20 T 21 T 22

2 L’età dei Flavi e di Traiano

Doppiezza di Tiberio e servilismo dei senatori (Annales I, 7-12 passim) Infelicità dello storico moderno (Annales IV, 32-33) LAT La morte di Britannico (Annales XIII, 14-16) LAT Il matricidio (Annales XIV, 3-10) LAT

IT IT IT IT

394 397 398 398

Materiali ONLINE

ONLINE ONLINE

Educazione CIVICA

Spunti tacitiani per temi moderni 399

LABORATORIO

Discorso di Galba alle truppe (Historiae I, 18)

400

MAPPA

402

Verifica finale

403

12 Le biografie di Svetonio

404 Materiali ONLINE

PERCORSO ANTOLOGICO

PROFILO STORICO

1 La vita e le opere 404

2 De viris illustribus 406 Le perdute opere erudite di Svetonio 406 DOCUMENTI E

3 De vita Caesarum 407 TESTIMONIANZE T1

Per tempora / per species: Svetonio parla del suo metodo di lavoro (Vita Augusti 9,1; 61,1) Bibliografia essenziale 409   Sintesi 410

T2

Regalità e divinità in Caligola (De vita Caesarum IV, 22) IT Nomi e parole degli antichi I soprannomi di Caligola Ritratto di Caligola (De vita Caesarum IV, 50) LAT IT Morte e sepoltura di Caligola (De vita Caesarum IV, 58-59) LAT IT

T3 T4

IT

408

• Plinio, in una lettera, parla di Svetonio

BIBLIOGRAFIA ESTESA

411 412 413 415

MAPPA

417

Verifica finale

418

14 © Casa Editrice G. Principato


3 L’età di Adriano e degli Antonini Lo scenario temporale

Dal principato di Adriano alla morte di Commodo (117-192 d.C.)

13 Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

420 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 Il «secolo d’oro» dell’impero 420

I LUOGHI dell’ANTICO Villa Adriana 422 2 Seconda Sofistica e tendenze arcaizzanti 424 3 Floro retore, storico e poeta 426

Epitoma de Tito Livio 426

4 I poetae novelli 427 I poetae novelli: le personalità e le opere 427

5 Frontone 428 L’epistolario di Frontone 430

6 Le Notti attiche di Aulo Gellio 431

PERCORSO ANTOLOGICO

Bibliografia essenziale 433   Sintesi 434

BIBLIOGRAFIA ESTESA

Poetae novelli T1

Un nuovo gusto poetico

LAT IT

435

sulloscaffale Marguerite Yourcenar Memorie di Adriano 437 Frontone T2 T3 T4

Feroci giudizi sullo stile di Seneca e di Lucano (De orationibus 1-7) Sullo stile (Epistulae ad Marcum Caesarem IV, 3, 1-3) Elogio del fumo e della polvere (Laudes fumi et pulveris)

LAT IT LAT IT LAT IT

437 439 439

ONLINE ONLINE

Aulo Gellio T5 T6

La lettera h (Noctes Atticae II, 3) Indice del libro IX (Noctes Atticae, praefatio)

LAT IT LAT IT

439 439

ONLINE

MAPPA

440

Verifica finale

441

15 © Casa Editrice G. Principato


INDICE

3 L’età di Adriano e degli Antonini

14 Apuleio

442 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La vita e le opere 442 Apuleio enciclopedico e multiforme: opere perdute, spurie o dubbie 444

2 Eloquenza e filosofia 445 T1

Apologia: struttura e contenuti 445 Magia e filosofia (Apologia 27) IT 446 Educazione CIVICA Circonvenzione o plagio? 447 Opere filosofiche di Apuleio 448

LEGGERE UN TESTO 3 Le Metamorfosi ovvero L’asino d’oro 449 CRITICO

Il genere LETTERARIO Reductio ad fabulam 450 • R.E. Witt, Diffusione

PERCORSO ANTOLOGICO

Apuleio nel tempo 456 Le Metamorfosi ovvero L’asino d’oro 458 Bibliografia essenziale 459   Sintesi 460

del culto di Iside nel Mediterraneo

BIBLIOGRAFIA ESTESA

T2 T3

Prologo dell’opera (Metamorphoseon I, 1) LAT IT 461 Storia di Telifrone (Metamorphoseon II, 19-30) IT 462 ONLINE Leggere un TESTO CRITICO Lector, intende: laetaberis (G.F. Gianotti) 463 T 4 Metamorfosi di Lucio in asino (Metamorphoseon III, 21-25) LAT IT 463 Le FORME dell’ESPRESSIONE Come Apuleio descrive le due metamorfosi 465 sulloscaffale Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov 466 T 5 La novella di Amore e Psiche (1) (Metamorphoseon IV, 28-V, 20) IT 466 ONLINE T 6 La novella di Amore e Psiche (2) (Metamorphoseon V, 21-23) LAT IT 467 sulloscaffale Mario l’epicureo di Walter Pater 468 T 7 La novella di Amore e Psiche (3) (Metamorphoseon V, 24-VI, 24) IT 471 ONLINE T 8 Peripezie di Lucio-asino: la contesa fra l’ortolano e il soldato (Metamorphoseon IX, 39-42) IT 471 T 9 Apparizione di Iside (Metamorphoseon XI, 1-7) IT 474 ONLINE T 10 Nuova metamorfosi di Lucio e discorso del sacerdote di Iside (Metamorphoseon XI, 13-15) LAT IT 475 sulloscaffale Il manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki 478 CULTURA e SOCIETÀ Splendori e miserie della curiositas 479 Leggere un TESTO CRITICO Diffusione del culto di Iside nel Mediterraneo 479 LABORATORIO

La prima metamorfosi di Lucio (Metamorphoseon III, 24)

481

MAPPA

483

Verifica finale

484

16 © Casa Editrice G. Principato


4 Dalla crisi dell’impero alla fine del mondo antico Lo scenario temporale

Da Settimio Severo ai regni romano-barbarici (193-secolo VI d.C.)

15 La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo

486 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La crisi politica, sociale e spirituale dell’impero 486

fontivisive La famiglia imperiale 488 fontivisive I Tetrarchi 490 2 Filosofia e religione nell’età della crisi 491

Marco Aurelio A se stesso 492 Il Corpus Hermeticum e gli Oracoli caldaici 493 Vita e opere di Plotino 493

3 Poeti pagani del III secolo 495 4 Giuristi, eruditi e grammatici 497 Bibliografia essenziale 499   Sintesi 499

BIBLIOGRAFIA ESTESA

MAPPA

500

Verifica finale

501

16 Le nuove forme della letteratura cristiana

502 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 Nascita della letteratura cristiana latina 502 2 Le traduzioni della Bibbia 503

Le FORME dell’ESPRESSIONE Caratteri del latino cristiano 504 3   Le testimonianze: Atti e Passioni dei Martiri; Vite dei Santi; Confessioni; Racconti di pellegrinaggio 506 T1

Un processo contro i cristiani (Acta Martyrum Scilitanorum) IT 506 Un caso di renitenza alla leva: gli Acta Maximiliani 508 Il genere LETTERARIO L’autobiografia cristiana 509

4 Il testo apologetico 510 5 La letteratura esegetica: il commento ai testi sacri 511 T2

L’interpretazione figurale (Paolo, I Corinthiis 10, 1-13)

IT

512

17 © Casa Editrice G. Principato


INDICE

4 Dalla crisi dell’impero alla fine del mondo antico

PROFILO STORICO

Materiali ONLINE

6   Riconversione delle forme tradizionali: epistolografia, oratoria, storiografia 514

Il genere LETTERARIO Le forme della storiografia cristiana 514 7 La poesia 516

LABORATORIO • Un passo dall’Apocalisse di Giovanni: «La grande meretrice»

Carmen de ave Phoenice 517 BIBLIOGRAFIA ESTESA Bibliografia essenziale 518   Sintesi 519 MAPPA

520

Verifica finale

521

17 Scrittori cristiani fra II e IV secolo

522 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 Un dialogo “ciceroniano”: l’Octavius di Minucio Felice 522 2 L’energia morale e dottrinale di Tertulliano 524 L’Apologeticum di Tertulliano 525

3 Un martire della Chiesa: Cipriano, vescovo di Cartagine 527

Le FIGURE e gli EVENTI della STORIA La persecuzione di Decio 528 4 Il pessimismo eterodosso di Arnobio 529 5 L’umanesimo cristiano di Lattanzio 530 6   Due opposti modelli di poesia cristiana: Commodiano e Giovenco 531 T1

Evangeliorum libri (Praefatio 1-27)

IT

532

7 L’intolleranza di Firmico Materno 534 8 Ilario di Poitiers e la questione ariana 534 Una controversia teologica: la questione ariana 535

9 Mario Vittorino, da retore pagano a scrittore cristiano 536 10   Un grande “successo” del IV secolo: la Vita di Antonio di Atanasio tradotta da Evagrio di Antiochia 537 Bibliografia essenziale 539   Sintesi 540

18 © Casa Editrice G. Principato

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Il martirio di Cipriano nella testimonianza del diacono Ponzio • Dalle Confessioni di Sant’Agostino: Simpliciano narra la conversione di Mario Vittorino • Dalle Confessioni di Sant’Agostino: sconvolgimenti e risoluzioni prodotti dalla lettura della Vita di Antonio LETTURE PARALLELE • Des Esseintes legge il De cultu feminarum di Tertulliano (Huysmans) BIBLIOGRAFIA ESTESA


PERCORSO ANTOLOGICO

Materiali ONLINE

Minucio Felice T2

Parla il pagano Cecilio: dicerie infamanti sui cristiani (Octavius 9, 3-7)

IT

542

fontivisive Un graffito ingiurioso 543 T3 T4

Un ribaltamento di prospettive: i poveri sono i più vicini alla saggezza (Octavius 16, 5-6) LAT Roma, città empia e brutale (Octavius 25, 1-7)

IT IT

543 543

ONLINE ONLINE

Tertulliano T5 T6 T7

I paradossi giuridici dei tribunali pagani (Apologeticum 2) Contro gli ornamenti femminili (De cultu feminarum I, 1, 1-2) LAT Quod infingitur, diaboli negotium est (De cultu feminarum II, 5, 1-5) LAT

IT IT IT

544 546 547

ONLINE

Cipriano T8

Lettera sui lapsi (Epistulae 34) IT 547

CULTURA e SOCIETÀ “Prime donne”: Eva, Pandora, Maria 549 Arnobio T9

La condizione umana (Adversus nationes II, 16-19)

LAT IT

550

ONLINE

Lattanzio T 10 Dio punisce chi perseguita i cristiani: la morte di Valeriano (De mortibus persecutorum 5) IT 550 ONLINE

Commodiano T 11 Il Giudizio universale (Carmen apologeticum 1001-1040)

LAT IT

550

LAT IT

550

ONLINE

LAT IT

550

ONLINE

LAT IT

551

Firmico Materno T 12 Imperatori, perseguitate il paganesimo! (De errore profanarum religionum 28, 12-13; 29)

Ilario di Poitiers T 13 Alla ricerca di Dio (De Trinitate I, 1-5)

Vita Antonii T 14 Antonio e i filosofi (Vita Antonii 72-73) MAPPA

552

Verifica finale

553

18 La rinascita della cultura pagana

554 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 La cultura pagana del IV secolo 554 Difesa e recupero dei classici latini 556

2   La poesia: Optaziano Porfirio, Tiberiano, Pervigilium Veneris, De rosis nascentibus, Naucellio, Avieno, Aviano 557 T1

«Sfogliando i dotti libri degli antichi» (Epigrammata Bobiensia 5)

IT

558

3 Ausonio di Bordeaux 559 Opere varie di Ausonio 560

4 Oratoria ed epistolografia: Simmaco 561 Opere di Simmaco: orazioni ed epistole 561

5 I Panegyrici Latini 562

Il genere LETTERARIO Evoluzione del termine «panegirico» 562 6 Storici e biografi 563

19 © Casa Editrice G. Principato


INDICE

4 Dalla crisi dell’impero alla fine del mondo antico

Materiali ONLINE PROFILO STORICO

7 L’ultimo grande storico di Roma: Ammiano Marcellino 564 Rerum gestarum libri Struttura e contenuti dell’opera 565

LEGGERE UN TESTO

8 Historia Augusta 569 CRITICO 9 Un poeta di corte: Claudiano 571 De raptu Proserpinae Struttura e contenuti dell’opera 572

10 Trattati grammaticali e commenti 573 11 La prosa tecnico-scientifica 575 Bibliografia essenziale 576   Sintesi 577

• F. Canfora, I concettichiave dell’ideologia pagana senatoria

• M. Yourcenar, Il lettore moderno nell’Historia Augusta è a casa propria BIBLIOGRAFIA ESTESA

PERCORSO ANTOLOGICO

Optaziano Porfirio T2

Un carme figurato: la nave del mondo (Carmina 19)

580

ONLINE

IT

580

ONLINE

LAT IT

ONLINE

LAT IT

580 580 581

LAT IT

581

ONLINE

LAT IT

582 586

ONLINE

IT

586

ONLINE

LAT IT

587 589

ONLINE

LAT IT

Pervigilium Veneris T3

La veglia di Venere

Ausonio T4 T5 T6

Poesie per Bissula (Bissula 4-5) Sulla via della Mosella (Mosella 1-22) Lodi del fiume (Mosella 23-81)

LAT IT

ONLINE

Simmaco T7

L’altare della Vittoria (Relatio de ara Victoriae 1-10)

Ammiano Marcellino T8 T9

Morte di Giuliano (Rerum gestarum XXV, 3) I Goti attraversano il Danubio (Rerum gestarum XXXI, 4, 1-6)

LAT IT

Historia Augusta T 10 Vita dissoluta e stravagante di Carino (Carus et Carinus et Numerianus 16-18, 2)

Claudiano T 11 Il Tartaro in festa (De raptu Proserpinae II, 326-360) T 12 Il sogno di Cerere (De raptu Proserpinae III, 67-110)

LAT IT

MAPPA

590

Verifica finale

591

19 Il trionfo del cristianesimo

592 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 Un’affaire del IV secolo: l’altare della Vittoria 592

fontivisive La Vittoria alata di Brescia 594 Educazione CIVICA

La tolleranza, tra simboli e maschere 596

2 Ambrogio 596 Exameron 597

3 Gerolamo 601 De viris illustribus 603

4 Agostino 605

fontivisive Una Natività protocristiana 608 5 Prudenzio 610 6 Paolino di Nola 612 7 Sulpicio Severo 613

fontivisive Il martirio di san Lorenzo 614 Bibliografia essenziale 615   Sintesi 617 20 © Casa Editrice G. Principato

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Dalla Vita Ambrosii: l’elezione di Ambrogio a vescovo di Milano • La vita quotidiana di Ambrogio, vescovo di Milano, nel racconto di Agostino BIBLIOGRAFIA ESTESA


PERCORSO ANTOLOGICO

Materiali ONLINE

Ambrogio T1 T2 T3 T4

T5

Doveri medi e doveri perfetti (De officiis I, 36-37) LAT IT La tigre e lo specchio (Exameron IX, 21) LAT IT In difesa dei poveri (De Nabuthae 1-2) LAT IT Dottrina cristiana e sermo humilis (De Isaac vel anima 7, 57) LAT IT Leggere un TESTO CRITICO Lo stile è umile, ma l’oggetto è sublime (E. Auerbach) Aeterne rerum conditor (Hymni) LAT IT

620 620 620 620

ONLINE ONLINE ONLINE

621 622

Gerolamo T6 T7 T8 T9

La vita nel deserto (Epistulae 22, 7) Ciceronianus es, non Christianus (Epistulae 22, 30) Le rovine del paganesimo (Epistulae 107, 2) LAT Quid salvum est, si Roma perit? (Epistulae 123, 15-16)

IT IT IT IT

623 623 624 624

ONLINE ONLINE

Agostino T 10 T 11 T 12 T 13

T 14 T 15 T 16 T 17 T 18

Recordari volo (Confessionum II, 1) LAT 625 Il furto delle pere (Confessionum II, 9) LAT IT 626 Nondum amabam et amare amabam (Confessionum III, 1) LAT IT 627 Lettura della Bibbia (Confessionum III, 9) LAT IT 627 Leggere un TESTO CRITICO Sermo humilis e tradizione letteraria negli scrittori cristiani (H. Hagendahl) 628 La divina chiamata (Confessionum X, 38) LAT IT 629 Le insidie del piacere estetico (Confessionum X, 49-50) LAT IT 630 Cosa fare della cultura pagana (De doctrina Christiana II, 60) LAT IT 630 Esortazione allo studio delle Sacre Scritture (Epistulae 132) LAT IT 631 Sul servizio militare (Epistulae 189, 4-6) LAT IT 631

ONLINE

ONLINE ONLINE

Prudenzio T 19 Il martirio di Eulalia (Peristephanon III, 126-170)

IT

631

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631

LAT IT

631

ONLINE

Paolino di Nola T 20 Ausonio e Paolino: uno scambio epistolare (Ausonio, Epistulae 24; Paolino, Carmina 10, 19-42; 103-155)

ONLINE

Sulpicio Severo T 21 Martino e il diavolo (Vita Martini 24) LABORATORIO

Lettura dell’Hortensius di Cicerone (Confessiones III, 4, 7-8)

ONLINE

632

MAPPA

634

Verifica finale

635

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INDICE

4 Dalla crisi dell’impero alla fine del mondo antico

20 Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

636 Materiali ONLINE

PROFILO STORICO

1 Il sacco di Roma (410 d.C.) e le reazioni dei contemporanei 636 2   Un’opera su commissione: le Historiae adversus paganos di Orosio 638 T1

Funzione provvidenziale dell’impero romano (Historiae adversus paganos VI, 22)

IT

639

3 La nuova visione del mondo di Salviano 640 4 La poesia della fine di Rutilio Namaziano 641 5   Querolus sive Aulularia: una commedia ambientata sulle sponde della Loira 642 Querolus sive Aulularia Personaggi e trama della commedia 643

6   Le sintesi enciclopediche di Macrobio e di Marziano Capella 644 7 Le storie romanzate 645 8 Verso il Medioevo 645

PERCORSO ANTOLOGICO

De consolatione philosophiae di Boezio Struttura e contenuti dell’opera 649 La comunità monastica di Vivarium 650 COMPITO DI REALTÀ Una lezione di fine studi 653 BIBLIOGRAFIA ESTESA Bibliografia essenziale 654   Sintesi 655

Rutilio Namaziano T2

Risalendo in autunno le coste italiche (De reditu suo I, 217-644 passim)

LAT IT

657

Macrobio T3 T4

Un metodo di studio: apes debemus imitari (Saturnalia, praefatio, 1-10) LAT Virgilio, fonte di ogni sapienza (Saturnalia I, 24, 10-25)

IT IT

659 659

ONLINE

MAPPA

660

Verifica finale

661

Prova di certificazione linguistica latina Livello B1 662 Nozioni di metrica e prosodia latina ONLINE Glossario dei termini retorici e stilistici ONLINE Indice dei nomi 666 Indice delle traduzioni ONLINE Referenze iconografiche 671

SchedeONLINE 1 La traduzione nel mondo latino 2 La dottrina epicurea 3 Libri, lettori e biblioteche nel mondo antico

4 Retorica e oratoria nel mondo antico 5 La storiografia greca 6 La satura

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1 L’età giulio-claudia Lo scenario temporale

Dal principato di Tiberio alla morte di Nerone (14-68 d.C.)

1 Storia e storiografia dell’età giulioclaudia 2 Poesia nell’età giulio-claudia 3 Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale 4 Seneca 5 Il Satyricon di Petronio

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1 Storia e storiografia dell’età giulio-claudia 1 Gli eventi: dal principato di Tiberio a quello di Nerone (14-68 d.C.) Problemi di successione Nell’agosto del 14 d.C. moriva, all’età di 77 anni, Ottaviano Augusto. Già da dieci aveva designato erede del suo potere il figliastro Tiberio, sul quale aveva dovuto ripiegare per mancanza di alternative. Dai suoi tre matrimoni Augusto aveva infatti avuto soltanto una figlia, Giulia, dapprima concessa in matrimonio a Vipsanio Agrippa e in seguito allo stesso Tiberio. Da Giulia e Vipsanio erano nati Lucio e Gaio, entrambi morti in giovane età. Giovanissimo, nel 23, era morto anche l’altro nipote Marcello, figlio della sorella Ottavia. Restavano i due figliastri Druso e Tiberio, nati dalle prime nozze della moglie Livia con Tiberio Claudio Nerone, discendente dell’antica e illustre famiglia dei Claudii. Ma Druso, il prediletto, morì durante una spedizione germanica nel 9 a.C. Il principato di Tiberio Nel 14 Tiberio aveva cinquantasei anni, e aveva trascorso la maggior parte della sua vita combattendo lungo i confini dell’impero. Era un 24 © Casa Editrice G. Principato


Valerio Massimo a Tiberio I fatti e, insieme, i detti memorabili dei Romani e dei popoli stranieri, che altri scrittori trattarono in maniera troppo estesa perché potessero essere rapidamente conosciuti, volli trascegliere dagli autori illustri e disporre ordinatamente, per evitare, a chi volesse compulsare tali fonti, la fatica di una lunga ricerca. Né mi sono fatto prendere dalla bramosia di abbracciare tutti i fatti: in realtà chi potrebbe mai condensare in pochi rotoli le imprese di ogni tempo o chi, in senno, oserebbe sperare di riferire la serie delle imprese patrie o straniere, descritte in uno stile affascinante, con maggior cura o con felicità di espressione superiore a quella dei classici? Te, dunque, o Cesare, nelle cui mani il consenso degli uomini e degli dèi volle che fosse posta la suprema direzione del mare e della terra, sicuro presidio della patria, chiamo a sostegno di questa mia opera. (Factorum et dictorum memorabilium libri, praef., trad. di R. Faranda)

dominus

lex maiestatis annales

libertas senatus exempla

novi homines

mirabilia

uomo chiuso, introverso, scontroso; di idee conservatrici e di tendenze filosenatorie, non aveva mai guardato con favore al principato, pur senza esercitare opposizione nei confronti di Augusto. Nell’assumere il potere rinunciò a molti dei titoli di cui si era fregiato il predecessore, rifiutando gli onori divini. Erano i segni della sua perplessità nei confronti di un ruolo, quello del princeps, che faticava ad accettare ma che sentiva ormai inevitabile. Forse si illudeva di poter restaurare la res publica esercitando l’autorità del principato: operazione opposta a quella di Augusto, che aveva salvaguardato le forme repubblicane per imporre una struttura monarchica. La contraddizione era del resto già scritta nel suo doppio nome di Giulio e di Claudio: Tiberio discendeva infatti dai Claudii, che avevano combattuto a Filippi dalla parte di Bruto, ed erano stati fino all’ultimo nemici dell’auctoritas imperiale; ma era stato ufficialmente adottato dagli Iulii, che avevano fondato il principato nelle figure di Cesare e di Ottaviano. Per una strana fatalità, fu proprio Tiberio a fornire alla storia la prima immagine dell’imperatore capriccioso, crudele e ambiguo che caratterizzerà la dinastia giulio-claudia. Tacito, che scrive un secolo dopo, lo dipinge in bellissime e fosche pagine come un uomo cupo e sospettoso, insincero ed ipocrita [ T19, cap. 11]. Ma Tacito era un nostalgico re25 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

pubblicano: l’esitazione di Tiberio nell’accettare il principato, gli onori che aveva voluto riservare all’antica nobilitas apparvero allo storico simulati.

PROFILO STORICO

L’ombra di Germanico Sul ricordo di Tiberio pesavano troppe dicerie avverse, fra cui l’accusa di aver fatto avvelenare il nipote Germanico, che fra il 14 e il 16 aveva combattuto in Germania sconfiggendo Arminio e vendicando la disfatta di Teutoburgo (9 d.C.). Figlio di Druso e di Antonia minore, Germanico [ cap. 2.2] era divenuto popolarissimo fra i soldati, sostenendo, come il nonno Marco Antonio, idee filoellenizzanti e assolutistiche che Tiberio non poteva condividere. Ma quarant’anni di principato augusteo avevano disabituato all’esercizio della libertà, favorito l’ascesa di nuovi ceti sociali e introdotto un nuovo immaginario politico. Tiberio si ritira a Capri: il potere nelle mani di Seiano Il carattere chiuso di Tiberio, l’opposizione ideologica del partito di Germanico, che intendeva portare a compimento la trasformazione della res publica in monarchia assoluta, incomprensioni ed equivoci con la stessa nobiltà senatoria, fecero precipitare gli eventi. Ferito nell’orgoglio e disgustato dal servilismo dei cortigiani, Tiberio si ritirò a Capri, dove visse stabilmente dal 27, lasciando il potere nelle mani di Elio Seiano, prefetto del pretorio ambizioso e senza scrupoli, uno dei tanti uomini nuovi che probabilmente Tiberio disprezzava, ma di cui non poteva fare a meno: con Seiano si aprì un’era di processi e di condanne, di rancori e di odii che non dovevano più placarsi. Denunciato per aver ordito una congiura contro il princeps, Seiano cadde in disgrazia e fu condannato a morte nel 31. Il principato di Tiberio (14-37 d.C.) si concludeva in un clima di sospetti, di congiure, di illegalità. Il senato, che Tiberio avrebbe voluto restaurare nel prestigio, appariva impotente e umiliato. Il potere si fondava sempre più sull’elemento militare, e in particolare sulla coorte pretoria, un corpo armato fedele al princeps e perennemente stanziato nei pressi di Roma. Più volte venne applicata la lex maiestatis, al fine di colpire gli oppositori più intransigenti. Molti furono costretti al suicidio o fatti uccidere: fra questi lo storico Cremuzio Cordo [ cap. 1.2].

Il trionfo di Tiberio, coppa in argento rinvenuta a Boscoreale, I secolo d.C. Parigi, Musée du Louvre.

Ambiguità e fragilità dell’istituto imperiale Gli anni di Tiberio erano stati drammatici e avevano rivelato l’ambiguità e la fragilità dell’istituto imperiale, che ufficialmente continuava ad essere una sorta di magistratura suprema, una potestas eccezionale atta a salvaguardare le forme dell’antica repubblica. Augusto era stato abilissimo nel conservare gli equilibri; Tiberio, grande militare ma privo di virtù politiche, costretto ad assumere un ruolo che non sentiva proprio, aveva finito per disgustare tutti, dal ceto senatorio che intendeva favorire a coloro che sostenevano la definitiva conversione del principato in monarchia ellenistica.

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1. Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

sullo

scaffale

Lidia Storoni Mazzolani

Tiberio o la spirale del potere Rizzoli, Milano 1992 Uno studio su Tiberio

A Lidia Storoni Mazzolani, fine traduttrice di classici latini, si devono diversi studi sul mondo antico, fra cui questa ampia biografia dedicata a Tiberio, che già nel titolo («Tiberio o la spirale del potere») e nel sottotitolo («La forza irresistibile del dispotismo») rivelano l’intento dell’autrice: sottrarre la figura del successore di Augusto alle pagine fosche e sinistre di Tacito e di Svetonio (le fonti storiche tradizionalmente più accreditate sull’argomento) per leggere la figura e l’opera politica di Tiberio entro una diversa prospettiva. Come leggiamo nell’introduzione dell’opera, «Tiberio fu l’unico imperatore

Busto di Gaio Cesare Germanico detto Caligola, I secolo d.C. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.

che, come il suo storico cent’anni dopo [Tacito], ritenne la costituzione repubblicana la migliore; ma ebbe il tempo di rendersi conto che non c’è Principe che non si trasformi in autocrate, e non c’è autocrate che non trascenda: le condanne, le confische, anche se non furono così terribili come vengono descritte, rientrano nella logica del sistema. Se qualcosa trapela dal chiuso animo dell’imperatore, è la sua intima riluttanza al sistema; la sua bruciante vergogna, alla fine, di aver ceduto ad esso». Il libro, rigoroso e documentato, è tra i saggi più convincenti sul mondo romano degli ultimi decenni, e presenta il vantaggio di una prosa leggibile e di un impianto storiografico divulgativo, che lo rende adatto anche a un pubblico di studenti.

Giovanni Pascoli

Nell’altro, un uomo ormai maturo, si trova in esilio a Rodi, nel giorno in cui i a cura di A. Colasanti, bambini dell’isola erano traduzione e cura soliti cantare il «canto della delle poesie latine di rondine» (Chelidonismos, N. Calzolaio, Newton in greco), un antico testo Compton, Roma 2006 popolare che Pascoli inserisce con sorprendente Due poemetti di Giovanni naturalezza nella trama di Pascoli questo suo severo, pensoso Il Pascoli dedicò componimento. Mentre all’imperatore Tiberio due i bimbi intonano la loro poemetti, uno in lingua canzoncina – annuncio italiana, uno in lingua di primavera per un’isola latina: il primo, intitolato di eterne primavere –, Tiberio (1896), entrò poi giunge in porto una nave, a far parte dei Poemi conducendo a sua volta conviviali; il secondo, la notizia che Augusto intitolato Chelidonismos (1897), rientra nella sezione ha richiamato il futuro Res Romanae dei Carmina. imperatore in patria. O utinam hic – inquit Pascoli guarda a Tiberio – semper, Chaldee, vel partendo da due episodi apparentemente marginali, exul («Magari, o Caldeo – dice – potessi rimanere entrambi ambientati in sempre qui, anche come terra greca: in uno Tiberio è ancora neonato, e si salva esule»), esclama Tiberio, rivolgendosi a Trasillo, miracolosamente da un immane incendio scoppiato l’astrologo che poco prima gli ha divinato un grande tra i monti di Arcadia, lungo il corso dell’Eurota. futuro.

Tutte le poesie

Il principato di Caligola Fu Caligola, nel suo brevissimo principato (37-41 d.C.), a operare con energia questa conversione. Discendente di Marco Antonio (che volle riabilitare, cancellando l’anniversario di Azio) e figlio del colto e amato Germanico, aveva da loro ereditato il modello assolutistico di una monarchia orientale fondata su un principio sovrannaturale: il sovrano era l’incarnazione vivente di un nume, una figura sacra e intangibile cui dovevano essere riconosciuti onori divini già in vita e non solo post mortem. Coerentemente al suo progetto, Caligola impose fastosi cerimoniali di tipo orientale alla corte, mortificando di proposito il ceto senatorio e cercando consensi nel proletariato urbano e nelle province orientali, ai quali volle presentarsi come il continuatore di Alessandro Magno. Per ingraziarsi il popolo, organizzò spettacoli e ludi magnifici, accompagnati dall’elargizione di grandi somme. Una congiura di palazzo sostenuta da pretoriani, senatori e cavalieri, alleati di fronte alle sempre più allarmanti stravaganze del principe, lo 27 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

tolse di mezzo ancora giovanissimo (sulla figura di Caligola, si vedano le pagine di Svetonio [ T3-5, cap. 12]; sul mito di Alessandro Magno si legga l’opera di Curzio Rufo [ cap. 1.5]). PROFILO STORICO

Il principato di Claudio Il potere passò a Claudio (41-54 d.C.), uno zio di Caligola rimasto fino allora ai margini della vita politica, dedito agli studi eruditi, storici e antiquari, probabilmente considerato innocuo e imbelle. La tradizione storiografica lo rappresenta succube delle ultime mogli, Messalina e Agrippina Minore. Seneca, nell’Apokolokyntosis [ cap. 4.6], lo descrive come un vecchio sciocco, beone e sanguinario, ironizzando sulle sue velleità letterarie. Vero è che nessuno dei quattro prìncipi succeduti ad Augusto si salvò dalle accuse dei posteri e degli stessi contemporanei. Claudio cercò di mediare tra le esigenze del princeps e quelle del senato, richiamandosi alle direttive politiche di Augusto: da una parte restaurò i valori tradizionali della cultura romana, espellendo da Roma gli astrologi e le comunità ebraiche; d’altro canto rafforzò la coorte pretoria, posta al servizio personale del princeps, e affidò l’amministrazione pubblica nelle mani di influenti liberti. L’operazione era in atto fin dall’epoca di Augusto, e tendeva a diminuire il reale potere delle famiglie senatorie: la macchina statale era ormai sotto il controllo di una potente burocrazia che esercitava le sue funzioni all’interno della domus imperiale. Secondo la tradizione Claudio fu avvelenato dalla moglie Agrippina, desiderosa di favorire l’ascesa al potere del figlio Nerone, che all’epoca aveva solo diciassette anni. Anche questo era un segno dell’orientalizzazione della vita politica romana: sempre più il palazzo del principe richiamava l’atmosfera delle corti ellenistiche, dominate da scandali, congiure e rivalità, caratterizzate da un pericoloso intersecarsi di vita privata e di vita pubblica.

fonti

visive

La gemma Claudia Sulla gemma si trovano effigiate due coppie: l’imperatore Claudio e la sua quarta moglie Agrippina Minore sulla sinistra; Germanico e Agrippina Maggiore sulla destra. Le figure emergono da quattro cornucopie, simboli dell’abbondanza. Al centro l’aquila imperiale, con le ali spiegate, che guarda nella direzione dell’imperatore. Ai lati, in basso, delle armi: si riconoscono elmi, scudi di forme diverse, una corazza.

Gemma Claudia. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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1. Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

Il principato di Nerone Il principato di Nerone (54-68 d.C.) sintetizza in modo tragico il conflitto di poteri e di interessi che si era sviluppato negli ultimi cinquant’anni. Secondo le fonti antiche, egli si adeguò nei primi anni del regno a una politica filosenatoria e conciliatrice, sotto la guida del filosofo Seneca [ cap. 4.1-2] e del prefetto del pretorio Afranio Burro. Più tardi fece prevalere una politica di tipo assolutistico, coltivando il progetto di una monarchia orientalizzante che già era stato di Caligola. Il punto di rottura va collocato intorno al 58, quando Nerone impose provvedimenti economici sfavorevoli al ceto senatorio. Dopo essersi liberato della madre Agrippina (59 d.C.) e della tutela di Seneca (intorno al 62), si abbandonò a ogni genere di bizzarrie e di eccessi. La congiura di Pisone e la fine della dinastia giulio-claudia Nel 65 fu scoperta una congiura che avrebbe dovuto concludersi con l’assassinio di Nerone e il passaggio del potere a Gaio Calpurnio Pisone. L’epurazione coinvolse anche Seneca e il giovane poeta Lucano, costretti entrambi a uccidersi. Nel 66 la stessa sorte toccò a Petronio, il probabile autore del Satyricon [ capp. 4-5]. Le stravaganze e le crudeltà di Nerone provocarono reazioni sempre più ostili in ogni fascia sociale: l’insurrezione dei legionari nelle province e la ribellione dei pretoriani lo lasciarono privo di ogni difesa. Si suicidò nel 68 d.C., all’età di trentun anni. Personalità dispotica ed egocentrica, Nerone mirò a trasformare la città di Roma in una sorta di metropoli orientale, esercitando la sua influenza non solo nell’ambito della politica ma anche in quello della cultura [ cap. 2.1].

Guida allo studio

1.

Elenca i nomi degli imperatori appartenenti alla dinastia giulio-claudia, le date di inizio e fine del loro principato, le notizie relative alla loro morte. 2. Quali problemi si posero al nuovo princeps dopo la morte di Ottaviano Augusto? Poni l’accento, nella tua esposizione: a)

sul rapporto fra principe e senato; b) sulla natura giuridica dell’istituto imperiale. 3. Quali ceti sociali e quali figure assunsero progressivamente il controllo dell’amministrazione pubblica durante l’età giulio-claudia?

2 Storici e biografi di tendenza senatoria Una storiografia di opposizione Sotto il principato, quando l’oratoria si ridusse a vuote e spettacolari declamationes, la nobilitas senatoria manifestò la sua opposizione attraverso la storiografia, nella forma cauta e indiretta dell’esaltazione nostalgica della libertas repubblicana e dei suoi più esemplari rappresentanti (Cicerone, Catone Uticense, Bruto e Cassio); ciò non impedì la reazione talvolta aspra dei principi. Tito Labieno e Cremuzio Cordo Tito Labieno, a cui il carattere aggressivo e animoso procurò l’appellativo di Rabienus, si lasciò morire nella tomba di famiglia quando la sua opera storica, di cui pure aveva evitato cautamente di divulgare le 29 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PROFILO STORICO

parti più compromettenti, fu distrutta per volontà di Ottaviano nel 12 d.C. Un destino simile toccò sotto Tiberio a Cremuzio Cordo, autore di Annales in cui aveva esaltato Bruto e Cassio: accusato di lesa maestà da due clienti di Seiano, anch’egli vide i suoi libri messi al rogo; tuttavia i libri di Cordo furono salvati e pubblicati durante il principato di Caligola [ Il processo e la morte di Cremuzio Cordo ONLINE]. Seneca Padre A Seneca Padre, noto soprattutto per la sua fortunata opera sull’oratoria dei declamatori [ vol. II, cap. 1.8], appartengono due frammenti di una storia ab initio bellorum civilium, pubblicata solo postuma: dai Gracchi a Tiberio, Seneca vedeva un’inarrestabile decadenza, morale prima che politica. In un frammento, che doveva appartenere al proemio, mostra di aderire alla tradizionale concezione organicistica della storia dei popoli, paragonata al ciclo vitale di un singolo individuo: così la storia romana veniva distinta in cinque età, dall’infanzia rappresentata dal regno di Romolo fino alla vecchiaia coincidente con le guerre civili e la formazione del principato. Servilio Noniano e Aufidio Basso All’ambiente aristocratico appartenevano anche Servilio Noniano, console nel 35 e di orientamento stoico, e Aufidio Basso, epicureo, morto in tarda età sotto Nerone. Quest’ultimo narrò in uno stile sallustiano la storia contemporanea, verosimilmente da Cesare fino a Claudio, trattando (non è chiaro se nelle Historiae o in un’apposita monografia) le guerre germaniche: la sua opera e la sua moralità gli valsero l’apprezzamento di Seneca Figlio, Quintiliano e Tacito.

Statua di Germanico, I secolo d.C. Amelia (Terni), Museo Civico Archeologico.

Guida allo studio

Biografie Notevole rilievo acquista nel corso del I secolo d.C. anche la biografia elogiativa, in cui l’uso tradizionale della laudatio funebris assume connotazioni di opposizione politica: Trasea Peto, autore di una vita di Catone Uticense, cadde sotto la repressione neroniana nel 66 d.C. A lui e a suo genero Elvidio Prisco, condannato a morte durante il regno di Vespasiano, dedicarono biografie rispettivamente Aruleno Rustico ed Erennio Senecione, e per questo furono a loro volta puniti con la morte.

1.

A quali ideali etico-politici si richiamavano gli storici di tendenza senatoria? Quali furono gli argomenti privilegiati delle loro ricerche? 2. Di quali storici di età augustea e giulioclaudia furono messe al rogo le opere? 3. Perché, nell’ambiente dell’opposizione

senatoria, assunse speciale rilievo il genere della biografia elogiativa? 4. Seneca Padre fu autore di una storia di Roma ab initio bellorum civilium. Esponi l’argomento dell’opera, la concezione della storia enunciata nel proemio, il giudizio dell’autore sull’età più recente.

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1. Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

3 Le Historiae di Velleio Patercolo Nessuna delle opere di tendenza senatoria del I secolo ci è pervenuta; restano invece, anche se non in forma integrale, le Historiae di Velleio Patercolo, significativamente un homo novus, nelle quali il principato di Tiberio viene esaltato come una nuova età dell’oro. La vita Gaio Velleio Patercolo era nato negli ultimi decenni del I secolo a.C. da una famiglia originaria della Campania. Come il padre e il nonno, sceglie la carriera militare. Fra l’1 e il 4 d.C. accompagna in Grecia e in Oriente Gaio Cesare, nipote e figlio adottivo di Augusto. Dal 4 al 12 segue Tiberio nelle campagne di Germania, Pannonia e Dalmazia, dapprima con il titolo di praefectus equitum, in seguito con quello di legatus Augusti. Non appena eletto imperatore, nel 14 d.C., Tiberio gli conferisce la pretura per l’anno successivo. È ancora vivo nel 30, quando dedica la sua opera storica all’amico Marco Vinicio (anch’egli una creatura politica di Tiberio), in occasione del suo consolato. L’opera: una storia universale Le Historiae ad Marcum Vinicium (ma il titolo originale è sconosciuto) sono il primo compendio di storia universale in lingua latina che ci sia pervenuto. Narrano, in due libri, gli eventi storici più salienti dalla mitica guerra troiana fino all’età di Tiberio. Il I libro, che ci è giunto gravemente mutilo nella parte iniziale e in quella centrale, giunge fino al 146, l’anno della distruzione di Cartagine e di Corinto, che Velleio (sulla scia di altri storici precedenti) identifica con l’avvio della decadenza morale in Roma; il II libro prosegue fino all’età contemporanea, concentrandosi sulle figure di Cesare, Ottaviano Augusto e Tiberio, ritenuti i salvatori e i custodi della res publica. La qualifica di «storia universale» è autorizzata dai frettolosi e disorganici accenni iniziali alle civiltà antiche (Fenici, Medi, Assiri) e al mondo greco. Scarso interesse per il passato Diversamente da Livio, che nella prefazione alle sue Storie confessa apertamente di essere attratto più dal glorioso ed eroico passato di Roma che dal suo triste e corrotto presente, Velleio liquida sbrigativamente le età più lontane, verso le quali manifesta un tiepido interesse. Tale scelta non può essere esclusivamente ricondotta al canone della brevità e della concisione, a cui pure lo storico accenna più volte nel corso della trattazione, ma a una precisa scelta ideologica e politica, che implica l’esaltazione del presente e dei mutamenti politico-istituzionali recentemente occorsi. L’esaltazione del presente L’intera storia del mondo disegnata sommariamente da Velleio sembra correre precipitosamente verso un unico traguardo: l’affermazione della felicità presente, assicurata prima da Ottaviano Augusto, l’uomo che ha salvato ad Azio il destino del mondo civile, poi da Tiberio, con il quale si può dire ormai iniziata una nuova età dell’oro. Un funzionario devoto all’impero Velleio è un funzionario devoto all’impero, un soldato che ha combattuto alle frontiere e ha servito con zelo e lealtà il suo generale. Dall’anonimità del suo racconto storico, gli unici episodi che emergono con vivacità sono quelli di cui è stato personalmente testimone, e di cui va giustamente orgoglioso. Sa di dover tutto a Tiberio; e sa che il principato sta mutando il corso della storia, favorendo l’ascesa di nuovi ceti sociali fino ad allora emarginati dalla gestione del potere. 31 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PROFILO STORICO

Elogio dei novi homines L’encomio del prefetto del pretorio Elio Seiano, non ancora caduto in disgrazia presso Tiberio, non rivela solo uno zelo eccessivo nel voler compiacere chi comanda ma anche un deliberato programma politico: da Cesare a Ottaviano a Tiberio, i prìncipi dimostrano di preferire forze nuove ed emergenti, spesso provenienti dai municipi italici e dalle province, ai tradizionali rappresentanti delle grandi famiglie senatorie romane. Seiano, come nel suo piccolo lo stesso Velleio (e come lo stesso dedicatario dell’opera, Marco Vinicio), è uno di questi uomini nuovi che è giunto al culmine del potere grazie alla volontà del principe e non al prestigio familiare.

T1

Elogio di Seiano, homo novus

Historiae II, 127-128

ONLINE

Verso il panegirico o l’exemplum morale La storia di Velleio è una storia di grandi personaggi. Gli eventi, generalmente, vengono appena accennati, quasi costituissero soltanto un fondale da cui far emergere le singole figure. Anche in Livio gli individui giganteggiano: ma epicamente. In Velleio prevale ora l’intento encomiastico, ora l’exemplum inquadrato, come accadrà di lì a poco nell’opera di Valerio Massimo, in uno schema retorico e morale. Gli excursus letterari L’aspetto più originale del libro è sicuramente la presenza, nel corso della narrazione, di excursus letterari: non era mai accaduto, fin allora, che uno scrittore latino sentisse l’esigenza di legare la storia politica a quella culturale. Velleio lo fa in modo sistematico e continuo, affrontando di scorcio anche un tema che avrebbe goduto di vasta fortuna nel corso del secolo: la decadenza dell’oratoria (I, 16-18). Come nella vita di ogni essere animato, sostiene l’autore, la storia di un genere letterario è inevitabilmente destinata a raggiungere un culmine e a decadere: «è naturale che giunga a perfezione ciò che è stato coltivato con grande impegno; è difficile che perduri uno stato di perfezione, e per natura ciò che non può perfezionarsi regredisce» (I, 17, 6). Non il mutamento politico-istituzionale, dunque, ma l’impossibilità di restare al culmine della perfezione raggiunta è la causa dell’inaridimento dell’eloquenza, secondo uno schema interpretativo ricavato dalla storia naturale a cui faceva ricorso, negli stessi anni, anche Seneca Padre [ cap. 1.2].

Guida allo studio

1.

Le Historiae di Velleio Patercolo sono il primo esempio pervenuto di storia universale in lingua latina. Esponi i caratteri specifici di questo genere storiografico; descrivi la struttura dell’opera di Velleio, indicando gli argomenti trattati e i limiti cronologici della narrazione. 2. Confronta l’atteggiamento di Velleio Patercolo con quello di Livio riguardo al presente e al passato di Roma.

3. La figura di Seiano, prefetto del pretorio di Tiberio, occupa un posto di rilievo nell’opera di Velleio: per quali motivi? 4. Tanto Seneca Padre quanto Velleio Patercolo affrontano il tema della decadenza: della civiltà romana, il primo; dell’arte oratoria, il secondo. A quale schema interpretativo fanno ricorso entrambi gli autori?

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1. Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

4 I Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo La vita e l’opera Di Valerio Massimo possediamo scarse notizie, tutte desunte dalla sua opera, i Factorum et dictorum memorabilium libri novem («Fatti e detti memorabili») composti in età tiberiana. Di modeste condizioni, si pose sotto la protezione di Sesto Pompeo, autorevole personaggio della corte imperiale, proconsole nella provincia d’Asia nel 27. Secondo un uso ellenizzante già diffuso in Roma dai tempi di Ennio, Valerio Massimo accompagnò il suo protettore in Asia Minore, avendo modo durante il viaggio di visitare la città di Atene. L’opera, dedicata a Tiberio, fu certamente pubblicata dopo il 31, anno in cui fu condannato a morte Elio Seiano, il potente ministro del principe. A Seiano si allude, infatti, nella parte conclusiva dell’ultimo libro, fra gli esempi di facta scelerata, in un capitolo che ha tutta l’aria di essere stato aggiunto a lavoro compiuto, forse nell’imminenza della pubblicazione. Qui, come in altri passi, e in particolare nella dedica premessa all’opera, Tiberio viene esaltato come auctor ac tutela nostrae incolumitatis («il supremo difensore della nostra incolumità»; IX, 11, ext. 4). Destinazione e ordinamento dell’opera Divisa in nove libri, di cui il primo giunto mutilo (ma è probabile ne esistesse un decimo non pervenuto), destinata prevalentemente alle scuole di retorica, l’opera appare come un vasto repertorio di exempla «memorabili», una sorta di rassegna di vizi e di virtù, illustrati attraverso personaggi ed episodi della storia romana e straniera. Gli oratori erano spesso soliti sostenere le loro argomentazioni con esempi storici convincenti, e nelle scuole di retorica venivano approntati dei repertori facilmente sfruttabili in tutte le occasioni. L’opera di Valerio Massimo doveva venire incontro a tale esigenza: ogni libro comprendeva infatti una serie di rubriche organizzate a loro volta in brevi paragrafi e divise generalmente in due sezioni, una dedicata agli esempi romani (exempla domestica), l’altra agli esempi stranieri (exempla externa). Manca completamente ogni tentativo di ordinamento cronologico dei fatti; la storia si frantuma in una serie di aneddoti disseminati in 94 rubriche di carattere morale: sulla mitezza, sulla clemenza, sulla crudeltà, sulla fedeltà, sulla pudicizia, sulla felicità, sulla riconoscenza, sull’ingratitudine ecc. Il passaggio da un episodio all’altro è spesso estrinseco: quello che conta è la dimostrazione, l’incasellamento dell’episodio nella sua rubrica, spesso preceduto o concluso da una sentenza, da una riflessione, da un commento morale che lo incornicia e lo rende esemplare. PERCORSO ANTOLOGICO

T 2 Clamoroso esempio di ingratitudine Factorum et dictorum memorabilium libri V, 3, 4 ITALIANO

Dopo aver affrontato il tema della clemenza, il quinto libro dei Facta et dicta memorabilia prosegue con due rubriche di tema fra loro opposto, la prima dedicata alla riconoscenza, la seconda all’ingratitudine. Tra gli esempi di ingratitudine tratti dalla storia romana, risalta il famoso episodio della morte di Cicerone, già magistralmente narrato da Livio. A Valerio Massimo non interessano gli aspetti politici dell’episodio. La sua attenzione è esclusivamente concentrata sul valore esemplare dell’aneddoto: per questo sente la necessità di chiarire che Popilio era stato disinteressatamente salvato in una causa di esito alquanto incerto, e che non era stato offeso da Cicerone «né a fatti né a parole». 33 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PROFILO STORICO

Ogni eventuale aspetto psicologico viene completamente oscurato, in un’operazione di estrema e perfino ingenua semplificazione della vicenda: Popilio è solo un exemplum di ingrato, fissato per sempre nel gesto che lo definisce all’interno della rubrica cui appartiene, tanto che prima lo vediamo correre esultante a Gaeta, e più tardi amputare, con spensierata e incurante scelleratezza, la testa e le mani del suo antico benefattore.

Per passare ad un’altra azione ingrata a questa somigliante, Marco Cicerone difese, su richiesta di Marco Celio, il piceno Caio Popilio Lenate con impegno non inferiore alla sua eloquenza e, malgrado la causa fosse di esito molto incerto, lo restituì sano e salvo alla sua famiglia. Questo Popilio in seguito, senza essere stato danneggiato da Cicerone né a fatti né a parole, quando l’oratore fu proscritto, pregò di sua iniziativa Marco Antonio di mandare lui a cercarlo e ad ucciderlo e, ottenuto quel detestabile incarico, corse esultante a Gaeta; e a quell’uomo, non dirò di altissimo prestigio, ma che avrebbe almeno meritato da lui venerazione per lo zelo che aveva posto nell’importante compito di salvarlo, ordinò di porgere la gola e d’un subito troncò la testa di colui ch’era il principe della romana eloquenza e quella mano destra, che aveva gloriosamente assicurato lunga e tranquilla pace. Carico di questa preda, quasi che si trattasse di spoglie opime1, se ne tornò a Roma tutto soddisfatto, perché, nel sorreggere un peso così scellerato, non gli venne in mente che stava portando quella testa che aveva un giorno parlato in sua difesa. A biasimare simile mostro non è sufficiente scriverne, perché non c’è un altro Cicerone che possa degnamente deplorare questa disgrazia di Cicerone. (trad. di R. Faranda) 1. spoglie opime: la preda che un generale romano toglieva a un

comandante nemico affrontato e ucciso personalmente in duello.

Non è uno storico Valerio Massimo non è propriamente uno storico: storici sono soltanto i materiali di base che utilizza. Il suo intento è modesto, come onestamente dichiara nell’introduzione: raccogliere esempi memorabili sparsi in opere di grandi autori, spesso difficilmente consultabili. I valori morali a cui si adegua sono quelli del mos maiorum, riletti in modo acritico ed enfatico alla luce di momenti paradigmatici della storia universale. Le vicende romane, che occupano lo spazio maggiore dell’opera (636 exempla contro 320), si riducono a un ampio repertorio di fatti ormai destituiti della loro valenza storiografica: il compito di Valerio è semplicemente quello di ordinarli e di classificarli in rubriche ad uso dei lettori, e in particolare dei retori, che potevano così contare su un ampio prontuario di aneddoti da utilizzare nei loro discorsi.

Guida allo studio

1.

Indica il titolo, il numero di libri, il destinatario della dedica, la probabile data di pubblicazione dell’opera di Valerio Massimo. 2. Esponi le principali caratteristiche, strutturali e tematiche, dell’opera di Valerio Massimo.

3. La figura di Seiano, prefetto del pretorio di Tiberio, occupa un posto di rilievo sia nell’opera di Velleio Patercolo sia in quello di Valerio Massimo: quale il giudizio dei due storici sul potente personaggio? 4. Spiega perché Valerio Massimo non può essere considerato propriamente uno storico.

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1. Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

5 Le Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo L’autore e l’opera Nulla, tranne il nome, conosciamo di Quinto Curzio Rufo, autore di un’opera intitolata Historiae Alexandri Magni in dieci libri, giuntaci mutila dei primi due e del proemio. Altre lacune si trovano sparse nei libri successivi, in particolare tra la fine del V e l’inizio del VI libro e nella sezione del libro X dove si narravano i fatti appena precedenti la morte di Alessandro. Sulla scorta di un passo dell’opera (X, 9, 3-6), peraltro variamente interpretato, si ritiene che l’autore abbia composto le Historiae nell’età di Caligola, portandole a conclusione nei primi mesi del principato di Claudio. Fra storiografia e romanzo Con l’opera di Curzio Rufo la storiografia latina fa il suo ingresso nei territori fino ad ora poco esplorati del romanzo esotico e avventuroso. Protagonista non è più il popolo romano o uno dei suoi rappresentanti ma un eroe macedone che si inoltra gradualmente nelle regioni ignote di un mondo barbaro e remoto, completamente diverso da quello noto agli occidentali. Curzio Rufo sa appagare la curiosità dei lettori senza cadere nel

Gli SCRITTORI e la STORIA La figura di Alessandro nella letteratura antica All’epoca di Curzio Rufo la letteratura, storicamente fondata o romanzesca, su Alessandro era ormai cospicua.

▰ Gli storici al sèguito di Alessandro Lo stesso

Alessandro, spinto dall’ardente desiderio di gloria e di immortalità, aveva dato incarico ad Eumene di Cardia e a Diodoto di Eritre di raccogliere i diari delle sue imprese con il titolo di Effemeridi. In veste ufficiale fu al seguito della spedizione macedone in Oriente anche lo storico Callistene di Olinto, autore delle celebri Gesta di Alessandro.

▰ Le prime opere romanzate Dopo l’improvvisa

morte, la figura di Alessandro andò sempre più assumendo contorni favolosi, offrendo materia a un gran numero di opere: la più nota fu quella di Clitarco, che narrava le gesta di Alessandro dall’ascesa al trono fino alla scomparsa. Tensione drammatica, concitazione patetica, sovrabbondanza retorica, sottolineatura degli elementi esotici e avventurosi caratterizzò questo filone di narrazioni sostanzialmente fantastiche.

▰ I generali di Alessandro Più seri e documentati furono invece i resoconti prodotti dai generali di Alessandro, fra cui Aristobùlo e Tolomeo, quest’ultimo citato, insieme a Clitarco, nell’opera di Curzio Rufo.

▰ La letteratura di exempla Di certo su Alessandro

si intrecciava ormai, in età imperiale, una rete a tal punto fitta di narrazioni e di aneddoti, che la sua figura aveva ormai ampiamente trapassato la sfera storiografica per sconfinare in quella del romanzo e per alimentare con dovizia di exempla le esercitazioni delle scuole di retorica (in Valerio Massimo, significativamente, Alessandro è presente nelle rubriche «amicizia», «ira», «clemenza», «superbia» e «brama di gloria»).

▰ Il Romanzo di Alessandro A questo vasto corpus di narrazioni attinse, nell’epoca del tardo impero, il fortunato Romanzo di Alessandro, un’opera in lingua greca composta fra il III e il IV secolo, ed erroneamente attribuita allo storico ellenistico Callistene. Il Romanzo di Alessandro, di cui sono pervenute varie e complesse redazioni, circolò con grande fortuna sia in Oriente sia in Occidente nei secoli del tardo impero e per tutta l’età medievale. Nel IV secolo ne fu anche tratta una versione latina intitolata Historia Alexandri Magni, di cui fu autore Giulio Polemio [ cap. 20.8]. ▰ Dove leggere Il Romanzo di Alessandro Si

consiglia l’edizione a cura di Richard Stoneman, traduzione di Tristano Gargiulo, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2007 (vol. I)-2012 (vol. II). Ciascun volume affianca il testo di tre redazioni greche del Romanzo al testo latino di Giulio Valerio.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PROFILO STORICO

gusto sfrenato dei mirabilia, conservando almeno nelle intenzioni il distacco e l’imparzialità dello storico che valuta le proprie fonti: in un passo del libro IX (5, 21), ad esempio, denuncia «la credulità di quelli che compilavano le antiche storie»; in un altro (IX, 1, 34), dichiara di trascrivere più cose di quante in realtà non ne creda (Equidem plura transcribo quam credo). D’altro canto è la materia stessa, ricca di colpi di scena e di eventi mirabolanti, a richiedere nuovi equilibri narrativi rispetto alla tradizionale storiografia romana di argomento politico e nazionale. Il racconto, sempre mosso e piacevole, ricco di excursus etno-geografici (di derivazione erodotea), di discorsi (sia diretti sia indiretti), di epistole, di accurate e pittoriche descrizioni di paesaggi, di vivaci ritratti umani, obbedisce al canone alessandrino della varietà. Il modello prevalente è quello della storiografia mimetica e drammatica di età ellenistica, che si proponeva di suscitare nel lettore forti emozioni e un senso drammatico degli avvenimenti, da cui l’autore trae sovente spunti di carattere moraleggiante sui destini degli uomini e sul potere della Fortuna. La figura di Alessandro Al centro degli avvenimenti campeggia la figura epico-romanzesca di Alessandro, straordinario nei vizi come nelle virtù, e dunque generoso e crudele, spietato e clemente, energico e insieme incapace di tenere a freno le proprie passioni. L’autore traccia verso la fine dell’opera una valutazione complessiva della sua figura (X, 5, 26-36), sottolineando quelle che ai suoi occhi appaiono le maggiori colpe di Alessandro: «eguagliarsi agli dèi e pretendere gli onori divini; prestar fede agli oracoli che suggerivano tali propositi e adirarsi, più di quanto era giusto, con quelli che rifiutavano di venerarlo; cambiare il suo costume per un abbigliamento straniero, imitare le usanze dei popoli vinti che, prima della vittoria, aveva disprezzato». Una valutazione che risente profondamente della mentalità romana, fondata sui concetti di modus e di identità nazionale, mentre in Alessandro prevalevano «la mescolanza, l’ibridamento, la trasgressione dei confini e la negazione del limite» (Centanni). Lo stile Lo stile di Curzio Rufo è nel complesso piano e scorrevole. La sintassi richiama da vicino quella di Livio, che è anche il modello dichiarato dei numerosi discorsi, particolarmente elaborati sul piano retorico. Rispetto alla prosa di Livio, Curzio presenta tuttavia un ritmo più rapido e nervoso e una evidente propensione per frasi ad effetto, clausole ritmiche, formule sentenziose.

Guida allo studio

1.

Quali significative innovazioni caratterizzano le Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo? 2. Perché l’opera viene tradizionalmente

collocata alla confluenza fra genere storiografico e genere romanzesco? 3. Quali sono i caratteri predominanti di Alessandro?

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1. Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno L’opera narra la vita e le imprese di Alessandro Magno dall’ascesa al trono (336 a.C.) fino alla morte (323 a.C.).

Libro III

Stante la dispersione dei primi due libri, il racconto ha per noi inizio nella primavera del 333: Alessandro ha già da tempo abbandonato la Macedonia e si appresta all’immane scontro con l’imperatore persiano Dario, che viene gravemente sconfitto ad Isso ed è costretto alla fuga, mentre i familiari cadono prigionieri dei Macedoni.

Libro IV

Alessandro espugna con una battaglia navale Tiro, assediata per sette mesi, e s’inoltra in terra d’Egitto, facendo tappa all’oasi di Giove Ammone, dove i sacerdoti si affrettano a riconoscerne l’origine divina. Dopo aver fondato Alessandria, si reca di nuovo in Mesopotamia.

Libro V

Riprende la marcia inarrestabile dell’esercito macedone attraverso Babilonia, Susa, Persepoli ed Ecbàtana; Dario cade vittima di una cospirazione guidata da Besso, satrapo della Battriana.

Libri VI-VII

Mentre pone fine alle ultime resistenze persiane, Alessandro deve reprimere una congiura interna. Cre-

sce il malcontento di quanti biasimano il progressivo abbandono dei costumi macedoni e vorrebbero ritornare in patria.

Libro VIII

Alessandro, durante un convito, uccide l’amico Clito, che aveva osato parlargli con temeraria franchezza. In un’altra occasione, pretende che i suoi uomini si genuflettano come dinanzi a un dio. Dopo aver sconfitto il satrapo Ossiarte, si invaghisce della figlia Rossane e decide immediatamente di sposarla. Repressa nel sangue una nuova congiura, marcia verso la favolosa India, dove sottomette i prìncipi locali.

Libro IX

Nuove conquiste e nuove fondazioni. Anche i soldati si ribellano, e obbligano Alessandro a tornare indietro: il re riesce a convincerli a procedere fino all’Oceano, sulle cui rive un’improvvisa marea decima la spedizione. Il libro si chiude sull’immagine dell’esercito di Alessandro trasformato in corteo bacchico.

Libro X

Aumentano le stravaganze, le collere brutali, le crudeltà; la sua armata non ha ormai più nulla dell’aspetto originario; Alessandro rientra infine in Babilonia, dove improvvisamente si ammala e muore. Si apre la lotta per la successione. Il corpo di Alessandro, imbalsamato, viene trasportato a Menfi e infine ad Alessandria.

Alessandro Magno, particolare di un mosaico raffigurante la battaglia di Isso, dalla Casa del Fauno a Pompei, II-I secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

T3

In viaggio verso l’oracolo di Giove Ammone

ONLINE

Historiae Alexandri Magni IV, 7, 5-31

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

Materiali

B essenziale

Bibliografia

PROFILO STORICO

ONLINE

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE Il processo e la morte di Cremuzio Cordo nei racconti di Seneca e di Tacito LETTURE PARALLELE Alexandros di Pascoli e L’immortale di Borges BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Cultura e principato nell’età giulio-claudia Sulla corte imperiale di età giulio-claudia: C. Wirszubski, Libertas. Il concetto politico di libertà a Roma tra Repubblica e Impero, Bari 1957; P. A. Brunt, Stoicism and the Principate, «Papers of the British School at Rome», 1975; M. Citroni, Produzione letteraria e forme del potere. Gli scrittori latini nel I secolo dell’impero, in AA.VV., Storia di Roma, II/3, Torino 1992, pp. 383-490; I. Lana, Il principato di Nerone, in Storia della civiltà letteraria greca e latina, Torino 1998, vol. II, pp. 818833; M. Pani, La corte dei Cesari fra Augusto e Nerone, Laterza, Roma-Bari 2003; L. Braccesi, Agrippina, la sposa di un mito, Laterza, Roma-Bari 2015. � Velleio Patercolo Fra le edizioni correnti si consigliano quelle a cura di F. Portalupi (UTET, Torino 1967) e di R. Nuti (Rizzoli, Milano 1997), precedute da

significativi saggi introduttivi. Per i rapporti tra Velleio e il principato: I. Lana, Velleio Patercolo o della propaganda, Giappichelli, Torino 1952. Sullo stile: F. Por talupi, Osservazioni sullo stile di Velleio Patercolo, «Civiltà classica e cristiana», III, 1987, pp. 39-57. � Valerio Massimo L’edizione di riferimento dei Detti e fatti memorabili di Valerio Massimo resta quella curata da R. Faranda (UTET, Torino 1971, ristampata nel 2009). Una significativa scelta antologica nel volume curato da L. Canali, con prefazione di G.C. Pontiggia (Medusa, Milano 2006). Per un approfondimento: R. Guerrini, Studi su Valerio Massimo, Giardini, Pisa 1981 (contiene anche un interessante capitolo sulla fortuna di Valerio nell’iconografia umanistica, e in particolare nell’opera pittorica del Perugino, del Beccafumi e del Pordenone).

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� Curzio Rufo L’edizione più ricca e annotata delle Storie di Alessandro Magno è a cura di J. E. Atkinson, trad. di V. Antelami (vol. I) e T. Gargiulo (vol. II), Fondazione Lorenzo VallaArnoldo Mondadori editore, Milano 1998-2000 (con ricca bibliografia e vasto apparato di note). Fra i numerosi studi sull’opera: R. Dosson, Étude sur Quinte Curce, Paris 1887; I. Lana, Dell’epoca in cui visse Quinto Curzio Rufo, «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», 77, 1949, pp. 4870; A. Grilli, Il «saeculum» di Curzio Rufo, «La Parola del Passato», 31, 1976, pp. 215223; F. Minissale, Curzio Rufo, un romanziere della storia, Messina 1983; ID., Tra storiografia ed epica: modelli e tecniche imitative in Q. Curzio Rufo, in Poesia epica greca e latina, a cura di S. Costanza, Rubbettino, Soveria Mannelli 1988, pp. 135-178.


1. Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

Sintesi

S

Storia e storiografia nell’età giulio-claudia Alla morte di Augusto, che aveva governato per quasi mezzo secolo, ha inizio la dinastia giulio-claudia. Tiberio (14-37 d.C.) e Claudio (41-54 d-C.) si sforzano vanamente di continuare la politica di Augusto, mediando tra le esigenze del princeps e quelle del senato. Con Caligola (37-41 d.C.) e Nerone (54-68 d.C.) prevale in modo sempre più marcato il modello assolutistico di una monarchia orientale fondata su valori carismatici e sovrannaturali. La storiografia di epoca giulio-claudia riflette lo scontro fra princeps e senato: da una parte storici e biografi di tendenza senatoria, come Cremuzio Cordo e Tito Labieno, che esaltano nostalgicamente i valori della libertas; dall’altra storici, come Velleio Patercolo, che esaltano il principato come una nuova età dell’oro. Ma è significativo che le opere dei primi vengano pubblicamente messe al rogo, e che nessuna di esse ci sia pervenuta. Le Historiae di Velleio Patercolo, scritte in età tiberiana, sono il primo compendio di storia univer-

visive

Affreschi dalla Domus transitoria di Nerone, Ninfeo, 5464 d.C. Roma.

fonti

sale in lingua latina a noi pervenuto. Diversamente da Livio, Velleio nutre scarso interesse per il passato, mentre glorifica ogni aspetto del presente. La sua visione della storiografia inclina vistosamente verso il panegirico e l’exemplum morale. I Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo, composti verso la fine dell’età tiberiana, non possono essere considerati un’opera storiografica ma un vasto repertorio di exempla organizzati in rubriche e destinati alle scuole di retorica. Con le Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo, scritte nell’età di Caligola, il romanzesco fa irruzione nel racconto storico. Curzio vuole appagare il gusto dell’esotico e del meraviglioso, suscitare forti emozioni, pur sforzandosi di conservare il distacco e l’imparzialità dello storico tradizionale. La figura di Alessandro, che era il modello politico di Caligola, campeggia – smisurata e inquietante – in ogni capitolo dell’opera.

La Domus transitoria di Nerone Era la più antica delle abitazioni imperiali di Nerone sul colle Palatino, distrutta dal grande incendio di Roma del 64 e sostituita in seguito dalla più sfarzosa Domus Aurea.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

MAPPA STORIA E STORIOGRAFIA NELL’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

La dinastia giulio-claudia

• • • •

Tiberio (14-37 d.C.) Caligola (37-41 d.C.) Claudio (41-54 d.C.) Nerone (54-68 d.C.)

Storiografia di tendenza senatoria

• •

Tito Labieno e Cremuzio Cordo (opere messe al rogo) Seneca Padre, Servilio Noniano, Aufidio Basso (pervenuti solo frammenti)

Velleio Patercolo, Historiae – compendio di storia universale – principato di Tiberio come nuova età dell’oro – riflessione sulla decadenza dell’oratoria Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri – non è un racconto storico – raccolta di aneddoti ed exempla di vizi e di virtù – dedicata a Tiberio Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni – storiografia drammatica e romanzata – imprese di Alessandro Magno – gusto dell’esotico e dei mirabilia

• Opere sopravvissute

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Completamento

1

Inserisci i dati storici mancanti.

Con la morte di , avvenuta nell’agosto del , il potere passò nelle mani del figliastro Tiberio, che resse il principato fino al . Discendente dalla famiglia dei , aveva combattuto per molti anni lungo . Nel corso del suo principato andarono progressivamente deteriorandosi i rapporti con . L’ultima parte del suo regno fu segnata dall’ascesa e dalla rapida rovina del prefetto del pretorio , che fu condannato a morte nel . Molti degli oppositori, come furono perseguitati in virtù della lex . Alla morte di Tiberio, seguì il breve principato di , che durò solo fino al . p._____/12

2. Velleio Patercolo ■ seguì Tiberio nelle campagne germaniche ■ visse appartato, senza legami con la vita politica e militare ■ nella sua opera manifesta un grande interesse nei confronti del passato di Roma ■ è uno storico imparziale 3. L’opera di Valerio Massimo ■ presenta una struttura annalistica ■ fu dedicata a Claudio ■ esaltava la figura di Elio Seiano ■ contiene esempi morali ordinati in rubriche 4. Le Historiae Alexandri Magni ■ sono giunte a noi integre ■ furono scritte nei primi mesi del principato di Nerone ■ adattano la figura di Alessandro ai valori tipici dei Romani ■ introducono nel racconto storico elementi del romanzo esotico e avventuroso

Vero / Falso

p._____/4

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Germanico sconfisse Arminio, vendicando la disfatta di Teutoburgo V|F b. Caligola tentò di trasformare il principato in una monarchia assoluta V | F c. Claudio si dedicò principalmente agli studi eruditi e antiquari V|F d. Il principato di Nerone ebbe inizio nel 41 d.C. V|F e. L’opera di Velleio Patercolo è organizzata in 94 rubriche V|F f. Velleio esalta nella sua opera i novi homines V|F g. Valerio Massimo dedicò la sua opera a Tiberio V | F h. L’opera di Curzio Rufo è centrata sulla figura di Alessandro V|F i. La dinastia giulio-claudia si spense con la morte di Nerone V|F p._____/9

Quesiti a scelta multipla

3

Indica il completamento corretto.

Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. La storiografia di tendenza senatoria in età giulioclaudia. 2. La figura di Elio Seiano nell’opera di Velleio Patercolo e di Valerio Massimo. 3. Ordinamento e struttura dei Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Il problema della successione dinastica in età giulioclaudia. 2. Principato e libertas nella prima età imperiale. 3. Tra storia e romanzo: le Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo.

1. Gli Annales di Cremuzio Cordo ■ furono dedicati ad Elio Seiano ■ furono scritti nell’età di Caligola ■ esaltavano le figure di Bruto e di Cassio ■ contenevano elementi romanzeschi e avventurosi

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Storia e storiografia dell’età giulio-claudia

Verifica finale


2 Poesia nell’età giulio-claudia 1 Poesia e cultura nell’età giulio-claudia Poesia e cultura nell’età di Tiberio, di Caligola e di Claudio Dopo la prodigiosa fioritura poetica dell’età augustea, gli anni che vanno dal principato di Tiberio a quello di Claudio appaiono caratterizzati da una fase di stagnazione creativa: l’unica novità è rappresentata dalle favole di Fedro, un genere situato ai margini del sistema letterario tradizionale; nel filone dell’epos didascalico-scientifico di derivazione alessandrina si inseriscono invece i poemi astronomici di Manilio e di Germanico, portati entrambi a termine nei primi anni dell’età tiberiana. Prevale nel complesso una poesia di tono leggero, ispirata ai modelli dell’ellenismo più squisito (Euforione di Calcide; Partenio) e del neoterismo: a quest’epoca vanno probabilmente assegnati i testi pseudovirgiliani della cosiddetta Appendix [ vol. II, cap. 2.5]. I rapporti fra cultura e potere: encomio o conflitto A determinare tale situazione contribuiscono senza dubbio vari fattori, primo fra tutti il clima di sospetti, di servilismo e di repressione che segna la nuova età imperiale. I rapporti fra uomini di cultura e potere sembrano ridursi ai modi dell’encomio o del conflitto. Si è già accennato alla tragica fine di Cremuzio Cordo, le cui storie furono pubblicamente bruciate [ cap. 1.2]. Nel 34 Emilio Scauro, che era stato console 42 © Casa Editrice G. Principato


Dalla Vita di Persio: le orecchie d’asino Fu a tal punto accanito nel denigrare i poeti e gli oratori del momento, da attaccare persino Nerone, allora imperatore. Il suo verso contro Nerone suonava così: «Re Mida ha le orecchie d’asino». E Cornuto lo corresse in questo modo: «E chi, oggi, non ha le orecchie d’asino?» affinché Nerone non potesse accorgersi che era scritto contro di lui. (Valerio Probo, Vita di Persio 10)

divinae artes et conscia fati sidera

laetus et superior stabat lupus, inferior agnus augusto felix arrideat ore bella plus quam civilia canimus nel 21, venne denunciato per aver composto una tragedia, l’Atreus, nella quale si vollero ravvisare ingiuriose allusioni a Tiberio; Scauro prevenne la condanna con il suicidio (Tacito, Ann. VI, 29, 3-4). Lo stesso Fedro incorse nelle ire di Seiano, il potente prefetto del pretorio di Tiberio, a causa delle sue favole. Dall’obsequium all’adulatio Virgilio e Orazio avevano celebrato il regime augusteo, ma in forme originali e meditate, senza venir meno a una sostanziale autonomia di giudizio. Dall’obsequium si passa ora alla più plateale adulatio: «l’omaggio si banalizza in formula dovuta, obbligata, secondo un repertorio abbastanza prevedibile, che `il poeta si compiace d’altra parte di variare in modi ingegnosi e manieristici, spingendosi a forme estreme di adulazione» (Citroni). Colpisce soprattutto che la tradizionale invocazione alle Muse, nella zona dell’esordio, venga sostituita da un elogio del princeps. Manilio, ad esempio, mentre si accinge a cantare le regioni degli astri e i conscia fati sidera («le stelle consce del destino»), si rivolge direttamente a Cesare (non sappiamo se Augusto o Tiberio) con versi che esaltano la sua natura divina. Il tramonto del mecenatismo Si aggiunga infine il rapido tramonto del mecenatismo: le grandi famiglie romane, ormai svuotate di peso politico, preferiscono dirottare le loro ambizioni sulla magnificenza della vita mondana; né d’altra parte i prìncipi sembrano particolarmente interessati in questa fase a sostenere 43 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PROFILO STORICO

l’attività letteraria. Scomparsi uomini come Mecenate (senza il quale, come si vide, Ottaviano aveva già modificato la sua politica culturale), Asinio Pollione e Messalla Corvino, gli scrittori sono costretti a contare su protettori scarsamente motivati e probabilmente di modesto livello intellettuale. Il fenomeno, con l’eccezione della breve stagione neroniana, caratterizzerà tutto il primo secolo dell’impero. Nerone riprende a promuovere le arti Il principato di Nerone si presenta indiscutibilmente sotto il segno della novità. Personaggio estroso, dispotico ed egocentrico, il nuovo imperatore rivela immediatamente i suoi interessi: trascura l’oratoria (con grande scandalo dei contemporanei) per dedicarsi alle arti (poesia, musica, canto, pittura, cesello); nell’ambito di queste ultime, rifiuta programmaticamente i modelli della tradizione romana per volgersi a quelli greci. Compone opere di genere lirico, tragico ed epico, fra cui un poema mitologico per noi perduto, intitolato Troica («Vicende troiane»). La produzione poetica del giovane princeps, per quel poco che ci è dato di giudicare, doveva rifarsi ai modelli eruditi e raffinati della poesia mitologica alessandrina. Nerone promuove in prima persona le arti, facendo della corte imperiale un luogo di scambi culturali e artistici, e istituisce in Roma dei ludi ispirati a quelli ellenici: gli Iuvenalia (nel 59); i Neronia (nel 60; poi ripetuti nel 65). Ampio spazio, durante tali manifestazioni, veniva riservato a gare di musica, di canto e di poesia. Ai Neronia del 60 partecipò, fra gli altri, anche il giovanissimo Lucano, recitando con successo delle Laudes Neronis. È probabile che all’interno della stessa cerchia neroniana sia nato il Satyricon di Petronio [ cap. 5.1], un pastiche narrativo ricco di inserti poetici, nel quale pare rispecchiarsi l’atmosfera raffinata e viziosa della corte. La fioritura poetica dell’età neroniana Non è dunque un caso se la poesia conosce in età neroniana un nuovo slancio creativo, caratterizzato non solo dall’elevata qualità delle opere ma anche dalla varietà e dalla molteplicità dei generi

Le nuove forme del dissenso nell’età del principato ▰ Spenta l’eloquenza politica, il dissenso si fonda sulla filosofia In età tardo-repubblicana, poco prima della grande svolta augustea, la lotta per il potere si era espressa compiutamente attraverso l’oratoria, di cui Cesare e Cicerone, anche per le diverse scelte stilistiche, erano stati protagonisti. Declinata l’eloquenza politica, nell’età del principato il dissenso nei confronti del potere trova il suo fondamento teorico nella filosofia, e in particolare nella dottrina stoica, che già si era diffusa fin dall’epoca degli Scipioni negli strati culturalmente più evoluti della nobilitas senatoria.

▰ Opposizione senatoria e dottrina stoica La figura di un sovrano poteva essere accettata, nell’ambiente senatorio romano, solo se non

contraddiceva gli antichi mores nazionali. Inevitabile che la dottrina stoica, benché essa non fosse in via di principio avversa al modello monarchico [ cap. 4.2], assumesse in età imperiale una decisa coloritura filorepubblicana e libertaria, offrendo ai rappresentanti dell’opposizione senatoria precise indicazioni eticopolitiche ed esemplari modelli di comportamento: Catone Uticense fu il prototipo eroico della resistenza politica e morale alla tirannia. La filosofia stoica viene dunque considerata, da una prospettiva autoritaria, come un nemico insidioso da combattere.

▰ La congiura pisoniana si richiama allo stoicismo Allo stoicismo si richiamarono espressamente i protagonisti della congiura pisoniana repressa fra il 65 e il 66 da Nerone: fra di essi i filosofi Musonio Rufo e Anneo Cornuto, l’eminente senatore Trasea Peto, il poeta Lucano e lo stesso Seneca. Alla dottrina stoica aderì profondamente anche il poeta satirico Persio.

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PROFILO STORICO

letterari coltivati: la poesia satirica con Persio; il poema storico con Lucano; il teatro tragico con Seneca; il filone bucolico con Calpurnio Siculo e i Carmina Einsidlensia; il genere didascalico con il De hortis di Columella, appendice poetica a un ampio trattato in prosa sull’agricoltura [ cap. 3.6]; la poesia encomiastica con l’anonima Laus Pisonis; i versi menippei contenuti nell’Apokolokyntosis dello stesso Seneca; l’epos mitologico praticato da Nerone e dal giovanissimo Lucano. A Roma, durante il principato di Nerone, opera anche l’epigrammista greco Lucillio, che tanta influenza avrebbe esercitato sulla poesia di Marziale. La politica culturale di Nerone e le resistenze della nobilitas senatoria La politica culturale di Nerone va interpretata nell’ambito di un progetto assolutistico di segno ellenizzante. Protagonismo e spettacolarità caratterizzano le sue iniziative, cui gli esponenti della nobilitas non possono guardare se non con diffidenza e inquietudine. La nozione di libertas, nella prospettiva ideologica senatoria, era strettamente legata a quella di conservatorismo e di tradizione, di rispetto degli antichi mores. Gli atteggiamenti istrionici ed esibizionistici di Nerone, anche al di là delle implicazioni politico-istituzionali, contraddicevano apertamente i valori di un’intera tradizione. Si comprende dunque come il nuovo principe finisse per suscitare, dopo una prima fase di consensi e di speranze (si vedano gli scritti politici di Seneca, la poesia encomiastica di Lucano, di Calpurnio Siculo e dei Carmina Einsidlensia), variegate forme di resistenza e di ribellione che si riflettevano nell’ambito della politica come in quello della letteratura.

Agrippina incorona Nerone con un serto d’alloro, I secolo d.C. Afrodisia (Turchia), Musei di Antichità.

La rivoluzione ovidiana Con gli scrittori augustei, la letteratura latina era giunta alla conclusione di un lungo processo storico di imitazione-emulazione dei modelli greci. Gli autori di età imperiale avevano ormai a disposizione un repertorio di autori nazionali degni di gareggiare apertamente con quelli greci: tale grandezza aveva tuttavia finito per operare, nel primo cinquantennio del secolo, come un limite, come una sorta di condanna formale e sostanziale all’epigonismo. Già Ovidio, peraltro, aveva reagito a tale situazione inaugurando nuove modalità espressive e sfruttando in modo libero e talora impertinente i grandi modelli della recente tradizione. La rivoluzione ovidiana, che riguardava sia l’ambito della sensibilità sia quello della tecnica, preannunzia e in parte influenza gli esiti della poesia di età neroniana, variamente definita come anticlassica, manieristica o baroccheggiante: ovidiani saranno dunque il descrittivismo insistito, il gusto dell’amplificazione, il virtuosismo verbale, la sovrabbondanza retorica, la tendenza alla digressione, la ricerca di effetti ingegnosi e di prospettive inedite, la vibrazione patetica delle immagini. 45 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PROFILO STORICO

Grande varietà di soluzioni e di risultati La ricerca di nuove soluzioni formali e l’atteggiamento sperimentale, conformi all’ansia di novità che caratterizza la politica culturale neroniana, danno tuttavia origine a risultati molto vari: accanto alla linea dominante, quella baroccheggiante di Lucano e di Seneca, non si deve dimenticare lo stile crudo, realistico, persino urtante di Persio, né il virtuosismo manieristico di Calpurnio Siculo. Pur nella diversità delle soluzioni, i tre grandi poeti dell’epoca (Persio, Lucano e Seneca) sono accomunati dall’oltranza delle scelte stilistiche e dallo sbriciolamento dell’equilibrio razionale del discorso (caratterizzato da scorci inediti, improvvise sententiae, singolari e talora oscure metafore). Oltre i limiti imposti dalla tradizione Se lo stile classico della prima età augustea è sentito come inadeguato a esprimere le contraddizioni e le angosce della nuova realtà esistenziale e sociale (si pensi alle fosche tragedie di Seneca, ai grotteschi, “espressionistici” quadri di Persio, ai catastrofici scenari di Lucano), il poeta di età neroniana è spinto a forzare il linguaggio oltre i limiti imposti dalla tradizione, che pure resta un punto di riferimento irrinunciabile (l’operazione lucanea non si spiega se non in antitesi a quella virgiliana; i versi di Persio si misurano costantemente con quelli di Orazio). Il modello virgiliano non manca tuttavia di esercitare il suo influsso: ad esso si richiamano esplicitamente i versi di Calpurnio Siculo e di Columella.

Guida allo studio

1.

Traccia un quadro riassuntivo della produzione poetica di età giulio-claudia. 2. Illustra la politica culturale di Nerone, e in particolar modo il ruolo svolto dall’imperatore e dalla corte nella promozione delle arti e della letteratura.

Spettacoli nel I secolo dell’impero ▰ Declamationes, recitationes, pantomimo L’esibizionismo istrionico di Nerone bene rappresenta il gusto spettacolare e fastoso che domina nel primo secolo dell’impero. Di questo gusto, diffuso in tutti gli strati della popolazione, sono testimonianza alcuni fenomeni di vasta rilevanza sociale e culturale: le declamationes, cioè gli esercizi retorici che un tempo servivano a preparare nelle scuole il futuro uomo politico all’agone oratorio, e che ora si trasformano in mere esibizioni atte unicamente a stupire gli uditori; le recitationes, cioè le letture di brani letterari tenute nelle stationes (sale di ritrovo paragonabili ai nostri caffè), in teatri o in luoghi privati dinanzi a un pubblico vario, spesso mondano; il pantomimo, uno spettacolo rivolto a un vasto pubblico durante il quale un attore cantava, accompagnato dalla musica, un testo poetico, mentre un secondo attore mimava la scena rappresentata.

▰ I prodromi nell’età di Augusto Questi

fenomeni avevano avuto inizio all’epoca di Augusto: le recitationes erano state introdotte per la prima volta

3. Le nuove forme del dissenso in età neroniana: filosofia stoica e opposizione senatoria. 4. Declamationes, recitationes, pantomimo: definisci con precisione il significato dei tre termini.

da Asinio Pollione [ vol. II, cap. 1.5]; i pantomimi dal mimo Batillo; sulle declamationes aveva lasciato un prezioso documento Seneca Padre [ vol. II, cap. 1.8].

▰ Diffusione e successo travolgenti in età giulio-claudia Ma è solo in età giulio-claudia che tali

performances conoscono una diffusione e un successo travolgenti, al punto da condizionare le stesse forme letterarie, elaborate al fine di suscitare l’ammirazione degli ascoltatori mediante artifici retorici e ingegnose sollecitazioni: è contro questo genere di letteratura e contro la moda delle recitationes che viene indirizzata la prima satira di Persio [ T7 ONLINE]. Libretti per il pantomimo (fabulae salticae) scrissero nella seconda metà del secolo anche Lucano e Stazio. Del favore incontrato da tale spettacolo, pari solo a quello di cui godettero i cruenti ludi gladiatorii, testimoniano le pagine di Seneca Filosofo e di Giovenale.

▰ Per saperne di più Sugli spettacoli in Roma si vedano: J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Laterza, Roma-Bari 1967 (Parte seconda, cap. III); U.E. Paoli, Vita romana, Mondadori, Milano 2014 (cap. 23, Il teatro).

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PROFILO STORICO

2 La poesia didascalica: Manilio e Germanico Manilio Di origini oscure (forse asiatico, o africano), Manilio scrisse sicuramente dopo il 9 d.C. il suo poema didascalico Astronomica («Il poema degli astri»), dedicandolo ad Augusto o a Tiberio. Riscoperto nel 1417 da Poggio Bracciolini, il poema consta di cinque libri (a cui forse se ne aggiungeva un sesto), che trattano dell’origine dell’universo e di astrologia. Poeta dotto, di cultura alessandrina, certamente lettore della grande poesia latina dell’ultimo secolo (Lucrezio, Cicerone, Virgilio, Ovidio) si presenta come l’inventor del poema astronomico latino. Il suo modello strutturale e stilistico è Lucrezio, ma la materia, che fonde le conoscenze greche con spunti caldei ed egizi, è intrisa di provvidenzialismo di matrice stoica.

Calendario romano in pietra su cui sono incisi tre mesi per ogni faccia; nei riquadri in alto i segni dello Zodiaco, I secolo d.C. Collezione Farnese del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Guida allo studio

Germanico Giulio Cesare Germanico, nato nel 15 a.C., pronipote di Augusto per parte di madre (Antonia Minore, figlia di Ottavia) e nipote di Tiberio per parte di padre (Druso, fratello di Tiberio), fu adottato da Tiberio per volere di Augusto, e dalla moglie Agrippina Maggiore ebbe diversi figli, uno dei quali fu l’imperatore Caligola. Fu apprezzato soprattutto per il valore militare, grazie a cui nel 15 d.C. vendicò la strage di Teutoburgo sconfiggendo Arminio; fu console nel 12 e poi nel 18 d.C.: morì in circostanze misteriose (molti sospettarono che fosse stato ucciso per ordine di Tiberio) ad Antiochia, durante una missione finalizzata a riorganizzare le province orientali. Valente oratore e poeta versatile, in latino e in greco, Germanico rielaborò con il titolo di Aratea o Phaenomena i Fenomeni, poe­metto didascalico del poeta greco Arato di Soli (IV-III sec. a.C.), arricchendolo di digressioni mitologiche e, a differenza di Manilio, trascurando le interpretazioni filosofiche: significativamente, già nel proe­ mio Germanico si distacca dal modello greco, rivolgendo a Tiberio l’elogio che Arato dedicava a Zeus. Del poemetto ci sono pervenuti in tutto circa un migliaio di versi: un blocco di 725 esametri e cinque frammenti, noti anche con il titolo di Prognostica.

1.

Presenta sinteticamente argomento e struttura del poema di Manilio.

2. Illustra analogie e differenze tra il poema di Germanico, la sua fonte greca e l’opera di Manilio.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

3 Le favole di Fedro PROFILO STORICO

La vita Le notizie sulla vita di Fedro provengono quasi esclusivamente dalla sua opera, in particolare dai prologhi e dagli epiloghi dei singoli libri. Phaedrus (nome di origine greca) nacque in Macedonia presumibilmente intorno al 20-15 a.C., dal momento che nel libro III, posteriore al 31 d.C., il poeta si definisce ormai alle soglie della vecchiaia. Giunse a Roma come schiavo in giovane età; fu in seguito liberato, forse per meriti intellettuali, dallo stesso Augusto. È verosimile che sia poi vissuto svolgendo attività di insegnamento. A quel che si ricava dal prologo del III libro, negli ultimi anni del principato di Tiberio fu tratto in giudizio da Seiano a causa di sgradite allusioni di cui si sarebbe reso colpevole nei suoi scritti. Compose cinque libri di Fabulae in versi, che non sembrano tuttavia aver goduto di vasta diffusione. I nomi dei diversi dedicatarii degli ultimi tre libri indicano che il poeta cercava, senza troppo successo, dei protettori. Visse fino agli anni del principato di Claudio. La morte può essere collocata intorno al 50 d.C. L’opera I codici ci hanno trasmesso 93 favole suddivise in cinque libri, ciascuno dei quali è preceduto da un prologo; ai libri II, III e IV fa seguito un epilogo. La produzione di Fedro dev’esser stata tuttavia assai più ampia: troppo diseguali sono infatti i libri (il II, ad esempio, comprende solo otto testi, contro i trentuno del I), per non pensare a interventi posteriori. Nel prologo del I libro, inoltre, l’autore allude a favole con alberi parlanti che non troviamo nelle raccolte pervenute. A Fedro appartengono anche una trentina di favole comprese nella cosiddetta Appendix Perottina, dal nome dell’umanista Niccolò Perotti (1430-1480) che organizzò nel Quattrocento la raccolta, attingendo da un codice a noi ignoto. Di altre favole non tràdite conosciamo il contenuto grazie a raccolte medievali com-

Affresco con airone e cobra, dalla Casa degli Epigrammi di Pompei, I secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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PROFILO STORICO

prendenti le versioni in prosa dei testi originali: fra di esse la più importante è il Romulus o Aesopus Latinus. Il metro di tutti i testi è il senario giambico. I cinque libri vennero pubblicati separatamente tra il 20 e il 50 d.C. circa. Caratteri delle favole Sia nella tradizione greca sia in quella latina, le favole presentano caratteristiche comuni: sono brevi raccontini, espressi in un linguaggio semplice ed essenziale, dai quali l’autore trae un messaggio etico di valore universale e di senso comune. La morale può essere premessa o posposta al racconto. Generalmente i protagonisti delle favole sono animali a cui vengono prestati vizi e virtù degli uomini e che, come gli uomini, parlano e dialogano tra di loro. Il processo di umanizzazione è elementare: l’animale incarna un tipo fisso, come le maschere della commedia, e dunque la volpe è furba, il lupo ingordo e malvagio, il leone forte e prepotente, l’agnello mite e ingenuo, l’asino sottomesso. Non mancano tuttavia favole con protagonisti umani.

Il genere LETTERARIO La favola ▰ La tradizione favolistica in Grecia Il patrimonio

favolistico del mondo greco, le cui radici affondavano nelle più remote tradizioni della cultura orale, era già stato rielaborato letterariamente da Esiodo (Le opere e i giorni) e da Archiloco. Ma solo con la figura leggendaria dello schiavo Esopo (forse realmente vissuto, secondo Erodoto, nel VI secolo a.C.), assistiamo alla formazione di un ricco corpus di favole, che trovò poi una prima sistemazione intorno al 300 a.C. grazie all’edizione curata dal filosofo peripatetico Demetrio Falereo. L’opera attribuita ad Esopo, a noi pervenuta in tarde rielaborazioni dell’età ellenistica e bizantina, consta di circa 500 favole, per la maggior parte in prosa (solo 33 sono in versi).

▰ La favola in Roma Nella letteratura romana il

Testa di lupo, scultura in bronzo, I-II secolo d.C. Cleveland Museum of Art.

repertorio favolistico fece il suo ingresso con la satura, evidentemente a causa del carattere vario e aperto di quel genere: favole e apologhi troviamo infatti, ma in modo episodico, in Ennio (la favola dell’allodola), in Lucilio (la favola del leone vecchio e della volpe) e in Orazio (si ricordi, in particolare, la favola del topo di città e del topo di campagna [ vol. II, T7, cap. 3]). Alla tradizione esopica si rifà espressamente Fedro, il primo autore in lingua latina a concepire un libro autonomo di fabulae e pertanto considerato a ragione l’inventor del genere.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 La favola del lupo e dell’agnello PROFILO STORICO

Fabulae I, 1 LATINO ITALIANO

Nota metrica: senari giambici.

La raccolta di Fedro si apre con una favola memorabile, quella del lupo e dell’agnello. Tema della favola: l’eterna lotta tra il più forte e il più debole, destinato inevitabilmente a soggiacere per legge di natura. Brevità della narrazione e vivacità dialogica rendono piacevole la lettura e conferiscono efficacia alla gnome (la sentenza morale), posta qui in coda all’apologo ma già evidente nella caratterizzazione dei personaggi (la faux improba del lupo, designato come latro). A nulla valgono, contro la brutalità della forza (corrispettivo in natura di quello che è il potere nella storia) le patetiche ragioni della verità. lupus et agnus

5

10

Ad rivum eundem lupus et agnus venerant siti compulsi; superior stabat lupus longeque inferior agnus. Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit. «Cur» inquit «turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?». Laniger contra timens: «Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor». Repulsus ille veritatis viribus, «Ante hos sex menses male» ait, «dixisti mihi». Respondit agnus: «Equidem natus non eram». «Pater hercle tuus» ille inquit, «male dixit mihi».

Atque ita correptum lacerat iniusta nece.

15

5

10

15

Haec propter illos scripta est homines fabula, qui fictis causis innocentes opprimunt. A uno stesso rivo il lupo e l’agnello erano giunti spinti dalla sete; più in alto stava il lupo, assai più in basso l’agnello. Allora quel predone, eccitato dalla scellerata gola, trovò un pretesto di lite. «Perché» disse «mi hai intorbidato l’acqua proprio mentre bevevo?». E il lanuto, tutto spaurito: «Come potrei, ti prego, fare ciò che lamenti, lupo? Da te viene l’acqua al luogo dove bevo». Vinto dalla forza della verità, «Sei mesi fa», disse, «hai sparlato di me». Rispose l’agnello: «Ma se non ero ancora nato». E l’altro: «Ma fu tuo padre, per Ercole, a sparlare di me!». E così lo ghermisce e lo sbrana, infliggendogli un’ingiusta morte. Questa favola è stata scritta per coloro che con falsi pretesti opprimono gli innocenti.

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PROFILO STORICO

Novità, ricchezza e varietà nelle favole di Fedro Anche Fedro, come tutti gli autori latini che lo avevano preceduto, si ispira a un modello greco, e in particolare al corpus favolistico attribuito a uno schiavo di nome Esopo vissuto nel VI secolo a.C., dal quale si distanzia però sia sul piano delle scelte espressive che su quello dei contenuti. La novità più significativa riguarda l’uso del verso: le favole greche di Esopo erano quasi tutte in prosa; quelle latine di Fedro sono in senari giambici. Il passaggio dalla prosa alla poesia nobilitava il genere, conferendogli una maggiore dignità. Ma la novità riguardava anche i contenuti: Fedro non attinge infatti solo al mondo del folclore ma anche a quello della cronaca e dell’attualità romana, affiancando ai tradizionali animali esopici le figure di Pompeo, di Augusto o di Tiberio. Le Fabulae di Fedro risultano perciò molto più ricche e varie di quelle esopiche: presentano infatti apologhi, aneddoti storici e perfino novellette di gusto romanzesco (l’esempio più noto è quello della matrona di Efeso, che troviamo anche nel Satyricon [ T4, cap. 5]). La poetica Duplex libelli dos est: quod risum movet/ et quod prudenti vitam consilio monet («Duplice è il pregio di questo libretto: muovere al riso e insegnare a vivere con saggi ammaestramenti»). Così, con un precetto che già Orazio aveva fatto proprio (miscere utile dulci, cioè istruire divertendo), l’autore sintetizza le finalità della sua raccolta nel prologo del I libro. Nel prologo del II libro, Fedro ritorna sulle finalità del genere favolistico (nec aliud quicquam per fabellas quaeritur/ quam corrigatur error: «non altro si cerca attraverso queste favolette, se non correggere gli errori») mettendo l’accento sugli obiettivi formali del genere: Equidem omni cura morem servabo senis;/ sed si libuerit aliquid interponere,/ dictorum sensus ut delectet varietas,/ bonas in partes, lector, accipias velim,/ ita si rependet illi brevitas gratiam («È mia intenzione conservare con ogni cura i caratteri impressi al genere favolistico dal vecchio Esopo; ma se mi piacerà aggiungere qualcosa di diverso, così che la varietà degli argomenti procuri diletto, vorrei, lettore, che l’accettassi volentieri, tanto più se la varietà sarà compensata dalla brevità»). Brevitas, varietas e ammaestramento morale costituiscono i tratti caratterizzanti delle favole di Fedro. Una visione del mondo amara e pessimistica Nel prologo del III libro, l’autore attribuisce l’invenzione della favola agli schiavi: Servitus obnoxia,/ quia quae volebat non audebat dicere,/ adfectus proprios in fabellas transtulit/ calumniamque fictis elusit iocis («Gli schiavi, che sono soggetti, poiché non osavano dire apertamente ciò che volevano, trasferirono in favolette quel che provavano dentro, salvandosi così dalle accuse con scherzose invenzioni»). La favola è dunque un prodotto delle classi subalterne, che esprimono attraverso di essa, in modo indiretto, la propria insofferenza nei confronti dei potenti. Il travestimento animalesco, la dimensione fantastica dei racconti e la piacevolezza dell’invenzione rendono tollerabili i contenuti. Manca tuttavia in Fedro, come mancava nella tradizione esopica, ogni prospettiva di riscatto: sempre l’agnello sarà preda del lupo, sempre l’asino sarà sottoposto al bastone dell’uomo; e sempre il più debole dovrà soggiacere al più forte. La visione del mondo di Fedro è amara e pessimistica: i rivolgimenti politici e istituzionali non possono minimamente intaccare la sostanza profonda dei rapporti umani. La storia, nella rassegnata prospettiva degli umili, resta pur sempre 51 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PROFILO STORICO

la storia degli altri, dei potenti: In principatu commutando saepius/ nil praeter domini mores mutant pauperes («Nei mutamenti di governo, molto spesso i poveri non cambiano altro che le abitudini dei padroni») è la morale dell’asino (I, 15) costretto a portare eternamente il suo basto. Le rane, in cerca di un re (I, 2), finiscono per abbracciare un governo peggiore dei precedenti: i mutamenti sono dunque pericolosi, anche perché gli uomini sono per natura vili e inclini al servaggio. La guerra è vista esclusivamente come un affare dei grandi: nella favola delle rane e dei tori (I, 30), una rana (cioè il popolo) guarda dalla palude i tori che lottano e osserva: Heu quanta nobis instat pernicies! («Ahimè, quante disgrazie ci attendono!»). La morale è presto detta: Humiles laborant ubi potentes dissident («Gli umili soffrono quando i potenti litigano»). Fedro non crede in utopie salvifiche come non crede nelle parole d’ordine del sistema. Chi potente non è, ha una sola risorsa: sparire nelle pieghe della storia, rendersi invisibile. I suoi ammaestramenti riguardano il singolo, la sua dimensione interiore, non la comunità degli uomini, che appare consegnata inesorabilmente alla dura legge naturale dei rapporti di forza. Due temi di attualità: servilismo e dispotismo Sulla visione del mondo di Fedro non agisce solo la condizione di liberto ma anche la particolare situazione della società romana nella nuova età del principato. Non è un caso che centrali, in queste favole, risultino i temi del dispotismo e del servilismo. Nella quinta favola del II libro, protagonista è lo stesso imperatore Tiberio, ritratto nella sua villa del Miseno mentre viene fatto oggetto di cure interessate da parte di uno schiavo zelante. Qui lo spunto morale è soverchiato dai toni satirici, che restano tuttavia contenuti, o forse compressi, nell’involucro pessimistico e disincantato della favola. Fedro non conosce le punte acri o l’asprezza aggressiva proprie, con l’eccezione di Orazio, della satira romana: il suo mondo, come si è detto, resta circoscritto all’immediato presente, rassegnato all’inevitabilità del male.

Dialogo con i MODELLI Fedro ed Esopo

■ Progressiva rivendicazione di originalità Nel prologo del

■ Fedro inventor del genere favolistico in Roma Fedro è il

I libro (vv. 1-2) Fedro presenta infatti le proprie favole come una semplice ripresa di quelle esopiane, riservandosi un unico merito, quello di averle trasposte in versi: Aesopus auctor quam materiam repperit/ hanc ego polivi versibus senariis. Esopo è l’auctor, l’inventore del genere in lingua greca, colui che ha «trovato la materia»; Fedro è colui che ha vestito la prosa della tradizione esopica di versi senari, «limandola» (polivi), cioè elaborandola sul piano artistico. Ma già nel prologo del II libro, Fedro scrive di voler innovare le favole esopiche rendendole più varie e piacevoli.

primo autore in lingua latina a realizzare un corpus autonomo di fabulae; gli spetta dunque il titolo di inventor del genere in Roma. ■ Si rifà espressamente al greco Esopo Nella sua opera si rifà

espressamente al patrimonio favolistico in lingua greca, trasmesso sotto il nome del leggendario schiavo Esopo (VI secolo a.C.); tuttavia, percorrendo in successione i prologhi e gli epiloghi dei cinque libri, assistiamo a una progressiva rivendicazione di originalità e di autonomia rispetto al modello.

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■ Un processo di emulazione

Siamo dunque nell’ambito di un vero e proprio processo di emulazione, ribadito nel prologo del III, dove Fedro afferma di aver reso una «strada» quello che in Esopo era solo un «sentiero», dimostrando di saper pensare e immaginare «molte più cose di quante lui [Esopo] ne avesse mai lasciate». Nei prologhi dei due libri successivi, Fedro sottolinea con sempre maggior forza il concetto, giungendo ad affermare che Esopo è solo un nome utilizzato per dar peso (auctoritas) ai propri versi.


PROFILO STORICO

PERCORSO ANTOLOGICO

T 2 Un aneddoto di attualità Fabulae II, 5 ITALIANO

Il passaggio dall’allegoria animalesca all’aneddoto storico, con una fabula ambientata nel contemporaneo mondo romano, impone all’autore un mutamento di toni e di prospettive: quadri descrittivi più realistici; precisione dei dettagli; vivacità e naturalezza dei ritratti.

5

10

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20

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C’è a Roma una schiera di faccendieri che girano perennemente affannati, occupati nell’ozio, ansimanti a vuoto, indaffarati a far nulla, di peso a se stessi e insopportabili agli altri. Vorrei correggerli, se solo potessi, con una storiella vera: val la pena di ascoltarla. Cesare Tiberio, andando verso Napoli, alla sua villa era giunto di Miseno, che, eretta da Lucullo in cima al monte, da un lato si affaccia sul mare di Sicilia, dall’altro sull’Etrusco. Uno dei succinti portinai, con la tunica di lino pelusiaco legata alle spalle e con le frange penzolanti, mentre il padrone passeggiava tra i rigogliosi giardini, con un innaffiatoio di legno si mise a spruzzare la terra avvampata, ostentando zelante il suo servizio; ma lo prendono in giro. Allora, per note scorciatoie, corre innanzi in un altro viale, sedando la polvere. Lo riconosce Cesare; e intuisce. Poiché l’altro pensava a non so quale ricompensa: «Senti un po’», disse il padrone. D’un balzo è lì, gongolante, il servo, per il dono ormai sicuro. Allora così scherzò la maestà del grande imperatore: «Quel che hai fatto non è granché, e l’hai fatto per niente: si vendono assai più cari gli schiaffi da me».

9. Lucullo: uomo politico e generale del I secolo a.C., noto per le ricchezze e la vita lussuosa. 10. Etrusco: il mar Tirreno. 12. pelusiaco: Pelusio (Pelusium)

era una città egizia nota per i suoi preziosi tessuti. 25. schiaffi: gli schiaffetti rituali con i quali i padroni procedevano all’affrancamento dei servi.

Busto di Tiberio, I secolo d.C. da Ercolano.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PROFILO STORICO

Lo stile Concisione, densità e chiarezza sono gli obiettivi stilistici di Fedro, che fa uso di una lingua semplice ma non sciatta, improntata a un modello di urbanitas e di elegante essenzialità. Il senario giambico, che era stato il metro dei dialoghi nella commedia, si presta bene a creare un ritmo naturale, affine a quello della conversazione e del parlato.

Guida allo studio

1.

Le favole di Fedro: consistenza del corpus, numero dei libri, aspetti metrici, date di pubblicazione, notizie sui testi non pervenuti. 2. Fai un breve riepilogo della tradizione favolistica in Grecia e in Roma, enumerando i caratteri fondamentali della favola esopica. 3. A buon diritto Fedro può ritenersi inventor del genere nella letteratura latina?

Per quali aspetti la sua opera si distingue dal modello? 4. Quali finalità assegna Fedro alla propria opera? Perché l’autore attribuisce l’invenzione della favola ai servi? 5. Come può definirsi la visione del mondo che nell’insieme traspare dalle Fabulae?

4 La poesia bucolica ed erotica: Calpurnio Siculo e i Priapea Calpurnio Siculo Forse un liberto della gens Calpurnia, probabilmente deve il suo cognomen all’affinità con il siciliano Teocrito: scrisse sette Eclogae, verosimilmente agli inizi del principato di Nerone. Spiccano le ecloghe I, IV, in cui l’encomio di Nerone si colora del motivo all’epoca ricorrente di una nuova età dell’oro, profetizzata dal dio Fauno nell’ecloga I e poi celebrata sotto il segno di Nerone, assimilato a Giove e ad Apollo, nella IV. Nell’ecloga VII il pastore Coridone descrive la grandezza degli spettacoli neroniani e il volto divino del princeps, simile a quelli di Marte e di Apollo. Tradizione e innovazione Nella I ecloga è esaltata inoltre la restaurazione delle antiche istituzioni repubblicane, nella prospettiva di una collaborazione tra senato e principe; nella IV Coridone riceve la sampogna appartenuta a Titiro, esplicitando così la continuità con i modelli di Virgilio e Teocrito. Rispetto a questi, tuttavia, è notevole l’abilità di Calpurnio nel creare un sofisticato intarsio di allusioni a vari generi, dalla poesia epica a quella georgica, dalla lirica oraziana all’elegia tibulliana, fino all’Ovidio più visivo e pittorico. I Carmina Einsidlensia La divinizzazione di Nerone e la celebrazione di una nuova età dell’oro si trovano anche nei cosiddetti Carmina (o bucolica) Einsidlensia, scoperti nel 1869 nel monastero svizzero di Einsiedeln e composti probabilmente negli ultimi anni di Nerone. I Carmina Priapea Un’ottantina di componimenti anonimi di struttura epigrammatica costituiscono i Priapea, risalenti probabilmente alla seconda metà del I sec. d.C. Vari nel metro e nei temi (dediche e offerte al dio, maledizioni, invettive, lamentazioni erotiche, indovinelli, parodie, scherzi osceni), popolati di personaggi 54 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

(prostitute, innamorati, giovinetti, pederasti, matrone), tutti ruotano intorno alla figura itifallica del dio Priàpo. Ritenuto originario di Lampsaco, sull’Ellesponto, legato alla fecondità e custode di orti e giardini, Priapo a Roma aveva ricevuto una caratteristica connotazione buffa e giocosa ed era comparso spesso nei testi dei poeti, da Catullo all’età augustea: lo vedremo anche nel Satyricon di Petronio, dove perseguita il protagonista come un calco parodico del Poseidone odissiaco [ cap. 5.2].

Guida allo studio

1.

Illustra i riferimenti all’aetas aurea e i motivi encomiastici introdotti da Calpurnio Siculo nelle sue Eclogae. 2. Fedeltà al codice bucolico e innovazioni

Calpurnio Siculo, Eclogae ▰ Argomenti e struttura della raccolta La raccolta presenta un calcolato ordinamento interno: di argomento encomiastico e celebrativo sono le ecloghe I, IV e VII, collocate nelle posizioni-chiave del libro (inizio, centro, conclusione). In seconda e in sesta posizione, ma con effetti di contrasto, sono collocate due gare di canto: la prima si conclude in parità, con il giudice che elogia entrambi i rivali; la seconda degenera in un

Bucolica Einsidlensia: due ecloghe celebrative di età neroniana Nel monastero di Einsiedeln, in Svizzera, venne scoperto nel 1869 un manoscritto del X secolo contenente due ecloghe frammentarie e adespote chiamate, dal luogo del ritrovamento, Carmina (o Bucolica) Einsidlensia.

▰ Una gara poetica e un canto per la nuova aetas aurea Il primo componimento è una gara poetica fra due pastori che celebrano a turno, alla presenza di un giudice, un Cesare identificato con il dio Apollo. Nel secondo componimento, in forma di dialogo, il pastore Miste canta l’avvento di una nuova età dell’oro.

▰ Situazione pastorale e motivo encomiastico Come nelle tre ecloghe politiche di Calpurnio Siculo, anche qui la situazione pastorale è strettamente legata al motivo encomiastico. Il Caesar

rispetto ai modelli nelle Eclogae di Calpurnio Siculo. 3. Esponi i caratteri essenziali dei Carmina Priapea.

violento diverbio, prima ancora che la sfida abbia inizio. L’amore è il tema della terza ecloga, dove il pastore Licida, abbandonato dall’amata, compone una canzone che dovrà restituirgli le buone grazie della donna. Tema propriamente georgico ha infine l’ecloga V, nella quale un vecchio pastore illustra a un giovane alcuni precetti sull’allevamento del bestiame. Come già in Virgilio, componimenti amebei (II, IV, VI) si alternano a carmi monodici (I, III, V, VII) secondo il tipico gusto ellenistico della varietà e dell’alternanza.

esaltato nel primo carme non può essere che Nerone: i due pastori accennano infatti ai Troica composti dall’imperatore poeta, giudicato addirittura superiore a Virgilio epico. Il secondo frammento, inoltre, denuncia un’evidente imitazione del verso iniziale della IV ecloga di Calpurnio Siculo.

▰ Datazione e congetture sull’identità dell’autore La datazione dei due frammenti va dunque collocata con una certa sicurezza negli ultimi anni dell’impero neroniano. Più difficile stabilirne la paternità: l’autore potrebbe essere lo stesso Calpurnio, data l’affinità dei motivi; secondo altri Calpurnio Pisone, protettore di Calpurnio Siculo e anch’egli poeta. Difficilmente accettabile, anche se suggestiva, è l’identificazione dei Bucolica Einsidlensia con le perdute Laudes Neronis che Lucano aveva composto per i Neronia del 60 d.C. È anche possibile che i due testi appartengano ad autori diversi.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

5 La poesia satirica: Persio La vita e le opere PROFILO STORICO

La vita Poco conosciamo della vita di Aulo Persio Flacco. La maggior parte delle notizie è contenuta nella biografia tradizionalmente attribuita al grammatico Valerio Probo, vissuto ai tempi di Nerone e perciò contemporaneo del poeta. Secondo tale Vita, Persio nasce nel 34 d.C. a Volterra, in Etruria, da una facoltosa famiglia di rango equestre imparentata con illustri personalità dell’ordine senatorio. A dodici anni si reca a Roma, dove studia presso i migliori maestri della capitale; a sedici segue le lezioni di Anneo Cornuto, un letterato di indirizzo stoico destinato a esercitare un’influenza decisiva nella sua formazione morale e intellettuale [ T9]. Vive una vita appartata, dedita agli studi e agli affetti privati, coltivando amicizie nell’ambiente aristocratico di orientamento stoico e filosenatorio. Muore nel 62. Le opere Persio compose durante la prima giovinezza opere poetiche assai varie: una fabula praetexta; un carme odeporico («racconto di viaggio»), forse sull’esempio dell’iter Siculum di Lucilio e dell’iter Brundisinum di Orazio; un breve elogio dell’eroica Arria Maggiore, che nel 47 si era uccisa insieme al marito dopo la condanna dell’imperatore Claudio. Tutte queste opere non furono pubblicate, presumibilmente a causa della loro immaturità. Ben altra sorte toccò invece a un esiguo libro di satire cui Persio lavorò saltuariamente per circa dieci anni, lasciandolo incompiuto al momento della morte. Cornuto si incaricò di rivedere i testi, apportando lievi modifiche dettate ora dall’opportunità politica, ora dalla necessità di dar compiutezza all’opera. Il libro venne poi affidato per la pubblicazione all’amico poeta Cesio Basso [ T10 ONLINE], ottenendo un immediato successo.

Il libro delle satire Il libro delle satire di Persio comprende sei componimenti di misura varia, per un totale di 650 esametri. Ad essi si devono aggiungere quattordici versi in metro giambico (Choliambi), che alcuni studiosi hanno voluto considerare come un prologo, altri come un epilogo della raccolta, altri ancora come l’esordio di un secondo libro di satire mai composto.

Affresco raffigurante un giardino con uccelli, I secolo d.C. Pompei, Casa del Bracciale d’Oro.

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PROFILO STORICO

PERCORSO ANTOLOGICO

T 3 Una dichiarazione di poetica Choliambi LATINO ITALIANO

Qualificandosi con autoironia poeta semipaganus (v. 6), cioè semirusticus (secondo l’esegesi più convincente), Persio sembra volersi porre in conflitto con l’intera tradizione letteraria: la fonte dell’ispirazione poetica non sono più infatti le tradizionali Muse, ma il «ventre» (v. 11), il bisogno, che stimola i poeti (simili a uccelli ammaestrati) a scrivere. Più esattamente, Persio sta definendo il ruolo del poeta satirico: la sua condanna è rivolta a una poesia facile ed evasiva, priva di tensione morale e di forza conoscitiva, come quella dei poeti-pappagalli e delle poetesse-gazze dei versi successivi, pronti a dichiararsi ispirati da una forza divina e in realtà asserviti a un unico imperativo, quello del denaro (v. 12). Altro sarà invece il suo compito: affondare lo sguardo nella rugosa realtà, estraendone una poesia non suasoriamente armoniosa (il Pegaseium nectar del v. 14) ma aspra e cruda.

Nota metrica: coliambi o trimetri giambici scazonti. 5

Nec fonte labra prolui caballino nec in bicipiti somniasse Parnaso memini, ut repente sic poeta prodirem. Heliconidasque pallidamque Pirenen illis remitto, quorum imagines ambiunt hederae sequaces: ipse semipaganus ad sacra vatum carmen adfero nostrum.

Non ho mai bagnato le mie labbra alla fonte del cavallo, né mi ricordo di aver mai sognato sul Parnaso dalle due cime, per diventare così improvvisamente poeta. E le Muse abitatrici dell’Elicona e la pallida Pirene lascio a coloro alle cui immagini s’abbraccia la flessibile edera; ma, se nella mia rozzezza poeta per modo di dire io sono, porto tuttavia i miei carmi alla festa dei vati.

1. fonte... caballino: l’Ippocrene (nome che, in greco, significa appunto «fonte del cavallo») è una sorgente dell’Elicona scaturita in seguito ad un calcio del cavallo alato Pegaso. L’Elicona era il monte della Beozia sacro alle Muse: bere all’Ippocrene significava dunque essere ispirati poeticamente. Si osservi l’ironia nella scelta lessicale dell’aggettivo caballinus, da caballus, voce popolare in luogo del classico equus.

2. in bicipiti... Parnaso: due erano le cime del Parnaso, Cirra e Nisa, rispettivamente consacrate ad Apollo e a Dioniso, divinità protettrici della poesia e delle arti. – somniasse: era antica consuetudine letteraria attribuire l’ispirazione poetica ai sogni. 4. pallidam Pirenen: un’altra fonte poe­ tica, posta sull’acropoli di Corinto e originata anch’essa da un colpo di zoccolo del cavallo Pegaso; «pallida» perché pal-

lidi per le veglie studiose erano tradizionalmente immaginati i poeti. 5-6. quorum imagines... sequaces: i busti dei poeti illustri, posti nelle biblioteche pubbliche e private, venivano tradizionalmente coronati d’edera. 6. semipaganus: pagus era il villaggio di campagna; paganus era dunque una persona di costumi semplici e rozzi.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PROFILO STORICO

10

Quis expedivit psittaco suum chaere picamque docuit verba nostra conari? Magister artis ingenique largitor venter, negatas artifex sequi voces. Quod si dolosi spes refulserit nummi, corvos poetas et poetridas picas cantare credas Pegaseium nectar.

Chi ha suggerito al pappagallo il suo «Salve!»? e chi ha insegnato alla gazza come riuscire a ripetere le nostre parole? Il maestro dell’arte, il donatore dell’ingegno, il ventre, abilissimo nell’imitare anche quelle voci che la natura ha negato. Ma se balenerà la speranza del fallace denaro, potrai credere che i corvi poeti e le gazze poetesse cantino un canto dolce quanto il nettare di Pegaso. (trad. di E. Barelli)

8. chaere: parola greca per indicare il saluto: esempio di grecomania sarcasticamente denunciata dal poeta. Altro

grecismo è l’aggettivo poetridas (v. 13). 14. Pegaseium nectar: il nettare delle Muse.

La satira I: un testo programmatico La prima satira (134 vv.) è di argomento letterario, e può essere considerata, al pari dei Choliambi, come un testo programmatico [ T7 ONLINE]. Il poeta si scaglia contro i poeti contemporanei e contro la moda delle pubbliche recitazioni. Il degrado della letteratura contemporanea, asservita al gusto di un pubblico vizioso e fatuo, è secondo l’autore la diretta conseguenza del degrado morale e sociale dei tempi. Occorre perciò una poesia che parli del vero e denunci il vizio, rifacendosi ai modelli della commedia antica e della satira romana. Chiariti i propri orientamenti letterari, il poeta può finalmente svolgere il suo programma nelle satire che seguono: a ciascuna di esse è assegnato il compito di approfondire un tema di carattere morale. Caratteri della satira di Persio I temi affrontati (l’esortazione alla filosofia, la vita secondo ragione, la vera libertà, la vanità delle preghiere agli dèi dettate da ipocrisia o superstizione, la condanna della vita dissoluta, dell’ambizione, dell’avaritia) non sono originali, e appartengono all’ormai lunga tradizione della filosofia stoica. Rifacendosi all’esempio della precedente satira latina e della letteratura diatribica, Persio non svolge in modo sistematico le sue tesi, né pretende di svilupparle su un piano concettuale, ma elabora quadri di carattere narrativo, ricchi di figure, di voci dialoganti (per lo più anonime), di situazioni esemplari e di vivaci bozzetti. La sua, come è stato detto, è una «diatriba per immagini», caratterizzata dalla concretezza dello sguardo, dalla nettezza dei particolari, dall’energica pre58 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

cisione delle descrizioni. Il susseguirsi dei singoli quadri, il passaggio da un tema all’altro non sono tuttavia sfumati e armoniosi ma improvvisi al punto da risultare a volte oscuri: non a caso gli editori moderni attribuiscono diversamente alcune battute dei dialoghi, per la difficoltà di compartire con chiarezza il succedersi dei singoli quadri. Confronto con Orazio satiro e mutamento del destinatario Tranne pochi accenni [ T9; T10 ONLINE], mancano gli spunti autobiografici presenti nella poesia oraziana. Persio non si svela nelle sue debolezze, non sorride bonariamente dei vizi, propri o altrui, ma si investe fino in fondo di un ruolo ammonitore: suo compito è quello di denunciare il vizio, di smascherare le false apparenze e di avviare sul cammino della virtù. Se Orazio stabiliva una complicità con i propri lettori, Persio si pone su un piano diverso: all’ironia sorniona di Orazio, che non si atteggia mai a maestro, semmai a condiscepolo del proprio lettore, Persio sostituisce la moralità intransigente di un predicatore che aggredisce con asprezza i suoi uditori, li irride, li strapazza con irosa rudezza. Mutato è del resto il destinatario del suo messaggio: non più il gruppo selezionato e ristretto degli amici, come in Orazio, ma un pubblico generico e anonimo, con il quale non è possibile intrattenere alcun rapporto confidenziale e che risulta, almeno apparentemente, refrattario al cambiamento auspicato dal poeta satirico. La società umana ritratta nelle Satire di Persio appare come un universo sordo a ogni richiamo morale, nel quale i vizi e le brutture sono fatalmente destinati a sovrastare i discorsi sul bene e sulla virtù. Il poeta, nel suo slancio polemico e aggressivo contro un mondo degenerato, rinuncia anche a un atteggiamento di elegante distacco dalla propria materia, si fa anzi rusticus, o meglio semipaganus, come si legge nel prologo in choliambi [ T3], irridendo ai virtuosismi formali degli scrittori contemporanei, tesi solo a compiacere le richieste di un pubblico fatuo e snervato.

Le Satire II-VI di Persio: i temi trattati ▰ La satira II

Nella seconda satira (75 vv.) il tema è quello delle pratiche religiose. Vengono condannate tanto le preghiere empie ed ipocrite quanto le sciocche superstizioni popolari: gli dèi non prestano attenzione alle stolte richieste, ma solo a un cuore dove alberghino «purezza di pensieri segreti e animo imbevuto di nobile onestà» (vv. 73-74).

▰ La satira III Nella terza satira (118 vv.), un giovane si rivolge in veste di pedagogo a un amico che ancora dorme, verso le undici del mattino, dopo una notte spesa in dissolutezze. Il tema è quello dell’educazione e della necessità di studi severi: non dobbiamo abbandonarci a una vita futile e oziosa, ma affidarci per tempo alle cure della filosofia, che è la sola medicina dell’anima [ T8].

▰ La satira IV Nella quarta satira (52 vv.) vengono

criticati coloro che per pura ambizione aspirano a svolgere un ruolo politico. Solo chi conosce veramente

se stesso, secondo l’antico monito socratico, può pretendere di guidare gli altri uomini ed evitare di cadere vittima delle passioni.

▰ La satira V La quinta satira (191 vv.), dedicata

al maestro Anneo Cornuto, esordisce con una sezione proemiale di carattere ancora una volta programmatico e letterario [ T9]. Segue la trattazione, centrata sul tema della libertas. La vera libertà non dipende dallo stato giuridico del singolo (schiavo o cittadino) né dalle condizioni materiali di vita, ma consiste nel vivere secondo ragione, nell’indipendenza interiore e nell’affrancamento dai vizi (avaritia e luxuria in particolare).

▰ La satira VI La sesta ed ultima satira (80 vv.),

dedicata all’amico poeta Cesio Basso [ T10 ONLINE], è rimasta incompiuta, probabilmente per la morte del poeta. Il tema è quello delle ricchezze: si condannano l’avarizia e la prodigalità (ma questo secondo aspetto è solo annunciato, non svolto) e si esalta l’ideale classico di misura.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

«Funzione chirurgica» della satira di Persio

PROFILO STORICO

Radere, defigere, revellere Al mutamento di prospettiva e di destinatario corrispondono profondi mutamenti sul piano dello stile e della tecnica espressiva. Al linguaggio ridondante ed enfatico della tradizione sublime (epico-tragica), Persio oppone i verba togae (V, 14), le parole e le espressioni di tutti i giorni, tratte dal sermo familiaris e vulgaris. La strada era quella già disegnata dalla tradizione satirica (Lucilio, Orazio), dalla quale il poeta deriva anche la pratica dell’intarsio aulico in funzione dissacratoria e parodistica. Ma le espressioni colloquiali e plebee, con inserti talvolta osceni, rappresentano solo un materiale linguistico di base, sul quale il poeta opera con esiti originali e sofisticati. Persio non vuole limitarsi a osservare la realtà, a dipingerla in superficie: per comunicare una verità di ordine morale in un mondo piagato dal vizio, è innanzitutto necessario sferzare il lettore. Si propone dunque di «raschiare via» la crosta degli atteggiamenti sociali, di svelare ciò che sta sotto l’apparenza dei comportamenti. Brutali e significative le metafore usate: teneras mordaci radere vero/ auriculas (I, 107-108 [ T7 ONLINE]); pallentis radere mores/... culpam defigere (V, 15-16); veteres avias tibi de pulmone revello (V, 92): «radere le delicate orecchie con verità pungenti», «raschiare gli squallidi costumi», «trafiggere la colpa», «strappare dal polmone le vecchie nonne», (cioè le storielle che la nonna ha introdotto nel petto del giovane, cui il poeta si sta rivolgendo). In un altro passo il compito del poeta si risolve nello svelare la piaga sul fianco, celata da un luccicante balteo d’oro (IV, 43-45).

Lingua e stile: iunctura acris e lessico corporale Deformazione, oscurità e contorsione: iunctura acris La lingua di Persio deve corrispondere a questa esigenza demistificatrice: le parole del sermo vulgaris vengono forzate, tese oltre il loro senso comune; i rapporti fra parola e parola sono sottoposti a una costante deformazione. Duplice è il fine che l’autore si propone: ottenere una maggiore densità espressiva, produrre un verso energico e sentenzio-

Le FORME dell’ESPRESSIONE Oscurità di Persio: un esempio di iunctura acris Nella satira V (vv. 24-25) [ T9], Persio si rivolge al maestro Anneo Cornuto con queste parole:

[...] Pulsa dinoscere cautus quid solidum crepet et pictae tectoria linguae.

Un illustre studioso, Antonio La Penna, traduce e spiega così: «Battilo (con le nocche delle dita), tu che sei accorto nel distinguere che suono dà il muro pieno e che suono, invece, il muro vuoto, coperto da un intonaco dipinto: cioè, tu che sei accorto nel distinguere tra la vera e sana moralità e la corruzione mascherata da bella apparenza». Ma l’espressione originale («l’intonaco di una lingua dipinta») condensa fino all’oscurità il concetto che l’autore vuole esprimere.

[...] Batti, tu che sai distinguere ciò che dà un suono pieno dall’intonaco di una lingua dipinta. 60 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

so, spesso urtante a causa delle immagini utilizzate; violare le certezze del lettore, scuoterlo dai luoghi comuni del pensiero e dalle consuetudini del comportamento. All’oraziana callida iunctura, viene opposto a tal fine un ideale stilistico di iunctura acris («accostamento aspro», «urtante»; V, 14): il poeta satirico cerca legami inediti, nuove ingegnose relazioni linguistiche, puntando sull’asprezza e sulla violenza dell’immagine-concetto. Anche per questo le espressioni risultano spesso di ardua e difficile decifrazione. Lessico corporale La critica alla poesia frivola e imbellettata si esprime nella ricerca di un vocabolario crudo e realistico, spesso attinto dall’area corporea (su tutte spicca l’immagine ossessiva del ventre): si legga la feroce e laida descrizione dell’ingordo morente (III, 98-102 [ T8]). Ma quasi a ogni verso, si può dire, il lettore sbatte contro immagini rigurgitanti di aspro sarcasmo: «ancora russi e la tua testa ciondoloni, come disarticolata, sbadiglia la sbornia di ieri, con le mascelle che paiono scucite da ogni parte» (III, 58-59); «ma quando la petrosa chiragra ha ridotto le articolazioni a rami di un vecchio faggio, allora si lamentano, ma troppo tardi, di aver trascorsa crassamente la vita tra nebbie fumose di palude e d’essere ancora costretti a vivere» (V, 58-61); «masticando fra sé e sé, in un rabbioso silenzio, continui borbottii» (III, 79-81). Il poeta del resto confessa già nella prima satira il suo intento: comporre versi che esplodano dal suo fegato come un fico selvatico erompe dai sassi o dalle muraglie screpolate (I, 24-25) [ T7 ONLINE].

Guida allo studio

1.

Quali notizie possediamo sulla vita e sulle opere non pervenute di Persio? 2. Di quanti componimenti consta il libro delle Satire di Persio? Esponi l’argomento e i principali contenuti di ciascuna satira. 3. Proponi un rapido confronto tra la poesia satirica di Orazio e quella di Persio. 4. Qual è l’atteggiamento del poeta nei confronti delle favole mitiche?

5. È corretto – con speciale riguardo al linguaggio e all’impiego di determinate metafore – attribuire una «funzione chirurgica» alla satira di Persio? 6. Traduci e commenta le espressioni verba togae e iunctura acris, documentando la tua esposizione con adeguati esempi.

Sarcofago dell’Obeso, scultura in terracotta da Chiusi, II secolo a.C. Firenze, Museo Archeologico.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PROFILO STORICO

Persio

nel TEMPO

I contemporanei Le Satire di Persio, come lo trasmettono in età medievale, si aggiungono si è detto, godettero di un immediato successo: «Non appena il libro fu diffuso, immediatamente sollevò grande ammirazione e andò a ruba», leggiamo nella vita di Probo, contemporaneo del poeta e certo ben informato sulle vicende editoriali dell’opera. Fra i lettori appassionati di Persio fu Lucano, attratto probabilmente sia dal vigore morale, sia dallo stile arduo e furente dell’amico. La morte di Persio e la pubblicazione delle Satire dovettero fra l’altro cadere nel decisivo periodo in cui Seneca si ritirò a vita privata, Lucano si allontanò dalla corte e Nerone accentuò i tratti autoritari e dispotici del suo governo: ed è probabile che i suoi versi fossero letti, sotto la pressione degli avvenimenti politici, come un saggio di resistenza morale alla volgarità dei tempi, soprattutto negli ambienti dell’opposizione senatoria.

In età flavia Del successo di pubblico testimoniano ancora, nell’età dei Flavi, Marziale e Quintiliano. Con giocosa ferocia, Marziale (Ep. IV, 29, 7-8) osserva che «è più spesso ricordato Persio con un solo libro che l’insignificante Marso con tutta la sua Amazzonide». Anche Quintiliano (Inst. or. X, 1, 94) insiste sul contrasto tra la fama di Persio e l’esiguità del suo libriccino: «Grande e meritata fama ha conseguito Persio, pur con un solo libro di satire».

Nel tardo impero e in età medievale L’intransigenza morale dei contenuti assicurò nuova fortuna al libro di Persio negli ambienti cristiani. Al grande numero di codici che

ricchi apparati di glosse, certo anche a causa dell’oscurità del testo. La scuola privilegiò invece i versi isolati di carattere sentenzioso, considerati di alto valore educativo. Numerose le citazioni di singoli versi nelle opere dei padri della Chiesa e degli studiosi medievali. Dante colloca Persio fra i grandi nomi della poesia latina che abitano il castello dei magni spiriti nel Limbo (Purg. XXII, 100).

In età moderna È solo in età umanistica e classicistica che cominciarono a inasprirsi contro Persio le accuse di oscurità e di contorsione verbale. Non per questo Persio venne meno letto e imitato: per restare in Italia, vi si ispirò il Parini per il Giorno e lo tradusse, annotandolo, Vincenzo Monti, affascinato non solo dalla carica aggressiva e sdegnosa dei contenuti, ma anche dall’asprezza e l’audacia delle immagini, «la tenebrosa precisione di Persio». Nell’età di Mallarmé e del simbolismo, Des Esseintes, protagonista di A rebours («Controcorrente», 1884), il romanzo di Huysmans che fu definito «la Bibbia del decadentismo», avrebbe poi elogiato in modo programmatico la forza enigmatica e allusiva dei versi di Persio: «In poesia, lo lasciavano freddo Giovenale, nonostante qualche verso ben battuto; quanto Persio, nonostante le sue oscure allusioni» (trad. di C. Sbarbaro). Di Persio, insomma, non interessavano più il rigore morale e l’intransigenza del satirico, ma quelle zone ambigue e oscure del verso che i classicisti avevano un tempo condannato.

62 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

7 La poesia epica: Lucano La vita e le opere Nasce a Cordova, in Spagna Lucano (Marcus Annaeus Lucanus) nasce a Cordova, in Spagna, nel 39 d.C.: il padre, Anneo Mela, è figlio di Seneca il Vecchio e fratello del filosofo Seneca. Già l’anno seguente la famiglia si trasferisce a Roma, dove Lucano riceve un’educazione accurata: assieme a Persio, suo coetaneo, col quale stringe amicizia, ascolta le lezioni del filosofo stoico Anneo Cornuto; più tardi si reca ad Atene per completare gli studi, com’era consuetudine in Roma da oltre un secolo. Al ritorno, in parte per la fama di poeta che ancora giovanissimo si era conquistata, in parte grazie allo zio Seneca, consigliere dell’imperatore, è ammesso nella cerchia degli amici più intimi di Nerone. Lucano e Nerone: l’amicizia e la rottura L’amicizia tra Lucano e l’imperatore è attestata da diversi episodi: il poeta ottiene infatti la questura prima dell’età consentita; viene ammesso più tardi nel collegio degli auguri; viene incoronato poeta dallo stesso Nerone, dopo aver recitato un carme in suo onore durante i ludi quinquennali del 60. La rottura deve essere di poco successiva a questi avvenimenti. Secondo una fonte biografica sarebbe stata provocata da Lucano, il quale si ritenne gravemente offeso poiché, durante una lettura pubblica di suoi versi, l’imperatore si era allontanato all’improvviso. Secondo Tacito, invece, fu causata dalla gelosia di Nerone, poeta anch’egli, nei confronti del grande successo di pubblico tributato al giovane rivale. Ma vi furono certamente anche motivazioni di natura politica: nel 62 Seneca si ritira dalla vita pubblica, Nerone accentua la sua politica autocratica e antisenatoria, mentre Lucano fa mostra di idealità repubblicane. La congiura pisoniana e la morte Il 62 appare in ogni caso un anno critico per il poeta: muore giovanissimo l’amico Persio; l’ambiente senatorio comincia a preparare la congiura pisoniana di cui anch’egli farà parte; ormai in disgrazia presso l’imperatore, non può più recitare versi in pubblico. Nel 65 la congiura viene scoperta: Lucano, per salvarsi, denuncia la madre e diversi amici. Ricevuto ugualmente l’ordine di morire, si uccide tagliandosi le vene. Una sola opera ci è pervenuta: la Pharsalia Di Lucano ci è giunta una sola opera, il poema epico-storico Pharsalia, cominciato dopo il 60 e rimasto interrotto. A lui vengono attribuite anche numerose opere minori, tutte presumibilmente scritte prima della Pharsalia, di cui sono pervenuti soltanto rari frammenti [ Le opere perdute di Lucano, p. 64].

La Pharsalia: struttura del poema e rapporto con i modelli della tradizione epica Un poema incompiuto Pharsalia è presumibilmente il titolo voluto da Lucano, che in IX, 985-986 si rivolge a Giulio Cesare con queste parole: venturi me teque legent: Pharsalia nostra/ vivet, et a nullo tenebris damnabimur aevo («i posteri leggeranno i miei versi e le tue imprese; la nostra Pharsalia vivrà, e mai in alcuna epoca saremo condannati alle tenebre»). Sia i codici sia i biografi di Lucano, tuttavia, tramandano un altro titolo, Bellum civile. Il poema si interrompe bruscamente, a 63 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

causa dell’improvvisa morte dell’autore, al v. 546 del libro X; è probabile che i libri previsti fossero dodici, come quelli dell’Eneide. Secondo quanto riferisce una biografia antica, Lucano avrebbe fatto in tempo a pubblicare soltanto i primi tre libri. PROFILO STORICO

Argomento della Pharsalia L’argomento, rigorosamente storico, è la guerra civile tra Cesare e Pompeo, culminata nella decisiva battaglia di Farsàlo il 9 agosto del 48 a.C. Il racconto, che segue lo svolgersi degli eventi in ordine cronologico fino allo scoppio della rivolta anticesariana in Alessandria [ Bellum civile o Pharsalia, p. 78], si sarebbe forse dovuto spingere, nelle intenzioni dell’autore, fino alle Idi di marzo del 44; è peraltro verosimile che Lucano intendesse suggellare il suo poema con l’eroico suicidio di Catone in Utica, dopo la sconfitta di Tapso (46 a.C.). Struttura dell’opera Secondo alcuni studiosi la struttura dell’opera presenterebbe una scansione interna per tètradi o gruppi di quattro libri, ognuna delle quali dedicata a uno dei tre personaggi principali: la prima, che si apre con il passaggio del Rubicone e si chiude con la sconfitta del cesariano Curione, a Cesare (I-IV); la seconda a Pompeo e alla sua tragica morte (V-VIII); la terza tetrade, incompiuta, a Catone, figura dominante già nel libro IX, in una sorta di apoteosi finale. Altri ha proposto una suddivisione in due èsadi, sul modello dell’Eneide: al centro, la scena soprannaturale e profetica della nekyomantéia («necromanzia») [ T12]. In realtà la narrazione si concentra a fasi alterne sugli opposti schieramenti senza seguire un preciso criterio organizzativo (ad esempio, se il IX libro è incentrato su Catone, il X vede come protagonista pressoché assoluto Cesare); è lo stesso metodo compositivo di Lucano, fondamentalmente “paratattico”, a dissuadere dalla ricerca di rigorose simmetrie strutturali, tanto più se si considera lo stato d’incompiutezza del poema. Le fonti Circoscrivere con esattezza le fonti storiografiche della Pharsalia non è agevole, in quanto le opere riguardanti quel periodo cruciale sono andate in massima parte perdute: si ritiene che l’autore abbia utilizzato soprattutto i libri di Tito Livio, accanto alle storie delle guerre civili composte da Asinio Pollione e da Seneca il Vecchio, tenendo senza dubbio presenti anche i Commentarii di Cesare. È probabile, inoltre, che si sia potuto avvalere di lettere e documenti originali dell’epoca. Ma il confronto con le fonti superstiti mostra a evidenza come Lucano abbia sottoposto i materiali storici a un’appassionata deformazione, rielaborandoli in maniera selettiva e visionaria.

Le opere perdute di Lucano ▰ Titoli e argomenti Delle numerose opere minori

attribuite a Lucano conosciamo, oltre a rari frammenti, i seguenti titoli: Iliacon (o Iliaca), sulla morte di Ettore e il riscatto del cadavere; Saturnalia; Catachtonion (letteralmente «discesa agli inferi»); Silvae (titolo ripreso poi da Stazio); De incendio urbis, un poemetto sull’incendio di Roma; una tragedia incompiuta (Medea); alcune fabulae salticae, cioè libretti per pantomimi; un Orpheus (forse un epillio); epigrammi; declamazioni.

Accanto ai testi encomiastici (Laudes Neronis) letti durante i ludi del 60, abbiamo notizia di un carme denigratorio sullo stesso imperatore, evidentemente posteriore alla rottura.

▰ Una poesia colta d’intrattenimento Titoli

e argomenti rivelano un’adesione al programma classicistico di Nerone (appassionato di poemi omerici e di antichità troiane) e al gusto contemporaneo per una poesia colta d’intrattenimento, destinata in primo luogo alla recitazione pubblica.

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PROFILO STORICO

Storia o poesia? E tuttavia, stando alle testimonianze pervenute, Lucano fu accusato di aver scritto un’opera di storia, piuttosto che un poema epico. È innegabile che la Pharsalia presenti alcuni tratti tipicamente “storiografici” [ T11 e T13 ONLINE]: ritratti, discorsi, confronti tra personaggi, digressioni geografiche, prodigi e sogni rivelatori nell’imminenza di decisivi eventi bellici ecc. Ma le reazioni dei contemporanei sono il segno di una novità più profonda e inquietante. Se la Pharsalia è un’opera rivoluzionaria, assolutamente unica nella storia dell’epica latina, certo non lo è soltanto per la scelta di un argomento storico, e nemmeno per la prossimità nel tempo dei fatti narrati. Il fatto è che Lucano propone un modello di epos radicalmente nuovo, operando una sistematica e “scandalosa” violazione del codice epico di derivazione omerico-virgiliana. C’era una convinzione profondamente radicata nella coscienza letteraria del mondo greco-latino: che il racconto epico, secondo la nota definizione tramandata dalle scuole peripatetiche, dovesse abbracciare insieme «i fatti degli dèi e degli uomini». Eliminazione del tradizionale apparato mitologico Al contrario, Lucano elimina radicalmente dal suo poema l’intervento degli dèi, con tutto il tradizionale apparato di concilia deorum, contese fra gli immortali schierati pro o contro un determinato eroe, apparizioni divine nei momenti cruciali, promesse, vendette, salvataggi miracolosi. Di fronte ai mirabilia della natura (le bufere di sabbia, i bassifondi delle Sirti, le sorgenti del Nilo), oggetto nel poema di frequenti digressioni descrittive (che testimoniano di interessi eruditi e scientifici, nel solco delle Naturales quaestiones di Seneca [ cap. 4.5]), l’autore prende razionalisticamente le distanze dalle ricostruzioni eziologiche in chiave mitica. Il meraviglioso soprannaturale nella Pharsalia Nondimeno, l’elemento soprannaturale è tutt’altro che assente dalla Pharsalia: Lucano sostituisce al consueto armamentario mitologico un meraviglioso magico-stregonesco, in gran parte attinto alle leggende e alle oscure superstizioni popolari; il poema è anzi sovraccarico di apparizioni ed evocazioni di ombre, incantesimi, vaticini, visioni, presagi, prodigi, che trovano il loro culmine nei rituali necromantici della maga Erictho [ T12]. Sono le inquietanti manifestazioni di forze che sembrano identificarsi con un Fato oscuro e rovinoso, che cospira alla distruzione di Roma. Catastrofe e tragedia La Pharsalia è infatti il racconto di un crollo, della fine catastrofica di Roma, che per Lucano si identifica con l’antica res publica senatoria. Più che assistere a una rappresentazione-narrazione della guerra civile, ascoltiamo un threnos, un lamento funebre per la morte di un mondo tragicamente sconvolto. La guerra fratricida del resto è un tema propriamente tragico, secondo quanto aveva osservato Aristotele (Poetica 14, 3), dunque estraneo agli statuti del genere epico, che non possono non risultarne scossi e modificati in profondità. Anche l’atteggiamento del cantore muta radicalmente: non più solidale e celebrativo, esprime non esaltazione, orgoglio, senso di appartenenza, ma indignata denuncia, disperazione, orrore. Epica «antivirgiliana» L’epica storica lucanea affronta dunque da una prospettiva completamente rovesciata rispetto all’Eneide – il poema per eccellenza della romanità – l’avvento del principato in Roma e la fine della repubblica. 65 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PERCORSO ANTOLOGICO

PROFILO STORICO

T 4 «Guerre più atroci delle civili»: il proemio Pharsalia I, 1-7 LATINO ITALIANO

Nei primi, concentratissimi sette versi del proemio risuona l’annuncio di un irrimediabile sovvertimento dell’ordine e della legge. Si affollano qui i termini del linguaggio giuridico-sacrale romano, vere e proprie parole-chiave della tradizione morale e civile di Roma (ius, foedus, nefas), ma per denunciare la distruzione dei valori che un tempo esprimevano. Nel v. 5 si intravede già uno dei temi più inquietanti della Pharsalia: il crollo della res publica appare inscriversi in un sommovimento del mondo intero, preludio alla catastrofe cosmica.

Nota metrica: esametri.

5

5

Bella per Emathios plus quam civilia campos iusque datum sceleri canimus, populumque potentem in sua victrici conversum viscera dextra, cognatasque acies, et rupto foedere regni certatum totis concussi viribus orbis in commune nefas, infestisque obvia signis signa, pares aquilas et pila minantia pilis. Guerre più atroci delle civili sui campi d’Emazia cantiamo e il crimine divenuto diritto, e un popolo potente voltosi con la destra vittoriosa contro le sue stesse viscere, e schiere consanguinee, e infranta l’unità dell’impero, una lotta con tutte le forze del mondo sommosso per compiere un comune misfatto, avverse a ostili insegne le insegne, e aquile contrapposte, e dardi minaccianti i dardi. (trad. di L. Canali)

1. Emathios: Emathia era l’antico nome della Macedonia, poeticamente impiegato anche per la vicina Tessaglia, dove si trova Farsàlo, teatro della battaglia

che decise le sorti della guerra. – plus quam civilia: «dal momento che si svolgevano non soltanto fra concittadini, ma addirittura tra parenti: si ricordi infatti

che Pompeo era genero di Cesare, avendone sposato la figlia Giulia» (Badalì). 7. aquilas: l’aquila metallica era l’insegna delle legioni romane.

Attraverso la rievocazione di un passato eroico (la saga di Enea), Virgilio aveva prefigurato un futuro glorioso (le gesta del popolo romano) destinato a culminare nell’epoca aurea del principato di Augusto (cioè nel presente dello scrittore e dei lettori). Le guerre civili, adombrate negli episodi bellici dei libri “laziali”, dovevano apparire soltanto una parentesi, dolorosa ma necessaria, che trovava giustificazione entro un disegno provvidenziale, sancito dalla volontà dei Fati; i contrasti, a distanza, si ricomponevano nel finale trionfo di un ordine positivo e legittimo, fondato su un compatto sistema di valori (pax, iustitia, pietas) idealmente condiviso da tutta la comunità. 66 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Un’«anti-Eneide» per un «anti-mito di Roma» Quasi volendo smascherare un inganno, attraverso un’interpretazione del tutto opposta dei civilia bella come «crimine» (scelus) ed empio «misfatto» (nefas) che consegna lo Stato romano alla tirannide, Lucano procede alla distruzione dei miti virgiliani e augustei, sostituendovi polemicamente un suo «anti-mito di Roma». Non una Provvidenza razionale e benigna dà il moto agli eventi, ma – forse – un Fato malefico e perverso, che ha decretato l’annientamento di Roma, invidioso della sua grandezza. Con un’espressione ormai famosa, efficace nella sua tensione ossimorica, Emanuele Narducci ha parlato di «Provvidenza crudele». Con il poema virgiliano l’autore della Pharsalia intrattiene un rapporto privilegiato e costante, che non si limita al capovolgimento della tematica e dell’impostazione generale: Lucano opera un sistematico, capillare rovesciamento del modello, nei singoli particolari, mediante una raffinata tecnica allusiva. Episodi, personaggi, elementi narrativi e strutturali, persino singole espressioni ne richiamano altri dell’Eneide, istituendo con essi una relazione oppositiva. Le profezie Così come nell’Eneide una serie di profezie post eventum allacciano il presente della narrazione (in realtà il passato mitico) al futuro (il presente storico, augusteo) illuminando entrambi di un significato unitario, anche nella Pharsalia i momenti salienti della vicenda sono scanditi da annunci profetici: ma dagli inquietanti spiragli aperti sul futuro si affacciano soltanto visioni di morte e di sventura. Su tutti si impone l’episodio della necromanzia [ T12], che avrebbe dovuto probabilmente accamparsi al centro del poema, in simmetrica corrispondenza con la catàbasi di Enea nell’Ade. Complessità e ambiguità dell’operazione lucanea A ben guardare, tuttavia, può essere avanzata un’interpretazione in parte diversa, e più sottile. Come è stato osservato, più che confutare, semplicemente, il modello virgiliano, di fatto l’autore della Pharsalia esaspera l’atteggiamento di Virgilio, già in sé complesso e almeno potenzialmente contraddittorio, allargandone le zone d’ombra: la perplessità di fronte al dolore immedicabile dei vinti, il compianto sulle vittime innocenti di cui è disseminato il cammino fatale della storia [ vol. II, cap. 2.4].

«Il poema senza eroe»: personaggi della Pharsalia Alla luce di quanto si è detto finora, non sorprende certo rilevare un’altra “anomalia” del poema rispetto all’epos virgiliano: l’assenza di un eroe positivo che funga da centro unificante dell’azione. Cesare, eroe negativo Personaggio grandiosamente negativo, il Cesare della Pharsalia arde di una smisurata brama di potere (flagrans cupidine regni: VII, 240); un attivismo sfrenato, insofferente di indugi, una perversa volontà di trasgredire la legge e di sconvolgere l’ordine lo sospingono a gesti di hybris e di empietà; crudele e sanguinario, si compiace del male e ne gode. Nella sua figura si ravvisano i tratti del tiranno e insieme quelli del sovversivo, così come li aveva elaborati una lunga tradizione: Alessandro, felix praedo («fortunato predone», Phars. X, 21) e il Catilina sallustiano ne rappresentano, rispettivamente, gli archetipi. Ma nel Cesare lucaneo vi è qualcosa di ancor più inquietante: la sua ira sconfina in 67 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

un furor gratuito e disumano, totalmente irrazionale, che prescinde da qualsiasi motivazione o scopo concreto, tanto da farlo apparire strumento del Fato avverso a Roma, incarnazione di un furore cosmico che lo trascende e che a suo tempo distruggerà lui pure [ T13 ONLINE]. PROFILO STORICO

Pompeo, eroe tragico Pompeo è Magnus, il Grande, ma la sua grandezza appartiene al passato: egli è l’eroe in declino [ T11], una sorta di patetico anti-Enea perseguitato dal Fato. Del resto la sua figura non è priva di ombre: anch’egli è responsabile dello scontro civile, e deve cadere perché la causa repubblicana victa possa pienamente identificarsi con quella della libertas (come è detto esplicitamente nel libro IX, 29-30). Tra Cesare e Catone, figure bloccate in una fissità di emblema più che individualità aperte a un coerente sviluppo psicologico, è l’unico personaggio che conosca un’evoluzione interiore. La sua parabola ha autorizzato un’interpretazione in chiave tragica: precipitato dal colmo degli onori e della felicitas (secondo la definizione aristotelica del tragico), percorre un itinerario catartico verso la coscienza di sé e l’accettazione del Fato (identificandosi con il proficiens stoico). Catone, eroe stoico della virtus Se Cesare viene sovente paragonato alle irresistibili forze della natura scatenate nella devastazione, Pompeo a una quercia spoglia senza più radici, Catone è «come le stelle/ del cielo», le quali «si volgono irremovibili nel loro consueto percorso,/ mentre l’aria vicina alla terra balena di fulmini» (II, 267-269; e si ricordi che appunto al fulmine era stato assimilato Cesare [ T11]).

Busto di Catone Uticense, età romana, I secolo a.C. Rabat, Museo Archeologico.

I due volti di Catone Catone mostra fin dall’inizio, durante il colloquio con Bruto nel II libro, l’imperturbabile fermezza del sapiens stoico. Tuttavia nell’adempimento, ad ogni modo incontrastabile, della volontà dei Fati il saggio stoico non riconosce più la realizzazione di un piano provvidenziale di razionalità e giustizia; la virtus paga di sé si contrappone titanicamente agli dèi e al destino, paradossalmente autori di un crimen; il criterio del bene e del giusto avrà d’ora in avanti come unica sede la coscienza. A questa sfida eroica Lucano appone il suggello di un verso memorabile: victrix causa deis placuit, sed victa Catoni («la causa dei vincitori piacque agli dèi, ma quella dei vinti a Catone»: I, 128). Catone si eclissa quindi dalla scena per ricomparire soltanto nel IX libro, dove il suo personaggio sembrerebbe recuperare i tratti di un più ortodosso stoicismo riaffermando l’homologhía (in greco «congruenza», «conformità») del sapiens con l’ordine del

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PROFILO STORICO

cosmo nel discorso che pronuncia di fronte all’oracolo di Giove-Ammone (identificato con il logos universale, anima mundi): «Tutti aderiamo agli dèi, e, anche se il tempio tace,/ non facciamo nulla senza il loro volere; [...] sede del dio è la terra/ e il mare e l’aria e il cielo e la virtù» (IX, 574-579 passim [ T15]). Depositario di valori perenni Se la vicenda di Pompeo riflette il contrasto tragico fra il passato glorioso di Roma e la sua catastrofica decadenza, Catone appare invece depositario di valori assoluti e perenni, che non temono l’imperversare della Fortuna, poiché sono custoditi nella coscienza del saggio. Il poeta non esita infatti, con un’evidente impennata polemica e demistificatoria nei confronti degli imperatori divinizzati, a proclamarlo deus e vero padre della patria: «il più degno,/ o Roma, dei tuoi altari; non accadrà mai di vergognarsi/ di giurare su di lui, che ora, o in futuro, se scrolli/ il giogo dal collo, porrai tra gli dèi» (IX, 601-604). L’inusitato augurio di segno positivo, che sembra concedere a Roma almeno una possibilità, per quanto remota, di risorgere scrollando il giogo della tirannide, è stato posto in relazione dagli interpreti con l’adesione di Lucano alla congiura pisoniana.

La visione del mondo Stoicismo e antiteismo Due figure in stridente contrasto convivono, lo si è visto, nel Catone lucaneo: da una parte lo stoico ortodosso, assertore di una religiosità cosmica esente da antropomorfismi; dall’altra il titanico avversario della divinità empia. Nella contraddittorietà del personaggio si riflette «il tormentato rapporto fra lo stoicismo di Lucano e il suo antiteismo» (Timpanaro). Un pensiero in movimento Non è dato rintracciare nella Pharsalia una concezione organica, filosoficamente coerente, della realtà, ma piuttosto un pensiero in movimento, segnato da lacerazioni drammatiche. Se nel poema circolano largamente spunti e concetti attinti alla filosofia stoica, nel suo radicale pessimismo Lucano nega uno dei fondamenti essenziali dello stoicismo, l’esistenza di un logos provvidenziale. A reggere il mondo (o, per meglio dire, a devastarlo) è piuttosto una forza malefica, che sembra coincidere, non senza vistose oscillazioni, ora con un Fato oscuramente crudele, ora con la Fortuna capricciosa e mutevole (la Tyche), ora con la perversa volontà degli uomini o degli dèi. Ma le stesse divinità, che non mancano sovente di apparire puri topoi della tradizione poetica, vengono a fasi alterne violentemente accusate o disperatamente negate di fronte all’irrompere di un cieco Caso: sunt nobis nulla profecto/ numina; cum caeco rapiantur saecula casu,/ mentimur regnare Iovem («Certamente non abbiamo dèi,/ perché intere generazioni governa il cieco caso;/ mentiamo che Giove esiste»; VII, 445-447). Pessimismo storico Nel I libro, subito dopo le sequenze proemiali, il poeta si propone di indagare le cause della guerra civile (causas tantarum expromere rerum). Accanto alla nimia cupido dei cittadini in generale (bramosi di lusso, corrotti dall’eccessiva ricchezza) e dei capi in particolare (che non tollerano di dividersi il potere), si impone la concezione organicistica e ciclica della fatale decadenza di tutto ciò che è giunto all’apice della sua grandezza: in se magna ruunt («La 69 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

PROFILO STORICO

grandezza crolla su se stessa»; I, 81). Il pessimismo storico di Lucano, conservatore tradizionalista attestato ad oltranza sulle posizioni dell’antica aristocrazia senatoria, appare dunque assai vicino a quello di un Sallustio, di un Livio, di un Seneca il Vecchio; qualche decennio dopo, anche Tacito interpreterà la storia di Roma in chiave di cupa tragedia. Ma lo sdegno antitirannico e libertario di Lucano esorbita dai limiti di una diagnosi ideologico-politica (che in tutti gli scrittori citati resta comunque ancorata a una realistica valutazione dei dati storici), dilatandosi senza riserve fino a tradursi in una sorta di appassionato nichilismo. Motivo conduttore, la morte Ossessionante motivo conduttore del poema, la morte: non c’è salvezza, né collettiva né individuale, neppure «consolazione della filosofia» (esclusa ogni contemplativa via del rifugio nel secessus); gli stessi eroi positivi, come si è visto, si realizzano in quanto tali soltanto nella sconfitta e nella morte, ultima frontiera della libertà (libera Fortunae mors est: VII, 818 [ T13]). Ma il motivo, in una sorta di ricorrente vertigine visionaria, si assolutizza e si dilata a una dimensione cosmica: in realtà, il vero argomento della Pharsalia è la fine del mondo.

Linguaggio poetico e stile: lo «scrivere crudele» di Lucano Una retorica eccessiva e paradossale Sovrabbondante, impetuoso, come imponeva il gusto asiano dell’epoca, Lucano affronta (meglio sarebbe dire aggredisce) la sua materia sottoponendola al fuoco di una retorica eccessiva, spettacolare, che gremisce tutto lo spazio disponibile con gli artifici stilistici più acuminati e vistosi. Su tutte le figure si impone l’antitesi: fin dai versi proemiali ogni espressione, ogni immagine entra in collisione con altre espressioni, altre immagini che violentemente le si contrappongono [ T4]. Non si tratta soltanto dell’ossequio a una moda. La sistematica esasperazione delle forme espressive (comune anche al teatro tragico di Seneca) mira alla creazione di uno stile magniloquente e sublime, caratterizzato da un pathos aspro e violento, da una tensione spasmodica, protratta ai limiti dell’intollerabile. Nel predominio dell’antitesi, forma retorica del paradosso, si riflette il sovvertimento catastrofico dell’ordine romano, del mondo intero, del cosmo. Una soggettività “gridata” Alla rappresentazione epico-narrativa, tendenzialmente “oggettiva”, degli eventi si sostituisce l’irrompere veemente della soggettività. Anche in questo Lucano sembra esasperare, più che rifiutare, il modello offerto dall’Eneide, dove la narrazione lasciava sovente filtrare l’elemento soggettivo, sia attraverso il commento del poeta, sia assumendo il punto di vista dei personaggi. La presenza del narratore è invadente, ossessiva: Lucano interviene di continuo con invocazioni, allocuzioni, apostrofi, esclamazioni, domande; espedienti retorici mediante i quali si esprime la déinosis (= indignatio), l’indignazione dell’autore, la sua partecipazione furente, il suo appassionato giudizio ideologico e morale. Gli stessi personaggi pronunciano un gran numero di discorsi, vere e proprie orazioni retoricamente costruite [ T14 ONLINE]. Forma drammatica più che narrativa Appare dunque evidente che la forma espressiva della Pharsalia è assai più drammatica che propriamente narrativa. Gli eventi 70 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

della storia – che oggettivamente appartengono al passato – vengono sottratti al flusso temporale e rappresentati come se accadessero hic et nunc sotto gli occhi del lettore, nell’urgenza di un presente drammatico che brucia e azzera la distanza epica. Strutture paratattiche E dello stile drammatico è propria la decisa preferenza di Lucano per la paratassi, per un dettato frantumato in membri brevi e giustapposti per antitesi, concentrato nelle rapide sententiae, percorso da una tensione affannosa: uno stile anticlassico, che si contrappone diametralmente all’armoniosa fluidità virgiliana. Ma anche la tecnica compositiva è “paratattica”: in assenza di uno sviluppo lineare e unitario, si susseguono scene e visioni singole, persino immagini staccate, che non tendono a comporsi in un quadro d’insieme. Nel corso di tutto il poema, a blocchi narrativi in sé conclusi si alternano fittamente digressioni erudite, producendo l’impressione di una struttura labirintica, priva di sbocco, continuamente attraversata da forze centrifughe. Surrealismo visionario Un ennesimo paradosso: il poema accusato di essere “troppo storico” è quanto mai lontano dai modi di una rappresentazione realistica. Nel dare espressione poetica al tragico sconvolgimento dell’ordine, Lucano rinuncia a ogni principio di verosimiglianza: il suo non è verismo macabro ma iperrealismo o surrealismo visionario. La soggettività angosciata del narratore preme sui dati reali deformandoli con violenza, sino a esiti estremi, fantasticamente mostruosi. Il poema brulica di visioni d’orrore, fissate da uno sguardo allucinato che indugia sui particolari più raccapriccianti: sul campo di Farsalo, dove immensi stormi di uccelli rapaci si sono adunati a straziare i cadaveri, gli alberi stillano «rosse gocce», dal cielo piovono «sangue e putredine» insieme a brandelli di membra umane (VII, 834 sgg. [ T13]); i corpi dei soldati morsicati dai serpenti nel deserto libico si gonfiano smisuratamente, trasudano sangue a fiotti o «nuotano nel marciume», decomponendosi all’istante, ossa comprese (IX, 734 sgg.); e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Lucano sceglie dunque l’ardente concitazione, il pathos esasperato, che persegue attraverso la sistematica forzatura del limite.

Guida allo studio

1.

Riporta le notizie certe sulla vita di Lucano, soffermandoti in particolare sui rapporti fra il poeta e l’imperatore. 2 Esponi l’argomento e la struttura dell’incompiuta Pharsalia. 3. Per quali ragioni Lucano fu accusato di aver scritto un’opera storica anziché un “vero” poema epico? Sotto quali aspetti l’autore della Pharsalia opera una violazione del codice epico?

4. Quale rapporto intrattiene il poema di Lucano con l’Eneide? 5. Traccia un rapido profilo dei principali personaggi della Pharsalia. Perché l’opera viene definita «il poema senza eroe»? 6. Individua da una parte i punti di contatto, dall’altra le divergenze fra la visione del mondo lucanea e i princìpi della dottrina stoica. 7. Quali sono le principali caratteristiche dello stile di Lucano? È giustificata la definizione di «scrivere crudele»? 71

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

Lucano PROFILO STORICO

nel TEMPO

Nell’antichità Le stesse numerose critiche Limbo (Inf. IV, 88-90) e si ispira al personaggio testimoniano la risonanza e l’influenza ottenute dall’audace operazione di Lucano, come attesta l’epigramma in cui Marziale gli fa pronunciare un’arguta autodifesa: «Ci sono alcuni che dicono che non sono un poeta: ma il libraio che mi vende pensa di sì» (Epigrammi XIV, 194). Probabilmente allude a Lucano il bizzarro poeta Eumolpo nel Satyricon di Petronio, quando polemizza con gli autori che privilegiano la storia rispetto all’ispirazione poetica (Sat. 118-119 [ T6 ONLINE, cap. 5]). L’interrogativo sul carattere storico o poetico dell’opera di Lucano giungerà fino a Servio, che nel IV sec. d.C. concluderà che Lucano «non merita di essere annoverato fra i poeti; appare infatti evidente che ha composto un’opera storica, non di poesia». L’altro aspetto a lungo contestato del poeta spagnolo è la sua scrittura “barocca”, punteggiata di sententiae affini al gusto declamatorio, al punto che Quintiliano disse che Lucano era «degno di essere imitato più dagli oratori che dai poeti» (Inst. or. X, 1, 90). In effetti, sia il classicismo d’età flavia sia l’arcaismo del II sec. d.C. avversarono lo stile gonfio e ridondante di Lucano, ma è indubbio il suo influsso quanto meno sui poeti epici d’età flavia.

Tra tarda antichità e Medioevo Letta nelle scuole e commentata dai grammatici, l’opera incontra il favore dei primi cristiani, attratti dalla concitazione espressiva di Lucano come dalla sua polemica contro gli dèi pagani. L’altissimo numero di manoscritti contenenti il testo della Pharsalia (oltre 150 completi a partire dall’età carolingia) attesta la fortuna dell’opera, che si presta a interpretazioni allegoriche, alla raccolta di exempla, sententiae e mirabilia; Lucano è anche modello di stile «tragico», «maestro di terribilità» (Curtius) nella costruzione delle scenografie infernali care al Medioevo. Dante lo colloca tra i sommi poeti dell’antichità nel castello del

della Pharsalia per il Catone austero e inflessibile guardiano del Purgatorio.

Umanesimo e Rinascimento Oggetto di critiche teoriche in un’epoca dominata dal classicismo, il poema tuttavia ebbe la sua editio princeps già nel 1469, a soli quattro anni dall’uscita del primo libro a stampa in Italia. In omaggio alle categorie aristoteliche, Torquato Tasso critica l’opera lucanea sul piano teorico, ma la imita più volte nella Gerusalemme liberata e nel Torrismondo. Teatro del Seicento Accanto a Seneca tragico, Lucano influenza profondamente il teatro elisabettiano e shakespeariano; in Francia Corneille lo dichiara sua fonte principale e modello di stile per la tragedia La mort de Pompée (1644).

Illuminismo Certamente incompatibile con il razionalismo illuministico sul piano stilistico, Lucano trovò un estimatore in Voltaire per «le idee forti, i discorsi pieni di coraggio filosofico e sublime»; in particolare il filosofo vide una professione di teismo ante litteram nella risposta di Catone a Labieno dinanzi all’oracolo di Ammone (Phars. IX, 564-586 [ T15]).

Neoclassicismo e Romanticismo Il culto rivoluzionario dell’antico riconobbe nella Pharsalia il poema della libertà: sulle sciabole della Guardia Nazionale di Parigi (1789) campeggiava il verso ignorantque datos ne quisquam serviat enses (IV, 579: «e si ignora che le spade sono date per non servire»). Individualismo, anticesarismo libertario, rifiuto del classicismo e del razionalismo, fascino del fantastico, dell’orrido e del notturno (componenti essenziali del sublime romantico) crearono nel primo Ottocento un ambiente propizio a una rinnovata fortuna del poema lucaneo. Così Alfieri appare vicino a Lu-

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PROFILO STORICO

cano nelle venature pessimistiche del suo slancio libertario; ancor maggiore affinità con il poeta latino presenta il titanismo eroico di Leopardi, quale si esprime esemplarmente nel Bruto minore (1821). Echi del macabro lucaneo si trovano in Foscolo (che riprende immagini del IX libro nella visione delle rovine di Troia nei Sepolcri) e in Goethe (che rielabora nel Faust la necromanzia del VI libro). Hölderlin tradusse in tedesco i primi 590 versi del poema.

Il poema della «decadenza» Opera-emblema della latinitas argentea, decadente rispetto ai grandi modelli augustei, secondo uno schema storiografico dominante tra secondo Ottocento e primo Novecento, la Pharsalia fu apprezzata da Baudelaire (che in una lettera a Sainte-Beuve del 1866 la definisce «scintillante, malinconica, lacerante, stoica») e da Huysmans, che la inserisce nella biblioteca di Des Esseintes in À rebours (1884).

COMPITO di REALTÀ • Un mondo di favole molto reali La consegna • Si chiede alla classe di produrre una serie di testi di genere favolistico, in cui protagonista sia il mondo animale e/o vegetale, mantenendo alcuni dei punti salienti dell’opera di Fedro e di Esopo: – dar voce al mondo degli oppressi; – rappresentare la vita nei suoi meccanismi profondi; – tener desta l’attenzione del pubblico con soluzioni formali innovative. Quali figure scegliereste? Quale linguaggio e quali forme espressive (testo poetico, testo teatrale, prosa, fumetto, video)? Gli strumenti • Per il mondo antico, sarà necessaria la lettura di alcuni testi di Esopo e di Fedro, quest’ultimo direttamente in lingua latina. I testi sono ricavabili anche da repertori online: ad esempio Aesopica.net, in cui sono contenute, oltre alle versioni delle favole esopiche in lingua originale, anche traduzioni in inglese e in latino dei testi antologizzati.

Le fasi operative • Scelta delle poesie di Esopo e di Fedro da leggere ed, eventualmente, da tradurre. • Divisione del lavoro in cinque gruppi, a ciascuno dei quali sarà affidata una sezione tematicamente omogenea delle poesie scelte. • Proposta di costruzione di uno o più testi che si rifacciano agli impianti favolistici classici, ma con elementi innovativi, sia sul piano formale (il più importante, in questo caso) sia dei contenuti. • All’interno di ogni gruppo, si consiglia di distribuire il lavoro tra i singoli partecipanti, ciascuno dei quali dovrà produrre una o più proposte. In una fase successiva i risultati verranno confrontati, per scegliere la soluzione più convincente. • Lettura, o proiezione, o rappresentazione o mostra (a seconda dei linguaggi utilizzati), da concordare con gli insegnanti di Lingua italiana, Lingua latina, Arte, in una sede adeguata (Aula Magna, Laboratorio, Atrio) del vostro istituto.

AUTOVALUTAZIONE Conoscenza dell’argomento

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di narrazione e di esposizione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di aggregazione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Competenze digitali

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Giudizio complessivo sul progetto

 coerente

 esaustivo

 originale

 adeguato

 non adeguato

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

Bellum civile o Pharsalia Libri I-IV PROFILO STORICO

Dopo la protasi e la dedica a Nerone, l’autore passa in rassegna le cause che hanno portato alla guerra civile. Seguono la presentazione dei due contendenti [ T11] e la narrazione dei fatti in ordine cronologico. Dopo il passaggio del Rubicone e la fuga di Pompeo, in una Roma preda di funesti presagi si incontrano Bruto e Catone: a fronte dell’incertezza del primo, il secondo proclama la necessità di schierarsi con Pompeo. A quest’ultimo, imbarcatosi a Brindisi, appare l’ombra di Giulia, figlia di Cesare e già sua sposa, che gli predice l’imminente rovina; frattanto Cesare, varcate le Alpi, occupa Marsiglia e la spagnola Ilerda, mentre subisce rovesci in Illiria e in Africa.

Libri V-VIII

Pompeo in Epiro è nominato comandante supremo dal senato, e Cesare, impaziente per il ritardo di Antonio, si fa traghettare dall’umile pescatore Amícla verso le coste italiche, ma una tempesta lo risospinge in Epiro, miracolosamente incolume. I due contendenti si spostano in Tessaglia, a cui il poeta dedica una digressione geografico-mitologica e una sulle streghe locali: a Erichto, la più terribile di tutte, si rivolge Sesto Pompeo, figlio del Grande, al quale un soldato defunto, evocato in un rito di necromanzia [ T12], pronuncia funesti vaticini. Segue la battaglia di Farsàlo, preceduta da terrificanti prodigi e seguita da una dimostrazione della crudele empietà di Cesare, che impedisce la sepoltura degli avversari caduti. Respinta dai senatori

la sua proposta di proseguire le ostilità con l’aiuto dei Parti, Pompeo fugge in Egitto, dove Tolomeo XIII viene indotto dai suoi cortigiani a farlo uccidere a tradimento. Solo il fedele Cordo rende gli onori funebri al suo corpo, decapitato e abbandonato in mare.

Libri IX-X

L’anima di Pompeo, ascesa alle regioni eteree destinate agli spiriti dei grandi, scende a posarsi nel petto di Bruto e di Catone. Mentre ovunque si accendono roghi ai Mani degli insepolti di Farsalo, Catone pronuncia l’elogio funebre del Grande e guida l’armata pompeiana, dapprima in un fallito tentativo di traversata delle insidiose Sirti, poi in un eroico itinerario attraverso il deserto libico, a cui il poeta dedica un’ulteriore digressione geografica. Giunti al tempio di Giove-Ammone, Catone rifiuta di consultarlo per coerenza con le sue convinzioni stoiche [ T15]; l’armata deve poi affrontare spaventosi serpenti, puntualmente descritti dal poeta, che coi loro morsi procurano «insolite morti», particolarmente orribili e dolorose. Frattanto Cesare visita le rovine di Troia e poi si reca in Egitto, dove simula dolore di fronte alla testa mozzata di Pompeo. Ad Alessandria si reca presso il sepolcro di Alessandro Magno, contro il quale il poeta scaglia una violenta invettiva antitirannica. Seguono gli amori scandalosi con Cleopatra e le sommosse che preludono al bellum Alexandrinum, sulle quali si interrompe bruscamente il racconto.

Gaetano Gandolfi, Morte di Pompeo, seconda metà XVIII secolo, Digione, Museo Magnin.

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PROFILO STORICO

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

FEDRO NEL TEMPO CALPURNIO SICULO NEL TEMPO BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Poesia e cultura nell’età giulio-claudia C. De Meo, Stile e poesia nel I secolo, «Atene e Roma», 21, 1976, pp. 19-40; P.V. Cova, Lo stoico imperfetto, Società editrice napoletana Napoli 1978; G. Williams, Change and Decline. Roman Literature in the Early Empire, University of California Press, Berkeley 1978; J. P. Sullivan, Literature and Politics in the Age of Nero, Ithaca,Cornell University Press 1985; E. Cizek, La Roma di Nerone, Garzanti, Milano 1984; M. Citroni, Produzione letteraria e forme del potere. Gli scrittori latini del primo secolo dell’impero, in Storia di Roma, II/3 (L’impero mediterraneo. La cultura e l’impero), Einaudi, Torino 1992, pp. 383-435. � Manilio L’edizione di riferimento, provvista di un vasto commento ai singoli libri e di una nota sulla cosmologia di Manilio è Il poema degli astri, a cura di S. Feraboli-E. Flores-R. Scarcia, vol. I (libri I-II), vol. II (libri III-V), Fondazione Lorenzo VallaArnoldo Mondadori editore 1996-2001). Sulla struttura dell’opera: E. Romano, Struttura degli «Astronomica» di Manilio, Palermo 1979. Sul rapporto con il principato: E. Flores, Dal fato alla storia: Manilio e la sacralità del potere augusteo fra poetica e ideologia, «Vichiana», 11, 1982, pp. 109130. � Germanico Ancora non esiste un’edizione italiana dei Fenomeni di Germanico. Per il testo, si può attingere a Germanico,

Phaenomena, a cura di A. Le Boeuffle, Les Belles Lettres, Paris 1975. Tra gli studi: C. Santini, Il segno e la tradizione in Germanico scrittore, Cadmo, Roma 1977; AA.VV., Germanico. La persona, la personalità e il personaggio nel bimillenario della nascita (Atti del Convegno di MacerataPerugia, 9-11 maggio 1986), a cura di G. Bonamente e M.P. Segoloni, Roma 1987. Fedro Edizioni con traduzione italiana: A. Richelmy, Einaudi, Torino 1968 (con ottima introduzione di Antonio La Penna); L. Montanari, Rusconi, Milano 2016 (con un saggio introduttivo di P. Corradini); F. Solinas, Mondadori, Milano 2019. Per il rapporto con la tradizione esopica: G. Pisi, Fedro traduttore di Esopo, La Nuova Italia, Firenze 1977. Calpurnio Siculo Calpurnio Siculo, Egloghe, a cura di M. A. Vinchesi, Rizzoli (BUR), Milano 1996 (con ottima introduzione). Sui carmi politici ed encomiastici dell’opera: M.D. Spadaro, Sulle Ecloghe politiche di Tito Calpurnio Siculo, Edigraf, Catania 1969. Sulla lingua e lo stile di Calpurnio: A. Novelli, Il linguaggio di Calpurnio Siculo, Milella, Lecce 1980. Priapea L’edizione di riferimento, con ampio commento ai singoli testi, è Carmina Priapea, a cura di E. Bianchini, Rizzoli (BUR), Milano 2001. Persio Le Satire, a cura di S. Vollaro, Einaudi, Torino 1971 (con-

tiene in appendice la storica traduzione, con note al testo, di Vincenzo Monti); Satire di Persio e Giovenale, a cura di P. Frassinetti e L. Di Salvo, UTET, Torino 1979; Satire, traduzione di E. Barelli, Rizzoli (BUR), Milano 1979 (con un ottimo saggio introduttivo di A. La Penna e una premessa al testo di F. Bellandi); Satire, a cura di M. Veronesi, prefazione di D. Monda, Medusa, Milano 2012. Nella vasta bibliografia critica si segnalano: M. Squillante, Persio. Il linguaggio della malinconia, D’Auria, Napoli 1995; F. Bellandi, Persio: dai «verba togae» al solipsismo stilistico, Pàtron, Bologna 1996; J. Pià, Perse poète stoicïen, «Camenae», 1, janvier 2007. � Lucano La Farsaglia, a cura di L. Griffa, introduzione di G. Pontiggia, Adelphi, Milano 1967; La guerra civile o Farsaglia, introduzione e traduzione di L. Canali, con premessa e note al testo di R. Badalì, Rizzoli (BUR), Milano 1981. Studi: E. Narducci, La provvidenza crudele. Lucano e la distruzione dei miti augustei, Giardini, Pisa 1979; ID., Un’epica contro l’impero. Interpretazione della «Pharsalia», Laterza, RomaBar i 2002; G.B. Conte, Mutamento di funzioni e conservazione del genere. Stile e forma della «Pharsalia», in Memoria dei poeti e sistema letterario, Sellerio, Palermo 2012.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

Sintesi

PROFILO STORICO

S

Poesia nell’età giulio-claudia Dopo la grandiosa fioritura poetica dell’età augustea, gli anni del principato di Tiberio (14-37 d.C.), di Caligola (37-41 d.C.) e di Claudio (41-54 d.C.) coincidono con una fase di stagnazione creativa: unica novità, le favole di Fedro; nei primi anni dell’età tiberiana vengono composti i poemi astronomici di Manilio e Germanico. Nel clima di servilismo e di repressione che caratterizza la nuova età imperiale, con il tramonto del mecenatismo, i rapporti fra gli uomini di cultura e il potere si riducono ai due estremi dell’encomio e del conflitto. L’ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia, Nerone (54-68 d.C.), riprende a promuovere le arti e la cultura. L’età neroniana conosce una nuova e originale fioritura poetica di altissimo livello, che abbraccia una grande varietà di generi: la poesia bucolica di Calpurnio Siculo, le satire di Persio, il poema epico-storico di Lucano, il teatro tragico di Seneca. Nella ricerca di nuove soluzioni formali prevale uno stile anticlassico, espressionistico, “baroccheggiante”. Il progetto assolutistico di Nerone suscita ben presto forme di resistenza e ribellione nella nobilitas senatoria. Il dissenso trova il suo fondamento nella filosofia stoica. Gli Astronomica di Manilio sono un poema didascalico composto dopo il 9 a.C. Il primo libro tratta dell’origine dell’universo e degli astri; gli altri quattro illustrano la dottrina astrologica (i segni dello zodiaco, gli oroscopi, gli influssi degli astri sul mondo umano). Il principale modello di Manilio è il De rerum natura di Lucrezio, ma antilucreziana è la visione del mondo, stoica e non epicurea: nella sua profonda unità, l’universo è governato da una mente divina e provvidenziale. Quanto ci è pervenuto degli Aratea di Germanico (725 esametri) consiste in una traduzione-rielaborazione della prima sezione dei Fenomeni di Arato, dedicata alla descrizione delle costellazioni e dei fenomeni celesti. Il poemetto si presenta come un elegante esercizio letterario svolto secondo i precetti delle poetiche alessandrine e neoteriche. Fedro, nato in Macedonia intorno al 20 a.C., scrisse cinque libri di Fabulae in versi senari giambici; va considerato l’inventor del genere in lingua latina. Il suo modello è il patrimonio favolistico greco, tramandato sotto il nome del leggendario Esopo. I protagonisti delle favole di Fedro sono animali umanizzati e parlanti, che incarnano tipi fissi, ai quali si aggiungono – diversamente dalla tradizione greca – personaggi umani, attinti alla cronaca e

all’attualità. Dai brevi racconti, l’autore trae un esplicito messaggio di ammaestramento morale. Ma la sua visione del mondo è amara e pessimistica; la società degli uomini è consegnata alla legge naturale dei rapporti di forza. Calpurnio Siculo è l’autore di sette Eclogae bucoliche, composte nei primi anni del principato di Nerone. Nella raccolta spiccano tre componimenti politico-encomiastici, incentrati sull’avvento di una nuova età dell’oro, di cui è garante il giovane princeps, celebrato quale deus. L’autore si mantiene fedele al codice bucolico di ascendenza teocritea e virgiliana, nell’ambientazione delle vicende e nella configurazione dei personaggi; non manca tuttavia di introdurre innovazioni personali, intersecando la poesia pastorale con altri generi e altri modelli. Di Aulo Persio Flacco (34-62 d.C.) possediamo un unico libro, che raccoglie sei Satire in esametri, ognuna delle quali tratta un argomento di carattere etico ispirato alle tematiche tradizionali della dottrina stoica, più un componimento programmatico in versi choliambi. Il poeta denuncia con aggressiva intransigenza il degrado morale e civile della società contemporanea, così come rifiuta polemicamente la vacua e frivola letteratura in voga. Alle favole mitologiche contrappone una poesia della realtà, caratterizzata da un linguaggio aspro e crudo, immagini urtanti e violente, fino alla deformazione e all’oscurità. Marco Anneo Lucano nasce a Cordova, in Spagna, nel 39 d.C.; giovanissimo, è ammesso nella cerchia degli intimi di Nerone. Dopo il 60 si verifica una rottura dei rapporti fra il princeps e Lucano, il quale d’ora in poi manifesta idealità repubblicane. Prende parte alla congiura dei Pisoni, scoperta e sanguinosamente repressa nel 65; riceve l’ordine di morire e si uccide tagliandosi le vene. Una sola opera ci è stata trasmessa, l’incompiuta Pharsalia o Bellum civile, un poema epico-storico che narra della guerra civile fra Cesare e Pompeo. Nonostante rielabori i dati storici in maniera selettiva e visionaria, Lucano fu accusato di aver scritto un’opera storica e non un poema epico. Di fatto nella Pharsalia il poeta opera una sistematica violazione del codice epico, soprattutto eliminando il tradizionale apparato mitologico e gli interventi degli dèi nelle vicende degli uomini, mentre ampio spazio è dato a un soprannaturale orrido e stregonesco. Dominata da una visione tragica e pessimistica, anti-provvidenzialistica e catastrofica, la Pharsalia è stata definita un’«anti-Eneide». Nella sistematica esasperazione di tutte le forme espressive, il poeta mira a creare uno stile sublime, caratterizzato da un pathos aspro e violento.

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Percorso antologico Fedro Fabulae T1 T2

La favola del lupo e dell’agnello (I, 1) Un aneddoto di attualità (II, 5)

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Persio Choliambi T3

Una dichiarazione di poetica

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Il proemio (I, 1-37) Le influenze zodiacali sulle diverse regioni del corpo (II, 448-465)

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O curas hominum, o quantum est in rebus inane! (I) Malattie del corpo e malattie dell’animo (III, 60-118) Elogio del maestro Anneo Cornuto (V, 1-51) Sulla spiaggia di Luni, d’inverno (VI, 1-33)

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Lucano Pharsalia T4

«Guerre più atroci delle civili»: il proemio (I, 1-7)

Manilio Astronomica T5 T6

Persio Saturae T7 T8 T9 T10

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Lucano Pharsalia T11 T12 T13 T14 T15

La quercia ed il fulmine (I, 129-157) Macabro rito di necromanzia (VI, 719-729; 750-821) Cesare contempla il campo di Farsalo dopo la strage (VII, 786-846) La virtù di Catone (IX, 378-410) «Al nume non occorrono parole» (IX, 544-586)

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

Manilio T5 T6

Il proemio

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Astronomica I, 1-37

Le influenze zodiacali sulle diverse regioni del corpo

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Astronomica II, 448-465

Persio T7

O curas hominum, o quantum est in rebus inane!

Saturae I

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T 8 Malattie del corpo e malattie dell’animo PERCORSO ANTOLOGICO

Saturae III, 60-118 LATINO ITALIANO

Nota metrica: esametri.

Il poeta si rivolge a un giovane dedito a una vita di ozi e di piaceri, esortandolo ad affidarsi per tempo alle cure della filosofia, intesa come medicina dell’anima. Non vale curarsi quando la malattia è ormai degenerata: dobbiamo prendere coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male prima che i vizi annientino la nostra volontà. 60

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Est aliquid quo tendis et in quod dirigis arcum, an passim sequeris corvos testaque lutoque securus quo pes ferat atque ex tempore vivis? Helleborum frustra, cum iam cutis aegra tumebit, poscentis videas; venienti occurrite morbo et quid opus Cratero magnos promittere montis? Discite o miseri, et causas cognoscite rerum: quid sumus et quidnam victuri gignimur, ordo quis datus aut metae qua mollis flexus et unde,

Ma c’è qualcosa che ti interessa al mondo e a cui tendi l’arco, oppure vai dietro ai corvi tirando sassi e zolle come ti capita, senza chiederti dove vadano i tuoi piedi, vivendo così alla giornata? Puoi ben vedere che è inutile chiedere l’elleboro quando già la pelle si è ammalata e gonfiata; la malattia va affrontata sul nascere, altrimenti a che serve promettere mari e monti a Cratero? Istruitevi, o infelici, e rendetevi conto dell’origine delle cose! Che cosa siamo, per quale ragione veniamo generati alla vita, qual posto ci è dato nel mondo, come e da qual punto possiamo più agevolmente girare attorno alla meta, quale 63. Helleborum: erba dotata di virtù medicinali; veniva usata fra l’altro per curare l’idropisia.

65. Cratero: noto medico vissuto ai tempi di Cicerone (ad Att. XII, 13, 1) e di Orazio (Sat. II, 3, 161).

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68. metae: la colonnetta conica intorno alla quale giravano i carri durante le corse del circo.


PERCORSO ANTOLOGICO

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quis modus argento, quid fas optare, quid asper utile nummus habet, patriae carisque propinquis quantum elargiri deceat, quem te deus esse iussit et humana qua parte locatus es in re? Disce nec invideas quod multa fidelia putet in locuplete penu defensis pinguibus Umbris et piper et pernae, Marsi monumenta clientis, maenaque quod prima nondum defecerit orca. Hic aliquis de gente hircosa centurionum dicat: «quod sapio, satis est mihi; non ego curo esse quod Arcesilas aerumnosique Solones obstipo capite et figentes lumine terram, murmura cum secum et rabiosa silentia rodunt atque exporrecto trutinantur verba labello, aegroti veteris meditantes somnia, gigni de nihilo nihilum, in nihilum nil posse reverti. Hoc est quod palles? cur quis non prandeat hoc est?». His populus ridet multumque torosa iuventus ingeminat tremulos naso crispante cachinnos. «Inspice, nescio quid trepidat mihi pectus et aegris faucibus exsuperat gravis halitus, inspice sodes».

misura dobbiamo dare alla ricchezza, che cosa è bene desiderare, a che può servire una ruvida moneta, quanto dobbiamo dare alla patria e ai cari parenti, come volle la divinità che tu fossi, con quale funzione sei stato collocato fra gli uomini? Questo impara; e allora non proverai più invidia per i molti orci che puzzano nella dispensa arricchita dalle cause sostenute in difesa di grassi umbri, e per il pepe e i prosciutti regalati da qualche cliente marsico, o per le sardelle salate che ancora empiono fino all’orlo il barile! A questo punto, qualcuno della razza caprina dei centurioni potrebbe dire: «Quel che io so mi è più che sufficiente; non m’interessa affatto diventare sapiente come Arcesilao o come quei poveri Soloni, che vanno sempre con la testa bassa e gli occhi ficcati per terra, masticando fra sé e sé, in un rabbioso silenzio, continui borbottii, mentre, sporgendo il labbro, vi appendono le parole come se volessero pesarle a una bilancia, e meditano le fantasie del famoso vecchio malato, che cioè nulla nasce dal nulla e nulla può ridursi a nulla. È questo che ti rende così pallido? È questo il motivo per cui qualcuno salta addirittura il pasto?». A sentir ciò la gente ride e i giovanotti nerboruti, arricciando il naso, raddoppiano le loro tremule sghignazzate. 74-75. Umbris... Marsi: popolazioni centro-italiche. 77. gente hircosa: che puzza di capra. 79. Arcesilas... Solones: Arcesìlao, fon-

datore della media Accademia, visse nel III secolo a.C.; Solone è il legislatore ateniese vissuto tra il VII e il VI secolo a.C. I due nomi sono citati a casaccio dal

centurione. 83-84. gigni... reverti: principio basilare della fisica epicurea. Il «famoso vecchio malato» è Epicuro.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

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PERCORSO ANTOLOGICO

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Qui dicit medico, iussus requiescere, postquam tertia conpositas vidit nox currere venas, de maiore domo modice sitiente lagoena lenia loturo sibi Surrentina rogabit. «Heus bone, tu palles». «Nihil est». «Videas tamen istud, quidquid id est; surgit tacite tibi lutea pellis». «At tu deterius palles; ne sis mihi tutor; iam pridem hunc sepeli: tu restas». «Perge, tacebo». Turgidus hic epulis atque albo ventre lavatur, gutture sulpureas lente exhalante mefites. Sed tremor inter vina subit calidumque trientem excutit e manibus, dentes crepuere retecti, uncta cadunt laxis tunc pulmentaria labris. Hinc tuba, candelae tandemque beatulus alto conpositus lecto crassisque lutatus amomis in portam rigidas calces extendit. At illum hesterni capite induto subiere Quirites. Tange miser venas et pone in pectore dextram: nil calet hic; summosque pedes attinge manusque:

«Visitami, perché, non so, ho delle palpitazioni nel petto e l’alito dalla gola malata mi vien fuori così pesante... visitami, ti prego...». Questo dice al medico e quello gli prescrive riposo; ma poi, quando, dopo tre notti, s’accorge che il sangue ha ripreso a scorrere regolarmente, stai certo che subito manderà a prendere da chi ne ha più di lui un fiaschetto di dolce Sorrento da bere prima del bagno. «Mio caro, tu sei pallido». «Non è nulla». «Stai comunque attento: tu non te ne accorgi, ma la pelle ti si sta gonfiando e ti diventa gialla». «Ma se tu sei più pallido di me! non farmi da tutore; l’ho già seppellito da un pezzo il mio: ora rimani tu». «Continua pure come ti pare; non dirò più nulla». E così, gonfio di crapula, cala in bagno il ventre biancastro, mentre dalla gola esalano lentamente miasmi sulfurei; ma poi, quando riprova a bere, lo assale un tremito e gli fa cadere dalle mani la coppa di vin caldo; i denti scoperti sbattono insieme, e dalle labbra dischiuse rigurgitano unti i cibi. Quindi le trombe, i ceri, e finalmente il nostro beato eroe giace composto sul cataletto, ben spalmato di grassi unguenti, e stende verso la porta i rigidi calcagni. E così lo portano via, col loro berretto in testa, i Quiriti fatti tali alla vigilia. Toccati il polso, o disgraziato, poni pure la mano sul petto: non scotta, è vero; toccati le estremità dei piedi e delle mani: non sono fredde. Ma se per caso vedi 94. Heus bone: la scena si sposta alle terme, dove inizia un dialoghetto tra l’ingordo e un amico, che inutilmente lo mette in guardia.

103. tuba: veniva suonata ai funerali. 106. Quirites: gli schiavi affrancati per testamento, e dunque divenuti Quiriti, cioè cittadini romani. Durante la ceri-

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monia, sul capo dei liberti veniva posto un berretto chiamato pilleus.


PERCORSO ANTOLOGICO

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non frigent. Visa est si forte pecunia sive candida vicini subrisit molle puella, cor tibi rite salit? Positum est algente catino durum olus et populi cribro decussa farina; temptemus fauces: tenero latet ulcus in ore putre, quod haut deceat plebeia radere beta. Alges, cum excussit membris timor albus aristas; nunc face supposita fervescit sanguis et ira scintillant oculi dicisque facisque quod ipse non sani esse hominis non sanus iuret Orestes.

del denaro o se la candida fanciulla del tuo vicino ti fa un dolce sorriso, ti batte regolarmente il cuore? Se ti si imbandisce su di un piatto freddo una legnosa insalata di legumi o un panaccio di farina malamente setacciata, provati un po’ a mangiare: nella tua bocca delicata è nascosta un’ulcera putrida, che non puoi sfiorare con bietola plebea. T’agghiacci, se la pallida paura t’ha drizzato tutti i peli del corpo: ed ora invece il sangue ti ribolle come se tu gli avessi posto sotto una fiamma, per il furore gli occhi ti scintillano, e dici e fai cose che lo stesso Oreste, nella sua follia, giurerebbe essere di un folle. (trad. di E. Barelli) 118. Orestes: figlio di Agamennone e di Clitennestra, che uccise la madre per

vendicare il padre e fu poi perseguitato dalle Erinni.

LETTURA e INTERPRETAZIONE Struttura e sviluppo del testo

Si osservino quattro sequenze fondamentali: 1) ammonimenti del poeta al giovane dissoluto (vv. 60-76); 2) intervento di un rozzo centurione che disprezza la filosofia e rappresenta il punto di vista del volgo (vv. 77-87); 3) un ciclo di brevi scene esemplari riguardanti un uomo ricco e ingordo che cade malato, non sa rinunciare al proprio vizio e infine muore turpemente (vv. 88-106); 4) nuovi ammonimenti al giovane dissoluto: non esistono solo le malattie del corpo ma anche quelle dell’anima – avarizia, lussuria, golosità, paura, ira (vv. 107-118).

Potenza rappresentativa e intransigenza moralistica

L’uso della tecnica dialogica, la tonalità aspra e grottesca delle immagini, la precisione naturalistica dei particolari (si leggano in particolare i vv. 99-102), la densità e la rapidità dei trapassi conferiscono vivacità e potenza rappresentativa alla pagina. Siamo ben lontani dalla bonaria indulgenza della satira oraziana: l’intransigenza moralistica, lo sdegno aristocratico di Persio trapelano dalle caricature stravolte e ripugnanti dei personaggi (la puzza del centurione; l’alito greve dell’ingordo, cui cadono, nel momento della morte, unti bocconi dalle labbra; l’ulcera nascosta nella bocca del giovane al quale è indirizzata la satira).

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

T 9 Elogio del maestro Anneo Cornuto Saturae V, 1-51 ITALIANO

La satira quinta è dedicata all’esposizione della dottrina stoica e alla definizione del concetto di libertas, interpretato come libertà dai vizi e dalle passioni. Persio giunge tuttavia all’argomento solo dopo un lungo proemio dialogico, nel quale compare la figura autorevole e rassicurante di Anneo Cornuto, che lo aveva avviato giovanissimo alla filosofia. Inizialmente (vv. 1-4), l’autore ricorda che è costume dei vati invocare lo stile sublime della tragedia (v. 3) e dell’epica (v. 4). Un interlocutore (probabilmente lo stesso Cornuto) lo ammonisce tuttavia, in versi che assumono il valore di un’esplicita dichiarazione di poetica, a usare un linguaggio semplice, parole comuni (verba togae) atte a colpire il vizio e la corruzione (vv. 5-18). Persio si dice pienamente d’accordo, ma ribadisce la sua aspirazione a uno stile più alto, capace di esprimere tutta la riconoscenza che prova per il maestro (vv. 19-29). Infine (vv. 30-51), rievoca in versi affettuosi e ispirati la propria adolescenza, illuminata dalla guida filosofica di Cornuto, al quale il poeta si sente legato da uno stesso destino.

PERCORSO ANTOLOGICO

È abitudine dei poeti di invocare per sé cento voci, di augurarsi per i loro carmi cento bocche e cento lingue, sia che si tratti di una tragedia che l’attore sonoramente declamerà con faccia lugubre, sia che si debbano cantare le ferite del Parto che si strappa il ferro dall’inguine. «Dove vuoi arrivare?1 o che bocconi di così robusta poesia vuoi tu ingoiare per aver bisogno di cento gole? Chi mira al grandioso raccolga nuvole sull’Elicona2, colui per il quale bollono ancora le pentole di Progne e di Tieste, di cui dovrà spesso cenare l’inetto Glicone3. Ma tu non sospingi i venti col mantice anelante, mentre nella fornace cuoce il metallo, né gracchi rauco, fra te e te, con misterioso brontolio, non so che solenni sciocchezze, e neppure ti gonfi le guance per poi svuotarle di colpo con uno scoppio4. Tu cerchi parole comuni, abile nell’unirle con vivezza tra loro, arrotondando la bocca nella giusta misura, valente nel pungere i costumi viziosi e nel colpire, con scherzo non volgare, le manchevolezze umane. Trai di qui argomento al tuo dire e lascia le mense di Micene5 con le teste e i piedi, né cerca di conoscere altro che i nostri pranzi comuni». Ma certo: io non miro affatto a che la mia pagina sia gonfia di lugubri sciocchezze e tale da dare un peso al fumo. Noi parliamo in disparte, fra noi. Ed ora a te, o Cornuto, spinto dalla Musa, io offro il mio cuore perché tu lo scruti e vegga, o dolce amico, quanta parte della mia anima è tua. Batti, tu che sai distinguere ciò che dà suono pieno dallo stucco di una lingua ipocrita. Per questo io oserei davvero

1. Dove vuoi arrivare?: l’ignoto interlocutore è con molta probabilità Anneo Cornuto, a cui il poeta si rivolgerà fra poco. 2. Elicona: monte delle Muse. «Raccogliere nuvole sull’Elicona» significa scrivere versi vuoti e retorici.

3. Glicone: un attore contemporaneo di Persio, che evidentemente era solito recitare tragedie di genere orrido e truculento. 4. Ma tu… scoppio: immagini di tono grottesco per indicare un genere di poesia roboante ed enfatica.

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5. Micene: ancora un’allusione al mito di Atreo e di Tieste, al quale, concluso il fiero pasto, furono mostrati teste e piedi dei figli cucinati.


PERCORSO ANTOLOGICO

augurarmi cento gole, per dirti con pura voce quanto io t’abbia dentro di me, nei recessi del mio cuore, e perché le mie parole potessero rivelarti a pieno quanto di indicibile è nascosto nelle mie più intime fibre. Non appena la toga pretesta cessò di custodire la mia timidezza e io donai la mia bolla appendendola ai Lari succinti, quando compiacenti compagni e la toga ormai candida mi permisero di gettare il mio sguardo impunemente per tutta la Suburra6, in quell’età in cui la strada è ancora incerta e l’inesperienza della vita che spinge all’errore conduce le menti inquiete a sentieri che si diramano in varie direzioni, a te io mi affidai; ché tu sempre accogli, o Cornuto, sul tuo socratico seno7, le teneri menti. Allora il regolo, abilmente dissimulato, corregge col suo contatto le deviazioni viziose e l’animo si lascia sopraffare dalla ragione e si sforza d’esserne vinto e sotto il tuo pollice prende aspetto di opera d’arte. Ricordo che solevo passare con te lunghe giornate e con te dedicare alla cena le prime ore della notte. Così ancora noi due disponiamo insieme le ore del lavoro e del riposo e interrompiamo le severe meditazioni con una parca mensa. Non dubiterai certo di questo, che i nostri giorni corrano, per legge ferma, su di una stessa via, guidati da una stessa stella: o la Parca verace ha sospeso le nostre vite alla Bilancia in equilibrio oppure l’attimo della nascita, propizio alla fedeltà, divide i nostri fati concordi fra i Gemelli e noi, con Giove benigno, spezziamo insieme l’influsso nefasto di Saturno8. Non so quale sia, ma è certamente un astro che mi rende simile a te. (trad. di E. Barelli)

6. Non appena… Suburra: all’età di diciassette anni i giovani romani abbandonavano la toga pretesta orlata di porpora per vestire la candida toga virile. Nella stessa occasione deponevano anche la bulla, un pendaglio d’oro che portavano al collo, dedicandola ai Lari (detti «succinti» perché solitamente rappresentati

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come giovani dèi agili in tunica corta). La Suburra era un quartiere popolare fra il Quirinale e l’Esquilino, notoriamente frequentato da gente di malaffare, dedita a loschi traffici. 7. socratico seno: l’espressione sottolinea il carattere maieutico e pedagogico dell’insegnamento di Cornuto.

Sulla spiaggia di Luni, d’inverno

Saturae VI, 1-33

8. o la Parca… Saturno: le tre Parche reggevano la vita degli uomini. I riferimenti agli influssi astrali erano comuni alla cultura contemporanea: la costellazione della Bilancia indicava equilibrio e armonia; gli influssi di Giove erano ritenuti benefici, quelli di Saturno nefasti.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

Lucano T 11 La quercia ed il fulmine Pharsalia I, 129-157 LATINO

PERCORSO ANTOLOGICO

ITALIANO

Nota metrica: esametri.

Prima di dare inizio al racconto, Lucano si sofferma a esaminare le cause della guerra civile. Un fatale destino di decadenza incombe su Roma, che crolla sotto il peso della sua stessa grandezza: in se magna ruunt (I, 81). L’invidia della Fortuna ha condotto la città signora del mondo a divenir preda di tre padroni. Ma «il potere non tollera spartizioni» (I, 94): per breve tempo durò la concordia discorde dei capi; l’unico ostacolo che ancora si frapponeva alla guerra civile era Crasso. La sua morte ha lasciato l’uno di fronte all’altro Cesare e Pompeo, pronti a ripetere il gesto fratricida che macchia di sangue le origini della città. Il poeta presenta i condottieri rivali in due suggestivi ritratti, affidati alla potenza espressiva e visionaria di due immagini antitetiche: Pompeo viene assimilato a una quercia sacra e antichissima, venerata dalle genti ma ormai spoglia e vacillante; Cesare a un fulmine che infuria con irresistibile violenza, seminando il terrore e la strage [ Leggere un testo critico, p. 86]. La simmetria della composizione è perfetta: entrambi i ritratti occupano un numero di versi esattamente identico (14 e mezzo), a sua volta equamente diviso in due parti (elencazione delle peculiari caratteristiche del personaggio; sviluppo ampio e articolato della similitudine).

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Nec coiere pares. Alter vergentibus annis in senium longoque togae tranquillior usu dedidicit iam pace ducem, famaeque petitor multa dare in vulgus, totus popularibus auris inpelli, plausuque sui gaudere theatri, nec reparare novas vires, multumque priori credere fortunae. Stat, magni nominis umbra, qualis frugifero quercus sublimis in agro exuvias veteris populi sacrataque gestans dona ducum; nec iam validis radicibus haeret, Né si scontrarono alla pari: l’uno al declinare degli anni in vecchiaia, meno impetuoso per il lungo uso della toga, ha già disappreso nella pace la parte del condottiero, e assetato di gloria, molto concedeva al volgo, si lasciava spingere interamente dal favore popolare e si compiaceva degli applausi del suo teatro, non preparava nuove forze e si affidava molto alla fortuna passata. Si erge, ombra d’un grande nome, quale una quercia maestosa su un fertile terreno adorna delle spoglie d’un popolo antico e delle sacre offerte dei capi, non si abbarbica più con forti radici,

130. togae... usu: l’esercizio delle magistrature civili, contrapposte ai comandi militari.

133. sui... theatri: il primo teatro in muratura di Roma, fatto costruire da Pompeo e inaugurato nel 55 a.C.

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PERCORSO ANTOLOGICO

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pondere fixa suo est, nudosque per aera ramos effundens, trunco non frondibus efficit umbram; sed quamvis primo nutet casura sub Euro, tot circum silvae firmo se robore tollant, sola tamen colitur. Sed non in Caesare tantum nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus stare loco, solusque pudor non vincere bello; acer et indomitus, quo spes quoque ira vocasset ferre manum, et nunquam temerando parcere ferro, successus urguere suos, instare favori numinis, inpellens quidquid sibi summa petenti obstaret, gaudensque viam fecisse ruina. Qualiter expressum ventis per nubila fulmen aetheris inpulsi sonitu mundique fragore emicuit rupitque diem populosque paventes terruit obliqua praestringens lumina flamma; in sua templa furit, nullaque exire vetante materia magnamque cadens magnamque revertens dat stragem late sparsosque recolligit ignes. ristà sul suo peso effondendo nell’aria i nudi rami, ombreggia soltanto con il tronco, non con le fronde; ma sebbene oscilli sul punto di cadere al primo soffio dell’Euro e si levino intorno tanti solidi alberi, tuttavia essa soltanto è venerata. In Cesare non era solo un nome, una gloria di capo, ma un valore instancabile, ed unica vergogna vincere senza combattere; fiero e indomito, dovunque lo chiamava la speranza o l’ira, portava la mano, e mai risparmiava il ferro nell’offesa, incalzava la vittoria, sforzava il favore divino, avventandosi su qualunque cosa ostacolasse la sua brama di dominio e compiacendosi di essersi aperto la via seminando rovine. Così il fulmine sprigionato dai venti attraverso le nubi balena fra lo strepito dell’etere percosso e il fragore dell’universo, e squarcia il giorno e atterrisce i popoli tremanti, accecandoli con la fiamma guizzante; infuria negli spazi celesti, e poiché nessuna materia si oppone al suo scatenarsi, piombando e impennandosi infligge una grande, vasta strage e riunisce i fuochi sparsi. (trad. di L. Canali)

138. nec... haeret: richiamo allusivo a un passo dell’Eneide (IV, 441-446), do-

ve l’eroe virgiliano è paragonato a una quercia incrollabile, saldamente ancora-

ta al terreno da profonde radici.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

Leggere un TESTO CRITICO Il simbolismo della quercia e del fulmine

PERCORSO ANTOLOGICO

Secondo un procedimento caratteristico non tanto dell’epica quanto della storiografia antica (da Tucidide a Sallustio a Livio), Lucano, mentre presenta i due personaggi principali del suo poema, istituisce fra loro un confronto (sýnkrisis). Ma gli strumenti cui si affida sono, com’è naturale, quelli propri della poesia:

Ritratto di Cesare, I secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

la potenza suggestiva e sintetica delle immagini, la vertiginosa condensazione espressiva, la capacità della parola poetica di dare evidenza assoluta al non-detto per via allusiva e simbolica. Si leggano le seguenti pagine di Emanuele Narducci, che si concentra in particolare sulle similitudini della quercia e del fulmine.

La sýnkrisis dei due contendenti contrappone a un Pompeo ormai incapace di iniziativa l’instancabile energia che Cesare dispiega nel tentativo di affermare la propria supremazia (I, 143-150). La lunga serie di infiniti che scandisce l’ascesa di Cesare verso il sommo potere si riassume in un finale quasi ex aprosdokétu [«a sorpresa»]: egli gode di aprirsi la strada attraverso la distruzione. Nell’esasperato attivismo del comandante già i contemporanei avevano talvolta visto qualcosa di spaventoso; il carattere fulmineo delle sue decisioni e delle sue azioni poteva ben dare l’impressione che egli, più che da un ponderato calcolo razionale, spesso si lasciasse guidare dall’ispirazione momentanea, addirittura dalla temerarietà. In questa interpretazione, tuttavia, nessuno sembra essersi spinto tanto in là quanto Lucano: nella Pharsalia Cesare conquista una sua malefica grandezza, assurgendo a vera e propria incarnazione del furor che la Fortuna scatena contro l’antica potenza di Roma: la ruina provocata dal suo passaggio trova un adeguato corrispondente nell’infuriare del fulmine (I, 155-157). Subito prima Pompeo è stato paragonato a una quercia secca, poco salda sulle sue radici, alla cui immobilità ora si contrappone il saettante balenare del fulmine; questo è quanto il testo afferma esplicitamente: ma le due similitudini si integrano a distanza, suggerendo al lettore una nuova immagine, quella della folgore che finirà per abbattersi sul tronco ormai spoglio. [...] Al frenetico attivismo di Cesare si contrappone una relativa passività da parte di Pompeo: sazio del proprio soprannome e delle glorie precedenti, soprattutto intento a captare i favori popolari, questi ha ormai praticamente dimenticato le arti del comando militare e non cura quasi più di fornire nuovi sostegni al proprio potere; è, insomma, l’eroe in declino (I, 135-143). Il simbolismo della similitudine è piuttosto trasparente: l’immagine della quercia è preparata dall’ambiguità del termine umbra, che, riferito una prima volta, in senso traslato, a Pompeo («ombra di un grande nome», ma anche «del nome di Magnus») passa immediatamente a significare, in senso proprio, l’ombra della pianta; ma si tratta, è bene sottolinearlo, di un’ombra prodotta dal nudo tronco, ormai privo delle foglie, che si erge in mezzo a un terreno fertile, dove le altre piante prosperano rigogliosamente; al tronco stanno affissi i cimeli di un antico popolo e le offerte votive dei suoi condottieri: la vecchia quercia si fa così simbolo di una passata grandezza, che non è solo di Pompeo, ma anche del populus Romanus che tende a riconoscersi nel suo eroe. Nella contrapposizione dell’albero ormai privo di radici, pencolante sotto i colpi del vento, alle silvae che con saldo fusto gli si levano intorno, la similitudine

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PERCORSO ANTOLOGICO

rovescia un noto topos letterario tendente a sottolineare l’incrollabilità dell’eroe. Così, un celebre passo virgiliano descrive Enea che, decisa la partenza, si mostra inflessibile alle suppliche di Didone (Aen. IV, 441-446). [...] Proprio l’insistenza sulla senilità politica e militare di Pompeo e sulla sua passività nei confronti dell’incalzare di Cesare serve, paradossalmente, a una caratterizzazione in senso positivo del personaggio: dalla sýnkrisis risulta chiaro che solo la brama di potere di Cesare è responsabile della catastrofe che porterà al tracollo dell’ordinamento romano: Pompeo si limita a non voler abbandonare le posizioni precedentemente acquisite, che non esulano dall’ambito della legalità repubblicana, per quanto ne segnino il limite. (E. Narducci, La provvidenza crudele, Nistri-Lischi, Pisa 1979, pp. 91-92; 110-112)

T 12 Macabro rito di necromanzia Pharsalia VI, 719-729; 750-821 ITALIANO

Nell’imminenza dello scontro decisivo, Sesto Pompeo s’inoltra nei campi deserti di Tessaglia, a notte fonda, per interrogare la maga Erictho, impaziente di conoscere da quale parte inclini la bilancia del destino. Un sortilegio nefando e terribile avrà luogo entro un orrido scenario di rupi e di selve: la maga evocherà dai regni della morte lo spirito di un soldato affinché ritorni nel cadavere a profetizzare il futuro.

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Dette queste parole solleva il capo del morto disteso e la bocca schiumante, e ne vede l’anima eretta, atterrita dalle membra esanimi e dalla chiostra dell’antico carcere. Teme di dover rientrare nel petto squarciato, nei visceri e nelle fibre lacerate da mortale ferita. O sventurato, cui è sottratto iniquamente l’estremo privilegio della morte, il poter morire. Erictho si stupisce che ai fati si permettano tali indugi e, adirata con la Morte, frusta il cadavere immoto con un vivo serpente, attraverso fenditure della terra prodotte per incantesimo, latra contro i Mani e rompe i silenzi del regno: [...]

719. Dette queste parole: nei versi precedenti (695-718) Erictho ha pronunciato una tremenda invocazione alle divinità infernali. 721. dell’antico carcere: il corpo, secondo la dottrina orfico-pitagorica. L’immagine venne ripresa e divulgata da Platone nel Fedro e da Cicerone nel Somnium Scipionis.

724-725. cui è sottratto… il poter morire: il defunto, richiamato alla vita dal sortilegio, dovrà infatti morire una seconda volta. 727. frusta... serpente: la maga Erictho è assimilata a una delle Furie, tradizionalmente rappresentate nell’atto di sferzare i dannati con vive serpi (così Virgilio in Eneide VI, 570-572).

729. A questo punto la maga, adirata perché l’anima del defunto, atterrita, indugia a ritornare nel suo corpo straziato, pronuncia una lunga serie di terribili minacce rivolte alle divinità infere, per costringerle ad affrettare il compimento del rito; e così avviene.

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Subito il sangue coagulato si scalda, ravviva le nere ferite e scorre nelle vene fino all’estremità delle membra. Trepidano le fibre percosse nel gelido petto, e la nuova vita insinuandosi nelle midolla disavvezze si mischia alla morte. Palpitano tutti gli arti, si tendono i nervi. Il cadavere non si solleva lentamente membro per membro, dalla terra, ma ne viene respinto d’un colpo solo. Allentatesi le palpebre, riappaiono gli occhi. Non ha ancora l’aspetto di un vivo, bensì d’un morente, permangono la rigidezza e il pallore, è attonito al ritorno nel mondo. Ma ancora la bocca serrata non risuona d’un murmure: ha riavuto la lingua e la voce solo per rispondere: «Dimmi ciò che ti ordino» esclama la Tessala «e ne avrai un grande compenso: se dici il vero, t’affrancherò dai sortilegi emonii per tutta la durata del mondo; brucerò le tue membra su un tale rogo e con tale legna a formule stigie, che la tua ombra non dovrà ascoltare più scongiuri di maghi. Questo il premio della resurrezione: né parole, né erbe – con la morte data da me – oseranno interrompere il sonno del tuo lungo Lete. Ai tripodi e ai profeti degli dèi si addicono gli oscuri presagi: si allontani sicuro chiunque chiede il vero alle ombre e incontra impavido gli oracoli della dura Morte. Ma basta, ti prego, rivela i nomi e i luoghi degli eventi, col linguaggio che uso per parlare coi fati». Aggiunse un incantesimo con cui diede all’ombra il potere di sapere ciò che si chiedeva. E il mesto cadavere in pianto: «Invero» disse «non vidi i tristi fili delle Parche, richiamato dall’argine della riva appena toccata; ciò tuttavia ho potuto apprendere da tutte le ombre: una feroce discordia agita i Mani di Roma e nell’empio conflitto ha spezzato la quiete infernale. I capi divisi vennero alcuni dalle sedi elisie, altri dal mesto Tartaro; essi hanno rivelato cosa preparavano i fati: le anime beate avevano il volto afflitto: ho visto i Deci, padre

764. sortilegi emonii: arti tessaliche, cioè magiche; Haemonia è nome poetico della Tessaglia. 770. tripodi: allusione al tripode bronzeo dell’oracolo di Delfi. Erictho contrappone gli oscuri responsi degli dèi, consultati secondo i riti divinatorî ufficiali, alle risposte chiare e veritiere che

ottiene chi si rivolge alle potenze infernali. 778. appena toccata: l’anima del soldato è stata evocata non appena giunta a toccare la riva d’Acheronte. 782-783. sedi Elisie... Tartaro: nell’oltretomba i Campi Elisi erano le sedi riservate agli uomini pii e virtuosi, mentre

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i malvagi venivano sprofondati nel Tartaro, luogo di pena e di tormenti. 785. i Deci: i Publii Decii Mures, padre e figlio dallo stesso nome, avevano offerto la loro vita agli dèi inferi per la salvezza e la vittoria della patria (secondo l’antichissimo rituale della devotio).


PERCORSO ANTOLOGICO

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e figlio, anime espiatorie delle guerre, e Camillo e i Curii in lagrime, e Silla lamentarsi di te, o Fortuna; Scipione deplora la sua infausta progenie, destinata a perire sui campi di Libia, Catone il Vecchio, il nemico di Cartagine, piange la morte del nipote che non vorrà servire. Soltanto te, o primo tra i consoli, cacciati i tiranni, Bruto, ho visto lieto fra le ombre pie. Catilina esulta minaccioso, infrante e spezzate le catene, e con lui i Marii truci e i Ceteghi nudi; ho visto anche allietarsi personaggi di parte popolare, i Drusi, dalle leggi sovversive, i Gracchi dagli sfrenati progetti: applaudirono mani incatenate dagli eterni nodi d’acciaio e dal carcere di Dite; la turba dei colpevoli reclama i campi dei pii. Il signore del funebre regno spalanca le pallide sedi, e rende più aspri i macigni scoscesi e prepara il duro acciaio per le catene e il castigo del vincitore. Riporta questo conforto con te, o giovane: i Mani aspettano tuo padre e la vostra casata in un placido rifugio, in una plaga serena del regno. Riservano un luogo ai Pompeii. Non ti angustii la gloria d’una breve vita: verrà l’ora che abbatte tutti i condottieri in un colpo. Affrettatevi a morire, e fieri del grande animo, discendete dai modesti sepolcri e posate il piede sui Mani degli dèi di Roma. Resta da sapere qual tumulo bagni l’onda del Nilo o del Tevere: i capi combattono solo per una tomba. Tu non chiedere il tuo fato: te lo sveleranno le Parche, senza che parli io; ti predirà tutto, profeta più certo, il genitore Pompeo nei siculi campi,

787. Silla... Fortuna: Silla lamenta di non potersi più fregiare del soprannome di Felix («fortunato»), ora che la Fortuna ha decretato la vittoria di Cesare, esponente del partito dei populares. 788. la sua... progenie: il pompeiano Metello Scipione, che si ucciderà in terra d’Africa dopo la sconfitta di Tapso. 790. nipote: ovviamente Catone il Giovane, suicida in Utica dopo la definitiva vittoria delle armi cesariane. 792. Bruto... lieto: Lucio Giunio Bruto, colui che insieme a Collatino, cacciati i Tarquinii, fu il primo console della repubblica romana (509 a.C.), si rallegra sapendo che Marco, il suo discendente, è destinato a vendicare ben presto la

morte della repubblica con l’assassinio di Cesare. 794. Marii... Ceteghi: plurali poetici. Si allude al Cornelio Cetègo che era stato complice della congiura di Catilina. I Cethegi sono detti nudi poiché, per tradizione familiare, solevano indossare la toga in modo da lasciare scoperta una spalla. 796. Drusi: ancora un plurale poetico per indicare Livio Druso, tribuno della plebe nel 91 a.C., che tentò di rinnovare le proposte di riforma dei Gracchi. 798. Dite: altro nome di Plutone o Ade, signore degli Inferi. 798-799. la turba... i campi dei pii: la turba dei dannati, tutti sovversivi che

attentarono alla sicurezza dello Stato, reclama ormai il premio negli Elisi, forte della sovversione che vede trionfare nel mondo. 802. il castigo del vincitore: allusione alla morte violenta di Cesare (come ai vv. 805-806). 809. degli dèi di Roma: verso di non facile interpretazione; potrebbe trattarsi di un’ulteriore allusione all’assassinio di Cesare, prontamente divinizzato post mortem. 811. del Nilo o del Tevere: l’Egitto e Roma, i luoghi dove Pompeo e Cesare incontreranno la morte. 814. nei siculi campi: non si sa a quale episodio il poeta intendesse riferirsi.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

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anch’egli tuttavia incerto dove chiamarti o respingerti, quali terre o costellazioni ordinarti di evitare. Temete, o sventurati, l’Europa, la Libia e l’Asia: la Fortuna ha assegnato le tombe ai luoghi dei vostri trionfi; o stirpe miseranda, in tutto il mondo non vedrai nulla più sicuro dell’Emazia». Così predetti i destini, ristà mesto in volto e chiede in silenzio la morte. (trad. di L. Canali)

PERCORSO ANTOLOGICO

817. Temete... e l’Asia: i Pompeii, che sopravviveranno alla battaglia di Farsalo (cfr. vv. 819-820), andranno incontro alla loro fine altrove: Gneo Pompeo fi-

glio cadrà a Munda, in Spagna (Europa), Pompeo Magno sarà trucidato in Egitto (Libya, cioè Africa), Sesto Pompeo a Mileto (Asia).

John Hamilton Mortimer (1740-1779), La strega Erichto, part. da Sesto Pompeo consulta Erichto prima della battaglia di Farsalo, olio su tela.

LETTURA e INTERPRETAZIONE Un rito empio e terribile

Ai piedi di una rupe scoscesa, dove si aprono precipizi chiusi da livide selve, fra «marcide ombre e muffe verdastre» la maga, simile a una Furia nell’aspetto, cinta le chiome di serpi, celebra un rito empio e terribile: aperte nuove ferite nel cadavere di un soldato insepolto, le riempie di ogni sorta di orridi ingredienti magici, quindi invoca, dapprima con voci dissonanti e inumane, poi con formule intelligibili, gli dèi dello Stige perché permettano all’anima, appena strappata alla luce, di ritornare temporaneamente nel corpo e di svelare il futuro.

Un trionfo della Morte

A questo punto ha inizio la parte conclusiva (che qui riportiamo) dell’ampio episodio, con la macabra reviviscenza del cadavere e la profezia di sventura, che non investe soltanto gli ultimi difensori della repubblica, ma che minaccia rovina senza scampo ai vincitori così come ai vinti, in una visione cupa e apo-

calittica, una sorta di trionfo della Morte che sancisce la tragica inutilità delle azioni umane. Tra le reiterate allusioni alla fine violenta di Cesare, viene detto infatti, con fulmineo paradosso: «i capi combattono solo per una tomba» (v. 811).

Lo stile: esasperata ricerca del pathos

Dal punto di vista stilistico, il brano (così come tutto l’episodio) offre un esempio significativo dell’esasperata ricerca lucanea del pathos (in questo caso un cupo, inquietante orrore) attraverso l’accumulo di immagini potentemente icastiche (la luce del sole che penetra improvvisa «fra gli antri crollati», v. 743; il cadavere «respinto/ d’un colpo solo» dalla terra, vv. 756-757), di espressioni violente (la strega «latra contro i Mani», v. 729), di particolari macabri e repellenti («la bocca schiumante» di bava, v. 720; tutta la descrizione della “resurrezione”, vv. 750 sgg.), di visioni allucinate che evocano un’atmosfera surreale, da incubo, brulicante di mostri.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Dialogo con i MODELLI Il monologo della maga Erìttone nel Faust di Goethe Nel terzo atto della seconda parte del Faust (pubblicata nel 1832), il protagonista giunge a volo, insieme a Mefistofele e ad Homunculus (creatura umana prodotta artificialmente in laboratorio), sulla piana di Farsalo, dove le larve degli antichi combattenti tornano annualmente a misurarsi, attorniate dalle divinità e dalle figure mitologiche (tra cui la sfinge, i grifoni e le sirene) dell’antica Grecia. L’idea che i fantasmi dei morti in battaglia ritornassero periodicamente a combattere aveva più volte colpito l’immaginazione dei poeti romantici (si veda il Foscolo nei Sepolcri, vv. 201-212). In Goethe la rappresentazione fantastica acquista valore simbolico e conoscitivo: calando su Farsalo (da dove proseguirà verso l’Egeo, spostandosi successivamente verso Sparta e in Arcadia), Faust ha modo di compiere una sorta di personale catabasi nelle profondità del mondo classico. La scena viene introdotta da un monologo della maga tessala Erìttone, suggestiva figura lucanea cui Goethe presta i cupi colori delle streghe shakespeariane.

Alla festa atroce di questa notte, io come già tant’altre volte muovo, Erìttone, io, tenebrosa. Non orribile come gli sciagurati poeti m’hanno esagerando, effigiata... Ché non finiscono mai, coi rimbrotti e le lodi... Già impallidita m’appare laggiù la valle al flutto delle tende grige come visione remota della notte di ansia e paura. Quante volte s’è già ripetuta! E sempre tornerà in eterno, a ripetersi! Nessuno dei due l’impero cede all’altro, nessuno lo cede a chi di forza l’ha preso e con la forza domina. Chi il proprio io non sa guidare, gode di più a guidare come superbia gli detta, la volontà del suo prossimo. Qui fu però di esempio grande la battaglia: di come a maggiore violenza contrasti violenza, si laceri la cara corona di mille fiori, la libertà, l’alloro rigido cinga il capo del vincitore. Qui della sua precoce grandezza sognò i giorni fioriti [Pompeo, fisso al mobile ago dei fati Cesare la vegliò. Qui si deciderà. Ma chi vinse già il mondo lo sa. Bruciano fuochi di guardia. Fiamme rosse si [protendono, esala il campo i riflessi del sangue versato e dallo strano lume della notte stupendo attirate si adunano le schiere della leggenda ellenica. Intorno a tutti i fuochi incerte esitano o quiete di antichi evi posano figure favolose. Non piena invero la luna ma limpida s’alza, per ogni dove mite lume diffonde. Il miraggio delle tende spare, i fuochi ardono azzurri. Ma su di me che meteora inattesa? Brilla e una sfera corporea illumina. Fiuto vita. Ma non è opportuno che io m’accosti ai viventi, cui sono funesta. Mala fama a me ne viene né mi giova. Già cala giù. M’allontano cauta. (Goethe, Faust II, vv. 7005-7039, trad. di F. Fortini, Mondadori, Milano 1970)

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

2. Poesia nell’età giulio-claudia

T 13

T 14

Cesare contempla il campo di Farsalo dopo la strage

ONLINE

Pharsalia VII, 786-846

La virtù di Catone

ONLINE

Pharsalia IX, 378-410

T 15 «Al nume non occorrono parole» Pharsalia IX, 544-586

PERCORSO ANTOLOGICO

ITALIANO

Catone il Giovane, l’eroico e inflessibile difensore della legalità repubblicana, incarna nel poema, al tempo stesso, la figura ideale del sapiens stoico. In questo memorabile episodio, giunto con l’esercito stremato dalla traversata nel deserto all’oasi dove sorge il tempio di Giove-Ammone, Catone rifiuta di consultare l’oracolo del dio. Fra tanta moltitudine di genti accorse dalle più remote contrade, egli solo riparte senza interrogarlo, persuaso che il saggio porti già impressi nell’animo i valori e i princìpi etici fondamentali (espressi attraverso una martellante serie di domande retoriche ai vv. 566-571), ispirati da un’unica potenza divina, la quale, secondo la dottrina stoica, si identifica con il Lógos, l’ordine razionale e provvidenziale del cosmo. Null’altro gli è necessario sapere, e la cognizione del futuro non può in alcun modo influenzare la sua condotta. Sopra ogni cosa, è la morte a rappresentare la più certa garanzia di libertà per il saggio: di fronte ad essa, prova suprema della virtus, tutti gli altri eventi si rivelano privi d’importanza (vv. 582-584).

545

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Davanti alla porta del tempio si affollavano molte genti venute dall’Oriente per consultare l’oracolo del Giove cornigero sui nuovi destini. Ma cedettero al condottiero latino. I compagni pregavano Catone d’interrogare il dio famoso nel mondo libico: provasse quella fama di secoli. Soprattutto Labieno esortava ad apprendere il futuro dalla voce degli dèi: «La Fortuna e la sorte del nostro cammino» disse «ci hanno portato ad imbatterci nell’oracolo di tanto nume e nei responsi divini; di tale guida possiamo servirci per attraversare le Sirti e conoscere i destini della guerra.

545. Giove cornigero: nei versi precedenti il poeta ha detto: «Giunsero a un tempio, l’unico delle genti di Libia,/ posseduto dai selvaggi Garamanti; secondo la tradizione vi risiede/ Giove che rende oracoli, ma non brandisce folgori al pari/ del nostro: è un dio dalle corna ritorte, chiamato Ammone» (IX, 511-514). Il dio

egizio Ammon, già identificato dai Greci in età ellenistica con Zeus, era rappresentato sotto forma d’ariete, ovvero di uomo con la testa di questo animale. 549. Labieno: legato di Cesare in Gallia, passò successivamente dalla parte di Pompeo e morì nella battaglia di Munda (45 a.C.).

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553. le Sirti: «Sirti» erano dette due vaste insenature lungo le coste libiche (Syrtis maior e Syrtis minor, i golfi di Sidra e di Gabes), tradizionalmente considerate pericolose a causa dei fondali bassi e sabbiosi, delle frequenti tempeste e dei predoni costieri.


PERCORSO ANTOLOGICO

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Infatti a chi posso credere che i Celesti sveleranno i segreti e diranno il vero piuttosto che al santo Catone? La tua vita si è sempre attenuta fermamente alle leggi superne, e ti modelli sulla divinità. Ecco ti è data l’occasione di parlare con Giove: interrogato sui fati dell’empio Cesare, fa’ che ti sveli il futuro aspetto della patria: i popoli potranno godere del loro diritto e delle leggi, o la guerra civile è vana? Rièmpiti il cuore della divina parola. Tu almeno, amante della virtù rigorosa, domanda cos’è la virtù, chiedi la norma dell’onesto». Ma Catone, pervaso dalla divinità che portava silenziosa nell’animo, espresse dal cuore parole degne d’un oracolo: «Cosa vorresti che domandassi, o Labieno? Se voglio cadere libero in armi piuttosto che vedere la tirannide? Se la vita è nulla? e se muta, durando più a lungo? se la violenza danneggia un uomo probo? se la Fortuna cessa di minacciare contrastata dalla virtù? se basta volere cose lodevoli, e il successo accresce l’onestà? Lo sappiamo, e Ammone non lo inculcherà in noi più profondamente. Tutti aderiamo agli dèi e, anche se il tempio tace, non facciamo nulla senza il loro volere; al nume non occorrono parole; quando nascemmo, il creatore ci ha detto una volta per tutte ciò che è lecito sapere; non scelse sterili sabbie per rivelare il futuro a pochi, non seppellì il vero nella polvere; sede del dio è la terra e il mare e l’aria e il cielo e la virtù. Perché cerchiamo altrove i Celesti? Giove è qualunque cosa vedi e senti. I sortilegi occorrano ai dubbiosi e ai sempre incerti sugli eventi futuri; me, non rendono sicuro gli oracoli, ma la morte sicura. Tutti devono cadere, i pavidi e i forti. Basta che Giove abbia detto questo». Così preservò il credito del santuario, e si allontanò dagli altari, lasciando ai popoli Ammone senza nemmeno interrogarlo. (trad. di L. Canali)

Un personaggio contraddittorio: il Catone di Lucano Va osservato che nel Catone lucaneo convivono due momenti o aspetti in stridente contrasto: qui l’autore rappresenta in lui, da stoico ortodosso, «una religiosità cosmica immune da antropomorfismi» (Timpanaro), tale da suscitare l’entusiasmo di Voltaire, che ritrovava

nella risposta di Catone a Labieno una professione di deismo ante litteram. Altrove, tuttavia, il personaggio appare contrapporsi titanicamente agli dèi iniqui (nel colloquio del II libro con Bruto, vv. 285 sgg.). Nella contraddittorietà, o, se si vuole, incompiutezza del personaggio di Catone, si riflette «il tormentato rapporto fra lo stoicismo di Lucano e il suo antiteismo» (Timpanaro).

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

MAPPA POESIA NELL’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

Da Tiberio a Claudio (14-54 d.C.)

tramonto del mecenatismo poemi epico-didascalici di argomento astronomico – Manilio, Astronomica: origine dell’universo e degli astri; dottrina astrologica – Germanico, Aratea: traduzione-rielaborazione dei Fenomeni di Arato Fabulae di Fedro – genere nuovo nella letteratura latina – favole in versi – modello: il greco Esopo – protagonisti: animali umanizzati e personaggi umani – ammaestramento morale – visione pessimistica: per i deboli non c’è riscatto

Principato di Nerone (54-68 d.C.)

• • • •

il princeps riprende a promuovere le arti fioritura poetica di alto livello grande varietà di generi e nuove soluzioni espressive i poeti più rappresentativi: Calpurnio Siculo, Persio, Lucano, Seneca tragico

Eclogae di Calpurnio Siculo

• • •

poesia bucolica principali modelli: Teocrito e Virgilio motivi encomiastici: avvento di una nuova aetas aurea – elogio di Nerone, princeps e deus

Satire di Persio

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argomenti della tradizione stoica intransigente denuncia del degrado morale «funzione chirurgica» della satira rifiuto della mitologia, poesia della realtà sermo vulgaris, verba togae, linguaggio aspro e aggressivo iunctura acris: forzatura delle forme espressive, oscurità

• • • • •

poema epico-storico argomento: la guerra civile tra Cesare e Pompeo visione pessimistica della storia di Roma deformazione visionaria dei personaggi e dei fatti storici violazione del codice epico tradizionale, epica antivirgiliana soprannaturale magico, macabro e stregonesco stile: retorica eccessiva e spettacolare, pathos esasperato

• •

Pharsalia di Lucano

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Verifica finale 1 Inserisci i dati mancanti della biografia di Lucano. Marco Anneo Lucano nasce a in nel . Suo padre, Anneo Mela, è figlio di e fratello di . Compie i suoi studi a ; di ritorno dal viaggio di studio ad . , è ammesso fra gli intimi di . Dopo il , in seguito alla rottura dei rapporti con il princeps, Lucano manifesta . Prende parte alla congiura , scoperta nel ; riceve l’ordine di morire, e si uccide tagliandosi le vene.

2.

3.

4.

p._____/12

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Dopo una fase di stagnazione creativa, Nerone ritorna a promuovere le arti V|F b. La poesia dell’età neroniana segue i modelli del classicismo augusteo V|F c. Il dissenso della nobilitas senatoria si fonda sulla filosofia stoica V|F d. Nell’esordio degli Astronomica Manilio invoca secondo tradizione le Muse V|F e. Le Favole di Fedro non presentano innovazioni rispetto al modello esopico V|F f. La raccolta di Calpurnio Siculo include tre ecloghe encomiastiche V|F g. Persio polemizza aspramente contro i poeti contemporanei V|F h. La Farsaglia di Lucano è stata definita «il poema senza eroe» V|F p._____/8

Quesiti a scelta multipla

3

Indica il completamento corretto.

1. Negli Astronomica Manilio ■ traduce i Fenomeni di Arato ■ disegna una visione provvidenzialistica dell’universo

5.

■ espone i princìpi della fisica epicurea ■ non manifesta interessi filosofici Le Favole di Fedro constano di ■ 4 libri in senari giambici ■ 5 libri parte in versi vari parte in prosa ■ 5 libri in versi vari ■ 5 libri in senari giambici Nelle Eclogae Calpurnio Siculo ■ segue esclusivamente il modello virgiliano ■ canta l’avvento di una nuova età dell’oro ■ evita gli argomenti politici ■ si distanzia dal codice bucolico nel disegnare i paesaggi Lo stile delle Satire di Persio è ■ ridondante ed enfatico ■ semplice e colloquiale ■ aspro, crudamente realistico, spesso oscuro ■ prezioso, erudito, manieristico Nella Farsaglia di Lucano la narrazione si arresta ■ alla morte di Pompeo (48 a.C.) ■ alla morte di Cesare (44 a.C.) ■ ai preliminari della guerra alessandrina (48 a.C.) ■ al suicidio di Catone in Utica (46 a.C.)

Poesia nell’età giulio-claudia

Completamento

p._____/5 Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Argomenti e modelli degli Astronomica di Manilio. 2. Le Eclogae di Calpurnio Siculo: struttura della raccolta. 3. Finalità del genere favolistico secondo Fedro. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. I rapporti fra intellettuali e potere nell’età giulioclaudia. 2. Delinea un confronto fra le satire di Persio e quelle di Orazio. 3. Violazioni del codice epico tradizionale nella Pharsalia di Lucano.

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3 Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale 1 La prosa tecnica e scientifica nel I secolo d.C. Una maggiore richiesta di sapere tecnico-scientifico In età augustea, in concomitanza con le grandi trasformazioni istituzionali avviate da Giulio Cesare e completate da Ottaviano, si avverte una nuova e più matura esigenza di sapere tecnico-scientifico: Varrone scrive il De re rustica, riservando agli ultimi anni della sua vita il progetto enciclopedico delle Disciplinae; Igino compone un De agri cultura e un De apibus; Vitruvio scrive il suo importante trattato sull’architettura. L’interesse per le discipline tecnico-scientifiche era destinato a ricevere un impulso ancora maggiore nel I secolo d.C. per opera di personalità come Celso, Plinio il Vecchio, Pomponio Mela, Frontino. A ciò collaborano la maggiore prosperità economica dell’impero, con il conseguente ampliamento dei ceti alfabetizzati; la formazione di quadri intermedi nell’amministrazione della macchina statale, sempre più bisognosa di figure professionali specializzate; l’allargamento degli orizzonti sociali e intellettuali provocato dall’espansionismo romano (si pensi solo ai viaggi per mare e per terra, e alla necessità di possedere carte geografiche più precise e affidabili). 96 © Casa Editrice G. Principato


Plinio dedica la Naturalis historia a Tito imperatore I libri che ti ho dedicato rappresentano un lavoro ben poco elevato. Essi non fanno spazio all’ingegno, che peraltro è in me così mediocre, né ammettono digressioni, orazioni, discorsi, racconti di casi meravigliosi o di varie avventure, che sono ingredienti piacevoli alla stesura e gradevoli alla lettura, dal momento che arida ne è la materia: vi si tratta della natura, cioè della vita, e sotto l’aspetto meno elevato, che esige sovente l’impiego di termini rustici o stranieri, talvolta perfino barbari, tali da richiedere la premessa di una scusa. Per di più la strada per la quale mi sono messo non è familiare agli autori, né di quelle ove lo spirito brami passeggiare: nessuno tra noi mi ha preceduto, nessuno tra i Greci ha abbracciato da solo tutto questo sapere. (Naturalis historia, praefatio 12-14; trad. di A. Roncoroni)

De re coquinaria Compositiones Chorographia De re rustica Naturalis historia De aquis urbis Romae

De medicina

Valore diseguale delle opere Le opere prodotte per soddisfare questi bisogni, già di per sé eterogenei, sono diseguali nel valore come nell’impostazione: in molti casi si tratta di sbrigativi compendi ricavati da opere in lingua greca; in altri di trattati più ambiziosi, almeno nelle intenzioni. Spesso la dimensione scientifica si mescola con il gusto dei mirabilia (si veda ad esempio Plinio il Vecchio). Il procedimento compilatorio ben si accordava al tradizionale pragmatismo romano, alieno da interessi speculativi e da sempre orientato su posizioni eclettiche. Raramente gli autori dimostrano preoccupazioni di stile: la purezza linguistica di Celso è un’eccezione, non la regola. La sistematica svalutazione delle discipline pratiche relegò la prosa manualistica antica ai margini del sistema letterario, priva di un preciso statuto teorico e linguistico. Manuali ed enciclopedie Due sono i modelli che si confrontano e talvolta si intersecano: uno è quello del manuale specialistico, di derivazione greca e alessandrina, che in Roma non aveva finora goduto di particolare attenzione; l’altro è quello, tipicamente romano, dell’enciclopedia, che mira alla sintesi e all’ordinamento dei vari saperi specialistici all’interno di un progetto organico. 97 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PROFILO STORICO

La tendenza all’enciclopedismo era già evidente nei Praecepta di Catone, che erano articolati in varie sezioni: retorica, diritto, medicina, agricoltura, tecnica militare. Varrone, con le sue Disciplinae, avrebbe dettato la struttura-cardine degli studi tardo-antichi e medievali, fondati sulle arti del Trivio e del Quadrivio. A un impianto enciclopedico si rifanno, nel I secolo, sia Celso sia Plinio il Vecchio, animato quest’ultimo dal proposito di inventariare il mondo del sapere nella sua integralità. L’enciclopedismo costituisce un tratto caratteristico della cultura latina: lo si ritroverà nei Prata di Svetonio [ cap. 12.1], nelle Notti attiche di Aulo Gellio [ cap. 13.6], nel lavoro trattatistico di Apuleio [ cap. 14.2] come nei più tardi Saturnali di Macrobio [ cap. 20.6] e nel De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella [ cap. 20.7]. Più modeste, ma spesso solo in apparenza, sono le intenzioni di autori di singoli manuali: quello di Columella sull’agricoltura, di Pomponio Mela sulla geografia, di Frontino sull’arte militare, sull’agrimensura e sugli acquedotti romani, di Apicio sulla gastronomia. Sono opere come queste, tuttavia, al pari delle grandi summae enciclopediche, che alimenteranno il sapere e la curiosità del mondo occidentale fino alle soglie della rivoluzione scientifica.

2 Il progetto enciclopedico di Celso

Ricostruzione della Domus del Chirurgo, II secolo d.C. Rimini, Museo della Città.

Le Artes Negli anni di Tiberio opera Aulo Cornelio Celso, un seguace della scuola filosofica dei Sestii, autore di una vasta opera enciclopedica intitolata Artes, che comprendeva sezioni di agricoltura, medicina, arte militare, retorica, filosofia e diritto. Concepite in modo autonomo, le singole sezioni dovettero cominciare assai presto a circolare separatamente, favorendo nel corso del tempo la disgregazione dell’opera complessiva: noi possediamo solo la sezione riservata alla medicina, suddivisa in otto libri. Null’altro sappiamo dell’autore, tanto meno quale fosse la sua vera professione: forse proprio quella di medico, se è vero che alla medicina viene riservato un numero di libri maggiore che alle altre discipline (sette di retorica, sei di filosofia, cinque di agricoltura; ma resta ignoto il numero dei libri di giurisprudenza e di scienza militare). Il De medicina di Celso L’autore suddivide la materia con ordine: questioni generali e storia della medicina (libro

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3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

I), patologia (II-IV), farmaceutica (V-VI), chirurgia (VII), osteologia (VIII). Nella prefazione all’opera, Celso si muove con equilibrio e ragionevolezza tra le due posizioni dominanti nell’ambito della medicina antica, quella dei teorici e quella degli empirici. I teorici sostenevano che la guarigione dipendeva dallo studio delle cause occulte da cui traevano origine le malattie. Gli empirici fondavano invece il loro intervento sull’esperienza piuttosto che su teorie interpretative generali. Celso assume una posizione intermedia: occorre prestare attenzione ai propria, cioè agli aspetti caratteristici di ogni singolo caso; ma è necessario anche indagare le cause della malattia, limitandosi tuttavia a quelle evidenti. La fortuna Le Artes conobbero ampia fortuna in età imperiale: Columella tenne presente la sezione sull’agricoltura e Vegezio quella sulla scienza militare; Agostino lodò la sezione filosofica per lo sforzo di sintesi e di chiarezza; solo Quintiliano critica in più luoghi la sezione retorica, giudicando Celso un «uomo di mediocre ingegno» (Inst. or. XII, 11, 24). Smembrate, le Artes andarono perdute in età medievale: solo agli inizi del Quattrocento Niccolò Niccoli ne recuperò il corpus medico; l’autore fu investito del titolo assai elogiativo di medicorum Cicero per la limpidezza e la cura dello stile, forse il più alto risultato raggiunto dalla prosa tecnico-scientifica di lingua latina. Ancora Leopardi, nello Zibaldone, loderà la lingua di Celso, «vero e forse unico modello tra gli antichi e i moderni del bello stile scientifico esatto».

3 Gastronomia: il De re coquinaria di Apicio Un personaggio romanzesco Degna di un personaggio del Satyricon, almeno per quel poco che ci è dato conoscere, appare la biografia di Marco Gavio, soprannominato Apicius dal nome di un noto buongustaio vissuto verso la fine del II secolo a.C. Vive al tempo di Augusto e di Tiberio, dedito a un’esistenza di sperperi e di stravizi. Secondo il racconto di Seneca (Consolatio ad Helviam matrem 10, 8-10), dopo aver dilapidato gran parte del patrimonio per soddisfare le proprie stravaganze culinarie, preferì darsi la morte con il veleno piuttosto che vivere più modestamente. Un manuale di gastronomia Ad Apicio viene attribuita una raccolta di circa cinquecento ricette intitolata De re coquinaria («Dell’arte culinaria»), una sorta di manuale gastronomico in dieci libri destinato a chi svolgeva la professione di cuoco. L’opera, nella forma in cui ci è pervenuta, appartiene in realtà ad un’epoca assai posteriore (IV secolo), come confermano sia i riferimenti a personaggi di età successive sia i tratti linguistici della prosa. Ad Apicio si deve probabilmente solo un nucleo centrale di ricette, intorno al quale andarono man mano aggiungendosi nuove sezioni, com’è del resto naturale in un libro di carattere pratico, strutturato per accumulo. 99 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PERCORSO ANTOLOGICO

PROFILO STORICO

T 1 Un piatto di acciughe De re coquinaria IV, 2, 11 LATINO ITALIANO

Scritto in una lingua semplice ed elementare, il De re coquinaria presenta un rilevante interesse sul piano linguistico e sociale. Ci fornisce infatti preziose notizie sulle abitudini alimentari del tempo, nonché un cospicuo patrimonio di vocaboli relativi all’area semantica del cibo e degli arnesi da cucina. patina de apva:

Apuam lavas, ex oleo maceras, in cumana compones, adicies oleum, liquamen, vinum. Alligas fasciculos rutae et origani, et subinde fasciculos apobaptidiabis. Cum cocta fuerit, proicies fasciculos, et piper asperges et inferes. piatto di acciughe:

Lavare le acciughe, macerarle nell’olio, porle in un vaso di Cuma, aggiungendo olio, salsa di pesce, vino. Legare dei mazzetti di ruta e di origano, e poi lessarli con le acciughe e bagnarli con l’aceto. Quando tutto è cotto, buttare i mazzetti, cospargere di pepe e servire. (trad. di A. Bertozzi)

4 Medicina: le Compositiones di Scribonio Largo L’autore e l’opera Forse liberto originario della Sicilia, Scribonio Largo esercita con successo la professione di medico negli anni del principato di Claudio. Nel 43 partecipa alla spedizione in Britannia; l’anno successivo inizia a comporre un ricettario che viene pubblicato verso il 47-48. L’opera, intitolata Compositiones («Ricette»), raccoglie 271 ricette di vario genere: da come combattere il mal di testa a come guarire l’epilessia o lavare i denti. I doveri di un medico La parte più interessante è costituita dalla prefazione, nella quale Scribonio, rifacendosi a Ippocrate, definisce il codice deontologico del medico, improntato a misericordia e umanità. Il medico delineato da Scribonio deve impegnarsi nelle sole arti che guariscono, obbligandosi a prestare assistenza a chiunque stia male, fosse anche un pubblico nemico, ed evitando tutto ciò che potrebbe al contrario nuocere: viene fra l’altro condannata, proprio per questa ragione, ogni pratica abortiva. Linguaggio e fortuna dell’opera Il linguaggio è ricco di volgarismi che già preludono al latino delle epoche posteriori. La fortuna dell’opera fu vasta, probabilmente anche in virtù del suo carattere pratico: citato nei secoli successivi, ampiamente utilizzato ancora alla fine dell’impero, il ricettario fu epitomato in età medievale. 100 © Casa Editrice G. Principato


3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

Educazione CIVICA Salus, valetudo, humanitas ▰ La tutela della salute Attualmente il diritto

alla salute è riconosciiuto da una serie di trattati internazionali, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che all’articolo 25 sancisce che «ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia». Sempre nel 1948 l’Organizzazione Mondiale della Sanità elaborò una definizione della salute rimasta canonica: «La salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo l’assenza di malattia o infermità». Nello stesso anno la Costituzione italiana, all’articolo 32, definiva con chiarezza i termini e i limiti del diritto alla salute: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Da sottolineare come i costituenti abbiano avvertito la necessità di un equilibrio tra «diritto dell’individuo» (quindi espressione della sua libera autodeterminazione) e «interesse della collettività» (interesse generale, che in uno stato di emergenza può prevalere sulla libertà individuale) e abbiano tutelato la libertà individuale da abusi illegali, anche in tema di salute.

▰ Salus e Valetudo Nell’antica Roma naturalmente non esisteva un simile “diritto alla salute”, così come non esistevano ospedali veri e propri, ma piuttosto ambulatori (tabernae medicae) in tutto simili a laboratori artigianali: tale era la «domus del chirurgo» ritrovata a Rimini negli scavi condotti a partire dal 1989. Tuttavia era fortemente percepita l’importanza dell’igiene pubblica: in particolare si prestava attenzione alla qualità delle acque, come è testimoniato dalla cura per gli acquedotti e dalla diffusione degli stabilimenti termali. D’altra parte la cura per la salute incrociava uno dei temi prediletti della cultura romana: la vita rustica, con le sue fatiche e la sua paupertas, era spesso lodata perché più salutare di quella urbana, insidiata da mille fastidi e pericoli, fonte di malattia fisica e di turbamento psichico. Un famoso denarius del 49 a.C., coniato da un certo Manio Acilio Glabrio, presenta sul recto la testa della dea Salus e sul verso la figura intera della Valetudo che, appoggiata a una colonna, osserva un serpente. A un serpente è associato anche l’arrivo a Roma del dio Asclepio (il greco Esculapio), nel 293 a.C., a seguito di un’epidemia devastante. La dea Valetudo corrisponderebbe alla greca Igea, figlia di Esculapio:

il nome valetudo in realtà è vox media che, a seconda dell’aggettivo che l’accompagna o del contesto in cui è inserito, può indicare tanto la buona salute quanto la malattia. Valetudinaria erano chiamati sia delle specie di infermerie domestiche destinate al ricovero degli schiavi, sia degli “ospedali da campo” annessi agli accampamenti militari.

▰ Medici dalla Grecia

Incardinata nelle istituzioni romane, la salus era concetto di interesse pubblico e privato, e in quanto tale cura delle autorità, perciò, nelle singole famiglie, appannaggio del paterfamilias, che vi provvedeva attraverso pratiche rituali e antichi rimedi della tradizione popolare etrusca e centro-italica. Quando, secondo il racconto di Plinio il Vecchio, nel 219 a.C. arrivò a Roma il primo medico greco, un certo Arcagato, inevitabilmente si scatenò la reazione dei conservatori, che, dopo averlo accolto con entusiasmo, lo definirono carnifex e lo esiliarono. Catone il Vecchio parlò di una vera «congiura» dei greci attraverso i medici; la sua diffidenza riecheggia ancora nel libro XXIX della Naturalis historia, in cui Plinio traccia una sintetica e assai faziosa storia della medicina in Grecia e a Roma: Discunt periculis nostris et experimenta per mortes agunt, medicoque tantum hominem occidisse inpunitas summa est, «Imparano a nostro rischio e conducono esperimenti attraverso la morte, e soltanto per il medico l’aver ucciso un uomo è motivo di assoluta impunità» (Nat. hist. XXIX, 18). Complottismo e diffidenza “anti-scientifica” trovarono terreno fertile nella vena antiellenica che percorre a lungo la storia di Roma, anche quando ormai la cultura greca vi si era ampiamente diffusa. Tuttavia, in epoca imperiale la medicina si impose come ars, «tecnica», appresa peraltro attraverso testi specialistici e praticantato, senza un percorso di studi definito: perciò non mancavano di certo i ciarlatani, su cui ironizza Marziale (notissimo l’Epigramma I, 47 [ T9b, cap. 8]).

▰ Tecnica e humanitas In Celso e in Scribonio

Largo compare il tema dell’humanitas, dell’amicizia e della vicinanza tra medico e paziente, secondo una prospettiva tuttora assai feconda: al volto tecnico e oggettivo della medicina si affianca quello empatico e compassionevole del medico, alla pura registrazione dei sintomi si accosta l’ascolto del paziente. Atteggiamento ben descritto proprio da Celso: cum par scientia sit, utiliorem tamen medicum esse amicum quam extraneum, «a parità di competenze, è più efficace un medico che sia amico, piuttosto che estraneo» (De medicina, Proemio, 73) e ben sintetizzato da Seneca Figlio: quamvis in morbo aeger sit, non tamen idem est aeger et morbus, «benché il malato abbia una malattia, malato e malattia non sono la stessa cosa» (De beneficiis, 6, 2, 1).

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5 Geografia: la Chorographia di Pomponio Mela PROFILO STORICO

L’autore Originario della Spagna Betica, Pomponio Mela nasce a Tingèntera, una località non lontana da Gibilterra. Scrisse e operò nell’età di Caligola o di Claudio, più probabilmente di quest’ultimo. A lui si deve un trattato geografico che è il più antico in lingua latina a noi pervenuto, la Chorographı̆a (termine greco che significa “descrizione dei luoghi”), altrimenti nota con il titolo latino De situ orbis. Struttura e contenuti dell’opera L’opera è divisa in tre libri. Nell’introduzione l’autore dichiara di essersi limitato a una trattazione chiara e sintetica e di volersi prossimamente dedicare a un’opera più vasta e compiuta, di cui tuttavia non sappiamo nulla. Segue la trattazione vera e propria, una sorta di immaginaria navigazione del mondo allora conosciuto: dalle colonne d’Ercole al Ponto Eusino, percorrendo le coste dell’Africa settentrionale e dell’Asia Minore (libro I); dal Ponto Eusino fino a Cadice, lungo le coste della Grecia, dell’Italia, delle Gallie e della Spagna, con un’appendice dedicata alle isole del Mediterraneo (libro II); lungo le coste oceaniche di Spagna, Gallia, Germania e Scizia, con escursioni intorno alle isole (Britannia, Irlanda, Orcadi) e in lontane regioni di Asia e Africa escluse dalle rotte dei primi due libri (libro III). Carattere compilatorio e retorico dell’opera Pomponio Mela non si propone scopi scientifici né un vero e proprio lavoro di ricerca: si limita a compilare un’opera sulla base delle fonti esistenti, destinandola a un lettore medio non specialista. Coerente con questa impostazione, sostanzialmente retorica e letteraria, soddisfa il gusto del pubblico contemporaneo con narrazioni esotiche e mirabolanti (di Amazzoni, Iperborei, serpenti alati, stupefacenti grotte naturali), mentre imprecisi e carenti sono i dati tecnici e le misurazioni indicate. Una certa attenzione è riservata all’elaborazione espressiva: nonostante lamenti nell’introduzione di non poter far uso, dato il carattere tecnico dell’esposizione, di un linguaggio retoricamente elevato, il suo stile è ricercato, non privo di arcaismi e di poetismi, modellato sul canone sallustiano della brevitas.

Studi geografici e cartografia in Roma ▰ Espansione dell’impero e del sistema viario L’espansione dell’impero aveva richiesto un ulteriore miglioramento del sistema viario, a cui avevano provveduto sia Cesare sia Augusto. La crescente necessità di spostamenti, dovuti a motivi militari, commerciali e amministrativi, aveva anche reso indispensabile la realizzazione di carte geografiche particolareggiate e attendibili, che non si limitassero a indicare le singole località, ma anche le distanze intercalari e i tempi di percorrenza.

▰ In età augustea: la mappa di Agrippa e gli studi di Varrone Una grande mappa dell’impero era stata approntata da Vipsanio Agrippa negli stessi anni in cui il greco Strabone componeva e pubblicava i diciassette libri della sua imponente Geografia [ vol.

II, cap. 6.1]. Anche Varrone si era dedicato a studi di carattere geografico, come documentano i titoli di due opere non pervenute, De ora maritima e De litoralibus.

▰ In età imperiale: sviluppo degli studi geografici Gli interessi geografici continuarono ad essere coltivati anche nella prima età imperiale per opera di Plinio il Vecchio (nei libri III-VI della sua Naturalis historia) e soprattutto di Pomponio Mela. Va tuttavia osservato che le elaborazioni letterarie fecero scarso uso dei dati cartografici di cui il mondo romano disponeva, preferendo attingere alle fonti letterarie e manualistiche da secoli circolanti in area ellenistica.

▰ Per saperne di più Claude Nicolet, L’inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell’impero romano, Laterza, Roma-Bari 1989.

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3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

6 Agricoltura: il De re rustica di Columella Un genere illustre I trattati sull’agricoltura avevano sempre occupato nella cultura latina un posto di primo piano: si ricordino le opere in prosa di Catone il Vecchio e di Varrone, nonché le Georgiche di Virgilio. Città e campagna rappresentavano, nella mentalità romana, due modelli di vita e di pensiero contrapposti e alternativi: l’elogio della vita agricola era strettamente connesso al culto degli antichi mores. Nel I secolo d.C., si occupano di agricoltura Cornelio Celso (in una sezione perduta delle Artes), Giulio Attico (autore di una monografia sulla coltivazione della vite), Giulio Grecino (padre di quell’Agricola, al quale Tacito dedicò una biografia) e soprattutto Lucio Giunio Moderato Columella, autore di un trattato tecnico-scientifico sull’agricoltura che è il più vasto e impegnativo fra quelli antichi a noi pervenuti. La vita e le opere Columella nasce all’inizio del secolo a Gades, nella Spagna Betica, da una famiglia di tradizioni agrarie. Dopo aver prestato servizio in qualità di tribuno militare in Siria, si trasferisce definitivamente in Italia, dove intrattiene rapporti di amicizia con Celso e con Seneca. Medio proprietario terriero, possiede fondi nel Lazio, in Etruria e in Italia. Compone, per quanto sappiamo, cinque opere, fra le quali una sui rituali sacri e un’altra adversus astrologos. Ce ne rimangono solo due: i dodici libri De re rustica, scritti in età neroniana fra il 60 e il 65, e il Liber de arboribus, che alcuni hanno inteso come un’epitome, altri, forse con più ragione, come una prima stesura dei libri III-V della sua opera maggiore. I Libri de re rustica I dodici Libri de re rustica sono un trattato tecnico sull’agricoltura e sull’allevamento: nel libro I vengono esposti alcuni precetti generali che riguardano, in particolare, la scelta del sito, la posizione della villa rustica, pozzi e sorgenti d’acqua, i doveri del padrone, la distribuzione dei lavori e l’organizzazione complessiva dell’azienda; il libro II è dedicato alla coltivazione dei campi e dei prati; i libri III-V alle viti, agli ulivi, agli olmi e agli alberi da frutto; i libri VIIX all’allevamento del bestiame; il libro X è dedicato agli orti e ai giardini; i libri XI-XII, infine, ai doveri del fattore (vilicus) e della fattoressa (vilica). Una parte rilevante del libro XI è riservata alla descrizione del calendario rustico. Il libro X (De cultu hortorum) Il libro X, dedicato alla trattazione degli orti, è eccezionalmente in esametri. Si tratta, come spiega lo stesso autore, di un omaggio a Virgilio, che nel libro IV delle Georgiche (vv. 116-124; 147-148), lamentando di non poter dedicare una parte della sua opera al tema degli horti, aveva auspicato che altri provvedessero in futuro a integrare la lacuna. Benché privo, com’è ovvio, della sensibilità poetica e linguistica di Virgilio, Columella riesce tuttavia nel compito di rendere deliziosamente accattivanti anche le lunghe liste di ortaggi che l’esposizione richiedeva. Un tema d’attualità: la crisi dell’agricoltura italica È nella vasta prefazione generale che Columella affronta un tema particolarmente dibattuto negli ultimi decenni: la crisi dell’agricoltura italica, non più in grado di sopperire ai consumi delle popolazioni locali. Columella ne addebita le cause all’incuria dei proprietari terrieri (che preferiscono vivere in città, lasciando incolti i campi o affidandone la gestione a schiavi vecchi, inesperti e non motivati) e alla mancanza di una buona preparazione tecnica degli agricoltori. Razionalizzazione delle risorse, nuovi investimenti produttivi, una maggiore cultura agraria sono i rimedi proposti. 103 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PERCORSO ANTOLOGICO

PROFILO STORICO

T 2 La crisi dell’agricoltura italica: analisi e proposte De re rustica, praefatio 1-4 passim ITALIANO

Lucrezio, nel II libro del De rerum natura, aveva lamentato in versi drammatici e potenti la progressiva consunzione del suolo, logorato dai troppi anni di sfruttamento e condannato alla sterilità. Il concetto di ciclicità e di inevitabile decadenza del mondo, ricorrente presso i poeti, poteva ulteriormente corroborare tale concezione, certo diffusa anche a livello popolare. Rivolgendosi a Publio Silvino, dedicatario della sua opera, Columella si impegna a confutare tale tesi, addebitando le responsabilità della crisi dell’agricoltura italica da una parte ai proprietari terrieri (che si disinteressano delle loro aziende), dall’altra all’impreparazione tecnica degli agricoltori. Columella, ad inizio di libro, si fa subito garante di una visione ottimistica e pragmatica della natura, resa feconda da un «Creatore del mondo» (mundi genitor, espressione di derivazione stoica, che implicava una concezione provvidenzialistica del mondo) ed eterna (come Aristotele aveva a suo tempo sostenuto). L’agricoltura viene elogiata come la forma di attività più vicina alla sapientia: di qui lo sdegnato lamento sull’assenza di studi agricoli accurati e specifici. Il concetto era già stato espresso da Cicerone per bocca di Catone il Censore: la vita dell’agricoltore, si diceva nel Cato Maior de senectute (cap. 51), appare molto affine a quella del saggio.

[1]

Odo spesso i più illustri cittadini lamentarsi ora della sterilità dei campi, ora delle stagioni, da lungo tempo ormai sfavorevoli ai frutti della terra; c’è poi chi vuole attenuare in certo modo queste lamentele con una teoria razionale: cioè, stanco e isterilito dall’eccessiva abbondanza dei tempi passati, il terreno non può più offrirci gli alimenti con l’antica generosità. [2] Ma io sono sicuro, o Publio Silvino, che tutte queste ragioni sono molto lontane dal vero. Come si può pensare senza irriverenza che la natura – quella natura alla quale il Creatore del mondo ha fatto dono di una sempre rinnovata fecondità – si sia isterilita ad un tratto, come se fosse soggetta a malattie? E sarebbe egualmente sciocco credere che la terra, come una creatura mortale, si sia invecchiata, essa che ha avuto in sorte una giovinezza eterna, simile a quella degli dèi, essa che vien detta madre di tutte le cose, appunto perché tutte le ha prodotte, e di nuovo e sempre le produrrà tutte in avvenire! [3] Non è nemmeno l’inclemenza del cielo la causa dei danni che lamentiamo; la colpa è nostra, perché abbandoniamo la cura dei campi nelle mani del peggiore dei nostri schiavi, e glieli lasciamo straziare, mentre ai tempi dei nostri padri i migliori cittadini se ne occupavano personalmente e con la massima diligenza! [4] Veramente io non mi so dar pace di questo fatto: [...] ciascuno cerca la persona più adatta a istruirlo nella scienza che desidera, così come ciascuno sceglie fra i sapienti chi possa dare all’animo suo una solida formazione alla virtù: e solo la scienza agricola, che senza dubbio è vicina, per nobiltà e importanza, alla sapienza, non ha né chi la insegni né chi la impari! (trad. di R. Calzecchi Onesti)

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3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

Il perfetto agricoltore Columella scrive la sua opera con intenti pratici ed economici: la villa di cui parla è un’azienda che deve innanzitutto rendere ed essere produttiva. Non meno importanti appaiono tuttavia le ragioni etico-sociali connesse a quelle economiche: l’attività agricola è l’unica degna di un uomo libero; il lavoro dei campi irrobustisce i corpi e rafforza pristinum morem virilemque vitam («il costume antico e il vivere virile»). Considerato quasi alla stregua di un filosofo, il perfetto agricoltore di Columella presenta profonde analogie con l’oratore e l’architetto ideali teorizzati da Cicerone e da Vitruvio: è una figura enciclopedica, che deve possedere nozioni pratiche e teoriche, sapere di scienze naturali, di geografia, di astronomia, di meteorologia, oltre che naturalmente di veterinaria e di agraria. È soprattutto un uomo autorevole, che esercita il suo ruolo con umanità e con dignità, instaurando rapporti privilegiati e patriarcali con i propri sottoposti. L’esposizione e lo stile Columella è un uomo colto e di buone letture, in grado di citare convenientemente le sue fonti, sia greche sia latine. La materia viene esposta con diligenza e con scrupolo; il tono è piacevole e garbato; il linguaggio semplice e scorrevole. Le parti più accurate, secondo tradizione, sono le prefazioni, dove non mancano reminiscenze letterarie e ornamentazioni retoriche; nelle parti tecniche, lo stile è funzionale all’argomento, privo di complicazioni, chiaro ed esatto.

7 La Naturalis historia di Plinio il Vecchio La vita Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio per distinguerlo dal nipote Plinio il Giovane, nasce fra il 23 e il 24 d.C. a Como (Novum Comum), nella Gallia Transpadana, da una ricca famiglia del ceto equestre. Fra il 45 e il 58 presta servizio militare in Germania, dove conosce il futuro imperatore Tito. Nel 58 si ritira a vita privata, probabilmente per incompatibilità con i nuovi orientamenti politici del regime neroniano. Nella guerra civile seguìta alla morte di Nerone, si schiera dalla parte di Vespasiano, che negli anni successivi gli affida una serie di importanti incarichi amministrativi nelle Spagne, in Africa e nella Gallia Narbonese. Nel 76 Plinio è a Roma, fra i consiglieri del princeps. Nel 79, mentre si trova al comando della flotta militare di Capo Miseno, ha luogo l’eruzione del Vesuvio, che avrebbe per sempre distrutte e seppellite le città di Pompei, Ercolano e Stabia: mosso dal desiderio di indagare lo straordinario fenomeno e insieme dalla necessità di portare soccorso ai cittadini in pericolo, Plinio muore all’età di cinquantacinque anni, forse per asfissia, più probabilmente per collasso cardiaco causato dall’affaticamento e dall’intensità del calore. Un alacre e leale funzionario dell’impero Assieme a Quintiliano, Plinio il Vecchio è lo scrittore che meglio rappresenta l’età dei Flavi, caratterizzata da un ritorno all’ordine e da una visione burocratica e amministrativa dello Stato romano [ cap. 6.1]. Anche Plinio si incarica di mettere ordine nel campo del sapere universale, applicandosi al lavoro letterario con la stessa alacrità e diligenza di cui aveva dato prova come funzionario imperiale, e di cui parlano tutte le fonti, in particolare una lettera del nipote, Plinio il Giovane, che sottolinea l’incredibile studium e la summa vigilantia dello zio [ Documenti e testimonianze ONLINE]. 105 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

Delle numerose e varie opere composte da Plinio [ Le opere integralmente pervenuta, nonostante l’immensa mole, è soltanto la Naturalis historia, un trattato in 37 libri pubblicato intorno agli anni 77-78. Fatto eccezionale per la letteratura antica, l’opera di Plinio esordisce con un libro di indici (che ci informano minuziosamente circa il piano dell’opera) seguiti dall’elenco delle fonti (qualcosa di molto simile alle moderne bibliografie) e perfino dal numero delle notizie e dei dati complessivamente raccolti. I libri affrontano una materia vastissima: cosmologia (II); geografia ed etnografia (III-VI); antropologia (VII); zoologia (VIII-XI); botanica (XII-XV); agricoltura (XVI-XIX); medicina (XX-XXXII); metallurgia e mineralogia, contenenti questi ultimi un prezioso excursus sulle arti figurative, e in particolare sui colori, le pietre e i marmi usati in pittura, scultura e architettura (XXXIII-XXXVII). L’opera è introdotta da una lettera dedicatoria al futuro imperatore Tito, nella quale l’autore illustra il suo vasto progetto.

Naturalis historia

PROFILO STORICO

non pervenute di Plinio],

Un’enciclopedia del mondo naturale La Naturalis historia va a collocarsi nel filone, molto ricco in Roma, dell’erudizione scientifica, che aveva avuto in Catone e in Varrone i suoi maggiori esponenti. Ma nessuno, fino ad ora, aveva mai pensato a una grande enciclopedia del mondo naturale, a cui l’autore giunge sospinto da un’insaziabile curiositas e dall’esigenza di salvare un vasto patrimonio di informazioni che sarebbe in altro modo andato distrutto. Se pensiamo, infatti, all’estrema deperibilità dei rotoli papiracei, alla periodica necessità di ricopiare i testi, che imponeva una selezione degli autori e delle opere, capiremo perché Plinio proceda a ricapitolare un’intera tradizione senza troppo preoccuparsi dell’autorevolezza delle fonti e della verità dei fatti. Il compito primario che si propone è quello di compendiare tutte le conoscenze sul mondo naturale allora accessibili: a tale scopo consulta più di cento fonti, fra latine e greche, e duemila volumi, un numero enorme per le possibilità librarie dell’epoca.

Le opere non pervenute di Plinio: un vasto e variegato catalogo Il catalogo delle opere di Plinio comprende un’ampia varietà di testi di carattere linguistico-grammaticale, storico-biografico, erudito, tecnico-scientifico, che testimoniano la versatilità del suo ingegno, la molteplicità dei suoi interessi e la sua sterminata erudizione. Di tutte queste opere restano scarsi frammenti: le più note, e quelle che dettero maggior fama all’autore, furono le opere storiche, che costituirono una fonte preziosa per Tacito. Le elenchiamo nell’ordine cronologico di composizione: – De iaculatione equestri («Come scagliare il giavellotto da cavallo»), un manuale di tecnica militare composto durante gli anni germanici;

– De vita Pomponii Secundi, una biografia su Pomponio Secondo (uomo politico, erudito, tragediografo e comandante militare ai cui ordini Plinio aveva militato negli anni giovanili); – Bella Germaniae («Le guerre germaniche»), venti libri nei quali erano compendiate tutte le guerre sostenute da Roma contro i Germani dai tempi di Mario fino alle campagne del 47 d.C.; – Studiosus («Lo studente»), una sorta di manuale per il perfetto oratore; – Dubius sermo («Le incertezze della lingua»), sulle ambiguità grafiche e morfologiche della lingua latina; – A fine Aufidii Bassi («Continuazione delle storie di Aufidio Basso»), trentun libri nei quali l’autore narrava gli avvenimenti storici dal principato di Claudio fino all’avvento di Vespasiano.

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3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

Manca un principio ordinatore della materia L’autore organizza il suo immenso materiale disponendolo in grandi contenitori: il materiale zoologico, ad esempio, viene distribuito in quattro libri, dedicati uno agli animali terrestri (VIII), uno agli animali acquatici (IX), uno agli uccelli (X), un altro agli insetti (XI). Ma all’interno dei singoli libri, l’andamento risulta irregolare e desultorio, il filo del discorso viene spesso abbandonato, l’autore è come sospinto dall’ansia di non trascurare alcuna notizia. Il discorso non si sviluppa secondo un preciso ordine classificatorio, ma procede a sbalzi, per associazioni di idee, per affinità che si direbbero improvvisamente colte dall’autore durante la composizione stessa: di qui le numerose digressioni, sovente di natura favolosa. Una prospettiva non scientifica Prendiamo ad esempio l’indice del libro VIII, dedicato agli animali terrestri. Plinio divide l’intera materia in due grandi sezioni: animali selvatici ed esotici (parr. 1-60); animali domestici e delle nostre regioni (parr. 61-84). Il punto di vista non è dunque scientifico ma antropologico: gli animali non sono classificati in base a uno studio anatomico ma a seconda del rapporto che intrattengono con l’uomo, e in particolare con l’uomo romano. Gusto dei mirabilia La fonte maggiore di Plinio è Aristotele: ma il filosofo greco, autore di importanti trattati zoologici, aveva impostato il suo sistema tassonomico su una rigorosa analisi della fisiologia e dell’anatomia animale: Plinio si limita a prelevare materiali e notizie dai trattati aristotelici, ignorandone completamente la struttura portante. Ad Aristotele interessava l’animale morto, da sezionare; a Plinio interessa quello vivo, colto nei suoi comportamenti e nelle sue pose, soprattutto quelle più sorprendenti: ed ecco elefanti che scrivono in greco, galline che compiono pratiche espiatorie e religiose, ippopotami che si autosalassano. Aristotele aveva negato intelligenza agli animali; Plinio è invece propenso a rintracciarne gli esempi più clamorosi. Il mondo naturale non è dunque un universo di cui studiare le leggi ma un grande contenitore di mirabilia, un’arena di stupefacenti e teatrali bizzarrie,

Mosaico pavimentale che raffigura un elefante. Area Archeologica di Ostia.

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di cui Plinio offre un repertorio quasi inesauribile [ T3; T5 ONLINE]. Questo spiega perché l’attenzione di Plinio sia sempre rivolta al particolare, al singolo fatto, all’aneddoto curioso, mai all’insieme. PROFILO STORICO

Eterogeneità dell’opera Privo di un unico criterio organizzativo, soggiogato dall’ansia enciclopedistica e dal piacere collezionistico di raccogliere quanti più elementi è possibile, Plinio oscilla costantemente nella sua opera fra impegno critico e narrazione fantastica, fra la consapevolezza di un controllo delle fonti e l’orientamento favoloso dell’esposizione. In un passo l’autore afferma di non essere interessato ai prodigi sovrannaturali, poiché sta trattando «ciò che è opera della natura, non i prodigi» (VII, 179). Ma poco prima egli stesso ha confessato di sentirsi attratto dai fenomeni più straordinari e grandiosi del mondo naturale: «Quante cose non si ritengono impossibili, prima che accadano? La potenza e la maestà della natura in tutte le fasi del suo esplicarsi è incredibile, se la si considera solo parzialmente e non nel suo insieme» (VII, 7). Irrimediabilmente, l’elemento meraviglioso e l’atteggiamento acritico finiscono per trionfare: pur prodigandosi spesso nell’operazione di discutere, controllare, confutare i dati di cui è in possesso, Plinio cede quasi sempre al fascino irresistibile della notizia peregrina, rinunciando a selezionare. L’inventario del mondo Non si tratta solo di un atteggiamento psicologico: l’orientamento eclettico della cultura romana, l’assenza di un corretto metodo scientifico nel campo degli studi naturalistici portano Plinio a privilegiare la componente erudita ed enciclopedistica, il gusto classificatorio, quello che Gian Biagio Conte ha definito, in un suo saggio, «l’inventario del mondo». E in questo inventario prevale il gusto esotico e favoloso dei mirabilia, diffuso anche fra i romanzieri e gli storici dell’epoca, da Curzio Rufo ad Apuleio. Un gusto che tuttavia non fa mai dimenticare a Plinio il solido pragmatismo della cultura romana: la volontà di essere comunque sempre concreti, utili. Sul piano storico-culturale, va osservato che l’impresa di Plinio è pienamente riuscita: solo a lui dobbiamo infatti la conoscenza di un enorme patrimonio folclorico, etnologico, scientifico e tecnologico, che sarebbe altrimenti andato perduto. Ancora oggi Plinio resta la fonte maggiore, spesso unica, del mondo materiale antico: è l’unico, ad esempio, che

Affresco raffigurante una pantera, I secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

ci ha tramandato le modalità di fabbricazione del papiro egizio; l’unico che ci parli con tanta dovizia di particolari delle arti figurative; il più prezioso nel ragguagliarci su episodi di superstizione e di stregoneria. La visione dell’universo: un generico panteismo Nel libro II della Naturalis historia, interamente dedicato alla cosmologia, si allude ripetutamente a un’interpretazione stoicheggiante, razionalistica e provvidenzialistica, dell’universo. In realtà lo stoicismo pliniano si riduce a un generico panteismo che esclude di fatto ogni idea di provvidenzialità. Tutte le pagine dedicate all’uomo sono intrise di una filosofia insieme pragmatica e pessimistica [ T4 ONLINE]. La stessa nozione di natura subisce numerose metamorfosi nel corso dell’opera, fino a vestire, all’inizio del libro VII (l’antropologia) i panni di una crudele noverca («matrigna») nei confronti del genere umano. Lingua e stile Nell’epistola dedicatoria a Tito, Plinio afferma di descrivere la natura nei suoi aspetti più umili, «tanto che moltissimi oggetti dovranno essere designati con termini rozzi o stranieri, e perfino barbari e tali da richiedere una scusa preliminare» (praef. 13). Questi vocabula rustica sono i termini della lingua tecnica, generalmente banditi dal vocabolario della letteratura alta; ai quali Plinio sa di dover aggiungere, per via delle numerose fonti utilizzate, vocabula externa, grecismi soprattutto. La varietà dei contenuti e la molteplicità delle fonti obbligano l’autore a uno stile diseguale e discontinuo, a volte disadorno, a volte artificioso e retoricamente elaborato. La pluralità dei registri espressivi non annulla tuttavia una sensazione complessiva di sciatteria, spesso alimentata dalla fretta della composizione e dall’andamento accidentato delle frasi. Fortuna della Naturalis historia Mentre le opere storiche di Plinio scomparvero presto, dopo aver goduto di ampia fortuna per alcuni decenni, la Naturalis historia continuò ad essere letta per tutti i secoli dell’impero e in età medievale. Dell’opera cominciarono a girare molto presto dei compendi, spesso limitati a una sola sezione. Fu proprio il carattere compilatorio dell’opera a favorirne la trasmissione: al Medioevo la Naturalis historia dovette presentarsi come una sorta di gigantesca biblioteca del sapere naturalistico antico, un compendio già pronto di centinaia di altre opere, perfettamente intonato allo spirito enciclopedico e sincretistico dell’epoca. A Plinio attinsero con larghezza lapidari e bestiari; ai libri zoologici si ispirarono gli scultori medievali per decorare i capitelli delle chiese romaniche. Sulla diffusione della Naturalis historia testimoniano d’altra parte i circa duecento manoscritti sopravvissuti fino a noi. La fortuna continuò anche in età umanistica: quindici edizioni a stampa già prima del 1500. L’avvento di una nuova consapevolezza critica finì fatalmente per mettere in discussione le bizzarrie e le stravaganze del libro; ben presto si cominciò seriamente a dubitare dell’attendibilità delle indicazioni pliniane. Si esauriva l’interesse “scientifico” nei confronti del testo; ne nasceva un altro, di carattere culturale, etnologico e folclorico, al quale si sarebbe aggiunto anche quello, di natura più sofisticata, del lettore innamorato di meraviglie e di storie fantastiche (si veda, a questo proposito, l’introduzione di Italo Calvino all’edizione einaudiana della «Storia naturale»). 109 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PERCORSO ANTOLOGICO

PROFILO STORICO

T 3 Miracula naturae: le popolazioni dell’India Naturalis historia VII, 22-32 passim ITALIANO

«Soprattutto l’India e il territorio degli Etiopi pullulano di meraviglie»: così ha inizio un excursus etnografico sulle regioni tradizionalmente considerate dagli antichi sede di monstra e di mirabilia. Segue il vero e proprio catalogo dei prodigi, accompagnato dalla scrupolosa citazione delle fonti, come se Plinio volesse in qualche modo distanziarsi dalle notizie che fornisce, attribuendone la responsabilità ai suoi auctores. Il brano si chiude con una riflessione (par. 32) che sottolinea il carattere spettacolare del mondo naturale (grande e sempre vario teatro di prodigi): ma ciò che per gli uomini è miraculum, per la natura è solo ludibrium, un passatempo, spesso capriccioso e crudele, che testimonia della sua straordinaria potenza. All’«ingegnosità» creativa della natura corrisponde l’ingegno classificatorio dell’uomo. Archivista di questo cosmo spettacolare, Plinio interpreta la sua Storia naturale come un immenso magazzino di dati e di notizie per la curiosità dei suoi lettori. [22]

È certo che in India molti uomini hanno una statura superiore ai cinque cubiti,1 non sputano, non soffrono mai il mal di testa o il mal di denti o il mal d’occhi, e solo raramente di altri mali del corpo; sono infatti temprati da una distribuzione tanto equilibrata del calore del sole. I loro filosofi, che chiamano gimnosofisti,2 resistono dall’alba al tramonto a fissare il sole con occhi immobili, e per tutto il giorno restano sulla sabbia ardente in equilibrio ora su un piede, ora sull’altro. Secondo Megastene,3 su un monte chiamato Nulo ci sono uomini con le piante dei piedi rivolte all’indietro e con otto dita per piede. [23] Su molti altri monti si trovano invece uomini con la testa di cane, vestiti di pelli di fiere, che emettono solo latrati e che vivono di caccia e uccellagione, procurandosi la preda con l’arma delle unghie: Ctesia4 afferma che, al tempo in cui scriveva, c’erano più di centoventimila individui di questo genere; scrive inoltre che, presso una popolazione dell’India, le donne partoriscono una sola volta nella vita, e i loro figli incanutiscono subito. Lo stesso Ctesia parla di una stirpe di uomini – i Monocòli5 – che hanno una gamba sola e sono straordinariamente agili nel saltare; essi sono chiamati anche Sciàpodi,6 poiché quando la calura è più forte, giacendo a terra supini, si proteggono con l’ombra del piede. Non lontano da essi sono i Trogloditi; e, continuando verso occidente, c’è una popolazione priva di collo, con gli occhi piantati sulle spalle. [24] Sui monti orientali dell’India (nella regione detta dei Catarcludi) si trovano anche dei satiri, esseri agilissimi che corrono talvolta a quattro zampe, talvolta eretti, e hanno sembianze umane; sono così veloci che non si lasciano prendere se non sono vecchi o malati. Taurone7 chiama Coromandi una

1. cinque cubiti: m 2,22. 2. gimnosofisti: sono i fachiri indiani. 3. Megastene: compì un viaggio in India per conto del re Seleuco I; al ritorno scrisse una storia indiana molto apprezzata nei secoli successivi per la ricchezza delle notizie contenute.

4. Ctesia: medico e viaggiatore del V-IV secolo a.C., a lungo attivo alla corte persiana, autore di svariati volumi sull’Assiria, la Persia e l’India. 5. Monocòli: in greco, «che hanno una gamba sola».

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6. Sciàpodi: in greco, «che si fanno ombra coi piedi», così grandi da ripararli dal sole. 7. Taurone: menzionato solo in Plinio; per il resto ignoto.


3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

popolazione selvatica, senza voce, che emette strida paurose, ha corpi setolosi, gli occhi glauchi, i denti di cane. Eudosso8 afferma che, tra le popolazioni meridionali dell’India, gli uomini hanno le piante dei piedi lunghe un cubito; le donne le hanno invece così piccole, che sono soprannominate Strutòpodi.9 [25] Megastene cita una popolazione, tra gl’Indiani Nomadi, la quale ha solo dei buchi al posto delle narici e, avendo i piedi inceppati, striscia come i serpenti: costoro si chiamano Scirati. [...] [26] Al di là degli Àstomi, tra le montagne più lontane, si dice che abitino i Trispitami10 e i Pigmei, i quali non superano le tre spanne di altezza; essi vivono in clima salubre e in una continua primavera, poiché sono riparati, a nord, dai monti; sono infestati dalle gru, come afferma anche Omero.11 Si racconta che, in groppa ad arieti e capre, armati di frecce, i Pigmei scendano tutti insieme in schiera al mare nella stagione primaverile, e distruggano le uova e i pulcini delle gru. Questa spedizione si compie ogni anno in tre mesi; se non avesse luogo, sarebbe impossibile fronteggiare la massa delle gru che nascerebbero. Le loro capanne sono fatte di fango, penne e gusci d’uovo. [27] Aristotele afferma che i Pigmei vivono in caverne; per il resto concorda con gli altri autori. [...] [32] Queste particolarità e altre simili – oggetto di gioco per lei, di ammirazione per noi – la natura ingegnosa ha creato nel genere umano. Ma chi riuscirebbe ad enumerare le sue realizzazioni su singoli individui, che crea ogni giorno e quasi ogni ora? Per svelare la sua potenza ci sia sufficiente l’avere posto tra i prodigi intere popolazioni. (trad. di G. Ranucci)

8. Eudosso: Eudosso di Cnido, matematico, naturalista e geografo vissuto nel IV secolo a.C.

9. Strutòpodi: in greco, «dai piedi di passero». 10. Trispitami: in greco, «di tre palmi».

11. Omero: la notizia si trova in Iliade III, 3-6.

Pierre-Henri de Valenciennes, Eruzione del Vesuvio del 24 agosto del 79 d.C. sotto il regno di Tito, olio su tela, 1813. Tolosa, Musée des Augustins.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PROFILO STORICO

Educazione CIVICA Plinio il Vecchio, eroe del pensiero e dell’umanità Nella pagina che riportiamo il filosofo francese Michel Onfray, cogliendo nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. un’allegoria della vita umana, innalza a Plinio il Vecchio un commosso elogio, esaltandone in crescendo l’eroica tensione conoscitiva e l’esemplare moralità filantropica, spinte fino al più nobile e dignitoso sacrificio di sé. Plinio il Vecchio, che di filosofia se ne intendeva, in particolare di stoicismo, incarna fin nelle più ordinarie parti della propria esistenza quotidiana il significato di vita filosofica. Di fronte a una catastrofe – e tutti quanti abbiamo capito che l’eruzione del Vesuvio è un’allegoria – ci sono tre modi di comportarsi. Il primo è quello della gente che scappa, che strilla, che grida, che si lamenta, che si strappa i capelli, che vorrebbe morire per timore della morte ma che poi invece non muore a causa del proprio sfrenato amore per la vita; questa gente riporta tutto alla propria persona e ha già risolto il rapporto con il lutto altrui, tanto da essere pronta a passare sul corpo degli anziani, dei malati, dei bambini e delle donne per salvare una vita che è comunque destinata a perdersi e non vale già più granché, perché la storia è ormai scritta e non rimane che viverla: il Vesuvio deve esplodere e il Vesuvio esplode. È la logica dell’animale braccato che

salta alla gola del proprio simile pensando che così facendo riuscirà a sfuggire al proprio destino quando è invece proprio comportandosi in questa maniera che lo compirà; è anche il modo di comportarsi dell’insetto, dello scarabeo stercorario, del cervo volante. Il secondo è quello di Plinio il Giovane che, con la catastrofe in corso, cerca di leggere Tito Livio senza però riuscirci. Vorrebbe essere un filosofo ma non è all’altezza. Del resto, come rimproverarglielo? Ha solo diciassette anni, è l’età magica in cui cominciano solo a entrare in campo quelle qualità che permetteranno o impediranno di condurre una vita diversa da quella della pulce o dello scarafaggio… Di fronte al pericolo delle ceneri che minacciano di bruciare tutto e che gli si avventano addosso, lui subisce, si ferma, si siede; aspetta la morte e si consola pensando che sia un po’ meno insopportabile perché tutti gli altri stanno esattamente nella sua stessa situazione, precipitati nel fuoco. […] È la logica del mollusco che si avvinghia alla roccia sperando che nessuna onda sia in grado di staccarlo. È una vita senza grandezza, una vita modesta, una vita misera. Non va però condannata; nessuno è tenuto a essere un eroe, nemmeno ad averci provato. Per meritare lodi, basta non aver aggiunto altra miseria al mondo. Il terzo modo di comportarsi è ovviamente quello di Plinio il Vecchio. Guerriero e filosofo, marinaio e naturalista, scrittore e uomo d’azione, fa fronte alla catastrofe e vi si lancia contro per vederla da vicino,

Resti del cranio di Pompei oggi ritenuto di Plinio il Vecchio. Roma, Museo dell’Accademia di Storia dell’Arte Sanitaria.

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3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

come fosse un animale pericoloso che intende studiare dal vivo perché anche gli animali hanno cose da insegnargli – capire il mondo significa vivere davvero la vita. Che si tratti di un vulcano o di una civiltà che crolla, della muta di un bruco o del passaggio di un corpo celeste attraverso la volta stellata, dal mondo c’è sempre e ancora da imparare. Accrescere il proprio sapere è un dovere. Quando però la contemplazione e il sapere vengono messi sul piatto della bilancia per compensare una buona azione, è la buona azione che ha la meglio: voleva vedere il vulcano da vicino per studiare la sua eruzione in maniera diversa rispetto ai libri che già conosceva così bene, però il pericolo che i suoi amici correvano gli fa mettere in secondo piano questa intenzione. È l’amicizia che prende il sopravvento. Occorre consolare i propri amici, occorre confortarli, occorre tranquillizzare il loro spirito e infondere la pace e la serenità di cui hanno bisogno in questi momenti di pericolo. L’esempio di una condotta senza turbamenti allontana di sicuro i turbamenti. Se c’è paura, l’amico deve farsene carico e liberare da quel fardello chi ci onora del suo affetto. Amare i propri amici è un dovere. L’amico è l’eletto, questo è certo, però Plinio il vecchio, da buon comandante romano, sa bene di non essere capace di sacrificare il proprio amico per i suoi simili: decide quindi di muovere la flotta, di farla salpare, di fare rotta verso quel fuoco e di riportare al sicuro i propri compatrioti minacciati dal vulcano. Aiutare il proprio prossimo è un dovere.

Se è vero che il mondo deve scomparire, non è però detto che dobbiamo scomparire anche noi prima del tempo, sarebbe come dare ragione al mondo e torto a noi stessi. Plinio il Vecchio ci dà l’esempio: sotto la pioggia di cenere e di fuoco che finirà per ucciderlo, si fa un bagno, cena, si mostra allegro e affabile, dorme, addirittura russa in maniera fragorosa. Anche la cura di sé è un dovere. Quando giunge l’ora di morire, non si mette a implorare l’aiuto di chiunque si trovi nei paraggi. La scena che il nipote racconta è un antidoto alla morte cristiana profumata dei fiori del male: ci si fa sistemare una coperta per terra, si chiede un bicchiere d’acqua, ci si sdraia e si muore. Saper morire un dovere, anzi e la Ricordiamoci della magnifica frase di Plinio che abbiamo citato prima: : «Essere dio è, per un mortale, aiutare un mortale: ecco la via verso la gloria eterna. Su di essa hanno proceduto i più grandi Romani». È questo l’unico dio possibile e pensabile per un ateo in un mondo abbandonato dagli dèi degli altri. Non aggiungere miseria al mondo, accrescere il proprio sapere, amare i propri amici, aiutare il prossimo, prendersi cura di sé stessi, saper morire perché questo significa saper vivere: ecco le cose con cui aspettare saggiamente che il vulcano ci ricopra di cenere. (M. Onfray, Saggezza. Saper vivere ai piedi di un vulcano, Salani, Milano, 2019)

8 I trattati di Sesto Giulio Frontino, curator aquarum La vita Figura di leale e scrupoloso funzionario imperiale ci appare Sesto Giulio Frontino, che iniziò la carriera politica nell’età dei Flavi per concluderla nei primi anni del principato traianeo. Praetor urbanus nel 70, fu console per tre volte, sotto Vespasiano (nel 74), Nerva (nel 98) e Traiano (nel 100), legato in Britannia fra il 76 e il 78 (suo successore fu Agricola, suocero di Tacito), curator aquarum (addetto, cioè, alla manutenzione degli acquedotti romani) nel 97, infine augure. Morì nel 103-104, vietando, secondo una notizia di Plinio il Giovane (IX, 19), che fossero eretti monumenti in suo onore: la memoria di un uomo, sosteneva, deve dipendere esclusivamente dalle azioni compiute in vita. 113 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

PROFILO STORICO

Le opere Scrittore esclusivamente tecnico, Frontino si confronta con ambiti di sapere tipicamente romani (la scienza militare, l’agrimensura, gli acquedotti), legati alla sua carriera militare e amministrativa. Dei quattro titoli a lui attribuiti, risultano perduti un trattato De re militari e un’opera di agrimensura di cui sopravvivono pochi excerpta conservati nel Corpus agrimensorum Romanorum. Ci sono invece pervenuti quattro libri di Strategemata e due libri De aquis urbis Romae, la sua opera più interessante. Commentarii le definisce l’autore, che fa uso in entrambe di un linguaggio semplice e sostanzialmente ripetitivo, come del resto gli argomenti richiedevano.

Il Pont du Gard, acquedotto romano nel sud della Francia, I secolo d.C.

Materiali

ONLINE

Gli Strategemata Composti fra l’84 e il 96, gli Strategemata sono una raccolta di «stratagemmi» militari utilizzati dai più celebri generali del passato in preparazione di una battaglia (I libro), durante la battaglia e subito dopo (II libro), durante gli assedii (III libro). Di tono differente, morale e non più tecnico, è invece il IV libro, dove si danno esempi di virtù e di disciplina militare: lo scarto rispetto ai libri precedenti ha fatto non poco dubitare della sua autenticità. Gli exempla proposti, per lo più ricavati da fonti letterarie, sono organizzati in apposite rubriche, un po’ come accadeva nei Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo [ cap. 1.4]. Nonostante la competenza tecnica, l’esposizione è condotta in modo alquanto sbrigativo. De aquis urbis Romae Di grande importanza sul piano archeologico e documentario risulta il trattato De aquis urbis Romae, tràdito anche con il titolo De aquae ductu urbis Romae, pubblicato nel 98. Argomento sono gli acquedotti di Roma, che il nuovo curator, nel momento di assumere la carica, decide di passare in rassegna approntando quelle che oggi diremmo delle accurate schede tecniche, comprendenti il nome dell’acquedotto, la data in cui fu costruito, le strutture murarie, il percorso, e perfino la legislazione vigente in materia. Lo scrupolo e la diligenza dell’indagine esemplificano come meglio non si potrebbe il pragmatismo della cultura romana. L’autore non manca di esaltare l’utilità degli acquedotti, orgogliosamente contrapposti alle piramidi egizie e alle «celebratissime ma inutili costruzioni dei Greci».

T4 «Varie dicerie sui Mani» (Naturalis historia VII, 188-190) T5 Notizie sui lupi (Naturalis historia VIII, 80-84) DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Vita e morte di Plinio il Vecchio nelle lettere del nipote Plinio il Giovane BIBLIOGRAFIA ESTESA

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3. Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

essenziale

Bibliografia

B

Sintesi

S

� Sulla Naturalis historia di Plinio, si vedano gli splendidi saggi premessi all’edizione einaudiana dell’opera: I. Calvino, Il cielo, l’uomo, l’elefante (poi in Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1995); G.B. Conte, L’inventario del mondo (poi in Generi e lettori, Milano 1991, pp. 95-144). Sulla vita e l’opera di Plinio si veda anche L. Picchi, Plinio il Vecchio. L’eredità di un illustre comasco scrittore, naturalista, ammiraglio, NodoLibri, Como 2018 (con un ampio apparato sulla fortuna dell’autore). Significativi, e di carattere più specifico, i saggi contenuti nel volume Il sapere degli antichi, a cura di M. Vegetti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, e in

particolare: Macchina e artificio di G.A. Ferrari (pp. 163-179); Medico e malattia di P. Manuli (pp. 229-245); Animali e piante di Geoffrey E.R. Lloyd (pp. 246-261). Un panorama complessivo, che va da Catone il Vecchio ai trattati del V secolo d.C. si trova in P. Parroni, Scienza e produzione letteraria, in AA.VV., Lo spazio letterario di Roma antica, I, Salerno editrice, Roma 1989, pp. 469505. � Per i singoli autori, si consigliano le seguenti edizioni con traduzione in lingua italiana: Celso, Della medicina, a cura di A. Del Lungo, Sansoni, Firenze 1985; Apicio, L’arte culinaria. Manuale di gastronomia classica, a cura di G.

Carazzali, Bompiani, Milano 2003; Apicio, Antica cucina romana, a cura di F. Introna, M i l a n o, R u s c o n i 2 0 1 8 ; Scribonio Largo, Ricette mediche, a cura di L. Mantovanelli, Sargon, Padova 2012; Columella, L’arte dell’agricoltura, trad. di R. Calzecchi Onesti, con introduzione e note di C. Carena, Millenni Einaudi, Torino 1977; Plinio il Vecchio, Storia naturale, a cura di G.B. Conte, con la collaborazione di A. Barchiesi e G. Ranucci, 5 voll. in 6 tomi, Millenni Einaudi, Torino 1982-1988; Frontino, Gli stratagemmi, a cura di F. Galli, Argo, Lecce 1999; Frontino, Gli acquedotti di Roma, a cura di F. Galli, Argo, Lecce 2014.

Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale La nuova richiesta di sapere tecnico-scientifico già avvertita in età augustea riceve un impulso ancora maggiore nel I secolo d.C., in seguito all’espansione e all’accresciuta prosperità economica dell’impero. Si verifica un ampliamento degli orizzonti sociali e dei ceti alfabetizzati; l’amministrazione della macchina statale esige la formazione di figure professionali specializzate; si realizzano importanti opere pubbliche; si intensificano i viaggi per mare e per terra. Le opere prodotte per soddisfare questi diversi bisogni appaiono diseguali nel valore come nell’impostazione. Troviamo sbrigativi compendi accanto a trattati più impegnativi ed ambiziosi. Spesso la dimensione scientifica si mescola con il gusto dei mirabilia (come accade in Plinio il Vecchio); il pragmatismo e l’eclettismo tipicamente romani fanno prevalere il procedimento compilatorio. Raramente gli autori mostrano di preoccuparsi dello stile: la svalutazione delle discipline pratiche relega ai margini del sistema letterario antico la prosa tecnica e manualistica. Due sono i modelli che si confrontano: il manuale specialistico di derivazione greca (quello di Columella sull’agricoltura, di Scribonio Largo sulla medicina, di Pomponio Mela sulla geografia, di Frontino sull’arte militare, sull’agrimensura e sugli acquedotti romani, di Apicio sulla gastronomia) e

l’impianto enciclopedico (Celso, Plinio il Vecchio), caratteristico della cultura latina. La più importante fra queste opere è indubbiamente la Naturalis historia di Plinio il Vecchio, una grande enciclopedia del mondo naturale pubblicata intorno al 77-78 d.C. e integralmente pervenuta nonostante l’immensa mole (37 libri). L’autore ricapitola tutte le cognizioni allora accessibili, nel proposito di salvare un’enorme messe di informazioni inevitabilmente destinata a scomparire: a lui solo dobbiamo la conoscenza di un ingente patrimonio folclorico, artistico, scientifico e tecnologico altrimenti perduto. Plinio, sospinto da un’insaziabile curiositas, accumula i dati raccolti senza preoccuparsi dell’attendibilità delle fonti né di seguire un principio ordinatore o un indirizzo filosofico preciso, animato dal gusto dei mirabilia e attratto dai fenomeni più straordinari e bizzarri. Compila un grande «inventario del mondo» da una prospettiva non scientifica, senza discostarsi tuttavia dal pragmatismo romano, nella volontà di essere concretamente utile. Ininterrotta la fortuna dell’opera, trasmessa da un gran numero di manoscritti, dall’antichità al Medioevo all’età umanistica; esaurito in epoca moderna l’interesse “scientifico” nei confronti del testo, ne nasceva un altro, di carattere culturale, etnologico e folclorico, al quale si sarebbe aggiunto anche quello, di natura più sofisticata, del lettore innamorato di meraviglie e di storie fantastiche.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

MAPPA SAPERI SPECIALISTICI E CULTURA ENCICLOPEDICA NELLA PRIMA ETÀ IMPERIALE

• • • •

ampliamento dei ceti alfabetizzati formazione dei funzionari amministrativi intensificarsi dei viaggi per mare e per terra due modelli: manuale specialistico ed enciclopedia

• • •

un progetto enciclopedico conservata soltanto la sezione De medicina in 8 libri medicorum Cicero: stile limpido ed accurato

Il De re coquinaria di Apicio

• • •

manuale di gastronomia ad uso dei cuochi raccolta di circa cinquecento ricette in 10 libri notizie sulle abitudini alimentari del tempo

Le Compositiones di Scribonio Largo

• •

271 ricette mediche di vario genere codice deontologico del medico, derivato da Ippocrate

La Chorographia di Pomponio Mela

• • • •

trattato geografico in tre libri immaginaria navigazione del mondo carattere compilatorio e retorico esotismo, mirabilia

Il De re rustica di Columella

• • • •

trattato in 12 libri sull’agricoltura e sull’allevamento intenti pratici ed economici il perfetto agricoltore: una figura enciclopedica crisi dell’agricoltura italica: cause e rimedi

La Naturalis historia di Plinio il Vecchio

• • • • • •

trattato in 37 libri, integralmente pervenuto un’enciclopedia del mondo naturale carattere compilatorio ed erudito manca un principio ordinatore della materia gusto dei mirabilia la fonte più preziosa per il mondo materiale antico

Due trattati di Giulio Frontino

• •

Strategemata: raccolta di stratagemmi militari De aquis urbis Romae: accurate schede tecniche sugli acquedotti di Roma

Sviluppo della letteratura tecnico-scientifica

Le Artes di Celso

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Completamento

1 Inserisci i dati mancanti della biografia di Plinio il Vecchio. Gaio Plinio Secondo, detto il Vecchio per distinguerlo dal , nasce a nella fra il ; presta servizio militare in fra il 45 e il 58, anno in cui si . Nella guerra civile si ritira a schiera dalla parte di , che gli affiderà importanti . Nel 76 è a Roma, fra i . Nel , quando avviene , è al comando della di Capo Miseno; muore durante le operazioni di soccorso. p._____/12

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. L’interesse per le discipline tecnico-scientifiche si intensifica nel I sec. d.C. V|F b. Lo stile della prosa tecnica e scientifica appare sempre particolarmente curato V|F c. Nel mondo antico le discipline pratiche furono sistematicamente svalutate V|F d. L’impianto enciclopedico è caratteristico della cultura greco-alessandrina V|F e. Nessun autore latino si era occupato di medicina fino all’età imperiale V|F f. L’elogio della vita rustica era connesso in Roma al culto degli antichi mores V|F g. Columella compone il X libro de re rustica, eccezionalmente, in versi esametri V|F h. La Naturalis historia è la fonte maggiore del mondo materiale antico V|F p._____/8

Quesiti a scelta multipla

3

2. Il De re coquinaria attribuito ad Apicio comprende ■ circa 500 ricette in 10 libri, incluse aggiunte posteriori ■ circa 300 ricette in 10 libri, di cui non pochi lacunosi ■ circa 250 ricette in 8 libri, incluse aggiunte posteriori ■ circa 300 ricette in 8 libri, di cui due mutili 3. L’autore delle Compositiones è ■ Pomponio Mela ■ Sesto Giulio Frontino ■ Scribonio Largo ■ Columella 4. L’unica opera integralmente pervenuta di Plinio il Vecchio è ■ Bella Germaniae ■ Naturalis historia ■ Chorographia ■ Disciplinae 5. Di Frontino sono pervenuti in tutto ■ 4 libri di Strategemata ed excerpta di agrimensura ■ 2 libri De aquis urbis Romae e frammenti del De re militari ■ 4 libri di Strategemata, 2 libri De aquis urbis Romae ed excerpta di agrimensura ■ il trattato De re militari, 4 libri di Strategemata ed excerpta di agrimensura p._____/5

Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Enumera i fenomeni storico-sociali che diedero impulso alle discipline tecnico-scientifiche nella prima età imperiale. 2. I modelli seguiti dagli autori latini di opere tecnicoscientifiche. 3. La Chorographia di Pomponio Mela. Trattazione sintetica

Indica il completamento corretto.

1. L’unica sezione pervenuta delle Artes di Celso è dedicata ■ all’agricoltura ■ all’arte militare ■ alla medicina ■ al diritto

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. De re rustica di Columella: argomenti e struttura. 2. Fonti, organizzazione della materia e intenti dell’autore nella Naturalis historia. 3. Pragmatismo romano e gusto favoloso dei mirabilia nell’opera di Plinio il Vecchio. 117

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Saperi specialistici e cultura enciclopedica nella prima età imperiale

Verifica finale


4 Seneca 1 La vita e le opere Le fonti Per la biografia di Seneca possiamo avvalerci di diverse fonti, fra le quali gli Annales di Tacito, le Vitae di Svetonio e la Storia di Roma di Cassio Dione: fonti deliberatamente ostili (Dione) o parzialmente critiche, che non sempre ci aiutano a chiarire gli episodi fondamentali della sua vita. Preziose anche le testimonianze dello stesso Seneca, che è tuttavia avaro di notizie proprio per quanto riguarda la sua attività pubblica. La famiglia Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova, città della Spagna Betica. Incerta la data di nascita, diversamente collocata dagli studiosi tra il 12 e l’1 a.C., più verosimilmente intorno al 4 a.C. La famiglia, che appartiene all’ordine equestre, si distingue nell’arco di tre generazioni per i suoi interessi intellettuali e letterari: il padre è l’omonimo autore di opere storiche e retoriche di cui si è altrove parlato [ cap. 1.2; vol. II, cap. 1.8]; dal fratello minore, Marco Anneo Mela, nascerà nel 39 d.C. il poeta Lucano. Gli studi Giunto in tenera età a Roma, Seneca studia retorica presso i migliori mae­stri della capitale, accostandosi in seguito alla filosofia sotto la guida dello stoico Attalo, del neopitagorico Sozione e di Papirio Fabiano, uno dei più autorevoli rappresentanti della scuola dei Sestii. La frequentazione di questi maestri è 118 © Casa Editrice G. Principato


Non exiguum tempus habemus, sed multum perdidimus In verità non è che noi abbiamo poco tempo, è che ne perdiamo molto. La vita sarebbe abbastanza lunga, e ci è stata data in abbondanza per il compimento delle più grandi imprese; bisognerebbe però che fosse tutta ben spesa; ma quando è svanita tra il lusso e la trascuratezza, quando non è impiegata per nessuna azione che valga qualcosa, quando infine il destino estremo incombe, allora noi, che non l’abbiamo sentita passare, ci accorgiamo che è già passata. (La brevità della vita I, 3; trad. di N. Sacerdoti)

Dum differtur, vita transcurrit

vindica te tibi

Omnia aliena sunt, tempus tantum nostrum est «Servi sunt». Immo homines

Cotidie morimur

destinata a lasciare una traccia indelebile sulla formazione umana e intellettuale di Seneca: da essi deriva l’impronta ascetica e austera della sua filosofia, l’esigenza di esercizi morali attraverso i quali educare la volontà, la pratica dell’esame di coscienza [ T3], l’interesse per gli studi naturalistici. Di questa fase della vita di Seneca, dei suoi primi entusiasmi filosofici ci narra l’autore stesso in un’epistola morale [ T18 ONLINE]. La carriera pubblica Dopo il 26 Seneca risiedette per alcuni anni in Egitto, forse per curare i suoi attacchi d’asma. Tornato in Roma, verso il 33-34 ottenne la questura, primo gradino del cursus honorum che dava accesso direttamente al senato. Negli stessi anni acquistò vasta rinomanza per la sua abilità oratoria, e fu introdotto negli ambienti della corte imperiale. Al 39 risale un episodio riferito dallo storico Cassio Dione, secondo il quale poco mancò che Seneca fosse condannato a morte da Caligola, solo per aver difeso brillantemente una causa in senato. Di questi anni sono la Consolatio ad Marciam, dedicata alla figlia di Cremuzio Cordo [ cap. 1.2], e i primi due libri del trattato De ira. La relegatio Nell’autunno del 41 Seneca cadde vittima di una macchinazione ordita da Messalina, moglie di Claudio: coinvolto nell’accusa di adulterio rivolta a Giulia Livilla, una delle sorelle di Caligola, il brillante oratore, ormai più che 119 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

PROFILO STORICO

quarantenne, fu condannato alla relegatio in Corsica. Nell’isola, selvatica e inospitale, Seneca rimase otto anni, durante i quali compose la Consolatio ad Helviam matrem (dove si impegnò a sostenere che l’esilio non comporta l’infelicità) e la Consolatio ad Polybium, il potente liberto di Claudio che aveva proprio allora perduto un fratello: quest’ultima contiene anche un plateale elogio di Claudio [ T4 ONLINE], composto evidentemente nella speranza di un’intercessione. Solo la morte di Messalina (48 d.C.) e il successivo matrimonio di Claudio con un’altra sorella di Caligola, l’ambiziosa Agrippina Minore (49 d.C.), gli consentì l’atteso ritorno in Roma. Da precettore a consigliere del princeps Insieme al prefetto del pretorio Afranio Burro, Seneca ebbe l’incarico di provvedere all’educazione di Nerone (nato nel 37). Alla morte di Claudio (54 d.C.), probabilmente avvelenato da Agrippina, e con la successione del diciassettenne Nerone alla guida dell’impero, Seneca assunse il ruolo di consigliere del principe: fu lui, secondo la tradizione, a scrivere l’elogio funebre di Claudio pronunciato in senato da Nerone. Negli stessi giorni, Seneca si divertiva a comporre una velenosa satira contro il defunto imperatore, gettato agli inferi dopo aver inutilmente tentato di ottenere, in cielo, la deificazione [ T20]. Agli anni 55-56 va ascritto il trattato De clementia, mediante il quale Seneca si proponeva di indirizzare la condotta politica del giovane princeps. Mentre lodava la clementia di Nerone [ T6], doveva tuttavia chiudere gli occhi dinanzi all’assassinio di Britannico (55 d.C.), il figlio di Claudio e di Messalina, e rendersi probabilmente complice dell’assassinio di Agrippina (59 d.C.). Per quest’ultimo episodio, si veda la fosca narrazione di Tacito (Ann. XIV, 3-12 [ T22 ONLINE, cap. 11]). Non sappiamo quali furono i rapporti fra Seneca e il suo pupillo dopo il «quinquennio felice» e l’eliminazione di Agrippina. Il filosofo continuò di fatto a restare vicino a Nerone fino al 62: la morte di Burro, sostituito dal famigerato Tigellino, lo spinse infine a rinunciare a ogni incarico e a ritirarsi a vita privata.

Eduardo Barrón Gonzales, Nerone e Seneca, 1904. Madrid, Museo del Prado.

Gli ultimi anni di vita e la morte «eroica» Allora, sempre secondo la testimonianza di Tacito, Seneca «modificò le abitudini della passata potenza, non volle più affollamento di visitatori, evitò di farsi accompagnare da un seguito, diradò le apparizioni in città, quasi fosse trattenuto in casa dalla salute cagionevole o dagli studi filosofici» (Annales XIV, 56, 3). Nella primavera del 65 venne scoperta la congiura pisoniana: nella sanguinosa repressione che seguì fu coinvolto lo stesso Seneca, che accolse l’ordine di morire, secondo il racconto tacitiano, con fierezza e con serenità [ DOCUMENTI E TESTIMONIANZE ONLINE]. Ignoriamo se fosse realmente implicato nella cospirazione, a causa della quale perì anche il nipote Lucano. Una personalità controversa Personalità discussa e controversa, Seneca sembra condensare in sé le contraddizioni di un’intera epoca. Contraddizioni – ampiamente sottolineate, e forse malignamente amplificate, dai con-

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PROFILO STORICO

temporanei e dagli storiografi delle generazioni successive – che riguardavano innanzitutto il comportamento, sia nell’ambito della vita privata, per l’incoerenza fra le austere dottrine professate e le ricchezze accumulate senza scrupoli, sia in quello dell’attività politica, per i compromessi attuati all’epoca del principato neroniano, ma anche per la doppiezza e l’opportunismo mostrati negli anni precedenti. Significativi i rapporti istituiti con Claudio: dalle adulazioni smaccate contenute nella Consolatio ad Polybium [ T4 ONLINE], si passa nel giro di dieci anni alla satira sferzante dell’Apokolokyntosis [ T20], composta, a sua volta, negli stessi giorni della solenne laudatio funebris pronunciata ufficialmente da Nerone [ cap. 4.6]. Ma la contraddittorietà dell’uomo si rivela anche negli aspetti più profondi e più intimi della sua personalità e della sua opera: il richiamo di una vita ascetica e contemplativa (evidente fin dagli anni giovanili) si interseca con l’ambizione ad assumere ruoli politici e civili; l’invito filosofico al senso della misura e al controllo di sé viene clamorosamente smentito sia dalla scelta di uno stile sentenzioso, frantumato e sfavillante (anticlassico nella forma come nella sostanza), sia dalla natura dei testi tragici (dove il Logos è destinato a soccombere dinanzi alla forza irrazionale e sconvolgente delle passioni). Ma forse sono proprio questa contraddittorietà, espressa in uno stile inquieto e «drammatico», la non sistematicità del pensiero filosofico, il carattere “esistenzialistico” della sua riflessione a fare di Seneca, come scrisse Concetto Marchesi, «lo scrittore più moderno della letteratura latina». Le opere sopravvissute Ricchissimo è il corpus delle opere sopravvissute, comprendente, oltre agli scritti filosofici, dieci tragedie, una satira menippea (Apokolokyntosis) e una raccolta di epigrammi, da sempre oggetto di controversia riguardo alla paternità. Dieci opere filosofiche sono state trasmesse sotto il titolo complessivo di Dialogi, nonostante solo una di esse (De tranquillitate animi) presenti un vero e proprio impianto dialogico. Non sappiamo se tale titolo sia dovuto all’autore stesso. È possibile che il termine, per il carattere sovente dialogico dei trattati filosofici antichi, fosse genericamente usato per indicare le opere filosofiche anche quando non si trattava di veri e propri dialoghi. I dieci titoli, suddivisi in dodici libri, sono stati trasmessi nei manoscritti secondo il seguente ordine, che non corrisponde a quello cronologico: I. Ad Lucilium de providentia; II. Ad Serenum de constantia sapientis; III-V. Ad Novatum de ira libri tres;

Le opere di Seneca non pervenute Il corpus delle opere di Seneca che ci sono state trasmesse è certo ragguardevole, ma altrettanto vasto è il catalogo delle opere disperse, di cui possediamo scarsi frammenti quando non il solo titolo. Fra i trattati filosofici: Exhortationes; il dialogo De superstitione; i Libri moralis philosophiae, ai quali Seneca lavorò negli ultimi anni di vita; le Epistulae ad Novatum, il fratello cui sono dedicati due dei Dialogi; il libro De matrimonio, più volte citato da Gerolamo; il Liber de

remediis fortuitorum ad Gallionem, di cui parla Tertulliano; un De officiis da cui Martino di Braga, nel VI secolo, trasse la sua Formula honestae vitae, testo destinato a notevole fortuna durante l’età medievale; De immatura morte. Disperse sono anche le orazioni, e soprattutto il ricco corpus di trattati di argomento geografico, folclorico e naturalistico: De motu terrarum (sui terremoti); De lapidum natura; De piscium natura; De situ Indiae; De situ et sacris Aegyptiorum; De forma mundi (sulla sfericità del mondo).

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

PROFILO STORICO

VI. Ad Marciam de consolatione; VII. Ad Gallionem de vita beata; VIII. Ad Serenum de otio; IX. Ad Serenum de tranquillitate animi; X. Ad Paulinum de brevitate vitae; XI. Ad Polybium de consolatione; XII. Ad Helviam matrem de consolatione. Ai Dialogi si devono poi aggiungere due trattati di carattere etico-politico (De clementia; De beneficiis), un trattato di argomento naturalistico e scientifico (Naturales quaestiones) e infine quello che va senza dubbio considerato il capolavoro di Seneca, le Epistulae morales ad Lucilium.

Guida allo studio

1.

Ripercorri in sintesi le varie fasi della biografia senecana, ricordando gli eventi storico-politici nei quali lo scrittore fu direttamente coinvolto.

2. Elenca i titoli delle opere di Seneca a noi pervenute. 3. Seneca fu un uomo dalla personalità discussa e controversa: sapresti indicarne le ragioni?

2 Filosofia e potere Vita attiva e vita contemplativa A differenza degli scrittori suoi contemporanei, Seneca si sforza per buona parte della vita di partecipare all’attività politica. Non è dunque un caso che nelle opere filosofiche senta l’esigenza di confrontarsi ripetutamente con un tema da sempre fondamentale nella cultura romana: il rapporto fra vita attiva e vita contemplativa, vita pubblica e vita privata, individuo e società. Le risposte non saranno univoche; spesso, anzi, oscillanti e perfino opposte: la necessità di un impegno pubblico è sostenuta con forza negli anni Cinquanta, quando Seneca svolge attivamente il ruolo prima di pedagogo e poi di consigliere del principe; viene meno nelle opere posteriori al secessus, quando l’accento è posto sull’interiorità della coscienza. Sentita è comunque l’esigenza di trovare una conciliazione fra i due termini, conciliazione resa difficile dagli eventi storici, e soprattutto dalla natura assolutistica del principato, quale si era dichiarata con sempre maggiore evidenza fin dagli ultimi anni di Augusto. Il saggio deve rendersi utile agli uomini C’è un principio, tuttavia, al quale Seneca resta sempre fedele: compito dell’uomo è rendersi utile agli altri uomini. Principio fondamentale della filosofia stoica, che discendeva da quello dell’eguaglianza umana, sancita dalla legge naturale: come aveva scritto Zenone, tutti gli uomini sono cittadini della stessa città, perché per tutti esiste una sola vita e un solo ordine razionale. In che modo possiamo renderci utili? La risposta di Seneca non è in fondo molto dissimile da quella che avrebbe dato Cicerone un secolo prima: l’uomo virtuoso deve cercare in ogni modo di non sottrarsi alle sue responsabilità umane e civili. Giovare è sempre possibile, anche nelle situazioni più difficili. La morale di Seneca è, nelle sue radici, una morale attiva, romana, proiettata verso l’esterno, fondata sul principio del bene comune. Un trattato di teoria politica: il De clementia I tre libri De clementia rappresentano il tentativo più esplicito di dar soluzione al problema del rapporto fra principe e sudditi (e, in subordine, fra principe e senato). I princìpi teorici fondamentali 122 © Casa Editrice G. Principato


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sono quelli già delineati in età ellenistica dallo stoicismo: il rex iustus governa lo Stato come la mens divina regola razionalmente e provvidenzialmente l’universo; la monarchia è un’istituzione conforme a natura, non solo utile ma anche necessaria; il rex è l’incarnazione del sapiens, una sorta di benefattore dell’umanità che irradia le proprie virtù sul mondo a lui assoggettato. Visto entro tale prospettiva, il problema si pone dunque nei seguenti termini: come rendere saggio il princeps, compito che spetta evidentemente alla filosofia, e che spettava, nel caso specifico, a Seneca. Ad ogni avvento di principe, negli ultimi quarant’anni, era seguita un’impressionante serie di vendette e di epurazioni. L’iperbolico elogio di Nerone [ T6] che dà inizio al De clementia scaturisce da due sentimenti opposti eppure convergenti: da una parte lo stupore dinanzi alla clemenza finora dimostrata da Nerone; dall’altra il timore che essa potesse avere breve durata. Evidentemente Seneca, oltre ad avere acquisito una vasta esperienza della vita di corte, conosceva bene il suo discepolo. Come limitare un potere assoluto e sovrano? Dove non potevano più le leggi dello Stato, doveva riuscire la legge morale: privati delle garanzie costituzionali dell’antica repubblica, i sudditi potevano contare soltanto sulla virtù del principe, sulla sua equità, sulla sua umanità, sulla sua moderazione. Di qui l’importanza della clementia, virtù politica e morale insieme, poiché da essa dipendeva il buon andamento di un governo monarchico. Per metà trattato di filosofia politica, per metà discorso parenetico e pedagogico espressamente rivolto a Nerone, il De clementia si situa dunque al confine tra la supplica e lo specchio di virtù, che il filosofo vuole porre dinanzi al principe affinché si adegui ai suoi precetti. Nerone, come sappiamo, finì per ribellarsi al suo illuminato istitutore, costringendolo prima a ritirarsi a vita privata, successivamente a suicidarsi. Resta il fatto che alle teorie del De clementia si attinse generosamente nelle epoche successive: evidentemente non si trattava solo di utopia, ma di realismo politico. Una monarchia paternalistica doveva apparire come l’unico correttivo al potere assoluto, e ormai inevitabile, degli imperatori.

Statuetta in bronzo di filosofo, I secolo a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

La scelta dell’otium Ridotto nel 62 al silenzio politico, Seneca è costretto di nuovo a riflettere sul rapporto fra vita contemplativa e vita attiva, privilegiando la prima rispetto alla seconda: che cosa deve fare il saggio quando è costretto a vivere in uno Stato «dove la guerra civile è senza sosta, dove la libertà è fatale ai migliori, si fa pochissimo conto del giusto e dell’onesto, dove vi è una crudeltà disumana verso i nemici, e una certa ostilità anche nei riguardi dei cittadini?» (De otio 8, 2). L’energia vitale e l’ardore combattivo espressi nei dialoghi composti prima del 62 sembrano ormai esauriti; prevale ora un atteggiamento pessimista e sfiduciato: «Se io li passerò in rassegna tutti [gli Stati], uno per uno, non ne troverò 123 © Casa Editrice G. Principato


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nessuno, che possa accettare un saggio o che il saggio possa sopportare. E se non si trova quello Stato che noi immaginiamo, comincia ad essere necessaria per tutti la vita appartata, perché da nessuna parte si trova l’unica cosa che avrebbe potuto essere anteposta a questa vita» (De otio 8, 3). Ancora più significativa la scelta contenuta nelle Epistulae ad Lucilium: il saggio si è ritirato dal mondo per dedicarsi al perfezionamento interiore. Mutato è anche il suo destinatario: non più i contemporanei ma i posteri, cui il filosofo si rivolge come una guida spirituale al fine di assicurare la tranquillità dell’animo [ T12].

Guida allo studio

1.

Il rapporto fra vita attiva e vita contemplativa: un tema con il quale Seneca non cessa mai di confrontarsi. Quali le diverse soluzioni via via prospettate? Quale il principio cui resta in ogni caso fedele?

2. Dopo aver illustrato contenuti e struttura del trattato De clementia, esponi i princìpi filosofici che ne costituiscono il supporto teorico.

3 La scoperta dell’interiorità Vera libertas Due sono i poli intorno ai quali si articola e si sviluppa, nel corso degli anni, il pensiero di Seneca: il primo, come si è detto, riguarda il problema del potere; il secondo, quello della vita interiore. Apparentemente, essi non sono in conflitto: essendo utile agli altri, il saggio si rende utile a se stesso. Nella realtà, la filosofia di Seneca sposta il centro dell’interesse dalla sfera pubblica a quella individuale, portando a compimento un processo che era in atto da almeno due secoli in Roma, e che si richiamava alla grande tradizione delle filosofie ellenistiche: la vita umana va misurata su un piano spirituale e morale; saggio è colui che si sottrae all’urgenza delle passioni e alla pressione degli eventi storici, rendendosi libero, cioè padrone di sé. Dal piano politico a quello etico Con Seneca il concetto di libertas si sposta definitivamente dal piano politico a quello etico. Solo chi serve la filosofia è veramente libero: philosophiae servias oportet, ut tibi contingat vera libertas [ T12]. Storicamente, è questa la grande scoperta di Seneca, quella che consente al suo pensiero e alle sue opere di attraversare i secoli cristiani e di giungere fino alle soglie della modernità. Cicerone poteva ancora pensare alla filosofia morale in funzione di quella politica: al centro della sua riflessione non stava l’individuo ma la civitas. Con Seneca, il rapporto si è rovesciato: la filosofia offre gli strumenti per resistere alle durezze della storia; l’interiorità è l’unico luogo dove gli uomini possono sottrarsi all’inautenticità degli avvenimenti esterni. Come leggiamo ripetutamente nel De constantia sapientis, nessuno può fare del male a chi ha ormai raggiunto la vera saggezza, cioè la libertà interiore, che implica a sua volta il giusto ed equilibrato distacco dalle cose del mondo. Una filosofia non sistematica Che cos’è la filosofia per Seneca? Una guida sulla via della sapientia: lungo questo cammino, scrive il filosofo, noi non dobbiamo irrigidirci nelle formule disegnate dalle varie scuole, ma muoverci con indipendenza 124 © Casa Editrice G. Principato


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di giudizio e autonomia di pensiero. Se i princìpi fondamentali della filosofia di Seneca appartengono allo stoicismo, è lo stesso autore a richiamare l’attenzione sulla necessità di restare liberi da ogni condizionamento dottrinale. I maestri che ci hanno preceduto non sono i nostri padroni, sono delle guide spirituali: non sumus sub rege: sibi quisque se vindicat («Non siamo alle dipendenze di un sovrano; ciascuno è padrone di sé»; Ep. Ad Luc. 33, 4). Seneca invita perciò il discepolo Lucilio ad arricchirsi con massime non solo dei maestri stoici (Crisippo, Zenone, Cleante, Panezio, Posidonio) ma anche di altre scuole, a cominciare da quella epicurea (che Cicerone, si ricordi, aveva invece ripudiato). Ciò che importa è acquistare una propria indipendenza interiore, essere in grado di diventare maestri di noi stessi. Philosophia e philologia Seneca ha modo in diverse occasioni di esprimere tutta la sua diffidenza nei confronti del sapere; se esso non si traduce in saggezza di vita, è inutile, anzi dannoso. Sarà dunque da evitare ogni forma di astratta erudizione: le letture debbono giovare, non restare inerti; non dobbiamo fare della filologia, ma della filosofia; non conta la quantità ma la qualità degli studi [ T10 ONLINE; T18 ONLINE]. Compito della filosofia è metterci in condizione di regolare la nostra vita sulla via della virtù e del bene, sapendo che ciò è sempre possibile: se lo stoico tradizionale era una figura intransigente, eccezionale, quasi inattingibile, il saggio cui pensa Seneca è una figura umana e accessibile nella sua quotidiana ricerca della verità. Non è un individuo che si pone sprezzantemente al di sopra del mondo, ma un uomo che cerca umilmente di migliorarsi giorno per giorno, passo dopo passo, pur essendo consapevole di non poter mai raggiungere la perfezione. La sostanza teorica della filosofia di Seneca è in fondo semplice, ed essenzialmente rivolta a rendere praticabile la via della saggezza: ogni anima contiene in sé una scintilla della ratio divina [ T14]; può dunque conoscere, in virtù di essa, ciò che è bene e ciò che è male. Solo seguendo gli insegnamenti della natura (naturam sequi [ T7 ONLINE]), potremo renderci padroni del nostro destino, accettandolo fino in fondo (amor fati) e divenendo simili a quel dio che regge razionalmente l’universo. Il tempo e la morte Fedele all’insegnamento della scuola dei Sestii e dei loro discepoli [ T13 ONLINE; T18 ONLINE], Seneca predica innanzitutto la necessità di applicarsi con umiltà ai quotidiani esercizi dello spirito, al fine di rafforzare la volontà e di temprare il carattere. La meditazione sulla condizione dell’uomo, sull’essenza del tempo, sulla morte che inevitabilmente ci attende [ T1; T9; T13 ONLINE; T17 ONLINE] sono parte essenziale di tale esercizio. Nel De brevitate vitae, Seneca sottolinea il paradosso nel quale incorre la maggior parte degli uomini, disposti a lottare per impadronirsi di beni materiali spesso irrilevanti, non per salvaguardare il proprio tempo, che viene disperso in occupazioni futili e confuse [ T5]. Sbagliano quanti si lamentano che la vita è breve: lo è solo se facciamo un cattivo uso degli anni che ci sono concessi. Su questo tema si apre, non a caso, la prima lettera indirizzata a Lucilio [ T9]; ma esso è ampiamente sviluppato anche nelle epistole successive (cfr. in particolare 108, 27-28 [ T18 ONLINE]). Una filosofia della libertà Sulla morte, Seneca scrive pagine di straordinaria intensità. Essa non è dinanzi a noi, non è un avvenimento futuro, ma un’esperienza che tocca ogni istante della nostra vita [ T9]: cotidie morimur (Ep. ad Luc. 24, 20 125 © Casa Editrice G. Principato


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[ T13 ONLINE]); ogni giorno la morte ci consuma o ci spoglia. Ma soprattutto la morte rappresenta l’unico, il più autentico strumento di libertà concesso all’uomo: grazie a essa noi possiamo resistere alla fortuna, sottrarci a ogni forma, giuridica o psicologica, di schiavitù. Si deve imparare a morire, se si vuole veramente imparare a vivere. L’intera filosofia di Seneca può essere qualificata come una filosofia della libertà: libertà dell’uomo che si fa padrone del proprio destino nel momento in cui lo distanzia da sé e apprende a essere più forte degli eventi.

Guida allo studio

1.

Con Seneca il concetto di libertas viene trasferito dal piano politico a quello etico: che cosa significa?

2. Che cos’è la filosofia per Seneca? È possibile riconoscere nella sua opera un indirizzo dottrinale esclusivo? 3. Quali sono i temi privilegiati della riflessione senecana nelle opere filosofico-morali?

4 Le forme del filosofare Forza e intensità del linguaggio Quel che rende le pagine di Seneca così uniche nel panorama della filosofia antica non sono le singole asserzioni, quanto il profondo senso di umanità, la finezza delle osservazioni, la forza e l’intensità del linguaggio. Si leggano le pagine dedicate agli schiavi [ T15], ai ludi gladiatorii, al tedio esistenziale [ T8], allo stato di alienazione dell’uomo sopraffatto dai falsi bisogni della vita, ai rapporti tra il singolo e la folla [ T11]: le parole di Seneca non scadono mai nell’approssimazione, individuano con minuta esattezza verità di ordine esistenziale, disegnano l’uomo al di là delle differenze giuridiche e sociali, si imprimono per sempre nella mente dei lettori con la forza della necessità e dell’oggettività. Un discorso persuasivo e coinvolgente Nell’assenza di uno schema rigido, il discorso si sviluppa in forme ondulate e avvolgenti; l’autore vuole persuadere, più che dimostrare, accompagnare il lettore passo dopo passo, quasi inavvertitamente, sulla via della sapienza, coinvolgerlo sul piano emotivo; prevalgono i toni intimi e colloquiali; il ragionamento è continuamente ravvivato da immagini, similitudini e metafore tratte dalla vita di ogni giorno, spunti autobiografici, aneddoti esemplari. Tali caratteristiche vengono esaltate nelle Epistulae ad Lucilium, che rappresentano il punto d’arrivo della filosofia senecana non certo per la novità dei contenuti, quanto per la perfetta fusione tra forma dell’esposizione e procedimento discorsivo. Lo stesso autore è consapevole di aver imboccato una strada autenticamente nuova, che va ben oltre i modelli greci (l’epistola filosofica di Platone e di Epicuro): «è di grande giovamento una conversazione alla buona, perché s’insinua nell’animo a poco a poco (minutatim). I discorsi già preparati e pronunciati a gran voce davanti al pubblico degli ascoltatori hanno maggior risonanza, ma meno familiarità. La filosofia non è altro che un buon consiglio, ma nessuno dà un consiglio ad alta voce. Ci sono dei casi in cui dobbiamo fare dei grandi discorsi, quando l’ascoltatore è esitante e ha bisogno di essere stimolato. Quando, invece, non 126 © Casa Editrice G. Principato


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si tratta di infondergli la volontà di istruirsi, ma solo di istruirlo, è bene scendere a queste conversazioni più dimesse (submissiora verba). Penetrano nell’animo e vi rimangono impresse meglio» (Ep. ad Luc. 38, 1). Uno stile “anticlassico” Non dobbiamo tuttavia credere incondizionatamente a tali dichiarazioni, che di fatto riguardano il movimento interno dei pensieri, un ideale percorso pedagogico, non lo stile di Seneca, uno stile tutt’altro che semplice o dimesso, ma al contrario estremamente elaborato e persino teatrale, ricchissimo di artifici retorici e di colori forti, di antitesi e di concettosi paradossi, che per taluni aspetti può essere accostato al coevo gusto “asiano” delle declamationes. In ogni caso uno stile fascinoso e personalissimo, che si allontana vistosamente dai parametri della tradizione classica. Disarticolazione del periodo ciceroniano Celebri, a questo proposito, le “stroncature”: sprezzante e malevola quella dell’imperatore Caligola (harena si­ ne calce, «sabbia senza cemento»); più meditata e professionale quella del retore Quintiliano [ T2, cap. 6], che tuttavia si concentra sul medesimo aspetto, deplorando la frantumazione del periodo tradizionale di ascendenza ciceroniana – ampio, architettonico, simmetrico – in minutissimae sententiae. Entrambi colgono essenzialmente nel segno: al predominio dell’ipotassi, cioè all’ordinamento gerarchico delle proposizioni in una serie complessa di membri connessi fra loro mediante legamenti espliciti (congiunzioni coordinanti e subordinanti, pronomi relativi, ecc.), Seneca sostituisce un andamento paratattico, spezzato e tendenzialmente asimmetrico. Il centro del discorso si sposta dal periodo alla singola frase, alla singola espressione, chiamata ad irradiare un maxi­ mum di significato in un minimum di spazio: plus significas quam loqueris, osserva lo

Rilievo raffigurante gladiatori che combattono contro leoni in un circo, I secolo d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

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stesso Seneca, lodando lo stile epistolare del discepolo Lucilio. Il tessuto di questa prosa si forma per addizioni, ritorni e aggiustamenti progressivi, attraverso un susseguirsi di frasi per lo più rapide e pregnanti, sovente giustapposte per asindeto. PROFILO STORICO

I connettivi del discorso L’effetto di staccato prodotto da questa drastica semplificazione dei rapporti sintattici non deve trarre in inganno. Non siamo in presenza di frammenti dispersi e irrelati; soltanto, la coerenza del discorso è affidata a connettivi diversi, di tipo analogico-intuitivo (più vicini se mai alle movenze della lingua dell’uso e della lingua poetica), tra i quali predominano l’antitesi, la paronomasia e le figure di iterazione, in particolare l’anafora: «alla trama logica dei nessi grammaticali tende a subentrare una trama fonica che lega una frase all’altra mediante la ripetizione iniziale» (Traina). Le sententiae Antitesi e iterazione (di volta in volta rafforzate e variate da chiasmo, parallelismo, omoteleuto, paronomasia, poliptòto) sono i congegni-base, apparentemente semplicissimi, che Seneca fa giocare nella costruzione dell’elemento più caratteristico della sua prosa, la sententia concettosa e pregnante, nella quale culmina e si risolve epigrammaticamente il movimento del discorso (e del pensiero): nusquam est, qui ubique est [ T10 ONLINE]; si quid te vetat bene vivere, bene mori non vetat («se qualcosa t’impedisce di viver bene, non t’impedisce di ben morire»; Ep. ad Luc. 17, 5); si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad opiniones, num­ quam eris dives («se vivrai secondo natura, non sarai mai povero; se, invece, vorrai seguire il variare delle opinioni umane, non sarai mai ricco»; Ep. ad Luc. 16, 7). Talora è la figura etimologica a fornire il sostegno a un’antitesi memorabile: hoc unum contingit immortale mortalibus («questo bene [la virtù] è l’unica cosa immortale avuta in sorte dai mortali»; Ep. ad Luc. 98, 9), che identifica e scolpisce, con la forza di una rivelazione definitiva, il sommo bene – la virtus stoica – cui deve tendere chi si è avventurato nella ricerca della saggezza. Ideologia e stile: una nuova visione del mondo Non v’è dubbio che lo stile scintillante e «drammatico» di Seneca corrisponda a una nuova visione del mondo, agonistica e lacerata da tensioni contrastanti, consegnata alla solitudine esistenziale di un io in perenne conflitto con se stesso e con la società che lo circonda: «la prosa di Seneca sta alla prosa di Cicerone o di Livio come il divisionismo sta alla tradizione pittorica. Anziché tracciare un disegno a chiare linee, coordinato, Seneca propende per la brusca giustapposizione di colori sgargianti: alla reale o apparente obiettività dello stile strutturato per ampi periodi, che descrive in terza persona una situazione che è là, davanti agli occhi, sostituisce la soggettività – o l’egocentrismo – della prima persona che si impone sulla seconda» (Herington).

Guida allo studio

1.

Esponi le caratteristiche salienti dello stile di Seneca. Perché viene definito “anticlassico”? 2. Che cosa significa l’espressione harena sine calce? Chi l’aveva pronunciata?

3. Qual è l’elemento più caratteristico della prosa di Seneca? Quali le figure retoriche che utilizza più di frequente per costruirlo?

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5 Filosofia e scienza: le Naturales quaestiones L’argomento Particolare rilievo, nella trattatistica di Seneca, assumono i sette libri di Naturales quaestiones («Ricerche di scienze naturali») composti negli ultimi anni di vita, certamente dopo il 62. L’opera è dedicata a Lucilio, lo stesso destinatario delle Epistulae morales, e si propone di affrontare argomenti di carattere meteorologico: ignes in aere (fuochi celesti), fra cui aloni, arcobaleno, meteore (libro I); tuoni, fulmini e lampi (libro II); acque terrestri (libro III); le piene del Nilo, nubi, grandine e neve (libro IV); venti (libro V); terremoti (libro VI); comete (libro VII). La meteorologia Nella prefazione al secondo libro, l’autore distingue fra astronomia, geografia e, appunto, meteorologia: la prima si occupa della natura del cielo e degli astri; la seconda di tutto quanto appartiene alla vita terrestre; la terza, oggetto dell’indagine di Seneca, dei fenomeni che si svolgono fra cielo e terra. Anche lo studio dei terremoti pertiene alla meteorologia: secondo le cognizioni del tempo, essi erano infatti originati da soffi e da agitazioni dell’aria che si introducevano poi nella crosta terrestre, sconvolgendone l’assetto. Scienza e filosofia Alle scienze naturali Seneca si era già dedicato all’epoca dell’esilio in Corsica: di quella cospicua produzione restano solo i titoli [ Le opere di Seneca non pervenute, p. 121]). Gli studi di carattere scientifico erano del resto patrimonio tradizionale degli stoici. Chiari gli intenti: l’indagine del mondo fisico doveva rivelare la natura razionale e provvidenziale del cosmo, ordinato da una mens divina. La scienza della natura era dunque strettamente legata alla teologia, con la quale tendeva a identificarsi. La subordinazione dello scienziato al filosofo implicava anche la svalutazione delle cognizioni tecniche. Gli studi scientifici assumono perciò valore solo all’interno di una prospettiva morale: ciò che conta non è sapere ma diventare più saggi [ T19].

Prologhi ed epiloghi delle Naturales quaestiones: una cornice etico-filosofica L’intento morale delle Naturales quaestiones emerge dalla struttura stessa dell’opera: gli argomenti propriamente scientifici di ciascun libro sono infatti accompagnati da prefazioni ed epiloghi che inquadrano il discorso in una cornice etico-filosofica.

▰ Libro I Nella prefazione al primo libro si sottolinea

▰ Libro III Ancora più significativa la prefazione al

terzo libro, dove Seneca si assume il compito di fissare in sette punti «ciò che è veramente importante nella vita dell’uomo» (quid praecipuum in rebus humanis).

▰ Libro IV La prefazione al quarto libro ammonisce

Lucilio, il dedicatario dell’opera, a liberarsi con ogni forza dalla stretta degli adulatori. Nel finale dello stesso libro viene fustigata la golosità dei contemporanei, che si sono spinti a far commercio perfino della neve.

il rapporto fra indagine scientifica e conoscenza del divino; nell’epilogo si condanna l’uso immorale degli specchi, usati dai contemporanei non per osservare il cielo ma per eccitare il desiderio e la vanità.

▰ Libri V-VI Nell’epilogo del quinto libro l’autore

▰ Libro II L’epilogo del secondo libro illustra una

▰ Libro VII Il trattato si conclude con una riflessione

delle finalità primarie dell’intera opera: liberare gli uomini dalla paura irrazionale dei fenomeni naturali, e in particolare dei fulmini (di cui si era poco prima parlato).

osserva come gli uomini sfruttino i venti solo per combattersi fra di loro; in quello del sesto si propone di liberare l’uomo dalla paura della morte. che lega il progresso delle scienze a quello delle virtù morali, e viceversa.

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Il progresso delle scienze Il trattato si conclude con una riflessione, ancora una volta di natura morale, sullo stato degli studi contemporanei. Il giudizio è negativo: la ricerca langue per mancanza di impegno; le scienze regrediscono; i vizi si moltiplicano. Se è vero che lo studio della natura avvicina a Dio, ogni forma di progresso scientifico comporta un progresso nell’ambito delle virtù (e viceversa). Non v’è dunque da meravigliarsi se alla diffusione dei vizi corrisponda l’abbandono delle scuole filosofiche. Non viene meno tuttavia la fiducia nel progresso delle scienze. In contrasto con la mentalità prevalente all’epoca, secondo la quale ogni ramo degli studi era giunto al suo culmine (e si trattava dunque solo di inventariarlo), Seneca esalta il processo inesauribile dell’indagine conoscitiva: «molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla gente dell’evo futuro; molto è riservato a generazioni ancora più lontane da noi nel tempo, quando di noi anche il ricordo si sarà cancellato: il mondo sarebbe una ben piccola cosa se in esso tutto il mondo non trovasse materia per le sue ricerche» (VII, 30, 5).

Guida allo studio

1.

Illustra l’argomento e la struttura delle Naturales quaestiones. 2. Quale rapporto si istituisce nell’opera tra scienza e filosofia?

3. Qual è l’atteggiamento di Seneca riguardo al progresso delle scienze?

6 Una satira menippea: l’Apokolokyntosis L’occasione Alla morte di Claudio (13 ottobre del 54), Seneca fu incaricato di scrivere la laudatio funebris che Nerone lesse in senato. L’orazione non ci è pervenuta: da Tacito (Ann. XIII, 3, 1) sappiamo tuttavia che «quando [Nerone] passò a dire della previdenza e della saggezza di lui, nessuno poté trattenere le risa, benché il discorso, composto da Seneca, facesse grande sfoggio di eleganza». Claudio era dunque uno di quegli argomenti che suscitavano pubblicamente il riso. Lo storico Cassio Dione racconta di alcune battute che girarono appena dopo la morte dell’imperatore, mentre gli venivano tributati onori divini. È in questo clima di doppiezza, di complicità e di allusioni che fu composta, si presume negli stessi giorni, l’Apokolokyntosis, l’unica satira menippea della letteratura latina a noi pervenuta pressoché integralmente. Il titolo Il titolo, variamente inteso dagli studiosi, si fonda sul significato traslato del termine greco kolokynte («zucca», da cui – come anche nella nostra lingua – «zuccone», «sciocco»), nonché sull’analogia con un altro termine greco, apothéosis («deificazione»). Apokolokyntosis potrebbe dunque essere tradotto, all’incirca, come Deificazione di uno zuccone [ Un titolo oscuro e variamente decifrato]. Riassunto dell’opera Parodiando i proemi delle opere storiche, il narratore annuncia di voler tramandare alla memoria ciò che accadde in cielo il giorno 13 ottobre 54; giura inoltre che riferirà solo fatti veri e che si asterrà dai rancori e dalle adulazioni (criterio tradizionale dell’imparzialità storiografica). Solenni princìpi 130 © Casa Editrice G. Principato


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che vengono, com’è ovvio, immediatamente smentiti: il narratore si prende infatti la libertà, poco dopo, di produrre o non produrre, a suo piacimento, i testimoni degli avvenimenti. L’azione ha inizio sulla terra: Claudio muore per intervento di Mercurio, che implora le Parche di recidere una buona volta il filo che teneva legata la vita dell’imperatore, in modo che «uno migliore regni nel palazzo vuoto»; con questo verso (una citazione virgiliana dal libro delle api), viene introdotto il motivo encomiastico delle laudes Neronis, il giovane princeps che Febo Apollo in persona paragona a se stesso, annunciando l’avvento di un’età aurea. Un nuovo proemio inaugura la sezione celeste del libello. Claudio, ridicolmente descritto come un essere mostruoso e non catalogabile, si presenta in cielo dinanzi ad Ercole [ T20]. Dopo una lacuna testuale, assistiamo a un concilio degli dèi, allestito come una seduta del senato, per decidere se divinizzare o no il defunto. I pareri restano comicamente incerti, finché Augusto, con un lungo discorso, affossa la proposta, denunciando i crimini perpetrati da Claudio. Mercurio trascina allora per il collo l’ex imperatore dal cielo giù agli inferi. Durante il tragitto, dio e imperatore si imbattono nel sontuoso funerale dello stesso Claudio, che solo ora si rende conto di esser veramente morto. Durante le esequie, tutti sono felici e contenti: «il popolo romano andava e veniva pensando di essere libero» (12, 2). Seguono, in simmetrica corrispondenza con le laudes Neronis, le parodistiche e antifrastiche laudes Claudii, cantate in forma di nenia funebre da un immenso coro. Finalmente Claudio giunge agli inferi, accolto dall’enorme folla delle vittime del suo principato. Immediatamente viene istruito un processo, condotto da Eaco in persona, il mitico giudice infernale. Viene notificata l’accusa: «35 senatori uccisi, 321 cavalieri romani uccisi, e tanti altri come la sabbia e la polvere» (14, 1). Si discute sulla pena da infliggere: Eaco, per analogia con quella di Sisifo, sentenzia che Claudio sia condannato a giocare eternamente ai dadi con un bossolo buca-

Un titolo oscuro e variamente decifrato: Apokolokyntosis Problematico è il titolo dell’opera, tramandata nei codici medievali come Ludus de morte Claudii. Dall’interpretazione di un passo dello storico greco Cassio Dione, l’umanista Hadrianus Iunius dedusse nel XVI secolo il titolo greco (Apokolokyntosis) che ancora oggi utilizziamo. Titolo peraltro oscuro e variamente decifrato. L’interpretazione più accreditata si fonda sul significato traslato di kolokynte (in greco «zucca») = stultus (anche noi chiamiamo «zucca», «zuccone», una persona di scarso intelletto): apokolokýntosis, per analogia con apothéosis («deificazione»), verrebbe dunque a tradursi, all’incirca, come «deificazione di uno zuccone», «deificazione della zucca». Altri, meno bene, pensano a una vera e propria trasformazione in zucca di Claudio, che doveva avvenire

in una parte del libro per noi perduta: il titolo verrebbe a tradursi, in questo caso, «Zucchificazione». Ben più efficace, invece, partendo dal valore traslato del termine kolokynte (cucurbita in latino), pensare a Claudio come a una «zucca» (un idiota insomma) che pretende di essere deificato: argomento che gli dèi stessi, nella satira di Seneca, dibattono a lungo, giungendo alla conclusione che l’imperatore-zucca sia gettato agli inferi. Ci troveremmo di fronte, insomma, a una «Apoteosi negata», per usare il titolo con il quale è stata pubblicata in Italia un’accurata edizione del testo.

▰ Dove leggere l’opera Seneca, L’apoteosi negata, a cura di R. Roncali (con testo originale a fronte), Marsilio, Venezia 2000³; ottima la traduzione, corredata da esaurienti apparati (introduzione, bibliografia, note al testo). Da segnalare anche: Seneca, Apokolokyntosis, a cura di G. Vannini, Oscar Mondadori, Milano 2008. 131

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

PROFILO STORICO

to, grottesco contrapasso per chi aveva trascorso gran parte della vita dedito al gioco. Mentre Claudio già ha iniziato a gettare gli eterni dadi, che continuamente gli sfuggono, passa di lì Caligola (cui il suo successore, si ricordi, aveva negato la divinizzazione), che dapprima lo reclama come schiavo e infine, non sapendo che farsene, lo dona ad Eaco. Il giudice degli inferi lo consegna allora a un proprio liberto, perché diventi il suo «addetto giudiziario». Il genere e i modelli L’Apokolokyntosis, come si è detto, è una satira menippea [ Il genere letterario], di cui sfrutta alcune delle più tipiche situazioni narrative (il concilio degli dèi, la discesa agli inferi), la mescolanza di prosa e verso, la contaminazione di serio e di comico (le due laudes contrapposte), l’alternanza di stile aulico e volgare, l’uso di citazioni erudite in funzione parodica, la caricatura grottesca e satirica di noti personaggi della cronaca e della storia. La violenza dei contenuti narrativi e l’aggressività dei toni, spinta fino all’invettiva, fanno pensare tuttavia, più che alle moraleggianti e argute satire menippee di Varrone, alle pungenti satire di Lucilio, che aveva contemplato nel suo programma poetico l’attacco ad personam, preferibilmente rivolto contro i primores populi, cioè i personaggi più rappresentativi della città. Satira e parodia L’elemento satirico viene sviluppato preferibilmente attraverso un uso spregiudicato e parodistico dei materiali letterari, sia greci sia latini, così che l’Apokolokyntosis viene anche a risultare un esilarante, finissimo divertissement letterario. Quando Eaco, ad esempio, contesta il capo d’accusa nei confronti di Claudio, enumerando la serie delle sue vittime, conclude con un’espressione in

Il genere LETTERARIO La satira menippea ▰ Due diversi generi satirici in Roma Accanto

alla satira esametrica, il cui inventor era stato Lucilio, coltivata da Orazio e poi in età imperiale da Persio e Giovenale, fiorisce in lingua latina anche un diverso genere satirico, la satura menippaea, inaugurata in Roma da Varrone Reatino, a cui si rifaranno in età neroniana due opere di grande originalità come l’Apokolokyntosis di Seneca e il Satyricon di Petronio. Mentre la satura luciliana si caratterizza nel tempo come un discorso mordace e polemico destinato a fustigare i vizi degli uomini (quello che noi oggi continuiamo a chiamare «satira»), le satire menippee si distinguono fin dalle origini per una diversa forma compositiva, un misto di prosa e di versi che chiamiamo «prosimetro», e per un accentuato gusto della sperimentazione letteraria e dell’invenzione narrativa.

▰ Le satire di Menippo di Gadara La

denominazione deriva dalle satire di Menippo di Gàdara, filosofo vagante di orientamento cinico, vissuto nella prima metà del III secolo a.C. Menippo aveva creato una bizzarra e stravagante forma letteraria, mescolando

elementi seri a elementi comici, versi a prose, situazioni fantastiche e caricaturali ai toni crudi e sferzanti della predicazione popolare. Seguendo la tradizione cinica, Menippo contestava integralmente le istituzioni fondamentali (Stato, patria, famiglia, proprietà privata) dell’universo sociale in nome della nozione semplice ma liberatoria di physis («natura»), di fronte alla quale tutti gli uomini sono uguali.

▰ Le Satire Menippee di Varrone Varrone adotta

gli aspetti tecnici e formali della satira menippea (il prosimetro, la libertà fantastica dell’invenzione, la mescolanza di serio e di comico, il tono mordace) ma non i contenuti: allo spirito trasgressivo, estremistico e anticonformista di Menippo oppone un’ideologia conservatrice, ispirata agli antiqui mores romani. Nelle sue satire Varrone contamina inoltre il modello menippeo con spunti tratti da altri generi (la satura di Ennio e di Lucilio, la commedia plautina, il mimo) e con i più vari materiali del folklore. Il risultato è un’opera stravagante e imprevedibile, dove il moralismo censorio si sposa con gli scatti fantastici e gli estri parodistici di uno spirito acutamente osservatore.

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PROFILO STORICO

lingua greca («come la sabbia e la polvere») che corrisponde a un emistichio dell’I­ liade (IX, 385): ma quello che in Omero indicava la profusione dei doni offerti da Agamennone ad Achille, in Seneca è diventato l’elenco dei cittadini romani fatti assassinare dal princeps. La caricatura, nell’Apokolokyntosis, non si limita alla persona di Claudio, vittima privilegiata della furia satirica dell’autore, ma si estende ad altri personaggi minori e agli dèi stessi: Ercole, ad esempio, viene rappresentato come una figura rozza e ridicola, al punto da cadere per un attimo negli inganni del pur stolto Claudio: il loro incontro in cielo si risolve infine, agli occhi del lettore, in una gara tra idioti [ T20].

Guida allo studio

1.

Per quali ragioni l’Apokolokyntosis viene classificata come satira menippea? 2. Ricorda l’occasione in cui fu composta l’Apokolokyntosis ed esponi la trama dell’opera.

3. Come è stato interpretato il titolo greco dell’opera che oggi utilizziamo?

7 Le tragedie Il corpus delle opere tragiche Dieci sono le tragedie tradizionalmente assegnate a Seneca: nove cothurnatae (cioè tratte da modelli greci) e una praetexta (Octavia, tragedia di ambientazione romana). Si tratta degli unici testi tragici in lingua latina conservati integralmente; di qui la loro eccezionale rilevanza per lo studio del genere in Roma. Fra le tragedie incluse nel corpus senecano, due (Octavia e Hercules Oetaeus) sono tuttavia considerate spurie o quanto meno sospette [ Le tragedie spurie o sospette]. Scarse sono le notizie sulla composizione e sulla cronologia di tali opere, che alcuni studiosi vorrebbero ascrivere ai primi anni del principato di Nerone, quando Seneca svolgeva funzioni di consigliere del princeps. Altri preferiscono assegnare le tragedie all’epoca dell’esilio o agli ultimi anni di vita; è anche possibile che esse siano state composte in periodi di tempo diversi.

Le tragedie spurie o sospette ▰ Octavia Delle dieci tragedie, quasi certamente spuria è la pretesta Octavia, ambientata alla corte neroniana nel 62, l’anno del secessus. Tra i personaggi vi è anche lo stesso Seneca, che inutilmente cerca di trattenere Nerone dai suoi gesti insani: Ottavia, come si sa, verrà ripudiata e fatta uccidere. Durante il corso dell’azione, interviene il fantasma di Agrippina, che profetizza al princeps una fine del tutto simile a quella che poi sarebbe realmente toccata a Nerone sei anni dopo (quando Seneca era già morto). La presenza dell’autore in veste di personaggio, la profezia di

Agrippina, il fatto che alcune parti si presentino come una semplice trasposizione in versi di analoghi passi delle opere filosofiche senecane, consiglia di espellere l’Octavia dal corpus di Seneca. Con ogni probabilità, si tratta di una tragedia scritta nel decennio successivo alla morte di Nerone da un poeta che conosceva a fondo lo stile e l’orizzonte concettuale di Seneca.

▰ Hercules Oetaeus Sospetta appare anche l’Hercules Oetaeus: per la sua inusitata lunghezza (circa duemila versi, il doppio delle altre); per ragioni stilistiche; per la scarsa verosimiglianza delle situazioni drammatiche; per il finale positivo (apoteosi dell’eroe), in contrasto con i finali luttuosi di tutti gli altri drammi.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

PROFILO STORICO

I modelli Gli argomenti delle nove coturnate sono tratti dal grande repertorio della tragedia greca classica. La sostanziale fedeltà ai modelli greci (soprattutto Sofocle ed Euripide) non implica una mancanza di originalità: non solo nella ristrutturazione dei materiali scenici, ma anche, e soprattutto, nell’accentuazione patetica delle vicende e nell’esuberanza dello stile. Seneca, sotto questo aspetto, si colloca perfettamente nella scia dei predecessori latini, portando all’estremo il gusto spettacolare, enfatico e declamatorio della tragedia romana arcaica. Rilevante appare anche l’influsso di Ovidio, soprattutto nell’indagine psicologica delle figure femminili (Medea e Fedra). Le nove tragedie di argomento mitico TITOLO LATINO

TRADUZIONE

MODELLI GRECI

Hercules furens

La follia di Ercole

Eracle di Euripide

Troades

Le Troiane

Ecuba e Troiane di Euripide

Phoenissae

Le Fenicie

Edipo a Colono di Sofocle e Fenicie di Euripide

Medea

Medea

Medea di Euripide

Phaedra

Fedra

Ippolito di Euripide

Oedipus

Edipo

Edipo Re di Sofocle Agamennone di Eschilo

Agamemnon

Agamennone

Thyestes

Tieste

Hercules Oetaeus

Ercole sul monte Eta

NOTE

Pervenute prive delle parti corali

Non possediamo il modello greco Trachinie di Sofocle

Opera di sospetta attribuzione

Le strutture sceniche L’impianto delle tragedie di Seneca è tradizionale: le azioni sceniche (in trimetri giambici) sono inframezzate dalle parti corali (in metri lirici). Il coro, come già nel teatro ellenistico e in quello romano, tende a svolgere una funzione più lirica che drammatica, quasi una sorta di «voce fuori campo, una meditazione filosofica o, meglio, morale, che spesso accompagna e commenta l’azione che si sta svolgendo sulla scena» (Biondi). Seneca amplifica in particolar modo, rispetto ai modelli, i monologhi e le digressioni, rallentando invariabilmente lo sviluppo dell’azione scenica: l’impressione, a una prima lettura, è quella di trovarsi di fronte a quadri staccati l’uno dall’altro, affidati ciascuno più alla potenza della parola che alla concatenazione drammatica delle scene. Lo scarso interesse riservato all’azione è controbilanciato dall’indagine psicologica e introspettiva dei personaggi: le vicende, agli occhi dell’autore, valgono per la loro forza simbolica e paradigmatica, e vengono sostanzialmente interiorizzate. L’animo umano, con i suoi abissi di colpa, Vaso a figure rosse raffigurante Edipo che risolve l’indovinello della Sfinge, V secolo a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale. è il vero protagonista delle tragedie. 134 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

La destinazione: lettura o rappresentazione? Gli studiosi si sono chiesti se i drammi di Seneca fossero scritti per essere rappresentati o semplicemente per essere letti durante le pubbliche recitationes. È probabile che l’autore pensasse a entrambe le soluzioni, né sembrano decisivi gli argomenti che sono stati addotti a favore dell’una o dell’altra ipotesi. Rilevante, a questo proposito, è apparso il fatto che in alcune scene, contro la convenzione tragica greca, episodi truci e raccapriccianti non vengano narrati ma accadano dinanzi agli occhi del pubblico: Medea, nell’omonima tragedia, uccide sulla scena entrambi i figli, gettandone dal tetto i cadaveri; in scena muoiono anche Giocasta, suicida (Oedipus) e Deianira, con i figli, per mano di Ercole (Hercules furens). Per alcuni sarebbe indizio della non rappresentabilità delle tragedie; per altri, una prova che esse andavano incontro al gusto macchinoso, spettacolare e baroccheggiante dell’epoca neroniana. Teatro di opposizione o di esortazione? Forse ancora più determinante è la domanda sul significato complessivo delle tragedie di Seneca: secondo alcuni tea­ tro di opposizione, soprattutto per la presenza di temi antitirannici (e dunque destinato alle élites dell’aristocrazia filosenatoria); secondo altri «teatro di esortazione» (Traina), segnato da precisi intenti pedagogici (come resistere alle passioni ed evitare gli eccessi di un potere tirannico) ed espressamente rivolto al giovane Nerone. Le due tesi obbligano in ogni caso a una precisa datazione: agli ultimi anni di vita di Seneca nel primo caso; all’epoca in cui svolse il ruolo di precettore e di consigliere del principe nel secondo.

Affresco raffigurante Fedra mentre porge alla nutrice la lettera che accuserà il figliastro Ippolito, I secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I temi: furor contro ragione Della tragedia greca, Seneca predilige le vicende più cupe e orride, le situazioni estreme: la follia (cui Ercole perviene, nell’Hercules furens, dopo aver ucciso la moglie e i figli); la vendetta (di Giunone contro lo stesso Ercole; di Atreo contro Tieste; di Medea contro Giasone); l’amore delirante che culmina con l’omicidio (Clitennestra) o il suicidio (Fedra). Travolti dalle passioni, i protagonisti non sono più in grado di opporre resistenza agli impulsi più orrendi: Atreo sgozza i figli del fratello e glieli offre in pasto [ T22 ONLINE]; Fedra si vendica del figliastro Ippolito, denunciando al marito una finta violenza. Se i personaggi greci si misuravano con il fato, quelli di Seneca si misurano con la propria coscienza, nello spazio buio dove fermentano i pensieri più foschi e atroci. L’immane scontro fra ratio e furor [ T21], spesso incarnati da personaggi contrapposti, si risolve inevitabilmente nel trionfo delle più feroci e intransigenti passioni. Alla logica della saggezza, il furore oppone una sua antilogica dura e tagliente, in grado di capovolgere ogni discorso. Se è pur verosimile che lo scopo prevalente di Seneca sia pedagogico e morale, è fuor di dubbio che il male, 135 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

PROFILO STORICO

visive

La Medea di Euripide Il pittore coglie Medea con la spada in mano, mentre sta meditando l’uccisione dei figli, che giocano spensieratamente al centro della scena, sorvegliati dal pedagogo. I versi di Euripide esprimono il drammatico conflitto interiore della donna: «Vedere, guardare i miei figli, non posso più. Il male mi vince. Conosco il misfatto che sto per compiere. Ma il furore dell’animo che spinge i mortali alle più grandi colpe è più forte di me in ogni altro volere. […] Armati, mio cuore! Perché aspettare se necessità vuole che l’eccidio orrendo si compia? E dunque, sciagurata mano, prendi la spada, prendi la spada e vai, salta la sbarra, di là una vita di dolore ti si apre davanti! Non ti vinca la viltà, non ricordare che sono i tuoi figli e amatissimi figli e da te generati… Dimentica! Almeno per questo breve istante del giorno dimentica… e poi… piangi! Sì, tu li ucciderai, ed erano i tuoi figli diletti… Oh, la disgraziata madre ch’io sono!» (Euripide, Medea, vv. 1076-1080; 1242-1250, trad. M. Valgimigli).

Medea medita l’uccisione dei figli. Affresco pompeiano dalla Casa dei Dioscuri, I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

fonti

il delirio passionale, la violenza dei sentimenti occupano la parte preponderante, e vittoriosa, di tutte le tragedie. Portatori di un furore smisurato, gli eroi senecani (Atreo, Medea, Fedra) finiscono per travalicare, nella complessità dei loro moventi, la funzione di paradigma negativo pedagogicamente loro assegnata. Lo stile A situazioni estreme ed eccessive corrisponde un linguaggio magniloquente e baroccheggiante, che sfrutta con sapienza tutte le possibilità offerte dalla retorica. Lo stile è denso e sovreccitato, ricco di colori retorici e di ridondanze espressive. Non mancano battute concise e fulminanti, che sorprendono per la loro energia sentenziosa. Il dialogo, che a volte si articola in lunghi ed estenuanti monologhi contrapposti, può animarsi all’improvviso in botte e risposte memorabili, della lunghezza di un verso (sticomitíe) o della metà di un verso (emisticomitíe), quando non addirittura di una sola parola per ciascuno dei due interlocutori [ T21]. L’enfasi patetica ed espressionistica delle battute dà luogo a uno stile anticlassico, pregnante e conciso, erede di quel gusto declamatorio così efficacemente descritto pochi decenni prima da Seneca Padre.

Guida allo studio

1.

Di quante opere si compone il corpus delle opere tragiche di Seneca? Quali fra esse sono considerate spurie o sospette? 2. A quali modelli si è ispirato l’autore? 3. Il dibattito sulla destinazione e sul significato complessivo del teatro di Seneca

è tuttora aperto. Sapresti impostare correttamente i termini della questione? 4. Illustra le principali tematiche sviluppate da Seneca nelle tragedie, con particolare riguardo allo scontro tra furor e ratio, citando qualche esempio tratto dai testi.

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PROFILO STORICO

Seneca

nel TEMPO

Le critiche rivolte a Seneca La fortuna praticava ciò che accusava, e ciò che condannava di Seneca appare contrastata già presso i contemporanei, che sottopongono a dure critiche sia lo stile (inconfondibile e decisamente innovativo rispetto alla tradizione) sia l’uomo. Svetonio ascrive a Caligola un giudizio feroce e acuto sullo stile di Seneca: harena sine calce, cioè una scrittura che procede spezzata e slegata, priva dei consueti nessi sintattici. Quintiliano [ T2, cap. 6], in età flavia, definisce lo stile senecano come un corruptum et omnibus vitiis fractum dicendi ge­ nus, «un tipo di eloquenza corrotta e guastata da ogni sorta di difetti» (X, 1, 125). Nell’età degli Antonini, Frontone [ T2, cap. 13] condanna le eccessive sottigliezze del pensiero, il barocchismo delle immagini e delle espressioni, i neologismi ad effetto, la ricerca di novitas. Sappiamo tuttavia, proprio dalle testimonianze di Quintiliano e di Frontone, quanto grande fosse il fascino esercitato da questo stile suggestivo e scintillante sui giovani, presso i quali Seneca rappresentò, per diverse generazioni, un modello di prosa moderna e anticlassica. Tacito, con una punta di malignità che non sminuisce la precisione e la severità del giudizio, scrisse che lo stile di Seneca era perfettamente intonato al gusto del tempo: ingenium amoenum et temporis eius auribus acco­ modatum (Ann. XIII, 3, 1). Anche la personalità di Seneca fu sottoposta a critiche, a volte spietate, centrate sulla contraddizione fra la nobiltà severa degli scritti e il comportamento non irreprensibile dell’uomo. Lo stesso Tacito riferisce in diversi passi le dicerie maligne sul filosofo, accusato di aver incamerato perfino i beni e i denari provenienti dai delitti di Nerone (Ann. XIII, 18, 1) e di aver accumulato la cifra astronomica di trecento milioni di sesterzi «in quattro anni di favore regale» (Ann. XIII, 42, 4). Doveva scrivere ancora Agostino, sottolineando le contraddizioni del personaggio: colebat quod reprehendebat, agebat quod arguebat, quod culpabat adorabat («venerava ciò che criticava,

adorava»).

Nell’età del Cristianesimo Fu tuttavia proprio in ambito cristiano che gli scritti filosofici di Seneca vennero letti con sempre maggiore interesse, soprattutto in ragione di alcune impressionanti coincidenze con la dottrina evangelica: l’insistenza su tematiche di ordine religioso, un’idea della vita come militia e come continua lotta fra bene e male, il costante richiamo alla coscienza e alla legge morale, le nozioni di eguaglianza e di fratellanza fra gli uomini, l’indifferenza di fronte ai beni materiali e agli onori pubblici, la condanna dei giochi gladiatorii. Seneca saepe no­ ster, sentenziò con acutezza, agli inizi del III secolo, Tertulliano (De anima 20, 5); «venerando» lo definisce Gerolamo, che lo cita sovente.

La leggenda di Seneca cristiano Al IV secolo appartiene anche un carteggio apocrifo di quattordici lettere fra Seneca e san Paolo, che si era stabilito in Roma, dove era stato martirizzato, proprio negli anni del principato di Nerone. Forse la leggenda di Seneca cristiano nacque da un particolare storicamente fondato: Paolo era stato infatti giudicato nel 52 d.C. dal proconsole dell’Acaia Gallione, fratello maggiore di Seneca. La leggenda e il falso carteggio favorirono lo sfruttamento dei libri filosofici di Seneca, utilizzati per trarne raccolte di sentenze (Liber de moribus; Monita Senecae; Sententiae Senecae). Nel Medioevo «Seneca morale» lo definì Dante, con la consueta forza di sintesi, nell’Inferno (IV, 141). Particolare rilievo assume la morte di Seneca, che troviamo narrata esemplarmente in opere medievali di ampia diffusione quali il Roman de la Rose, la Leggenda aurea di Iacopo da Varagine e il Novellino. Seneca, com’è noto, fu uno degli auctores privilegiati del Petrarca, che lo cita spesso (e spesso anche lo imita nei trattati latini). 137

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

fortuna filosofica di Seneca nel pensiero dottrinale cristiano era destinata a protrarsi a lungo nel tempo, sia in ambito cattolico (Erasmo), sia protestante (Calvino). Né va dimenticata l’influenza profonda che le riflessioni di Seneca esercitarono sul pensiero laico: molto gli devono, per restare ai nomi più noti, pensatori come Montaigne e Rousseau. Ma ancora oggi la lettura di Seneca continua a restare una delle tappe fondamentali del pensiero etico occidentale. Quello che opere come le Epistulae ad Lucilium hanno saputo insegnare ai posteri, e che nelle società odierne, minate prima dai totalitarismi di entrambi i segni, in seguito dall’invadenza stordente e acritica dei media, appare ancora più prezioso, è l’esigenza di salvaguardare il proprio spazio interiore.

e del padre di Amleto; di qui le apparizioni del tea­tro alfieriano (nel finale del Polinice e all’inizio dell’Agamennone).

Seneca trattatista politico Rilevante fu anche la fortuna del trattato De clementia in età imperiale, soprattutto presso i panegiristi (a cominciare dal Panegirico di Traiano di Plinio il Giovane). Le implicazioni ideologiche del trattato furono motivo di ampia discussione anche nei secoli moderni: lo deprecò il Petrarca (Fam. XXIV, 5); lo difese due secoli più tardi Calvino (commentandolo nel 1532); lo lessero con interesse sia Montaigne sia Diderot.

Il teatro di Seneca Immensa fu poi la fortuna del teatro tragico senecano, ritrovato verso la fine del Duecento nel codice «Etrusco» del monastero di Pomposa dal protoumanista Lovato Lovati. Le imitazioni fiorirono rapidamente, raggiungendo il culmine fra Cinquecento e Seicento: al modello del teatro di Seneca (fondato sul gusto del macabro e dell’orrido, sull’enfasi dello stile, sull’energia passionale dei personaggi e sulla spettacolarità delle situazioni) si ispirarono la nascente tragedia italiana (dall’Orbecche del Giraldi Cinzio al Torrismondo di Torquato Tasso), Shakespeare (Tito Andro­ nico) e il teatro elisabettiano di lingua inglese (Jew of Malta di Marlowe), la tragedia francese di Corneille (Medea) e di Racine (Fedra). Vitale anche la presenza di Seneca tragico nel Settecento: all’Agamemnon si rifanno sia l’Oreste di Voltaire, sia l’Agamennone e l’Oreste di Vittorio Alfieri. Di grande persistenza, in particolare, fu il motivo delle apparizioni di ombre e fantasmi, presenti sia nel Thyestes (l’ombra di Tantalo) sia nell’Octavia (l’ombra di Agrippina): di qui le

Anfora da Cuma raffigurante Medea infanticida, ca 330 a.C. Parigi, Musée du Louvre.

PROFILO STORICO

In età moderna e contemporanea La shakespeariane ombre di Banco (nel Macbeth)

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PROFILO STORICO

Opere filosofiche di Seneca Ad Marciam de consolatione

(«Scritto consolatorio per Marcia»)

Composta durante il principato di Caligola (37-41 d.C.), sicuramente prima dell’esilio. È una consolatio rivolta a Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo [ cap. 1.2], prostrata dalla perdita del figlio Metilio. Seneca ricorre a numerosi esempi di illustri personaggi, greci e latini, che avevano saputo reagire con grande forza d’animo ai lutti familiari. Dimostra che la morte non è un male ma la liberazione dai gravami del corpo e dalle meschinità della vita terrena; che solo la morte, anzi, rende l’uomo libero e padrone di sé [ T1].

De ira («L’ira»)

Divisa in tre libri e dedicata al fratello Novato, l’opera fu iniziata durante il principato di Caligola (libri I e II), e conclusa nei primi anni dell’esilio (libro III). Nel primo libro l’autore sostiene che l’ira è un sentimento inaccettabile, perché oscura e paralizza le capacità razionali; nel secondo offre i rimedi contro l’ira, mostrandone i pericoli; nel terzo riprende le argomentazioni dei libri precedenti, ampliandoli e arricchendoli con un’abbondante esemplificazione, e in particolare denunciando la collera folle e sanguinaria di Caligola [ T2 ONLINE]. Seneca polemizza con la scuola peripatetica, che considerava l’ira in alcuni casi necessaria. Per Seneca l’ira non è utile neppure in guerra, come testimonia la stessa storia di Roma, che ha saputo battere l’ira dei barbari con gli strumenti della ragione. Essa, al contrario, è il più grave ostacolo alla realizzazione del bene sia sul piano individuale che sociale. Un utile strumento per vincere l’ira – o almeno per renderla meno violenta – è l’esame di coscienza [ T3].

Ad Helviam matrem de consolatione («Scritto consolatorio per la madre Elvia»)

Composta nei primi anni dell’esilio, probabilmente nel 42-43, è tradizionalmente considerata il capolavoro, nel genere consolatorio, di Seneca. Rovesciando le parti, colui che dovrebbe essere consolato (l’autore, costretto alla relegatio in Corsica) consola la madre per il dolore della separazione dal figlio: chi è saggio non può temere alcun male, né lasciarsi turbare da alcun evento; l’esilio è solo un mutamento di luogo, che non può intaccare la serenità dello spirito; d’altronde, non esiste propriamente esilio, poiché «non c’è al mondo un luogo che sia estraneo all’uomo. Da ogni parte si può ugualmente alzar lo sguardo verso il cielo; la distanza tra l’uomo e la divinità è sempre

uguale». Invita infine la madre a dedicarsi agli studi, unico vero rifugio contro il dolore e l’angoscia, e a vivere degli affetti familiari che ancora le sono rimasti.

Ad Polybium de consolatione («Scritto consolatorio per Polibio»)

Composta dopo il 43, nei primi anni dell’esilio, l’opera è giunta mutila della parte iniziale. L’autore si propone di confortare Polibio, potente liberto dell’imperatore, per la recente perdita di un fratello. Altro è naturalmente il vero scopo della composizione: rientrare nelle grazie di Claudio e ottenere, mediante l’aiuto di Polibio, la revoca dell’esilio. Il genere consolatorio si mescola con quello encomiastico, e dai passi smaccatamente adulatorii rivolti a Polibio si perviene, vero centro dell’opera, a un entusiastico elogio dell’imperatore [ T4 ONLINE].

De brevitate vitae («La brevità della vita»)

Composta verso il 49 (ma la data è molto incerta, e può essere spostata fino al 62), l’opera è dedicata al prefetto dell’annona Paolino, parente della seconda moglie Pompea Paolina. La vita non è breve, ma appare tale solo a chi spreca il proprio tempo in vane e confuse attività [ T5]. Occorre, invece, vivere ogni istante di vita come fosse l’ultimo, perfezionandosi sulla via della saggezza. Paolino viene dunque esortato ad abbandonare le sue occupazioni per dedicarsi alla vita contemplativa.

De constantia sapientis («La fermezza del saggio»)

L’opera è di datazione incerta, e viene variamente collocata in un arco di tempo compreso tra la morte di Caligola (41 d.C.) e il 62; con una certa probabilità negli anni appena successivi all’esilio in Corsica. È dedicata ad Anneo Sereno, un amico epicureo che l’autore cerca gradualmente di convertire alla filosofia stoica. Seneca afferma che il saggio non può essere colpito da alcun oltraggio né da alcuna ingiuria (nec iniuriam nec contumeliam accipere sapientem). La virtù lo rende infatti superiore agli eventi.

De clementia («La clemenza»)

Composto fra il 55 e il 56 e indirizzato a Nerone, da poco imperatore; dell’opera, concepita, e probabilmente realizzata, in tre libri, sono giunti a noi solo il libro I e i primi sette capitoli del II. Vero e proprio trattato di teoria politica, l’opera ha inizio con un ampio

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

elogio di Nerone [ T6], che ha dato dimostrazione nei primi mesi del suo principato di umanità e di mitezza d’animo. Seneca non mette in discussione la necessità del principato, considerato la forma più opportuna di governo; analizza i rapporti fra imperatore e sudditi, non più delimitati dalle leggi quanto dalle virtù morali del principe, rappresentato (secondo immagini di derivazione ellenistica) come un benefattore dell’umanità.

De vita beata («La vita felice»)

Composta probabilmente intorno al 58, l’opera è dedicata al fratello Novato, chiamato ora con il nuovo nome, assunto per via adottiva, di Gallione. La felicità, come professava la filosofia stoica, non consiste nelle ricchezze e nei piaceri ma nell’esercizio della virtù, che sola basta a se stessa [ T7 ONLINE]. Nella seconda parte, Seneca intende ribattere a quanti criticavano le ricchezze accumulate e il suo tenore di vita, contrastanti con gli ideali morali professati: innanzitutto, egli non si ritiene affatto un saggio, ma solo un uomo che si sforza di esserlo. Le ricchezze, sostiene inoltre, non vanno disprezzate: «il saggio non si reputa indegno di alcun dono della fortuna». Nessuno ha condannato i sapienti ad essere poveri: ma le ricchezze, presso l’uomo saggio, «sono in condizione di servitù, presso lo stolto di impero». Il trattato è pervenuto mutilo della parte finale.

De tranquillitate animi («La tranquillità dell’animo»)

Composto intorno al 60 e anch’esso, come il De constantia sapientis, dedicato all’amico Anneo Sereno, è l’unico dei Dialogi a presentare una vera e propria forma dialogica. Nella prima parte, Sereno si rivolge a Seneca esponendo il proprio stato d’animo, quello di un uomo perpetuamente ondeggiante fra modelli contrastanti di vita, insoddisfatto della propria condizione di instabilità spirituale e desideroso di serenità (tranquillitas). Nella risposta, Seneca approfondisce l’analisi dell’inquietudine esistenziale e del taedium vitae [ T8], passando poi a indicazioni concrete su come comportarsi nelle comuni vicende della vita. Possiamo raggiungere la tranquillità dello spirito soltanto conducendo un’esistenza equilibrata, fondata sull’esercizio delle virtù e indirizzata al bene comune.

De otio («La vita contemplativa»)

Composta negli anni 61-62 e di nuovo dedicata ad Anneo Sereno, l’opera è mutila delle parti iniziale e finale. Tema dominante è il rapporto fra vita contemplativa e vita attiva, considerate entrambe legittime e secondo natura. Possiamo essere utili ai nostri simili in vari modi: utilizzando la metafora della navigazione, Seneca considera l’otium come un porto nel quale è necessario sostare quando le tempeste della Storia e della Fortuna impediscono di levare l’ancora o di navigare senza rischi.

De providentia («La provvidenza»)

L’opera, dedicata all’amico Lucilio, è di datazione incerta: alcuni la collocano nel 41 o subito dopo; altri (forse a ragione) negli ultimi anni di vita di Seneca. Lucilio, lo stesso delle Lettere, ha chiesto a Seneca «perché capitano tanti malanni alle persone perbene, se il mondo è retto dalla Provvidenza». Seneca dimostra che le sventure non sono dei veri mali e vanno al contrario ritenute utili, perché consentono al sapiente di temprare le proprie forze e di perfezionarsi sulla via della virtù (marcet sine adversario virtus).

Naturales quaestiones («Ricerche di scienze naturali»)

Rilievo, già parte di un sarcofago attico, raffigurante un Kairós, 350-330 a.C. Torino, Museo di Antichità.

PROFILO STORICO

4. Seneca

L’opera, anch’essa dedicata a Lucilio, è stata scritta dopo il 62, negli anni appena successivi al ritiro dalla vita pubblica. Divisa in sette libri, si occupa di argomenti scientifici: ignes in aere (fuochi celesti), fra cui aloni, arcobaleno, meteore (libro I); tuoni e fulmini (libro II); acque terrestri (libro III); le piene del Nilo, nubi, grandine e neve (libro IV); venti (libro V); terremoti (libro

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PROFILO STORICO

VI); comete (libro VII). L’indagine scientifica è costantemente sottoposta a un’interpretazione di natura etica e teologica, come prescriveva la filosofia stoica.

De beneficiis («I benefici»)

In sette libri, dedicata all’amico Ebuzio Liberale, l’opera fu composta dopo la morte di Claudio (54 d.C.) e prima del 64. Gli ultimi tre libri furono scritti quasi certamente dopo il ritiro dalla vita politica. Viene trattato il tema dei benefici, fatti o ricevuti, e delle loro implicazioni sul piano morale e sociale. Un’importante sezione è riservata ai benefici che uniscono gli schiavi agli uomini liberi.

Epistulae morales ad Lucilium («Lettere morali a Lucilio»)

L’opera, composta tra il 62 e il 65, consta di 124 lettere suddivise in 20 libri. L’autore si rivolge all’amico Luci-

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

lio da maestro a discepolo, sviluppando gradualmente, lettera dopo lettera, i grandi temi morali della sua riflessione filosofica: l’esortazione alla vita contemplativa [ T9; T10]; la meditazione sul tempo e sulla morte [ T9; T13 ONLINE; T17 ONLINE]; il valore degli studi e delle letture [ T10]; la libertà del saggio e il dominio delle passioni [ T12]; il potere corruttore della folla [ T11]; la ricerca della felicità; il rapporto tra uomo e divinità [ T14]; i doveri nei confronti dei nostri simili [ T16]; la schiavitù, affrontata sia sotto l’aspetto giuridico che morale [ T15]. Viene accentuato, rispetto alle opere precedenti, il motivo dell’interiorità. Non mancano esempi tratti dall’esperienza quotidiana e ricordi di carattere autobiografico [ T18 ONLINE]. Tono colloquiale, uso della prima persona, continuo ricorso al procedimento diatribico della domanda e della risposta, rapporto diretto con il destinatario, coinvolgono in modo intimo e profondo il lettore-discepolo sul cammino della sapientia morale.

LEGGERE UN TESTO CRITICO Seneca e l’utopia stoica del rex iustus (I. Lana) DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • La morte di Seneca nel racconto di Tacito BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Sulla personalità e sul pensiero di Seneca si consiglia un volume di impianto didattico, corredato di un’ampia antologia tematica: Seneca, L’immagine della vita, a cura di M. Perrini, La Nuova Italia, Firenze 1998. Tra gli studi, un classico accessibile anche allo studente è ancora P. Grimal, Seneca, Garzanti, Milano 1992. Sulle Epistulae ad Lucilium varrà la pena di leggere: G. Rosati, Seneca sul­

la lettera filosofica. Un genere letterario nel cammino verso la saggezza, «Maia», 33, 1981, pp. 3-15; I Lana, Analisi del­ le «Lettere a Lucilio» di Seneca, Giappichelli, Torino 1988. Per il teatro, il volume di G. Petrone, La scrittura tragica dell’irrazionale. Note di lettura al teatro di Seneca, Palumbo, Palermo 1984, che si segnala per l’attenzione agli aspetti scenici e drammaturgici dei testi senecani.

� Tra le numerose edizioni con traduzione italiana andranno privilegiati, sia per il teatro che per le opere filosofiche, i singoli e agili volumi usciti presso Rizzoli (BUR). Per le Naturales quaestiones: Ricerche sulla natura, a cura di P. Parroni, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2002. Per l’Apokolokyntosis: L’apoteosi negata, a cura di R. Roncali, Marsilio, Venezia 1989.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

Sintesi

PROFILO STORICO

S

Seneca Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova, città della Spagna Betica, verosimilmente intorno al 4 a.C., da una famiglia dell’ordine equestre. A Roma studia retorica, accostandosi in seguito alla filosofia sotto la guida di maestri di indirizzo neopitagorico e stoico. Dopo il 26 risiede per alcuni anni in Egitto; tornato a Roma, verso il 33-34 ottiene la questura. Acquista rinomanza per la sua abilità retorica e viene introdotto negli ambienti della corte imperiale. Nel 41, coinvolto in un intrigo di palazzo, viene condannato alla relegatio in Corsica, dove rimarrà otto anni. Di ritorno a Roma, Agrippina gli affiderà l’educazione del figlio Nerone; alla morte di Claudio, nel 54, avrà l’alto incarico di consigliere del nuovo princeps. Trascorso il «quinquennio felice», dopo la morte di Agrippina (59 d.C.) Seneca resterà ancora vicino a Nerone fino al 62, quando deciderà di ritirarsi a vita privata. Nel 65 viene scoperta la congiura pisoniana: nella sanguinosa repressione che seguì viene coinvolto lo stesso Seneca, che riceve dall’imperatore l’ordine di morire; leggiamo in Tacito il racconto della sua morte eroica (Annales XV, 62-64). Ricchissimo è il corpus delle opere senecane sopravvissute: scritti filosofici, comprendenti dieci Dialogi, due trattati di argomento etico-politico (De clementia e De beneficiis) e le Epistulae morales ad Lucilium; dieci tragedie (una della quali spuria); una satira menippea (Apokolokyntosis); un trattato naturalistico-scientifico (Naturales quaestiones). I princìpi fondamentali del suo non sistematico pensiero filosofico appartengono alla dottrina stoica; ma l’autore si avvale liberamente di massime attinte da altre scuole, soprattutto quella epicurea.

Seneca si dedica quasi esclusivamente alla filosofia morale, persuaso che sia difficile, se non impossibile, giungere alla conoscenza della verità quale la prospetta la filosofia teoretica: filosofia è medicina dell’anima, acquisizione progressiva di saggezza pratica, guida a un perfezionamento spirituale che mira alla conquista della libertà interiore. Il concetto di libertas, storicamente centrale nella cultura romana, si sposta ora dal piano politico e civile a quello etico. Seneca si confronta ripetutamente con un tema fondamentale nella cultura romana: il rapporto fra vita attiva e vita contemplativa, vita pubblica e vita privata, individuo e società. Le risposte saranno spesso oscillanti e perfino opposte: la necessità di un impegno pubblico è sostenuta con forza negli anni Cinquanta, quando Seneca svolge il ruolo prima di pedagogo e poi di consigliere del principe; viene meno nelle opere posteriori al secessus, quando l’accento è posto sull’interiorità della coscienza. Ma c’è un principio al quale Seneca resta sempre fedele: compito dell’uomo è rendersi utile agli altri uomini. Principio fondamentale della filosofia stoica, che discendeva da quello dell’eguaglianza umana, sancita dalla legge naturale. La personalità di Seneca appare contraddittoria e controversa, sia nell’ambito della vita privata, sia in quello dell’attività politica; ma anche nelle sue opere si manifesta la contraddittorietà dell’uomo, espressa in uno stile anticlassico, inquieto e drammatico, che corrisponde a una nuova visione del mondo, agonistica e lacerata da tensioni contrastanti. Il ricco corpus teatrale, comprendente nove cothurnatae ispirate al grande repertorio della tragedia greca classica, è fondato sul lacerante e drammatico contrasto tra furor e ragione, espresso in una lingua sentenziosa e baroccheggiante.

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Percorso antologico Consolatio ad Marciam T1

Solo la morte ci rende liberi (19, 3-20, 3)

IT

De ira T2 T3

Esempi di ferocia bestiale: Alessandro, Silla, Catilina, Caligola (III, 17-19) L’esame di coscienza (III, 36)

LAT

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Consolatio ad Polybium T4

Elogio di Claudio (7)

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De brevitate vitae T5

Otiosi e occupati (14)

De clementia T6

Elogio di Nerone (I, 1)

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De vita beata T7

Beata est vita conveniens naturae suae (3)

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De tranquillitate animi T8

Taedium vitae e commutatio loci (2, 13-15)

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Epistulae ad Lucilium T9 T10 T11 T12 T13 T14 T15 T16 T17 T18

L’uso del tempo (1) Le letture (2) Il potere corruttore della folla (7, 1-5) La libertà del saggio (8, 1-7) Cotidie morimur (24, 17-21) Dio è in noi (41, 1-5) Anche gli schiavi sono uomini (47, 1-6; 15-21) Membra sumus corporis magni (95, 51-53) Un’altra nascita ci attende (102, 21-30) L’epoca della mia giovinezza: gli studi filosofici (108, 1-7; 13-29)

LAT LAT LAT IT LAT

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LAT IT LAT LAT

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Naturales quaestiones T19

Il progresso delle scienze

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Apokolokyntosis T20

Claudio sale in cielo (5-7, 1)

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Medea T21

Il furore di Medea (116-178)

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Thyestes T22

Un nefando banchetto (920-1068)

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

T 1 Solo la morte ci rende liberi Consolatio ad Marciam 19, 3-20, 3

PERCORSO ANTOLOGICO

ITALIANO

Seneca si propone di consolare Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, che ancora, dopo tre anni, piange con immutato dolore la morte del suo secondo figlio. La consolatio, un genere letterario già da tempo codificato all’epoca di Seneca, prevedeva un preciso impianto retorico e argomentativo: una sezione era dedicata ai precetti, un’altra agli exempla; l’autore si rivolgeva direttamente al suo interlocutore, sviluppando il discorso su un piano personale e affettivo. Di qui l’uso insistito di vocativi, di imperativi e di interrogative dirette, che ne caratterizzavano lo stile. All’interno della sezione precettistica, Seneca giunge ad affrontare il tema centrale della sua consolatoria, dimostrando che la morte non è un male, sia che segni l’inizio di una vita più felice, sia che coincida con la fine della coscienza e della sensibilità individuale, così che il defunto ritorni alla tranquillitas dello stadio prenatale. Nel brano che qui si presenta l’autore sembra propendere per la seconda ipotesi (di palese derivazione epicurea); nel finale dell’opera svilupperà piuttosto la prima (di origine platonica), immaginando, sulla scorta del ciceroniano Somnium Scipionis [ vol. I, 12.4 e T17-27], che il giovane Metilio sia accolto dall’avo Cremuzio Cordo nella rocca celeste ove hanno sede le anime degli uomini virtuosi ed illustri. Anche il fatto di non prender posizione nella disputa sulla vita oltre la morte, contemplando diverse alternative (aut finis aut transitus) rientrava nelle convenzioni del genere: importante non era tanto stabilire una verità sul piano teorico, quanto agire su un piano pratico ed emotivo. Nella seconda parte del brano, la più celebre ed originale, per la quale si è voluto parlare di un vero e proprio «inno alla morte», Seneca non si limita tuttavia ai tradizionali e generici argomenti delle consolationes, ma introduce una potente riflessione sul valore liberatorio della morte, che non solo rende gli uomini eguali (mettendo fine agli arbitrii della fortuna) ma anche padroni di se stessi e del proprio destino. [19, 3] Che cosa dunque ti addolora, Marcia? Il fatto che tuo figlio è morto o il fatto che non è vissuto a lungo? Se è il fatto che è morto: allora avresti dovuto piangere sempre, perché hai sempre saputo che doveva morire. [4] Pensa che il morto non prova alcun male, che sono solo leggende quelle che ci rendono terribile l’aldilà; nessuna tenebra circonda i morti, nessun carcere, nessun fiume di fuoco, nessun fiume Lete, e non ci sono tribunali, e accusati, e tiranni in quella libertà così completa: sono i poeti che hanno inventato tutto questo e ci hanno spaventato con paure senza senso. [5] La morte è la liberazione da tutti i dolori, il termine oltre il quale i nostri mali non possono andare; essa ci riporta alla tranquillità, in cui eravamo prima di nascere. Se si ha compassione dei morti, si deve aver compassione anche di chi non è nato. La morte non è né un bene né un male. Infatti può essere bene o male solo ciò che è qualcosa: ma ciò che non è nulla in sé, e tutto riduce al nulla, non può procurarci nessuna conseguenza: i mali e i beni operano su una materia. La sorte non può dominare su ciò che sfugge alla natura, e non può essere infelice chi non esiste. [6] Tuo figlio ha oltrepassato i limiti entro cui si esercita la servitù, una pace grande e eterna lo ha accolto. Non è più tormentato dal timore della povertà, dalla preoccupazione della ricchezza, dagli stimoli della passione che, col piacere, rovina l’animo; non è più tocco dall’invidia per la fortuna altrui, né soffocato da quella per la propria; le sue caste orecchie non sono più colpite da insolenze. Non vede catastrofi pubbliche o rovine private.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Non è più preoccupato del futuro, legato a un risultato che promette cose sempre più incerte. Infine è in una posizione, da cui nulla può scacciarlo e dove nulla lo può spaventare. [20, 1] Come sono ignari delle loro miserie coloro, che non esaltano la morte come un meraviglioso ritrovato della natura e non l’aspettano con ansia, sia che comporti felicità, sia che elimini la sventura, sia che faccia da termine alla sazietà e alla stanchezza della vecchiaia, sia che tronchi nel fiore la giovinezza, quando ancora le speranze sono vive, sia che chiami a sé i bambini, prima delle prove più dure! Per tutti è un termine, per molti un rimedio, per alcuni la realizzazione di una speranza; verso nessuno si comporta meglio che verso quelli che essa sorprende prima d’essere invocata. [2] La morte scioglie dalla schiavitù anche contro il volere del padrone; essa allenta le catene dei prigionieri, fa uscire dal carcere chi ne era impedito da un potere tirannico; essa mostra agli esuli, sempre rivolti alla patria con la mente e gli occhi, che non ha importanza la terra in cui si riposa; essa uguaglia ogni cosa, mentre la fortuna distribuisce male i beni comuni e assoggetta gli uni agli altri uomini nati con gli stessi diritti. Dopo la morte nessuno è soggetto all’arbitrio altrui; nella morte nessuno si accorge di essere inferiore; essa è sempre pronta per tutti; questa morte, Marcia, tuo padre l’ha desiderata con tutte le sue forze. È la morte, aggiungo, che fa sì che nascere non sia un supplizio, che non ci si abbatta di fronte alle minacce delle avversità, che si possa conservare un animo indipendente e padrone di se stesso: sappiamo chi chiamare. [3] Io vedo qui delle croci, non di un solo tipo, ma fatte da uno in un modo da un altro in un altro: alcuni appendono le loro vittime per la testa, volta a terra, altri le impalano, altri le inchiodano a braccia distese; vedo cavalletti e fruste; macchine di tortura specifiche sono state costruite per ogni tipo di membra. Ma vedo anche la morte. Ci sono i nemici coperti di sangue e i cittadini violenti; ma vedo qui ugualmente la morte. Non è doloroso esser schiavi, quando si può, se si è stanchi del giogo, fare un passo ed essere liberi. Io ti ho cara, o vita, proprio grazie alla morte. (trad. di N. Sacerdoti)

Rilievo raffigurante il funerale di una donna, I-II secolo d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

T2

Esempi di ferocia bestiale: Alessandro, Silla, Catilina, Caligola

ONLINE

De ira III, 17-19

T 3 L’esame di coscienza De ira III, 36 LATINO

PERCORSO ANTOLOGICO

ITALIANO

Ai margini del principato, negli stessi anni in cui Augusto provvedeva alle sue grandi riforme istituzionali, aveva operato una scuola filosofica di orientamento stoico tradizionalmente chiamata, dal nome del fondatore, scuola dei Sestii. Discendente da una nobile famiglia romana, Quinto Sestio aveva rifiutato in gioventù l’invito di Cesare a entrare in senato. Un secolo più tardi Seneca (il nostro maggior informatore sulla scuola) avrebbe commentato in questo modo la scelta di Sestio: «egli capiva che quanto può essere dato può anche essere tolto» (Ep. ad Luc. 98, 13). La preoccupazione di Sestio era stata dunque quella di salvaguardare la propria libertà interiore e di evitare ogni compromesso con il potere politico. Seneca si era accostato in gioventù a tale scuola attraverso Papirio Fabiano, discepolo di Sestio Padre particolarmente attivo durante gli anni del principato di Tiberio. Una delle pratiche raccomandate dalla scuola era quella dell’esame di coscienza serale, attinta originariamente alla tradizione pitagorica ma poi diffusa anche in ambito stoico. A tale pratica sono direttamente connessi due aspetti caratteristici del pensiero di Seneca: la necessità di un continuo dialogo con se stesso, che si traduce in coscienza morale; la volontà di trasferire in esperienza vissuta i princìpi astratti delle scuole filosofiche. La sapienza, per Seneca, è una pratica quotidiana, non un’astrazione teorica: si diventa saggi un poco alla volta, giorno dopo giorno, in un processo costante e graduale di perfezionamento interiore.

[36, 1]

Omnes sensus perducendi sunt ad firmitatem: natura patientes sunt, si animus illos desiit corrumpere qui cotidie ad rationem reddendam vocandus est. Faciebat hoc Sextius, ut consummato die, cum se ad nocturnam quietem recepisset, interrogaret animum suum: «Quod hodie malum tuum sanasti? Cui vitio obstitisti? Qua parte melior es?» [2] Desinet ira et moderatior erit quae sciet sibi cotidie ad iudicem esse veniendum. Quicquam ergo pulchrius hac consuetudine excutiendi totum diem? Qualis ille somnus post recognitionem sui sequitur: quam tranquillus, quam altus ac liber, cum aut laudatus est animus aut admonitus et speculator sui censorque secretus cognovit de moribus suis. [3] Utor

[36, 1] Tutti

i sensi devono esser portati alla capacità di sopportare; per natura ne sono capaci, solo che l’animo smetta di corromperli: chiamiamo dunque questo ogni giorno a un rendiconto. Sestio lo faceva sempre: alla fine della giornata, quando si era ritirato per il riposo notturno, interrogava la sua anima: «Quale male hai guarito oggi? A quale vizio ti sei opposta? In che cosa sei migliorata?» [2] L’ira cesserà e sarà meno violenta se saprà di doversi presentare giornalmente a un giudice. Dunque non c’è niente di meglio di questa consuetudine di fare l’esame di tutta la giornata. Che sonno tranquillo si ha dopo questo esame! E sereno, profondo, libero, dopo che lo spirito è stato lodato o ammonito, e dopo che si è fatto spia e esaminatore segreto dei suoi stessi costumi. [3] Anch’io mi servo di 146 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

hac potestate et cotidie apud me causam dico. Cum sublatum e conspectu lumen est et conticuit uxor moris iam mei conscia, totum diem meum scrutor factaque ac dicta mea remetior; nihil mihi ipse abscondo, nihil transeo. Quare enim quicquam ex erroribus meis timeam, cum possim dicere: [4] «Vide ne istud amplius facias, nunc tibi ignosco. In illa disputatione pugnacius locutus es: noli postea congredi cum imperitis; nolunt discere qui numquam didicerunt. Illum liberius admonuisti quam debebas, itaque non emendasti, sed offendisti: de cetero vide, non tantum an verum sit quod dicis, sed an ille cui dicitur veri patiens sit; admoneri bonus gaudet, pessimus quisque rectorem asperrime patitur».

questa facoltà e ogni giorno faccio il processo a me stesso. Quando il lume è stato già portato via e mia moglie, che conosce le mie abitudini, s’è taciuta, io passo in rassegna l’intera giornata e peso tutte le mie parole e le mie azioni; non mi nascondo nulla e nulla sorvolo. Che ragione avrei, infatti, di aver paura dei miei errori, dato che posso dire: [4] «Cerca di non farlo più. Per ora ti perdono. In quella discussione sei stato un po’ troppo aggressivo: d’ora in avanti non metterti più a discutere con gli ignoranti; non vuole imparare, chi non ha mai imparato. Quello là l’hai redarguito con più libertà di quanto avresti dovuto, e così non l’hai corretto; l’hai soltanto offeso: in seguito, guarda non solo se è vero quello che dici, ma se la persona con cui parli sa accettare la verità; l’uomo virtuoso è contento di essere ammonito, mentre i non virtuosi sopportano assai male una guida». (trad. di N. Sacerdoti)

T4

Elogio di Claudio

Consolatio ad Polybium 7

ONLINE

T 5 Otiosi e occupati De brevitate vitae 14 LATINO ITALIANO

Nel De brevitate vitae, Seneca confuta l’idea, diffusa tra la gente comune come tra gli uomini dotti, che la vita concessa all’uomo sia breve: in realtà, non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus (I, 3). Due sono dunque gli antagonisti di tutto il dialogo: da una parte gli occupati, che vivono sempre affaccendati, correndo affannosamente da un impegno all’altro, tormentati dall’ansia e in balìa delle passioni; dall’altra gli otiosi, cioè coloro che si dedicano alla salute dell’anima, e che riconoscono nei grandi maestri del passato la loro guida morale. Tra gli occupati, di cui il trattato fornisce lunghi e vivaci cataloghi, ai parr. 3-4 vengono presentati i clientes, che fin dal mattino vagano da una casa all’altra per ottenere qualche piccolo compenso dai loro patroni. All’opposto, ai parr. 2 e 5, viene celebrato il rapporto fra maestro e discepolo: un rapporto che non ha mai fine, e che ci consente di spingere il nostro spirito verso pensieri non caduchi, ma eterni e infiniti. Come nella tradizione diatribica, cui ampiamente attinge, Seneca non elabora un discorso dottrinale, ma preferisce muoversi sul piano concreto degli esempi e con la forza persuasiva delle immagini. 147 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant1, soli2 vivunt; nec enim suam tantum aetatem bene tuentur: omne aevum3 suo adiciunt; quicquid annorum ante illos actum est, illis adquisitum est. Nisi ingratissimi sumus, illi clarissimi sacrarum opinionum conditores nobis nati sunt, nobis vitam praeparaverunt. Ad res pulcherrimas ex tenebris ad lucem erutas alieno labore deducimur4; nullo nobis saeculo interdictum est, in omnia admittimur et, si magnitudine animi egredi humanae imbecillitatis angustias libet, multum per quod spatiemur temporis est. [2] Disputare cum Socrate licet, dubitare cum Carneade, cum Epicuro quiescere, hominis naturam cum Stoicis vincere, cum Cynicis excedere5. Cum rerum natura in consortium omnis aevi patiatur incedere, quidni ab hoc exiguo et caduco temporis transitu6 in illa toto nos demus animo quae immensa, quae aeterna sunt, quae cum melioribus communia? [3] Isti7 qui per officia8 discursant, qui se aliosque inquietant, [1]

[1]

PERCORSO ANTOLOGICO

Soli fra tutti raggiungono la vita serena coloro che si dedicano alla saggezza, solo questi vivono veramente; perché non solo amministrano bene la loro vita, ma aggiungono l’eternità al tempo della vita stessa; tutti gli anni che li precedono, sono già una conquista per loro. Se non vogliamo essere del tutto ingrati, dobbiamo riconoscere che i più illustri fondatori di grandi dottrine sono nati per noi e per noi hanno organizzato la vita. È la fatica altrui che ci porta alle verità più alte tratte in luce dalle tenebre4; nessuna epoca ci è preclusa, per tutte ci è aperto l’accesso, e se la grandezza del nostro spirito ci porta a superare i limiti della debolezza umana, abbiamo da percorrere un vastissimo spazio di tempo. [2] Ci è possibile discutere con Socrate, dubitare con Carneade, raggiungere con Epicuro l’atarassia, superare con gli stoici la natura umana, tenercene fuori coi Cinici5. Dato che la natura ci permette di partecipare di ogni età, perché, staccandoci da questo breve e caduco periodo di tempo6, non ci abbandoniamo con tutto il nostro spirito a pensieri infiniti, eterni, a quei pensieri che ci accomunano ai migliori? [3] Costoro7, che corrono affannosamente da un impegno all’altro, che tormentano se stessi e

1. vacant: il verbo vaco (della prima coniugazione) è qui usato con il significato di «avere tempo libero» (in opposizione a occupatum esse). Al pari del sostantivo otium (e dei suoi derivati), è impiegato, da Cicerone in poi, per definire l’area semantica delle attività intellettuali. 2. Soli... soli: l’anafora sottolinea il concetto, ribadendo l’opposizione (trattata nei paragrafi 12 e 16 ) tra otiosi e occupati. 3. aetatem... aevum: i due termini, che in latino possono anche essere equivalenti, sono qui collocati in antitesi: da una parte il tempo dell’uomo (aetas), limitato e suddiviso in anni; dall’altra la dimensione universale e astratta del

tempo (aevum), che precede e segue la vita dell’uomo, e non ha limiti. 4. Ad res... deducimur: costruisci dedu­ cimur alieno labore ad res pulcherrimas, erutas ex tenebris ad lucem. La metafora allude al passo lucreziano (III, 1 ss.) in cui Epicuro è rappresentato come colui che poté per primo illuminare le menti dell’uomo (O tenebris tantis tam clarum extollere lumen/ qui primus potuisti). 5. Disputare... dubitare... quiescere... vincere... excedere: i verbi esprimono con accurata precisione il carattere delle singole scuole filosofiche cui Seneca allude: la dialettica socratica, lo scetticismo di Carneade (il fondatore della ter-

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za Accademia, che partecipò insieme a Critolao e a Diogene alla celebre ambasceria in Roma del 155 a.C.), l’atarassia epicurea, l’intransigenza morale degli stoici, l’anticonformismo dei cinici (il più famoso dei quali – Diogene – viveva com’è noto in una botte). 6. exiguo... transitu: con probabile riferimento all’Apologia di Platone (41a-41b). 7. Isti: sono gli occupati. Il dimostrativo è qui usato con valore spregiativo. 8. officia: non con il significato di «doveri» ma di «incombenze», «occupazioni»: ad essi vengono contrapposti i vera of­ ficia del par. 5.


PERCORSO ANTOLOGICO

cum bene insanierint9, cum omnium limina cotidie perambulaverint nec ullas apertas fores praeterierint, cum per diversissimas domos meritoriam salutationem10 circumtulerint, quotum quemque ex tam immensa et variis cupiditatibus districta urbe poterunt videre? [4] Quam multi erunt quorum illos aut somnus aut luxuria aut inhumanitas summoveat! Quam multi qui illos, cum diu torserint, simulata festinatione transcurrant! Quam multi per refertum clientibus atrium prodire vitabunt et per obscuros aedium aditus profugient, quasi non inhumanius sit decipere quam excludere! Quam multi hesterna crapula semisomnes et graves illis miseris suum somnum rumpentibus ut alienum exspectent, vix allevatis labris insusurratum miliens nomen oscitatione superbissima reddent! [5] Hos in veris officiis morari putamus, licet dicant, qui Zenonem, qui Pythagoran cotidie et Democritum ceterosque antistites bonarum artium, qui Aristotelen et Theophrastum11 volent habere quam familiarissimos. Nemo horum non vacabit, nemo non venientem ad se beatiorem, amantiorem sui dimittet, nemo quemquam vacuis a se manibus abire patietur; nocte conveniri, interdiu ab omnibus mortalibus possunt. gli altri, quando ben sono impazziti9, quando hanno bussato ogni giorno a tutte le porte, fermandosi a ogni porta aperta, quando hanno portato i loro saluti10 interessati alle case più lontane, quante persone hanno potuto vedere, di una città tanto vasta e tanto sconvolta da opposte passioni? [4] Quante persone ci saranno che non li ricevono o perché dormono, o perché sono in gozzoviglia, o perché sono villani! Quanti che, dopo averli tenuti a lungo sospesi, passeranno via per una finta fretta! Quante persone impediranno loro di avanzare attraverso l’atrio gremito di clienti, e li eviteranno nascondendosi negli angoli più oscuri della casa, come se non fosse più scortese ingannare che scacciare apertamente! Quanti, ancora assonnati e con la testa pesante per l’ubriachezza del giorno prima, a quegli infelici che interrompono il loro sonno, per attendere il risveglio di un altro, risponderanno con uno sbadiglio sfacciato, sentendo pronunciare mille volte il proprio nome a bocca quasi chiusa! [5] Mentre, possiamo ben dirlo, pensiamo che si attengano a impegni più veri, quelli che desidereranno avere nella loro intimità, ogni giorno, Zenone, Pitagora, Democrito, e tutti gli altri maestri di virtù, oppure Aristotele e Teofrasto11. Nessuno di questi dirà di non aver tempo, nessuno non licenzierà più felice e più benevolo chi viene a lui, nessuno di questi lascerà che qualcuno si allontani da lui a mani vuote; e tutti possono andare a trovarli di notte e di giorno. (trad. di N. Sacerdoti)

9. cum bene insanierint: espressione-chiave del paragrafo: all’insensatezza dei comportamenti degli occupati si oppone la ratio del sapiens. 10. salutationem: la tradizionale cerimonia mattutina cui erano tenuti i clien­ tes, che si ammassavano, come si dice poco dopo, negli atria delle ricche case

dei patroni. 11. Zenonem... Pythagoram... Democritum... Aristotelen et Theophrastum: Zenone è il fondatore della scuola stoica, contemporaneo di Epicuro; Pitagora di Samo è il grande filosofo del VI secolo cui attinse abbondantemente la dottrina platonica, e intorno al quale fiorirono

sette e leggende; Democrito (vissuto fra il V e il IV secolo) fu, insieme con il mae­ stro Leucippo, il fondatore della dottrina atomistica; Teofrasto (vissuto fra IV e III secolo), discepolo prima di Platone poi di Aristotele, divulgatore della filosofia aristotelica, fu in particolare l’autore dei famosi Caratteri.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

Educazione CIVICA Occupati, assediati, alienati

T 6 Elogio di Nerone De clementia I, 1 ITALIANO

Seneca dà inizio al suo trattato indicandone con chiarezza il tema (de clementia), il destinatario (Nero Caesar) e la finalità: offrire all’imperatore uno «specchio» di morale politica, nel quale si rifletta l’immagine di un sovrano umano e clemente, che ha rinunciato, salendo al trono, all’arbitrio di un potere tirannico. Dall’esercizio di tale clementia deriveranno benefici sia al princeps (la riconoscenza e l’affetto dei sudditi) sia al popolo romano. Il brano è particolarmente significativo, proprio perché Seneca non cela il timore, più che fondato dati i precedenti giulioclaudii, che ogni successione comporti sangue e violenze (si veda, in particolare, il par. 7). Il reale significato del termine clementia emerge del resto con esattezza là dove essa viene designata come «cura di risparmiare il più possibile anche il sangue più vile» (par. 3). Più che identificarsi in un concetto positivo, la clementia si qualifica per così dire in negativo, nell’attenuazione degli aspetti deteriori del potere assoluto.

Testa di Nerone, I secolo d.C. Roma, Musei Capitolini.

PERCORSO ANTOLOGICO

Siamo «cittadini» o «consumatori»? Spesso il richiamo senecano all’interiorità e al buon uso del tempo è stato recuperato in funzione anti-consumistica: gli occupati sono «assediati» da attività puramente esteriori, e «alienati» dal loro unico possesso, dalla loro unica essenza, cioè il tempo, che essi sprecano in vuote distrazioni o esauriscono nei maneggi più cinici dell’ambizione. Meglio allora essere cittadini riflessivi e consapevoli, pur ritirati in una individualistica «cura di sé», piuttosto che ingranaggi passivi di un meccanismo dispendioso e frustrante. In quest’ottica si inserisce anche il distacco dalla turba, la «folla» indifferenziata degli stolti [su cui si veda T11], contro

l’omologazione conformistica che identifica valore e denaro, felicità e successo: un invito salutare alla critica e all’anticonformismo, il cui rischio però è una mitica autonomia del singolo dalle dinamiche sociali, e il conseguente appello alle risorse individuali per sfuggire alle seduzioni volgari e alle pulsioni negative della “massa”. Molto fecondi, in varie direzioni, sono gli spunti forniti sul tema dal sociologo polacco Zygmunt Bauman, che ha denunciato sia l’illusorietà delle soluzioni individuali a disfunzioni sistemiche (si veda per esempio La società sotto assedio, Laterza, RomaBari 2005) sia la costruzione sociale e tecnologica della malvagità umana all’opera negli stermini di massa (analizzata in Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna 1992).

[1, 1] Ho deciso di scrivere sulla clemenza, Nerone Cesare, per poter fare in qualche

modo la parte dello specchio, e mostrarti l’immagine di te stesso che sei avviato a raggiungere il massimo dei piaceri. Infatti, benché il vero frutto delle azioni rette sia l’averle compiute e non ci sia alcun premio degno delle virtù al di fuori delle virtù stesse, giova esaminare attentamente e percorrere la propria buona coscienza, e poi posare lo sguardo su questa immensa moltitudine discorde, sediziosa, incapace di dominarsi, pronta a saltar su per la rovina altrui e per la propria, una volta che avrà abbattuto questo giogo; e giova parlare così con se stessi: [2] «Sono, dunque,

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PERCORSO ANTOLOGICO

io quello che fra tutti i mortali è stato preferito e scelto per fare in terra le veci degli dèi? Sono l’arbitro della vita e della morte delle nazioni: è nelle mie mani la decisione sulla sorte e sulla condizione di ciascuno; quello che la fortuna vuole che sia dato a ciascuno dei mortali, lo fa sapere attraverso la mia bocca; da una nostra risposta popoli e città traggono motivi per rallegrarsi; nessun luogo prospera, se non per la mia volontà e per il mio favore; tutte queste migliaia di spade, che la mia Pace fa rimanere nel fodero, ad un mio cenno verranno sguainate; quali popoli debbano essere distrutti completamente, quali fatti spostare altrove, a quali si debba dare la libertà, a quali strapparla, quali re debbano essere ridotti in schiavitù e quali teste debbano essere insignite della dignità regale, quali città debbano crollare, quali sorgere, dipende tutto dalla mia autorità. [3] Nonostante tutto questo potere, l’ira non mi ha mai spinto ad infliggere supplizi iniqui; non mi ci ha mai spinto l’impeto giovanile, né la temerarietà o la tracotanza degli uomini, che spesso toglie la pazienza anche dagli animi più tranquilli; non mi ci ha mai spinto l’orgoglio funesto, ma diffuso in chi è a capo di grandi imperi, di ostentare la propria potenza seminando terrore. La mia spada è riposta nel fodero, anzi è legata, ed io ho cura di risparmiare il più possibile anche il sangue più vile; non c’è nessuno che, pur essendo privo di altri titoli, non trovi grazia presso di me solo per il suo nome di uomo. [4] Tengo nascosta la severità e sempre pronta, invece, la clemenza; sorveglio me stesso, come se dovessi poi render conto alle Leggi, che ho richiamato dalla dimenticanza e dalle tenebre alla luce. Prima mi sono commosso per la tenera età di uno, poi per l’anzianità dell’altro; ad uno ho perdonato per la sua dignità, ad un altro per la sua umiltà; ogni volta che non ho trovato una ragione di misericordia, ho risparmiato per me stesso. Oggi sono pronto, se gli dèi mi chiedono il conto, ad enumerare tutto il genere umano». [5] Tu puoi, Cesare, proclamare audacemente che tutto ciò che è stato posto sotto la tua protezione e la tua tutela è pienamente al sicuro e che da parte tua non si sta preparando alcun male, né per via violenta né di nascosto, alla repubblica. Tu hai bramato una lode rarissima e che finora non è stata concessa ad alcun principe: l’innocenza da colpe. Questa tua bontà singolare non spreca fatica e non trova uomini ingrati e malignamente avari della propria stima. Ti si è grati: nessun singolo uomo fu mai tanto caro quanto lo sei tu al popolo romano, per il quale sei un bene grande e durevole. [6] Ma ti sei imposto un peso enorme; nessuno, infatti, parla più del divo Augusto né dei primi tempi di Tiberio Cesare, e nessuno cerca al di fuori di te un modello da presentarti perché tu lo imiti: si pretende che il tuo principato sia conforme a questo assaggio che ne hai dato. Questo sarebbe stato difficile, se questa tua bontà non fosse in te naturale, ma come presa in prestito per un certo tempo: nessuno, infatti, può indossare a lungo una maschera. Le cose simulate ricadono presto nella loro natura; quelle sotto le quali c’è la verità e che, per così dire, nascono da qualcosa di sostanzioso, col tempo si accrescono e migliorano. [7] Il popolo romano correva un gran rischio, poiché era incerto in che direzione si sarebbe orientata la tua nobile indole: ora i voti pubblici sono al sicuro, poiché non c’è pericolo che tu sia colto da un’improvvisa dimenticanza di te stesso. L’eccessiva prosperità rende certuni insaziabili, e le brame non sono mai 151 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

tanto temperate da cessare una volta raggiunto ciò cui si mirava: gradualmente si passa dal grande all’ancora più grande, e una volta ottenute cose insperate, si abbracciano speranze smisurate. Oggi, tuttavia, tutti i tuoi concittadini confessano apertamente che sono felici e che a questi beni non si potrebbe aggiungere nulla, purché siano duraturi. [8] Molte cose li costringono a questa confessione, la più tardiva che gli uomini di solito fanno: una profonda e piena sicurezza, un diritto posto al di sopra di ogni violazione; l’avere sempre presente una forma di governo graditissima alla quale non manca nulla, tranne la possibilità di essere distrutta, per godere di una libertà assoluta. [9] Tuttavia, quella che ha destato uguale ammirazione nei più grandi così come nei più umili è la tua clemenza; gli altri beni, infatti, ciascuno li sente o se li aspetta maggiori o minori in proporzione alla sua condizione personale; dalla clemenza, invece, tutti sperano lo stesso; e non c’è nessuno che si compiaccia tanto della sua innocenza da non rallegrarsi poi di stare al cospetto della Clemenza, indulgente di fronte agli errori umani.

PERCORSO ANTOLOGICO

(trad. di G. Reale)

Educazione CIVICA Il paternalismo politico, dalla clementia al nudging «Diritti e doveri» o «benefici»? La «rivoluzione romana» attuata da Augusto aveva svuotato di senso le istituzioni repubblicane, pur mantenendole formalmente in vita, e Seneca è l’interprete di questa rivoluzione come Cicerone lo era stato dei valori repubblicani. Con qualche analogia suggestiva, la globalizzazione di fine Novecento ha svuotato di senso molte categorie e «narrazioni» politiche della modernità, rendendo gli individui «post-moderni» più liberi e responsabili, ma al tempo stesso orfani di ideologie tanto vincolanti (spesso accecanti) quanto rassicuranti. In questo quadro, le società umane devono essere regolate da norme formalizzate, rigide e uguali per tutti, incardinate in un sistema statico, oppure da un insieme flessibile di raccomandazioni, di comportamenti virtuosi, in un processo dinamico di relazioni fluide e informali? L’appello alla responsabilità individuale può sostituire la rigida applicazione di normative, con la minaccia di sanzioni per chi non le rispetta? L’altra faccia di questa “personalizzazione” della politica è spesso una gestione paternalistica del potere: soltanto nei casi estremi (e nei regimi in cui manca una solida tradizione democratica) il paternalismo utilizza formalmente il meccanismo elettorale per legittimare dittature di fatto, mentre negli Stati liberal-democratici si presenta come nudge, «spinta gentile» con cui i governi, anziché imporre obblighi e divieti, preferiscono indurre a comportamenti virtuosi, orientando con la persuasione le scelte degli individui: secondo alcuni con il risultato, più o meno intenzionale,

di manipolare la loro autonomia, che risulta così sempre più apparente. L’esempio più famoso dell’efficacia del nudging è l’esperimento condotto negli anni Novanta nell’aeroporto Schiphol di Amsterdam: l’uso “impreciso” dei servizi igienici maschili fu ridotto dell’80% non con l’affissione di regolamenti, ma con il semplice stratagemma di applicare degli adesivi rappresentanti delle mosche sugli orinatoi. Sul tema resta fondamentale il saggio di Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein, La spinta gentile, Feltrinelli 2014.

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PERCORSO ANTOLOGICO

T7

Beata est vita conveniens naturae suae

De vita beata 3

ONLINE

T 8 Taedium vitae e commutatio loci De tranquillitate animi 2, 13-15 LATINO

Il trattato De tranquillitate animi si apre con una lunga pagina in cui Anneo Sereno, l’amico cui erano già stati dedicati il De constantia sapientis e il De otio, espone la propria condizione attuale, quella di un uomo che si è avviato alla pratica della virtù, e nondimeno continua a oscillare fra diversi stati d’animo, perennemente ansioso e scontento di sé, incerto fra ciò che è bene e ciò che è male, tanto da essere costretto a confessare di trovarsi in una strana condizione: nec aegroto nec valeo («non sono malato e non sto bene»). Il capitolo introduttivo dell’opera termina dunque con una richiesta di aiuto: «se conosci qualche rimedio che possa arrestare questo mio continuo ondeggiare, ti prego, considerami degno di esserti debitore della mia serenità» (1, 18). Seneca dà subito una risposta di carattere generale, osservando che quello di cui Sereno sente la mancanza, e a cui aspira, è la tranquillitas, che sarà appunto oggetto della sua trattazione. Per giungere a questo fine, occorre però innanzi tutto rendersi consapevoli di ciò che turba concretamente l’animo umano, esposto ai tormenti dell’insoddisfazione perenne, della noia, della mutevolezza dei desideri, dell’avvilimento interiore (la displicentia sui), dell’apatia. Seneca si concentra in particolare sul motivo della noia, il taedium vitae di cui avevano già parlato Lucrezio e Orazio, e lo fa con acutezza di sguardo e profondità di indagine psicologica, giungendo a enunciare sentenze che toccano il lettore per la loro bruciante verità esistenziale. Nel passo che segue, l’attenzione si volge a un motivo tradizionale della poesia classica, la commutatio loci, la smania di mutar luogo nell’illusione di poter sfuggire a se stesso. Sed quid prodest, si non effugit?, annota, con la consueta lucidità sentenziosa, Seneca (par. 14). [13]

Inde peregrinationes suscipiuntur vagae et invia litora pererrantur; et modo mari se modo terra experitur semper praesentibus infesta levitas. «Nunc Campaniam petamus». Iam delicata fastidio sunt: «Inculta videantur, Bruttios et Lucaniae saltus persequamur». Aliquid tamen inter deserta amoeni requiritur, in

[13] Per questo si intraprendono viaggi per ogni dove e si attraversano lidi inospitali; e l’incostanza, sempre nemica delle cose presenti, mette alla prova se stessa ora per mare ora per terra. «Ora andiamo in Campania». Ma già i luoghi raffinati vengono a noia: «Andiamo a vedere posti selvaggi, esploriamo i boschi del Bruzzio e della Lucania». Ma in mezzo ai luoghi desolati, si cerca qualcosa di piacevole, nel quale gli occhi abituati al lusso si ricreino dal lungo squallore di luoghi aspri. «Andiamo a Taranto e al suo porto [tanto] decantato, ai suoi inver-

ni dal clima così mite, alla sua regione abbastanza ricca anche per la popolazione di un tempo». Per troppo tempo le orecchie sono state lontane dagli applausi e dalle grida; è bello ormai godere anche del sangue umano: «Ormai volgiamo la rotta verso Roma». Inde: «per questo», cioè (come si ricava dal passo precedente) per vincere il tedio dell’anima. – peregrinationes... pererrantur: l’allitterazione fa risaltare il motivo della commutatio loci. – vagae: dal verbo vagor della prima coniugazione: indica un andare quae là, un vagabondare senza meta e senza scopo. – in-

via: invı̆us, a, um («inaccessibile», «impraticabile», «impenetrabile») è aggettivo composto dal prefisso privativo in e dal sostantivo vı̆a. – experıˉtur: presente indicativo dal verbo expĕrı̆or (expertus sum, ˉıri). – praesentibus: dativo neutro plurale del participio sostantivato, retto da infesta. – Campaniam: dove si trovavano, fin dall’epoca della tarda repubblica, celebri località di villeggiatura. – petamus: con valore esortativo, come gli altri congiuntivi che seguono (vide­ antur... persequamur... petatur... flecta­ mus). Chi parla è la persona inquieta e insoddisfatta, che spera di trovar rime-

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

quo luxuriosi oculi longo locorum horrentium squalore releventur: «Tarentum petatur laudatusque portus et hiberna caeli mitioris et regio vel antiquae satis opulenta turbae». Nimis diu a plausu et fragore aures vacaverunt, iuvat tam et humano sanguine frui: «Iam flectamus cursum ad urbem». [14] Aliud ex alio iter suscipitur et spectacula spectaculis mutantur. Ut ait Lucretius: Hoc se quisque modo semper fugit.

PERCORSO ANTOLOGICO

Sed quid prodest, si non effugit? Sequitur se ipse et urget gravissimus comes. [15] Itaque scire debemus non locorum vitium esse quo laboramus, sed nostrum; infirmi sumus ad omne tolerandum, nec laboris patientes nec voluptatis nec nostri nec ullius rei diutius. Hoc quosdam egit ad mortem, quod proposita saepe mutando in eadem revolvebantur et non reliquerant novitati locum: fastidio esse illis coepit vita et ipse mundus et subiit illud tabidarum deliciarum: «Quousque eadem?» dio al tedio che la opprime spostandosi in altri luoghi, ora alla moda ora selvaggi (come si ricava dagli esempi che seguono). – videantur: passivo di video (lett. «siano visti»). – Bruttios et Lucaniae: si osservi la variatio, con l’attributo Brut­ tios e il genitivo Lucaniae. I Bruttii risiedevano nell’odierna Calabria. – amoe­ ni: genitivo partitivo. – in quo... releventur: proposizione relativa impropria, con valore finale. – Tarentum... regio: Tarentum, portus, hiberna e regio sono soggetti del congiuntivo esortativo petatur (= petantur). Altri interpretano gli ultimi tre sostantivi come apposizioni di Tarentum. Taranto, fondata nel 706 da coloni spartani, fu uno dei maggiori centri, economici e culturali, della Magna Grecia. – hiberna: lett. «i quartieri invernali», termine della lingua militare. – caeli mitioris: genitivo di qualità; mitioris è comparativo assoluto. Anche in Orazio (Carm. II, 6), Taranto compare come città dai tiepidi inverni: ver ubi longum tepidasque praebet/ Iuppiter brumas. – regio... turbae: costruisci regio satis opulenta vel antiquae turbae (dativo di vantaggio). – urbem: Roma, per antonomasia. Ad urbem è moto a luogo. – a plausu et fragore: ablativi di allontanamento («sono state lontane dagli applausi e dalle grida») o di privazione («sono state prive degli applausi e delle grida»). – humano sanguine: ablativo strumentale. Evidente allusione agli spettacoli del circo, che Seneca ebbe spesso a criticare.

[14] Si intraprende un viaggio dopo l’altro e spettacoli si alternano a spettacoli. Come dice Lucrezio: «In questo modo ciascuno sempre fugge se stesso». Ma a che gli serve, dal momento che non sfugge [a se stesso]? Egli stesso segue se stesso e gli incombe addosso come insopportabile compagno [di viaggio]. spectacula... mutantur: lett. «si mutano spettacoli con [altri] spettacoli»; spectaculis è ablativo strumentale. – Hoc... fugit: la citazione è tratta dal III libro del De rerum natura (v. 1068 [ vol. I, T9, cap. 11]), ma con l’aggiunta dell’avverbio semper, assente nell’originale. Evidentemente Seneca sta citando a memoria, o forse vuol dare alla citazione una maggiore forza ammonitoria. – si non effugit (sott. se): il gioco di parole istituito con il precedente se fugit accentua l’irrazionalità della scelta: come verrà precisato poco dopo, il male è in noi, non nei luoghi che frequentiamo. – gravissimus comes: predicativo del soggetto (ipse). [15] Dunque dobbiamo sapere che non è dei luoghi il male di cui soffriamo, ma nostro; siamo incapaci di tollerare qualsiasi cosa, insofferenti a lungo andare della fatica, del piacere, di noi stessi come di qualsiasi altra cosa. Questo ha spinto alcuni alla morte, e cioè il fatto che, col cambiare di continuo propositi, ricadevano nelle medesime condizioni, e non lasciavano spazio al nuovo: la vita, e lo stesso

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mondo, cominciò a venir loro a noia, e penetrò [in essi] quel pensiero proprio dei piaceri snervanti: «Fino a quando le medesime cose?». non locorum... esse: proposizione infinitiva oggettiva, dipendente da scire debemus. – infirmi: lett. «deboli», come se mancassero le forze. – ad omne tolerandum: gerundivo con valore finale. – patientes: participio di patior, usato con valore di aggettivo; regge i quattro genitivi che precedono e seguono. – diutius: comparativo assoluto dell’avverbio diu. – Hoc: prolettico del quod che segue. – ad mortem: cioè al suicidio. – mutando: gerundio ablativo con valore strumentale. – et non reliquerant novitati locum: come chi la provato tutto, e non può aspettarsi più nulla dalla vita. – fastidio... illis: è la consueta costruzione del doppio dativo. – tabidarum deliciarum: può essere interpretato come genitivo epesegetico di illud, oppure come genitivo di pertinenza. Tabidus ha il significato di «che consuma, che distrugge poco a poco», come un morbo infettivo (tabes) o un veleno. L’aggettivo ben si presta a dipingere lo stato morale di chi si è abbandonato a una vita corrotta e depravata. – Quousque eadem?: alla domanda non può che seguire il suicidio. Ma Seneca parte da qui per proporre i suoi rimedi: al sentimento della noia viene opposta una vita appartata ma attiva, dedita agli studi.


PERCORSO ANTOLOGICO

Analizzare il testo 1.

In che modo gli uomini cercano di sconfiggere il sentimento del tedio che li opprime? 2. Quali luoghi alla moda sono evocati dall’autore? Ricordi passi di poeti e di prosatori della tarda repubblica e degli inizi del principato, in cui già compaiono? 3. Leggi e traduci il verso di Lucrezio citato: come lo commenta Seneca? E con quale ironico gioco di parole? 4. Sottolinea i congiuntivi esortativi presenti nel brano.

Confrontare i testi

5. Scrive Seneca nelle Epistulae ad Lucilium (17, 12): non est enim in rebus vitium, sed in ipso animo. In quale paragrafo del testo che hai appena letto, si trova espresso un concetto analogo? 6. Nel III libro del De rerum natura, la Natura esorta l’uomo ad accettare serenamente il suo destino con queste parole: eadem sunt omnia semper (v. 945). Anche la conclusione del passo di Seneca sembra volgere nella stessa direzione. Ma chi pronuncia la frase? E qual è il rimedio che Seneca oppone a questa severa constatazione?

Edvard Munch, Malinconia,1894, Oslo, Museo Nazionale della Norvegia.

Dialogo con i MODELLI Il motivo del taedium vitae in Lucrezio e in Orazio Nel par. 14 Seneca cita espressamente un verso di Lucrezio, aggiungendovi, come si è visto, l’avverbio semper. Nel passo lucreziano si fornisce l’esempio di un uomo afflitto dal tedio che esce dalla sua casa di città, spronando impetuosamente i cavalli, per muovere alla sua fattoria: «ma appena toccate le soglie, ben presto sbadiglia/ o inerte si rifugia nel sonno e cerca l’oblio, / o anche in gran fretta ritorna a vedere la città che ha lasciato./ Così ognuno fugge se stesso, ma a questi di certo, come accade/ non riesce a sfuggire e, suo malgrado, vi resta attaccato e lo odia,/ poiché malato non afferra la causa del male» (De rerum natura

III, 1065-1070, trad. di L. Canali). La soluzione di Lucrezio, come si evince dai versi successivi, è tuttavia ben diversa da quella senecana: rendersi consapevoli delle leggi di natura, avere il coraggio di guardare con chiarezza la condizione umana, prendendo coscienza che a nessuno è dato di evitare la morte. Sempre nel par. 14, l’ultima frase (Sequitur se ipse et urget gravissimus comes) porta con sé l’eco ben riconoscibile di un passo delle Satire di Orazio, dove è la cura, l’inquietudine, che insegue, «nera compagna», colui che vanamente tenta di fuggirla: comes atra premit sequiturque fugacem (Sermones II, 7, 115).

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

T 9 L’uso del tempo Epistulae ad Lucilium 1 LATINO

Il tema del tempo era già stato affrontato nel De brevitate vitae, e non a caso apre la serie delle lettere indirizzate a Lucilio: noi moriamo un po’ ogni giorno, poiché ogni giornata che trascorre è un passo sul cammino che conduce alla morte; solo se sapremo far nostro il tempo che ci appartiene, sapremo vivere saggiamente. La vera libertà è quella interiore, ed implica il pieno dominio del tempo che ci è concesso. Seneca non svolge il discorso per via dimostrativa, non si pone davanti al lettore come un tecnico della conoscenza ma come un maestro di vita. Fa perciò uso di uno stile mosso e vario, che mira a stabilire un rapporto di familiare intimità con il proprio interlocutore: Ita fac, mi Lucili... Persuade tibi hoc sic esse ut scribo... Fac ergo, mi Lucili. Non mancano procedimenti retorici più complessi, utilizzati nei punti nodali del discorso. Si osservi, ad esempio, il ritmo ternario dell’esordio: auferebatur... subripiebatur... excidebat, verbi di area semantica affine, ma che indicano tre modi assai diversi di lasciarsi sfuggire il tempo, ripresi subito dopo, con sapiente parallelismo, da eripiuntur... subducuntur... effluunt. Prevale, nel tessuto del discorso, l’espressione sentenziosa, che dispone in un movimento rapido le auree tessere della conoscenza e della saggezza: Dum differtur, vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est (par. 3).

PERCORSO ANTOLOGICO

Seneca Lucilio suo salutem. [1] Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris adtendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. [2] Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: [1] Fa’ così, o mio Lucilio, rivendica il possesso di te stesso, e il tempo che finora o ti veniva portato via, o ti veniva rubato o ti sfuggiva di mano, raccoglilo e conservalo. Persuaditi che è così, come scrivo: parte del tempo ci viene strappato, parte ci viene sottratto, parte scorre via. La perdita più vergognosa, tuttavia, è quella che avviene per negligenza. E, se vorrai prestare attenzione, gran parte della vita fugge via nell’agire male, una grandissima parte nel non fare nulla, tutta la vita nel fare altro. fac: seconda persona singolare dell’imperativo presente di facio; forma tronca, come dic (da dico) e duc (da duco). Svolge funzione prolettica rispetto ai tre imperativi che seguono (vindica... collige... serva). – mi Lucili: il vocativo, accompagnato dal possessivo, rafforza il legame affettivo tra maestro e discepolo, e introduce il nome del destinatario dell’opera,

Lucilio Iuniore. La desinenza -i di Lucili è di norma per i vocativi dei nomi propri in ius della seconda declinazione (come filius). – te tibi: si noti l’accostamento, in poliptoto, di due forme del pronome personale: te è complemento oggetto di vindica; tibi è dativo d’interesse. – auferebatur... subripiebatur... excidebat: in aufero è l’idea di un tempo strappato con la forza; in subripio del tempo che ci è rubato con l’inganno, quasi subdolamente, come se fosse sottratto di nascosto; in excido (spesso usato con locuzioni come de manibus, a digitis) del tempo che ci sfugge via per trascuratezza o sbadataggine. I tre concetti vengono ribaditi nei verbi che seguono (eripiuntur, subdu­ cuntur, effluunt). Entrambe le terne sono disposte in climax, e sottolineate dall’uso dell’anafora (la disgiuntiva aut nella prima; la forma indefinita quaedam nella seconda). – hoc sic esse: proposizione in-

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finitiva oggettiva retta dal verbo Persua­ de, con il pronome dimostrativo neutro (hoc) in funzione prolettica. – ut scribo: proposizione comparativa. – quaedam: nel primo colon è aggettivo; nei due che seguono pronome. – Turpissima... per neglegentiam: tipica sentenza senecana. Per neglegentiam è complemento di causa. – si volueris adtendere: protasi di un periodo ipotetico della realtà: vo­ lueris è futuro anteriore; l’infinito adten­ dere ha come complemento oggetto sottinteso il sostantivo animum. – magna pars... maxima... tota vita: si noti, di nuovo, la progressione in climax dei tre soggetti, e l’epifora del participio sostantivato agentibus. [2] Chi mi indicherai che stabilisca un prezzo per il tempo, che dia una valutazione della sua giornata, che si renda conto di morire ogni giorno? In questo infatti ci inganniamo, nel proiettare


PERCORSO ANTOLOGICO

magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis: omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. [3] Dum differtur, vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis la morte davanti a noi: gran parte di essa è già passata; tutto il tempo che sta dietro di noi, lo tiene in possesso la morte. Fa’ dunque, o mio Lucilio, quello che già scrivi di fare: abbraccia ogni [tua] ora; così avverrà che tu dipenda meno dal domani, se ti sarai impadronito dell’oggi. Quem: pronome interrogativo, oggetto del verbo dabis. – qui... ponat, qui... aestimet, qui intellegat: tre proposizioni relative improprie con valore consecutivo, enfatizzate dall’anafora del soggetto qui. – se cotidie mori: proposizione infinitiva oggettiva retta da intellegat; sentenza-cardine dell’epistola. – In hoc

enim fallimur: con funzione prolettica della proposizione dichiarativa che segue (quod mortem prospicimus). – prospicimus: il verbo prospicio (spexi, spectum, ĕre), composto di pro e specio, ha qui il significato di «guardare dinanzi a noi», «vedere in lontananza». – eius = mortis. – praeterit = praeteriit. – aetatis: genitivo partitivo. – tenet: tenere, in contesti bellici, significa «occupare» (città, castelli, postazioni). Il ricorso a una metafora della lingua militare evidenzia il dominio pieno della morte sulla vita dell’uomo. – Fac ergo, mi Lucili: si noti la variatio della proposizione-incipit (Ita fac, mi Lucili), con artificioso effetto chiastico

dei membri iniziali (Ita fac... Fac ergo). – omnes horas complectere: proposizione infinitiva epesegetica di quod facere te scribis. La metafora dello stringere e dell’abbracciare prepara e rafforza l’immagine successiva del manum inicere sul presente. – crastino... hodierno: aggettivi sostantivati (crastinum da cras = domani, hodiernum da hodie = oggi). [3] Mentre si rinvia, la vita se ne va. Tutte le cose, o Lucilio, non ci appartengono, soltanto il tempo è nostro; la natura ci ha messo in possesso di questo solo bene effimero e labile, dal quale ci caccia chiunque lo voglia. E tanta è la stoltezza dei mortali, da riconoscersi

Le FORME dell’ESPRESSIONE Il linguaggio dell’interiorità Seneca evita il ricorso al lessico tecnico della filosofia: in molti casi fa uso di espressioni prelevate dai linguaggi settoriali (del diritto, della finanza e del commercio, della medicina e della fisiologia [ T10], dell’agricoltura [ T10], dello sport e dei giochi, della vita militare [ T10] ecc.) e di forme che riguardano aspetti della vita pratica e quotidiana [ T13 ONLINE], ma ne sposta il significato sul piano morale, costruendo così il suo peculiare «linguaggio dell’interiorità» (Traina). In questa prima epistola si segnalano in particolare, oltre alle ricorrenti immagini di quotidiana concretezza, i termini del linguaggio giuridico e finanziario.

▰ Dal linguaggio giuridico: vindica te tibi (1, 1) Vindicare è un verbo del linguaggio giuridico romano, utilizzato originariamente nel senso di «rivendicare il possesso di qualcosa», e in seguito nell’espressione – relativa all’affrancamento degli schiavi – vindicare aliquem in libertatem («affrancare qualcuno, metterlo in libertà»). Ma Seneca sposta il significato del termine dall’ambito giuridico alla sfera morale, esortando il discepolo a riappropriarsi della propria vita, a rendersi padrone di se stesso. È un esempio di quel linguaggio dell’interiorità caratteristico della prosa senecana.

▰ Dal linguaggio finanziario Nei paragrafi

successivi si riscontrano poi diverse espressioni, trasposte in senso metaforico, che provengono dal linguaggio

finanziario, commerciale e della contabilità, quali pretium tempori ponat... diem aestimet (1, 2): pretium ponere significa «fissare il prezzo», aestimare «fare una stima»; inputari sibi (1, 3): inputare aliquid alicui «mettere qualcosa a debito di qualcuno»; ratio mihi constat impensae (1, 4): letteralmente «il conto (ratio) della spesa (impensae) mi torna giusto». Seneca sta parlando del tempo, un bene prezioso da amministrare oculatamente, proprio come fa un contabile o un commerciante diligente.

▰ Dal linguaggio della vita quotidiana Nella

chiusa dell’epistola troviamo infine una frase di stampo proverbiale, un ammonimento di saggezza pratica ereditato dai «nostri avi»: sera parsimonia in fundo est (1, 5); «tardivo è il risparmio [fatto] sul fondo». Il fondo è quello di una botte o di un orcio, in cui si conservavano vino od olio; e sul fondo «non resta solo la parte più scarsa (minimum), ma la peggiore (pessimum)», ossia la feccia. Il senso è chiaro: bisogna cominciare a non sprecare il tempo fin dall’inizio, e non quando è stato ormai dilapidato. Una sentenza analoga è già in Esiodo (Opere e giorni, v. 369): «il risparmio, quando si è giunti alla fine dell’orcio, non serve a nulla». La conclusione affidata a una massima di sapore concreto e popolare svela il carattere pedagogico della lettera, costruita sul potere di immagini proprie della vita quotidiana (la botte, l’orcio, il vino) e di immediata comprensione.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

PERCORSO ANTOLOGICO

ac lubrı̆ cae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, inputari sibi cum impetravere patiantur; nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere. [4] Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat impensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. [5] Quid ergo est? Non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, «sera parsimonia in fundo est»; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale. debitori, quando le abbiano ottenute, di cose che sono di minima importanza e di scarsissimo valore, comunque recuperabili; nessuno [invece], che abbia ricevuto [in dono] del tempo, ritiene di essere debitore di qualcosa, mentre intanto questa è l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire. Omnia... aliena sunt: era tradizionale, nell’ambito della dottrina stoica, la distinzione tra ciò che è soggetto al nostro potere, e ciò che non lo è. Epitteto, nato intorno al 50 d.C., inizia il proprio Manuale proprio sottolineando tale concetto: possiamo esercitare la nostra libertà solo su ciò che dipende da noi, non da altri. La sofferenza nasce proprio dalla pretesa di considerare nostre le cose che non ci appartengono per natura. – in... possessionem: complemento di fine. – ex qua = ex qua possessione. Ablativo di allontanamento. – Et tanta stultitia... reddere: costruisci Et tanta est stultitia mortalium, ut patiantur im­ putari sibi, cum impetravere, [ea] quae minima et vilissima sunt, certe repara­ bilia; nemo qui tempus accepit iudicet se quicquam debere cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere. Si noti la complessità del lungo periodo, in contrasto con le proposizioni precedenti. – expellit: sott. nos. – mortalium: termine poetico per hominum, genitivo soggettivo. – ut... patiantur... iudicet: proposizioni consecutive coordinate per asindeto. – minima et vilissima: superlativi assoluti. – reparabilia: in antitesi con il tradizionale concetto del tempo che scorre inreparabile, come in Georgi­ che III, 284 (Sed fugit interea, fugit inre­ parabile tempus) o in Eneide X, 467-68

(breve et inreparabile tempus/ omnibus est vitae). – cum impetravere (= im­ petraverunt): proposizione temporale. – quicquam: pronome indefinito, accusativo. – cum: introduce una proposizione temporale con valore avversativo. – gratus: aggettivo sostantivato. [4] Chiederai forse che cosa faccio io, che ti do questi consigli. Te lo dirò schiettamente: quello che succede a uno che spende molto ma che è diligente [nell’amministrare]: faccio tornare i conti. Non posso dire di non perdere nulla, ma potrei dire che cosa perdo, perché e in che modo: potrei spiegare le cause della mia indigenza. Ma a me succede quello che [capita] alla maggior parte di coloro che si sono ridotti in miseria non per colpa loro: tutti li scusano, nessuno li aiuta. Interrogabis... fatebor: formule consuete del linguaggio diatribico: si immagina che l’interlocutore-ascoltatore interrompa il fluire del discorso ponendo un’obiezione cui il maestro si incarica di rispondere. – quid ego faciam: proposizione interrogativa indiretta dipendente da Interrogabis. – qui... praecipio: proposizione relativa. Ista è un neutro plurale; praecipio («insegno») è verbo molto frequente nelle Epistulae, fondate sullo stretto rapporto fra maestro e discepolo. – luxuriosum: chi vive nella luxuria, ovvero nel lusso. Si tratta di un aggettivo sostantivato. Qui è in antitesi con il successivo diligentem, con il quale va a formare quasi una coppia di valore ossimorico. – evenit: sott. mihi. – nihil... quid: sott. temporis. – perdere (sott. me): nel senso di «dilapidare», «scialacquare». – quid perdam: ancora una proposizione interrogativa indiretta, qui dipendente

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dal congiuntivo potenziale dicam. Si noti la costruzione chiastica dell’espressione perdam et quare et quemadmodum dicam. – dicam... reddam: congiuntivi potenziali, non futuri. – suo vitio: ablativo causale. – omnes... nemo: significativa l’antitesi, che dà energia alla sentenza conclusiva del paragrafo. [5] Qual è la conclusione? Non considero povero colui al quale basta quel poco, benché poco, che gli resta; quanto a te, tuttavia, preferisco che conservi i tuoi beni, e comincerai [a farlo] in tempo utile. Infatti, come ammoniscono i nostri avi, «tardivo è il risparmio quando si è giunti al fondo»; sul fondo infatti non resta solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore. Addio. Quid ergo est?: locuzione della lingua familiare (comunemente usata anche con l’ellissi del verbo): introduce la parte conclusiva di un discorso. – pauperem: predicativo dell’oggetto sottinteso eum: non puto pauperem [eum], cui. L’ellissi del pronome dimostrativo, specie se in correlazione con un pronome relativo, è tratto linguistico frequente nella prosa di Seneca. – sat: forma abbreviata dell’aggettivo indeclinabile sa­ tis, frequente nella lingua poetica. – tu tamen... tua: l’allitterazione, così come la presenza della congiunzione avversativa, enfatizza il concetto. – malo: regge il congiuntivo esortativo serves. Dopo i verbi di volontà, si omette generalmente la congiunzione ut. – sera parsimonia in fundo est: massima tradizionale: il «fondo» è quello di una botte, o di un orcio, nei quali si conservavano vino od olio. – pessimum: sul fondo, continuando la similitudine con la botte, non resta solo poco vino, ma la feccia.


PERCORSO ANTOLOGICO

Analizzare il testo 1.

Cosa vuole intendere Seneca con l’espressione cotidie mori? Quale concezione del tempo essa esprime? 2. Quali verbi sono utilizzati dall’autore per indicare la costante rapina del tempo cui siamo giornalmente sottoposti? 3. Quale rapporto si instaura tra maestro e discepolo nel corso della lettera?

Confrontare i testi

4. Quale parola latina si contrappone a luxuria? La denuncia del lusso e l’elogio della frugalità ricorrono spesso negli storici latini, così come nella poesia elegiaca: sapresti fare qualche esempio, tratto dalle opere e dagli autori studiati negli anni precedenti?

T 10 Le letture Epistulae ad Lucilium 2 LATINO ITALIANO

La ricerca di una stabilità spirituale, l’autosufficienza interiore, la serenità e la fermezza del saggio erano temi tradizionali della filosofia antica, che Seneca trasferisce per analogia all’ambito degli studi e delle letture: non conta leggere molto ma leggere in modo utile e concentrato; la sapientia è contraria tanto alla curiositas quanto alla sterile erudizione.

Seneca Lucilio suo salutem. [1] Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris. Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari. [2] Illud autem vide, ne ista lectio auctorum multorum et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile. Certis ingeniis inmorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat. Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant sed omnia cursim et properantes transmittunt. [3] Non prodest cibus nec corpori accedit qui statim sumptus emittitur; nihil aeque sanitatem inpedit quam remediorum Seneca saluta il suo Lucilio. [1] Dai tuoi scritti e da ciò che sento dire di te sono indotto a sperare vivamente sul tuo conto: non vai qua e là, non ti agita il desiderio di cambiare continuamente luogo. Tale inquietudine è propria di un animo malato: il saper star fermo e raccolto in sé stesso è, secondo me, il primo indizio di uno spirito ben ordinato. [2] Ma forse non ti pare che la lettura di molti autori e di libri di ogni genere riveli una certa incostanza ed instabilità? Se vuoi ricavare qualche idea che ti si imprima durevolmente nell’animo, devi essere in grande dimestichezza con determinati scrittori e di essi nutrirti. Chi è dappertutto non è in alcun luogo. Chi passa la vita vagabondando trova molti ospiti, ma nessun amico. Necessariamente la stessa cosa accade a coloro che non entrano in intimità con nessun uomo di genio, ma leggono qualunque libro di corsa, in fretta e furia. [3] Il cibo che, appena preso, è mandato fuori, non giova né può esser assimilato; niente è così nocivo alla buona salute come il cambiare di continuo i rimedi; una 159 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

PERCORSO ANTOLOGICO

crebra mutatio; non venit vulnus ad cicatricem in quo medicamenta temptantur; non convalescit planta quae saepe transfertur; nihil tam utile est ut in transitu prosit. Distringit librorum multitudo; itaque cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas. [4] «Sed modo» inquis «hunc librum evolvere volo, modo illum». Fastidientis stomachi est multa degustare; quae ubi varia sunt et diversa, inquinant non alunt. Probatos itaque semper lege, et si quando ad alios deverti libuerit, ad priores redi. Aliquid cotidie adversus paupertatem, aliquid adversus mortem auxili compara, nec minus adversus ceteras pestes; et cum multa percurreris, unum excerpe quod illo die concoquas. [5] Hoc ipse quoque facio; ex pluribus quae legi aliquid adprehendo. Hodiernum hoc est quod apud Epicurum nanctus sum (soleo enim et in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator): «honesta» inquit «res est laeta paupertas». [6] Illa vero non est paupertas, si laeta est; non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est. Quid enim refert quantum illi in arca, quantum in horreis iaceat, quantum pascat aut feneret, si alieno imminet, si non adquisita sed adquirenda conputat? Quis sit divitiarum modus quaeris? primus habere quod necesse est, proximus quod sat est. Vale. ferita, sulla quale si provino medicamenti su medicamenti, non si cicatrizza; non cresce una pianticella ripetutamente trapiantata; non c’è cosa tanto efficace che possa giovare di passaggio. Troppi libri producono dissipazione; pertanto, poiché non puoi leggere tutti i libri che ti sarebbe possibile avere, ti basta avere quelli che puoi leggere. [4] «Ma», tu mi dirai, «ora mi vien voglia di sfogliare un libro, ora un altro». È proprio di uno stomaco che facilmente si disgusta assaggiare molti cibi, i quali, se sono diversi, invece di nutrire guastano. Perciò leggi sempre scrittori di indiscutibile valore e, se talvolta ti piacerà rivolgerti ad altri, tosto ritorna ai primi. Ogni giorno sappi procurarti qualche aiuto contro la povertà, contro la morte e parimenti contro gli altri mali; e, dopo aver fermato l’attenzione su molti pensieri, scegline uno che in quel giorno sia oggetto della tua meditazione. [5] Anch’io sono solito fare così; leggo pagine e pagine, ma poi m’impadronisco di un’idea. Oggi, leggendo Epicuro – non stupirti! sovente passo negli accampamenti altrui non come fuggiasco ma come esploratore – ho trovato questo pensiero: «è condizione decorosa – egli afferma – una lieta povertà». [6] Ma questa non è povertà, se è lieta; non è povero chi possiede poco, bensì chi desidera più di quanto possiede. Infatti che importa la quantità di denaro chiusa nel forziere, il granaio quanto vuoi ripieno, il numero degli armenti o dei crediti, se l’uomo di continuo è proteso verso i beni altrui, se fa il conto non di ciò che si è procacciato ma di ciò che si deve procacciare? Vuoi sapere quale sia la giusta misura delle ricchezze? Dapprima avere quel che è strettamente necessario, poi quel che è sufficiente. Addio. (trad. di U. Boella)

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PERCORSO ANTOLOGICO

LETTURA e INTERPRETAZIONE La tecnica dell’argomentazione: exempla e sententiae

Nella prima parte dell’epistola l’argomentazione, illustrata da una martellante serie di esempi tratti dall’ambito della medicina, dell’agricoltura e della fisiologia (par. 3), si conclude con una sentenza destinata a imprimersi con forza nella memoria del lettore-discepolo: cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas (si noti, fra l’altro, l’elegante disposizione a chiasmo delle proposizioni).

L’obiezione dell’interlocutore e i consigli del maestro

Una possibile obiezione dell’interlocutore («Sed modo» inquis «hunc librum evolvere volo, modo illum»),

caratteristica del procedimento diatribico, introduce alla seconda parte della lettera (parr. 4-6). Il maestro abbandona ora l’ambito del discorso generale per dispensare i suoi preziosi consigli, rafforzandoli con l’autorevolezza del proprio esempio (Hoc ipse quoque facio).

Una massima di Epicuro

La massima di Epicuro (par. 5), estrapolata dal suo contesto filosofico, dovrà costituire motivo di riflessione per l’intera giornata e, si immagina, per l’esame di coscienza serale: si osservi (par. 6), anche in questo caso, il carattere sentenzioso dello stile, che rovescia con persuasiva efficacia i tradizionali luoghi comuni del discorso (non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est).

Leggere un TESTO CRITICO Un tema centrale nelle filosofie ellenistiche: la «cura di sé» Primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari: così leggiamo nella seconda epistola a Lucilio sopra riportata. Distaccarsi dai beni esteriori e prendersi cura di sé, scendere nel proprio intimo (in secretum pectoris sui; De ben. VI, 38, 5), farsi

medici della propria anima costituisce il nocciolo del pensiero senecano, estrema elaborazione di un tema caro alle filosofie ellenistiche. Ne parla, nella pagina che segue, uno dei maggiori filosofi novecenteschi, Michel Foucault (1926-1984).

«Né il giovane indugi a filosofare né il vecchio di filosofare sia stanco. Non si è né troppo giovani, né troppo vecchi per la salute dell’anima» (Epicuro, Epistola a Meneceo 122). È proprio questo tema epicureo della necessità della cura di sé che Seneca riprende in una delle sue lettere: «Un cielo sereno, quando ha acquistato il più alto grado di purezza e di splendore, non può ricevere una chiarezza ancor più viva. Così l’uomo che ha cura del corpo e dell’anima (hominis corpus animumque curantis) e che per mezzo loro si fabbrica la sua felicità, raggiunge il culmine dei suoi desideri e si trova in uno stato perfetto, in quanto il suo animo non è più agitato e il suo corpo è senza dolore» (Ep. ad Luc. 66, 45). Curare l’anima era un precetto che Zenone aveva dettato, fin dall’inizio, ai suoi discepoli e che Musonio riprenderà, nel I secolo, in una massima citata da Plutarco (L’ira 453d): «Chi vuole salvarsi deve vivere curando continuamente se stesso». È nota l’ampiezza assunta, in Seneca, dal tema dell’applicazione a se stessi; ed è per consacrarvisi che bisogna, secondo lui, rinunciare alle altre occupazioni: ci si potrà così rendere liberi per se stessi (sibi vacare: Ep. ad Luc. 17, 5; De brevitate vitae 7, 5). Ma questa vacatio assume la forma di un’intensa attività che esige la maggiore sollecitudine e l’impegno di tutte le proprie forze per «farsi da sé», «trasformarsi», «tornare a se stessi». Se formare (De brevitate vitae 24, 1), sibi vindicare (Ep. ad Luc. 1, 1 [ T9]), se facere (Ep. ad Luc. 13, 1; De vita beata 24, 4), se 161 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

Leggere un TESTO CRITICO

ad studia revocare (De tranquillitate animi 3, 6), sibi applicare (De tranquillitate animi 24, 2), suum fieri (Ep. ad Luc. 75, 118), in se recedere (De tranquillitate animi 17, 3; Ep. ad Luc. 74, 29), ad se recurrere (De brevitate vitae 18, 1), secum morari (Ep. ad Luc. 2, 1 [ T10]): Seneca dispone di tutto un vocabolario per indicare le diverse forme che devono assumere la cura di sé e la sollecitudine con la quale si cerca di avvicinarsi a se stessi (ad se properare: Ep. ad Luc. 35, 4). Anche a Marco Aurelio preme molto occuparsi di se stesso: né libri né scritti devono trattenerlo dalla cura diretta che deve riservare al proprio essere: «Non andar più oltre vagabondando. Non hai più tempo, ormai, per rileggere i tuoi appunti, né le imprese degli antichi Romani e dei Greci, né gli scritti che avevi serbato per i giorni della vecchiaia. Affrettati, dunque, abbandona ogni inutile speranza, e, se hai cura del tuo bene, aiutati da te stesso, fin che ti è possibile» (Ricordi III, 14). (M. Foucault, La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 49-50)

PERCORSO ANTOLOGICO

T 11 Il potere corruttore della folla Epistulae ad Lucilium 7, 1-5 LATINO

Come già nell’epistola prima, Seneca entra subito in tema. Lucilio gli ha chiesto che cosa si debba specialmente evitare, per conseguire la saggezza; ed egli risponde con una sola parola: turbam, la folla. Ma come sempre l’autore-maestro si pone subito allo stesso livello del destinatario-discepolo, confessando la propria fragilità. Il saggio stoico deve dunque evitare di «mescolarsi» tra gli uomini, per sfuggire al pericoloso «contagio» delle torbide energie che la folla esprime. Deve guardarsi dall’assistere a spettacoli, e soprattutto ai violenti e sanguinari combattimenti circensi; per avvalorare questo ammonimento, l’autore ricorre a un esemplare aneddoto tratto dall’esperienza personale. [1]

Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor inbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris evenit quos longa inbecillitas usque eo adfecit ut nusquam sine offensa proferantur, hoc accidit nobis quorum animi ex longo morbo reficiuntur. [1] Mi chiedi che cosa soprattutto ritieni di dover evitare. La folla. Non ti potrai mai affidare ad essa senza pericolo. Io confesserò almeno la mia debolezza: non riporto mai [a casa] i buoni costumi che ho portato fuori; qualcosa si turba di ciò che avevo messo in ordine, qualcosa di ciò che ho messo in fuga ritorna. Quello che capita ai convalescenti, che un lungo stato di debolezza ha fiaccato fino al punto da non poter esser portati in alcun luogo senza danno, lo stesso succede a noi, i cui animi si riprendono da una lunga malattia. Quid... existimes: l’interrogativa indiretta (Quid... existimes) regge l’infinitiva oggettiva tibi vitandum (esse), costruzione perifrastica passiva (tibi è dativo d’agente). – Turbam: va sottinteso un verbo

come (tibi) respondeo. – tuto: avverbio di modo. Lett. «al sicuro», avendo cioè la certezza di poter uscire indenne dal contatto con la folla. – committeris: passivo con valore più riflessivo che mediale; è implicita una sfumatura potenziale («potrai affidarti»). Nel contesto, non è un indicativo presente (committĕris) ma un futuro semplice (committeˉris). – Ego: con valore enfatico. Come sempre, Seneca si pone allo stesso livello del discepolo. – certe: con valore restrittivo. – inbecillitatem: con valore morale, diversamente dal successivo (longa inbecillitas), che sta a indicare una debolezza di ordine fisico. – mores: il complesso delle tradizionali virtù romane, fondamento dell’agire sia pubblico sia privato. – extuli refero: da ex + fero e re + fero (figura etimologica).

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– aliquid... composui: sono le passioni umane: il sapiens stoico sa di non poterle sradicare dal proprio animo, ma soltanto di poterle governare. – aliquid ex iis: sono i vizi. Si noti l’anafora (aliquid... aliquid) e il parallelismo delle due costruzioni (ex eo... ex iis; quod composui... quae fugavi; turbatur... redit). – fugavi: metafora tratta dal linguaggio militare: è solitamente usato con riferimento ai soldati (qui = vizi, passioni) messi in fuga. – Quod... evenit: proposizione relativa con valore prolettico. – ut nusquam... proferantur: proposizione consecutiva: è retta dalla relativa quos... adfecit. – accidit nobis: si noti la costruzione chiastica con il precedente aegris evenit. – ex longo morbo: il nesso vizio-malattia è presente in numerosi passi di Seneca.


PERCORSO ANTOLOGICO

[2]

Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut inprimit aut nescientibus adlinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt. [3] Quid me existimas dicere? Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior, immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui. Casu in meridianum spectaculum incidi, lusus expectans et sales et aliquid laxamenti quo hominum oculi ab humano cruore adquiescant. Contra est: quidquid ante pugnatum est misericordia fuit; nunc omissis nugis mera homicidia sunt. Nihil habent quo tegantur; ad ictum totis corporibus expositi numquam frustra manum mittunt. [4] Hoc plerique ordinariis paribus et postulaticiis praeferunt. Quidni praeferant? Non galea, non scuto repellitur ferrum. Quo munimenta? Quo artes? Omnia ista

[2] Dannosa è la compagnia di molti: non c’è nessuno che non ci raccomandi un vizio, o non ce lo imprima a forza o non ce lo attacchi a nostra insaputa. Per certo, quanto maggiore è la folla a cui ci mescoliamo, tanto più vi è di pericolo. Ma niente è tanto dannoso ai buoni costumi, quanto starsene seduti a qualche spettacolo: allora infatti attraverso il piacere più facilmente si insinuano [in noi] i vizi. conversatio: da converso, are (intensivo di converto) che significa «volgere intorno»: indica l’«uso frequente di una cosa», le «relazioni» che si istituiscono con qualcuno. – nemo non: la doppia negazione equivale, ma enfaticamente potenziata, a un’affermazione. – aut commendat aut inprimit aut... adlinit: si noti la climax ascendente, ritmicamente sottolineata dall’anafora della congiunzione aut. Commendare significa semplicemente «raccomandare»; inprimere vale invece «premere», «imprimere», «improntare», e dunque indica un’azione più risoluta, che vuole «lasciare un segno»; adlinĕre, infine, significa «intaccare», «spalmare addosso», «attaccare» come un contagio, che avviene subdolamente, senza che il contaminato ne sia consapevole (nescientibus). – Utique: con valore asseverativo. – quo... hoc: «quanto più... tanto più». – populus: si noti il valore spregiativo del termine, che qui vale «folla», «massa». – periculi: genitivo partitivo retto da plus. – tam damnosum: sott. est. – desidere: il verbo va qui inteso nel suo doppio valore, letterale (lo «starsene seduti») e morale («essere inattivi», «oziare»: desidia vale infatti

«inerzia», desidiosus «pigro»). – facilius: comparativo dell’avverbio facile. [3] Cosa credi voglia dire? Ritorno [a casa] più avido, più ambizioso, più bramoso di piaceri, anzi più crudele e più inumano, perché sono stato in mezzo agli uomini. Capitai per caso allo spettacolo di mezzogiorno, aspettandomi scherzi, facezie e qualcosa di riposante, con cui gli occhi degli uomini si ristorano dal sangue umano. Avvenne il contrario: i combattimenti di prima erano stati atti di misericordia; ora, finiti gli scherzi, si tratta di veri e propri omicidi. Non hanno niente con cui proteggersi; esposti ai colpi in tutto il corpo, non spingono mai invano la mano. Quid... dicere?: la proposizione interrogativa diretta (Quid... existimas) regge un’infinitiva oggettiva (me... dicere). – redeo: sott. domum. – immo vero: la correctio («anzi», «addirittura») enfatizza e rilancia la lunga serie di comparativi utilizzati in funzione predicativa, già ritmicamente incatenati dall’omoteleuto. – inhumanior... inter homines: si noti l’accostamento paradossale (un esempio di figura etimologica), ribadito nella frase successiva (hominum... humano cruore). – meridianum spectaculum: una sorta di intervallo, posto al centro della giornata, tra i ludi del mattino e quelli del pomeriggio. – quo... adquiescant: proposizione relativa impropria con valore finale. – ab humano cruore: complemento di separazione. Cruor è il sangue «che cola, versato, proveniente da una ferita, mentre sanguis = sangue che circola nei vasi sanguigni, umore che sostiene la vita» (Calonghi). – ante:

con valore avverbiale. – omissis nugis: ablativo assoluto. – habent: sogg. è gla­ diatores. – quo tegantur: proposizione relativa finale, dipendente da nihil ha­ bent. Il passivo ha valore mediale. – totis corporibus: ablativo di limitazione. Il plurale dilata la superficie corporea esposta ai colpi dei combattenti. – numquam... mittunt: il senso è che ogni colpo inferto produce gravi ferite. [4] I più preferiscono questo [genere di lotta] alle coppie ordinarie e a quelle a richiesta [del pubblico]. E perché non dovrebbero preferirlo? Non da un elmo, non da uno scudo viene respinta la spada. A che scopo le protezioni? A che scopo le tecniche? Tutte queste cose sono indugi alla morte. Al mattino [i condannati] sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori. [Gli spettatori] ordinano che chi ha ucciso sia gettato in pasto a chi lo ucciderà e riservano il vincitore per un’altra uccisione; la conclusione è la morte dei combattenti. Si procede col ferro e col fuoco. Hoc: complemento oggetto: è il tipo di combattimento descritto nel paragrafo precedente. – praeferant: congiuntivo potenziale. – Quo... Quo: avverbi di moto a luogo, qui utilizzati in senso figurato per esprimere scopo. Sottinteso sarà un un verbo come dabis (o dabun­ tur). – Mane... obiciuntur: lo zeugma sottolinea sarcasticamente il giudizio morale dell’autore: gli spettatori sono equiparati a bestie feroci. – iubent... detinent: soggetto sottinteso è spectato­ res. – in aliam... caedem: complemento di scopo.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

mortis morae sunt. Mane leonibus et ursis homines, meridie spectatoribus suis obiciuntur. Interfectores interfecturis iubent obici et victorem in aliam detinent caedem; exitus pugnantium mors est. Ferro et igne res geritur. [5] Haec fiunt dum vacat arena. «Sed latrocinium fecit aliquis, occidit hominem». Quid ergo? Quia occidit, ille meruit ut hoc pateretur: tu quid meruisti miser ut hoc spectes? [5] Questo succede mentre l’arena è vuota. «Ma ha commesso una rapina, ha ucciso un uomo». E allora? Siccome ha ucciso, ha meritato di subire questa pena: ma tu che cosa hai meritato, infelice, per vedere questo [spettacolo]? dum vacat harena: proposizione temporale. – «Sed latrocinium... homi-

nem»: viene introdotto un immaginario interlocutore, che sta assistendo agli spettacoli del circo. La sua obiezione coincide con la vox populi, ed esprime un’idea ampiamente diffusa: quelle vittime sono state in fondo dei delinquenti, hanno meritato ciò che subiscono. – aliquis: sott. gladiatorum. – ille meruit...

spectes: si noti il parallelismo della costruzione, fondata sull’antitesi ille... tu e sull’anafora ut hoc... ut hoc. Dai due perfetti (meruit... meruisti) dipendono le due proposizioni finali (ut hoc patere­ tur... ut hoc spectes).

LETTURA e INTERPRETAZIONE

PERCORSO ANTOLOGICO

Seneca mette in gioco se stesso

All’inizio Seneca ha dato a Lucilio, con una sola parola, (turbam, «la folla») una risposta di lapidaria concisione, ma proprio per questo tanto più energica e perentoria. Subito dopo, tuttavia, per spiegarsi meglio, mette in gioco se stesso, la sua inbecillitas, la fragilità dell’animo che non può trovare riparo se non in se stesso, nella scelta di una vita condotta secondo i principi della ratio e della natura. Esposto alle forze irrazionali e istintuali del mondo esterno, quest’animo fragile e indifeso vede pericolosamente sbriciolarsi tutto l’ordine che era andato costruendo: quod composui, turbatur (si noti, nell’uso del verbo, la ripresa del sostantivo iniziale, turba). Seneca si spinge anzi fino a enunciare un concetto di impressionante forza sentenziosa: Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior, immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui (par. 3).

Un aneddoto personale: lo spettacolo del circo

E per rafforzare il suo discorso, ricorre a un aneddoto personale, di quando si era ritrovato «per caso» a uno spettacolo del circo. Nel contesto l’exemplum non è mirato soltanto alla denuncia di uno spettacolo violento e inumano, ma soprattutto di come la forza istintuale delle passioni collettive possa corrompere anche l’animo più puro e forte. All’interlocutore immaginario (uno spettatore del circo) che gli obietta «Ma in fondo si tratta solo di briganti, di assassini», che hanno meritato queste punizioni, Seneca risponde: tu quid meruisti, miser, ut hoc spectes? (par. 5).

Tre secoli dopo, la testimonianza di Agostino

Tre secoli dopo, in un’età nuova caratterizzata dall’affermarsi del cristianesimo, Agostino racconta una storia analoga, quella di un uomo che crede di poter confidare nella purezza dei propri valori morali, e deve invece fare i conti con le derive brutali e irrazionalistiche di una folla che si esalta alla vista del sangue e della violenza. Al culmine dello spettacolo, conclude Agostino, l’amico «non era più quello che era venuto, ma uno della plebaglia tra cui era venuto» [ Confronti intertestuali, p. 166].

Auerbach: all’epoca di Agostino qualcosa è cambiato

Nondimeno, come osserva Auerbach in una memorabile pagina di Mimesis, qualcosa, all’epoca di Agostino, è ormai cambiato: «anche qui sono all’opera le forze dell’epoca: sadismo, ebbrezza del sangue e prevalenza del magico-sensuale sul razionale-etico. Ma [...] a servizio del cristianesimo contro l’ebbrezza magica stanno altre armi oltre l’alta cultura razionale e individualistica antica». Seneca e Lucilio sono insomma soli, aristocraticamente soli, nella loro battaglia contro le energie istintuali della folla, mentre Agostino e il suo amico-discepolo Alipio sentono la protezione di un Dio salvifico e riparatore, di un piano provvidenziale destinato a trionfare sulle forze, ebbre e sanguinarie, del male.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Analizzare il testo 1.

A quali termini ricorre Seneca per introdurre il concetto di «folla»? 2. Traduci e commenta la seguente affermazione: Inimica est multorum conversatio (par. 2). Perché il sapiens stoico deve evitare di mescolarsi con la gente? Che cosa deve temere dalla loro frequentazione? 3. Sottolinea una o più espressioni che presentano carattere sentenzioso, non mancando di spiegare che cosa si deve intendere quando parliamo, per la prosa senecana, di sententiae. 4. Rintraccia nel testo le seguenti figure retoriche:

omoteleuto, climax, correctio, figura etimologica. C’è una frase che le contiene tutte? Con quale effetto sul piano espressivo e concettuale? 5. Quale giudizio esprime l’autore sui munera gladiatoria?

Confrontare i testi

6. Gli spettacoli gladiatorii occupano una parte rilevante dell’immaginario romano, soprattutto in età imperiale. Metti a confronto il giudizio espresso da Seneca con un componimento di Marziale, tratto dal Libe de spectaculis [ T6, cap. 8].

Vita QUOTIDIANA a ROMA Gli spettacoli circensi nell’epistola 7 a Lucilio Nel brano che abbiamo letto Seneca fa numerosi e precisi riferimenti che forniscono indicazioni sullo svolgimento degli spettacoli del circo, e in particolare a talune specifiche tipologie dei cruenti combattimenti gladiatorii.

▰ Il meridianum spectaculum (7, 3) Lo «spettacolo

meridiano» o «di mezzogiorno» era una sorta di intervallo, posto al centro della giornata, tra i ludi del mattino, che prevedevano combattimenti tra animali o tra uomini e animali, le venationes (= cacce), e quelli del pomeriggio, che consistevano solo in combattimenti uomo contro uomo (hoplomachia). Come si ricava dal seguito del discorso, lo spettacolo – in questa fase morta della giornata – consisteva generalmente in lusus... et sales, scenette divertenti e buffonesche in cui si esibivano mimi e comici, e che servivano ad alleggerire la tensione degli spettatori (aliquid laxamenti). In questo caso, invece, Seneca si ritrova dinanzi a combattimenti ancora più brutali e ripugnanti, in cui venivano eccezionalmente impiegati non più gladiatori professionisti, ma delinquenti comuni (ladri, assassini, incendiari) ad gladium ludi damnati («condannati alla spada nel circo»), costretti a combattere senza alcuna forma di protezione (Nihil habent quo tegantur), cioè senza armi di difesa.

▰ Ordinariis paribus... postulaticiis (7, 4) Gli

ordinarii erano le coppie dei gladiatori previste dal programma, che combattevano armati, secondo le regole; i postulaticii erano i gladiatori «richiesti», «reclamati» (da postulo) espressamente dal pubblico, s’immagina per la loro abilità e popolarità.

▰ Interfectores interfecturis iubent obici (7, 4)

Si allude qui all’aspetto più crudele dei munera sine

missione («spettacoli [= combattimenti gladiatorii] senza grazia» esclusa cioè l’eventuale concessione di non più combattere per quel giorno), in cui tutti i duellanti (come si è detto, non professionisti ma delinquenti comuni) erano condannati a perire, salvo l’ultimo. «Il miserevole drappello veniva spinto nell’arena; veniva distaccata una prima coppia composta di un uomo in armi e di un uomo vestito semplicemente di una tunica; il primo doveva uccidere il secondo, e lo uccideva a colpo sicuro. Dopo di che veniva disarmato e contrapposto a un nuovo venuto armato fino ai denti. Il macello continuava inesorabile fino a che l’ultima testa della mandria non era rotolata sulla sabbia» (Carcopino). La contiguità dei termini Interfectores interfecturis rende la rapidità con cui il carnefice diviene subito vittima.

▰ Ferro et igne res geritur (7, 4) La frase viene

variamente interpretata. Seneca potrebbe alludere all’uso di spingere al combattimento gli esitanti e i renitenti, minacciandoli con le armi e con il fuoco; ma è più probabile – dato il carattere conclusivo della frase – che si alluda invece alla pratica di toccare i corpi dei caduti con un ferro arroventato per verificare se fossero realmente morti.

▰ Per saperne di più Il testo di riferimento resta il

classico studio di Jerôme Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero, Laterza, Roma-Bari 1993; sull’argomento specifico si veda Parte seconda, capitolo III, Gli spettacoli. Da segnalare inoltre il saggio di Patrizia Arena, Gladiatori, carri e navi, Carocci, Roma 2020, che dà conto degli eventi spettacolari organizzati in età imperiale per intrattenere le masse: i munera gladiatoria, le corse dei carri, le naumachie.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

Confronti INTERTESTUALI Dalle Confessioni di Agostino: il contagio della folla

PERCORSO ANTOLOGICO

Un passo delle Confessioni di Agostino sembra dar ragione a Seneca, là dove denuncia la forza corruttrice e contagiosa delle folle. Siamo a Roma, negli ultimi decenni del IV secolo: Alipio, amico e discepolo di Agostino, si lascia trascinare ai giochi del Circo, convinto di poter salvaguardare il proprio animo dagli eccessi del luogo; e invece gli capita di esserne soggiogato...

Alipio mi aveva preceduto a Roma per studiare Diritto: ed ivi fu travolto contro ogni credenza e in una misura incredibile dalla passione per gli spettacoli dei gladiatori. Ne aveva avuto dapprima disgusto e odio; ma alcuni amici e compagni di studio un giorno tornando dal pranzo imbattutisi in lui, per quanto opponesse forte resistenza, con amichevole prepotenza lo trascinarono nell’anfiteatro: era un giorno di quegli spettacoli crudeli e malvagi. Egli badava a dire: «Forse che trascinando e costringendo il mio corpo a rimanere in quel luogo, credete di poter costringere anche il mio animo ed i miei occhi a quello spettacolo? Vi sarò, ma come un assente, ed avrò vittoria di voi e di esso». Ma non ostante questa affermazione, gli amici lo trascinarono seco, forse anche punti dal desiderio di far la prova della sua forza d’animo. Quando vi arrivarono e trovarono modo di mettersi a sedere, tutto già respirava inumana voluttà. Alipio, chiuse le porte degli occhi, inibì al suo animo di prender parte a quegli orrori. E almeno avesse chiuso anche le orecchie! Ad un certo istante del combattimento un immenso urlìo di popolo lo fece sussultare: vinto dalla curiosità e come pronto, di qualunque cosa si trattasse, a disprezzare ed a vincere anche la vista, aperse gli occhi e l’anima sua fu colpita da una ferita più grave di quella ricevuta nel corpo dal gladiatore che per un istante aveva voluto guardare: e cadde ben più miseramente di quegli, la cui caduta aveva provocato tale clamore: entrò nelle sue orecchie, gli fece sbarrare gli occhi, sicché si formasse una breccia attraverso la quale fosse ferito e abbattuto quell’animo più temerario che forte, tanto più debole in quanto cercava in se stesso la forza che avrebbe dovuto cercare in Te. Vedere quel sangue e imbeversi di crudeltà fu tutt’uno: non ne distolse gli occhi, anzi ve li fissò; respirava furore senza accorgersene, prendeva gusto a quella lotta criminale, ebbro di sanguinario piacere. Non era più quello che era venuto, ma uno della plebaglia tra cui era venuto e degno compare di quelli che ve lo avevano condotto. Che più? Guardò, gridò, si entusiasmò; se ne venne via portando seco una febbre che lo spinse a tornarvi non solo con quelli che ve lo avevano trascinato, ma primo di essi, trascinatore di altri. (Sant’Agostino, Le Confessioni (VI, 8), introduzione di Ch. Mohrmann, traduzione di C. Vitali, Rizzoli, Milano 1977)

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 12 La libertà del saggio Epistulae ad Lucilium 8, 1-7 ITALIANO

Si è detto come la nozione di libertas cambi di segno nel passaggio dall’età repubblicana a quella imperiale: non riguarda più la sfera delle attività pubbliche ma la vita dello spirito, l’ambito propriamente morale. Seneca, che pure negli anni precedenti aveva partecipato intensamente alla vita civile di Roma, elogia ora apertamente il secessus, la condizione di chi ha troncato del tutto con il mondo e vive appartato, rammaricandosi di aver conosciuto tardi la via della verità («la via giusta, che tardi ho conosciuto»; par. 3). Non ha rinunciato a essere utile, secondo il precetto fondamentale della filosofia stoica; ha solo mutato i modi di esserlo: «Non solo lasciai gli uomini, ma anche le faccende e in primo luogo le mie, per attendere al bene dei posteri» (par. 2).

Seneca saluta il suo Lucilio. [1] Mi dici: «tu vuoi che io eviti la folla, che mi tenga ritirato e sia contento dell’approvazione della mia coscienza: orbene che sarà di quei vostri precetti, che ci comandano di morire operando?». E che? mi ritrassi dal mondo e chiusi ad esso le porte del mio animo, affinché mi fosse possibile giovare alla moltitudine. Ti pare forse che io consigli l’inerzia? Nessun giorno mi sfugge nell’ozio: dedico una parte della notte allo studio: non mi abbandono al sonno, ma ne sono vinto, e gli occhi affaticati dalla lunga veglia e che si chiudono li tengo aperti a forza sul lavoro. [2] Non solo lasciai gli uomini, ma anche le faccende e in primo luogo le mie, per attendere al bene dei posteri. Per essi scrivo qualcosa che possa riuscire giovevole: si tratta di precetti salutari, simili a ricette di medicine utili, di cui già ho sperimentato l’efficacia sulle mie piaghe, le quali, è vero, non sono del tutto guarite, ma hanno cessato di estendersi. [3] Indico agli altri la via giusta, che tardi ho conosciuto e quando ero ormai stanco di errare. Non faccio che dire: «Evitate tutto ciò che piace al volgo, che dipende dai capricci della fortuna: di fronte ad ogni bene da essa concesso fermatevi pieni di sospetto e di timore. Le fiere ed i pesci si lasciano ingannare dalla speranza di qualcosa che loro piace. Credete che questi beni siano doni della fortuna? non sono che tranelli. Chiunque di voi vorrà condurre una vita sicura, cerchi, il più possibile, di evitare tali ingannevoli favori: ci illudiamo, infelici, anche in questo: crediamo di averli in nostro possesso, mentre, in realtà, siamo in essi come invischiati. [4] Codesta strada ci conduce in precipizi: la vita di chi ama stare così in alto non può concludersi che con una caduta. Neppure fermarsi poi è possibile, quando la fortuna ha cominciato a portarci lontano dalla retta via, o almeno andare a fondo con la nave diritta o tutto d’un tratto: essa non si accontenta di rovesciare, ma precipita a capofitto e sbatte con violenza. [5] Dunque seguite un tenore di vita sano e salutare, curate il corpo solo quanto basta perché esso stia bene; conviene trattarlo piuttosto duramente, affinché obbedisca con prontezza all’animo: il cibo calmi la fame, la bevanda estingua la sete, i vestiti riparino dal freddo, la casa difenda il corpo dalle intemperie. Che importa che essa sia costruita con zolle erbose o con marmi di vario colore, giunti da remote regioni? Sappiate che un tetto di paglia protegge l’uomo non meno bene che un tetto d’oro. Disprezzate tutto ciò che un’inutile 167 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

fatica vi offre come semplice ornamento e magnificenza esteriore: considerate che niente, all’infuori dell’animo, è degno della vostra ammirazione e che per un animo veramente grande nessuna cosa può essere grande». [6] Se io rivolgo tali ammonimenti a me stesso ed ai posteri, non ti sembra forse che mi renda più utile di quando mi recavo nel Foro per comparire in giudizio o imprimevo il mio sigillo su un testamento, o in Senato mi adopravo con la parola e con l’autorità a favore di un candidato? Credimi: sembra che alcuni facciano niente eppure svolgono un’attività ben più importante di quella degli altri: si occupano dell’intera realtà nel suo duplice aspetto, umano e divino. [7] Ma ormai devo finire e pagarti, come sono solito fare, il debito per questa lettera. Non pagherò del mio: continuo a saccheggiare Epicuro, del quale oggi ho letto questa sentenza: «bisogna consacrarsi del tutto alla filosofia, per raggiungere la vera libertà». Chi si è sottomesso ed affidato a lei, non è tenuto a bada da un giorno all’altro, ma è subito affrancato: ché per il fatto stesso che l’uomo serve alla filosofia è libero.

PERCORSO ANTOLOGICO

(trad. di U. Boella)

T 13

Cotidie morimur

Epistulae ad Lucilium 24, 17-21

ONLINE

Il dibattito FILOSOFICO I timori delle pene infernali: anche Cicerone confuta Epicuro

Ironizzando sull’Epicurea cantilena (par. 18), Seneca concorda con Cicerone, il quale, nelle Tusculanae disputationes (I, 21, 48), aveva scritto, sempre alludendo agli epicurei: «Spesso, quando ci penso, io mi stupisco della sfrontatezza di certi filosofi che celebrano la scienza della natura e, tutti entusiasti, rendono grazie a colui che ne è l’inventore e il rappresentante principale, e lo venerano come un dio, perché, dicono, egli li ha liberati da due padroni tirannici come potevano essere un terrore continuo e una paura che non lasciava respiro né di giorno né di notte. Che terrore? Quale paura? Ma se non c’è vecchia che sia così sciocca da temerle, queste cose (di cui voi avreste paura, si vede, senza i vostri studi naturalistici), come le profonde dimore dell’Orco sulla riva dell’Acheronte, le regioni dal pallore di morte, velate di tenebre» (trad. di A. Di Virginio).

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 14 Dio è in noi Epistulae ad Lucilium 41, 1-5 LATINO

Rivolgendosi a Lucilio, Seneca sviluppa un concetto tradizionale della teologia stoica: lo spirito divino vive dentro di noi, appartiene alla nostra interiorità. Seneca non parla naturalmente di un dio personale e trascendente (come accadrà più di tre secoli dopo nel pensiero agostiniano) ma di un Logos immanente all’universo, un principio di natura razionale che governa gli avvenimenti del mondo: ogni uomo è dio per se stesso, purché viva secondo ragione e secondo natura. [1]

Facis rem optimam et tibi salutarem si, ut scribis, perseveras ire ad bonam mentem, quam stultum est optare cum possis a te inpetrare. Non sunt ad caelum elevandae manus nec exorandus aedituus ut nos ad aurem simulacri, quasi magis

[1] Fai una cosa ottima e per te vantaggiosa se, come scrivi, perseveri nel volgerti a quella saggezza, che sarebbe da stolti invocare, dal momento che potresti ottenerla da te stesso. Non bisogna alzare le mani al cielo, né pregare il guardiano del tempio, perché ci faccia accostare all’orecchio della statua, come se [così] potessimo essere meglio ascoltati: dio è presso di te, è con te, è dentro di te. ut scribis: l’incidentale testimonia del fitto dialogo epistolare che doveva inter-

correre tra Seneca e Lucilio. – bonam mentem: bona mens è espressione senecana frequente, che può esser tradotta, a seconda dei contesti, come «saggezza» o «felicità». – quam = bonam mentem. – optare: «implorare» gli dèi, mediante preghiere. – inpetrare: con a o ab + ablativo significa «ottenere (qualcosa) da qualcuno». – sunt... elevandae manus: coniugazione perifrastica passiva, usata con la costruzione personale. – aedituus: etimologicamente, «colui che custodisce le aedes, i templi» (da aedes

e tueor). – ut nos... admittat: proposizione finale retta da exorandus (est). Accostarsi all’orecchio di una statua divina era un atto, possiamo immaginare quanto diffuso, di superstizione popolare. Si­ mulacrum è la statua del dio. – quasi... possimus: proposizione comparativa ipotetica. – prope... est: efficacissima gradatio ascendente, con epifora del verbo essere; prope regge l’ablativo preceduto dalla preposizione a, in luogo del consueto accusativo.

Mosaico con la scritta in greco gnóthi seautón, «conosci te stesso», III secolo d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

exaudiri possimus, admittat: prope est a te deus, tecum est, intus est. [2] Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos; hic prout a nobis tractatus est, ita nos ipse tractat. Bonus vero vir sine deo nemo est: an potest aliquis supra fortunam nisi ab illo adiutus exsurgere? Ille dat consilia magnifica et erecta. In unoquoque virorum bonorum [quis deus incertum est] habitat deus. [3]

PERCORSO ANTOLOGICO

Si tibi occurrerit vetustis arboribus et solitam altitudinem egressis frequens lucus et conspectum caeli densitate ramorum aliorum alios protegentium

[2] È così come ti dico, Lucilio: è in noi uno spirito divino che osserva e controlla le nostre azioni buone e cattive; egli ci tratta così come è stato trattato da noi. Nessun uomo è buono senza Dio: o forse qualcuno potrebbe elevarsi al di sopra della sorte se non fosse aiutato da lui? Egli ci ispira decisioni nobili e virili. In ciascun uomo buono «quale dio è incerto, ma abita un dio». Ita: con funzione prolettica. – Lucili: il vocativo, così come l’espressione colloquiale che precede (Ita dico), crea un’intimità fra maestro e discepolo, favorendo l’ascolto e l’assimilazione dei concetti. – sacer... spiritus sedet: la triplice allitterazione, così come il triplice e solenne omoteleuto che segue (malo­ rum bonorumque nostrorum), avvicina il testo a un carmen di argomento religioso o sacrale. Sacer è termine arcaico che indica un patto tra uomo e divinità; spiritus equivale al greco pneuma; l’espressione intra nos (come il precedente intus), in luogo del più frequente in nobis, mette l’accento sulla concezione tutta interiorizzata del deus senecano (un deus internus). – prout: «a seconda di come»; va correlato con il successivo ita. – Bonus... vir: è il sapiens stoico: ma l’espressione senecana umanizza una figura altrimenti astratta, quasi inattingibile nella sua perfezione ideale. – an potest... exsurgere?: la particella interrogativa an, che generalmente viene usata per introdurre la seconda parte di un’interrogazione disgiuntiva, equivale qui a num; ab illo: cioè dal sacer spiritus della frase precedente. Fortuna, nel contesto, ha il significato generico di forza irrazionale e capricciosa, e non va identificata

(come nella dottrina stoica) con il fato o la provvidenza. – virorum bonorum: genitivo partitivo. – quis deus... deus: citazione da Aen. VIII, 352. Chi parla, nel passo virgiliano, è il mitico pastore Evandro che, giunto insieme a Enea sul Campidoglio, luogo all’epoca disabitato e selvaggio, è preso come da un brivido di superstiziosa devozione. Seneca, naturalmente, reinterpreta il verso virgiliano, dandogli un significato nuovo, più interiorizzato. La citazione favorisce il passaggio al tema svolto nel paragrafo successivo. [3] Se si presenterà al tuo sguardo un bosco sacro, spesso di alberi antichi e che oltrepassano la solita altezza, e che toglie la vista del cielo con lo schermo dei rami che si proteggono l’un l’altro, l’altezza della foresta e la solitudine del luogo e lo stupore per un’ombra così densa e fitta in aperta campagna ti convinceranno [della presenza] di un nume. Se un antro dalle rocce profondamente erose, non costruito dalla mano [dell’uomo] ma scavato in così grande ampiezza da cause naturali, sosterrà una montagna, colpirà il tuo animo con un senso di religioso timore. Noi veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi; l’improvviso scaturire dal profondo di un grande fiume fa ergere altari; sono oggetto di culto le fonti di acqua calda, e sia il colore cupo sia l’immensa profondità hanno consacrato alcuni stagni. Si tibi occurrerit... summovens: costruisci Si tibi occurrerit lucus, frequens arboribus vetustis et egressis solitam al­ titudinem et summovens conspectum caeli densitate ramorum protegentium

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aliorum alios, illa proceritas silvae et se­ cretum loci et admiratio umbrae tam den­ sae atque continuae in aperto tibi faciet fidem numinis. È il primo dei due ampi periodi ipotetici, mediante i quali viene introdotto il motivo degli spettacoli naturali che suscitano, in chi guarda, un sentimento di sacro stupore (admiratio). Seneca – andrà precisato – non è tanto interessato alla potenza suggestiva di un paesaggio naturale, quanto alla possibilità di poter cogliere, in esso, la presenza del divino. – Si occurrerit... faciet: periodo ipotetico della realtà, con il futuro anteriore nella protasi per la legge dell’anteriorità. – vetustis arboribus: ablativo di abbondanza retto da fre­ quens. Vetustus è aggettivo ben più solenne di antiquuus, così come il successivo lucus definisce la radura sacra, e non un semplice bosco. Numerosi i passi di autori latini che testimoniano di quanta venerazione fossero oggetto i boschi (così come le sorgenti) nel mondo italico-romano: cfr. Virgilio, Aen. VIII, 597599; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XII, 2. Un passo che presenta molteplici analogie con quello di Seneca è l’epistola di Plinio il Giovane in cui vengono descritte le fonti del Clitumno [ T4, cap. 10]. – egressis: participio attributivo (da eˉgrĕdı̆or, gressus sum, grĕdi, composto di ex e gradior) con valore transitivo. – aliorum alios: pronome indefinito reciproco; aliorum va concordato con il genitivo di specificazione ra­ morum. – secretum: neutro sostantivato dell’aggettivo secretus (da secerno, creˉvi, creˉtum, ĕre), qui con il significato di «luogo appartato, solitario». – umbrae: genitivo oggettivo. – in aperto: sott. loco.


PERCORSO ANTOLOGICO

summovens, illa proceritas silvae et secretum loci et admiratio umbrae in aperto tam densae atque continuae fidem tibi numinis faciet. Si quis specus saxis penitus exesis montem suspenderit, non manu factus, sed naturalibus causis in tantam laxitatem excavatus, animum tuum quadam religionis suspicione percutiet. Magnorum fluminum capita veneramur; subita ex abdito vasti amnis eruptio aras habet; coluntur aquarum calentium fontes, et stagna quaedam vel opacitas vel immensa altitudo sacravit. [4] Si hominem videris interritum periculis, intactum cupiditatibus, inter adversa felicem, in mediis tempestatibus placidum, ex superiore loco homines videntem, ex aequo deos, non subibit te veneratio eius? non dices, «ista res maior est altiorque quam ut credi similis huic in quo est corpusculo possit»? [5] Vis isto divina descendit; animum excellentem, moderatum, omnia tamquam minora transeuntem, quidquid timemus optamusque ridentem, caelestis potentia agitat. Non potest res tanta sine adminiculo numinis stare; itaque

Participio sostantivato del verbo ăpĕrı̆o, pĕrui, pertum, ˉı re. – numen: lett. è il cenno fatto con il capo, per annuire, ed esprime una volontà o un comando; nello specifico, esprime la potenza divina, e per metonimia la divinità stessa. – Si quis... percutiet: costruisci Si quis spe­ cus saxis penitus exesis, non manu factus, sed excavatus in tantam laxitatem cau­ sis naturalibus, suspenderit montem, [is specus] percutiet animum tuum quadam suspicione religionis. – quis: qui con valore di aggettivo, non di pronome, indefinito. – saxis... exesis: ablativo di qualità. – suspenderit: lett. «terrà sospesa»: ancora un’immagine che provoca una sorta di stupore in chi legge. – naturalibus causis: ablativo di causa efficiente. – capita: le sorgenti. – veneramur: con allusione ai Fontinalia, feste celebrate in Roma il 13 ottobre. – ex abdito: sott. lo­ co. Abdito è neutro sostantivato dell’aggettivo abditus (da abdo, dı̆di, dı̆tum, ĕre). – eruptio: anche i luoghi da cui scaturiva all’improvviso una fonte erano, presso gli antichi, oggetto di venerazione. – calentium: participio presente del verbo calĕo, calui, ˉere. [4] Se vedrai un uomo impavido di fronte ai pericoli, non toccato dalle passioni, tra le avversità felice, in mezzo alle tempeste calmo, che guarda gli uomini dall’alto, gli dèi come suoi pari, non penetrerà in te un sentimento di venerazione verso di lui? non dirai: «questo essere è troppo grande e troppo elevato perché possa essere

giudicato simile a questo corpicciolo nel quale si trova»? Si homines videris... non subibit... non dices: periodo ipotetico della real­ tà. – interritum... placidum: si noti l’accurata ricerca di parallelismi e di simmetrie fra i quattro cola, coordinati per asindeto e allitteranti (interritum... intactum... inter... in). Interritus, in­ tactus, felix e placidus sono attributi tradizionali del saggio stoico, di cui Seneca delinea qui il ritratto ideale: un uomo affrancato dalle passioni (dai timori come dai desideri), superiore alla massa informe degli uomini, capace di rendersi eguale agli dèi. – ex superiore... deos: ancora un marcato parallelismo sintattico: homines e deos sono retti entrambi dal participio videntem. L’espressione ex aequo può essere tradotta «da pari a pari». L’universo stoico è una comunità cui partecipano uomini e dèi, fra i quali, per citare un passo del De providentia di Seneca (I, 5), si stabilisce un rapporto di «parentela» e di «somiglianza» fondato sulla virtù. – eius: genitivo oggettivo. – ista res: cioè il sapiens stoico. – maior... altiorque: i due comparativi reggono il secondo termine di paragone (quam ut credi similis). – ut credi... possit: proposizione consecutiva. – corpusculo: diminutivo, con valore spregiativo, di corpus. Il termine era già nella Consola­ tio ad Helviam matrem (11, 7), sempre contrapposto alla grandezza dell’anima: Corpusculum hoc, custodia et vinculum animi.

[5] Una forza divina vi è discesa; una potenza celeste muove l’animo eccelso, equilibrato, che passa sopra tutte le cose come fossero di poco valore, che ride di quanto noi temiamo e desideriamo. Un essere così grande non può sussistere senza il sostegno della divinità; perciò con la più nobile parte di se stesso si trova là da dove è disceso. Come i raggi del sole toccano sì la terra, ma restano nel luogo da dove sono emanati, così l’animo grande e sacro è stato mandato giù dal cielo affinché potessimo conoscere più da vicino le cose divine; si volge sì verso di noi, ma resta unito alla sua origine: da essa deriva, ad essa guarda e anela; partecipa alle nostre vicende ma come un essere superiore. Vis isto divina... agitat: si noti, di nuovo, l’attenta costruzione del periodo, che apre e chiude con due enunciati simmetrici, fondati sulla variatio dei soggetti collocati in chiasmo (Vis divina... cae­ lestis potentia). Con l’espressione vis divina si allude alla natura vivificante del «soffio caldo», o pneuma, in cui si identifica la divinità stoica. Isto è avverbio di moto a luogo, ed equivale a istuc; agitat è frequentativo di ago. – res tanta: ancora il sapiens stoico. – adminiculo: lett. è il palo utilizzato dai contadini per dar sostegno alle piante. Qui, per traslato, indica il «sostegno» che la divinità porge all’uomo virtuoso. – maiore sui parte: l’anima, la cui vera sede è in cielo. – descendit: è un perfetto. – quidem:

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

maiore sui parte illic est unde descendit. Quemadmodum radii solis contingunt quidem terram sed ibi sunt unde mittuntur, sic animus magnus ac sacer et in hoc demissus, ut propius divina nossemus; conversatur quidem nobiscum sed haeret origini suae: illinc pendet, illuc spectat ac nititur; nostris tamquam melior interest.

con valore limitativo. – sacer: come nel par. 2: sacer intra nos spiritus sedet. – in hoc: svolge funzione prolettica: introduce la proposizione finale ut... nossemus. – propius: comparativo dell’avverbio prope. – demissus: lett. «mandato giù

dall’alto» (de + mitto). – nossemus: forma sincopata per novissemus: il piuccheperfetto equivale all’imperfetto, essendo il verbo difettivo. – quidem: sempre con valore limitativo. – nititur: anche nella Consolatio ad Marciam (24, 5), Seneca

scriveva che l’anima si sforza di risalire là da dove fu mandata giù (nititur illo unde demissus est). – nostris: pronome neutro, dativo retto da interest.

PERCORSO ANTOLOGICO

LETTURA e INTERPRETAZIONE Un movimento concentrico di intensa suggestione

Immagini di grande potenza visiva: il sublime naturale

Analizzare il testo

Confrontare i testi

La forza e l’originalità del brano non consiste tanto nel pensiero espresso (cardine della tradizione dottrinale stoica), quanto nell’atmosfera di intima commozione e di intensa suggestione che lo pervade. Il lettore viene avvicinato alla verità per onde successive, attraverso un movimento concentrico che lo porta lentamente al cuore del discorso: prope est a te deus, tecum est, intus est (par. 1). Il concetto viene poi ribadito mediante nuove espressioni di natura per lo più metaforica: lo spirito divino intra nos... sedet (par. 2); habitat (par. 2); subibit (par. 4). La stessa citazione virgiliana (par. 2) serve a sfumare il discorso, a conferirgli una nota di misterioso colore.

1.

2. 3. 4. 5.

Cosa significa che il sacer spiritus che è in noi è observator et custos delle nostre azioni? Delinea la figura morale del sapiens stoico, così come emerge dal brano. Quali sentimenti provoca la vista del bosco descritto nel par. 3? Sottolinea i termini ai quali Seneca ricorre per esprimere i concetti di ammirazione e di venerazione. Si può parlare anche per questo passo di linguaggio dell’interiorità? Fai qualche esempio concreto per avvalorare le tue argomentazioni.

L’autore ricorre inoltre a exempla tratti dal mondo naturale: un bosco sacro e ombroso; una voragine scavata nella montagna; le sorgenti dei fiumi che erompono dal profondo; il colore cupo dei laghi (par. 3). Ora il concetto non viene più soltanto enunciato, ma animato mediante immagini di grande forza visiva, che lasciano un’incancellabile impressione nel lettore. La figura del sapiente stoico risulta così illuminata e resa più viva dalle immagini che l’hanno preparata: il sublime naturale si è sovrapposto al sublime dell’anima, potenziandolo.

6. Traduci il seguente passo di Seneca (Ep. ad Luc. 73, 16), commentandolo mediante il confronto con un altro passo dell’epistola 41: Deus ad homines venit, immo quod est propius, in homines venit. 7. Compare, nel par. 2, l’espressione bonus vir: con quale differenza di significato rispetto al vir bonus di cui spesso aveva parlato Cicerone? Quali eventi storici hanno determinato un mutamento così radicale di significato?

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PERCORSO ANTOLOGICO

Leggere un TESTO CRITICO Il senso del sacro nei culti di Roma arcaica Non è necessario parlare di anticipazioni del gusto romantico per spiegare il gusto dell’arcano e le misteriose atmosfere dei nemora e dei lacus di questa bellissima pagina di Seneca. Secondo Raymond Bloch, si tratta dello

stesso spirito del sacro che aveva animato i culti più arcaici del Latium vetus, e che non era mai scomparso dalla mentalità romana, come testimoniano il primo libro delle Storie di Tito Livio e l’VIII dell’Eneide di Virgilio.

Si può intravedere nel cittadino romano arcaico il senso del sacro, della presenza di quelle forze ora benefiche, ora malefiche che trasportano l’uomo in un mondo al di là del suo? A questo fine è necessario studiarne le reazioni di fronte a molti fenomeni che egli non capiva e in cui vedeva dei prodigi, o lo stato d’animo col quale entrava in luoghi solitari e deserti, nei fitti boschi dove l’uomo si è spesso sentito in contatto con forze dominanti su di lui. Fin dalle origini, l’interpretazione e l’espiazione di prodigi ebbero il loro peso nella vita degli abitanti dei sette colli, come risulta dalla dovizia di particolari con cui, sotto la Repubblica, i consoli elencavano al Senato tutti i prodigi che si erano visti anno per anno; dopo di che il Senato li faceva espiare dalle massime autorità religiose. Di fronte a tali prodigi e alle tracce che lasciavano nel mondo, il romano provava un sacro brivido: ai suoi occhi essi rappresentavano il segno concreto e terribile dell’intervento sulla terra di forze invisibili governanti il destino dell’uomo. A Roma, l’annunzio di fenomeni innaturali suscitava una specie di orrore religioso, che sopravvive in molti passi delle Storie di Livio. Lo stesso senso di horror, lo stesso brivido sacro, si impadroniva del romano quando entrava nei boschi sacri, i luci o nemora, che da tempi immemorabili erano punti focali di culto e venerazione a Roma e nell’area circostante. La stessa vegetazione dei Colli romani aveva suscitato un certo interesse religioso, da cui scaturirono i nomi di Viminal, cioè «colle dei salici», e Fatugal, «colle dei faggi». Come si è già detto, uno dei più antichi luoghi sacri a Roma era l’asilo aperto da Romolo sul Campidoglio, come rifugio per esuli o proscritti. Esso sorgeva fra due boschi sacri, inter duos lucos, e non v’è dubbio che questo fatto costituiva un’efficace salvaguardia magica. Questi boschi sacri appartenevano e offrivano dimora a divinità che in origine erano anonime, ma più tardi assunsero identità e nomi chiaramente definiti. Gli incontri di Numa Pompilio con la dea Egeria avvenivano, secondo Livio (I, 21), in un bosco sacro, un lucus, in mezzo al quale v’era un’oscura grotta da cui zampillava una fonte perenne. Poiché Numa spesso vi si recava da solo per incontrarvi la dea, egli dedicò il bosco alle Muse che sosteneva di trovare in compagnia di Egeria. Come i boschi, anche le sorgenti avevano proprietà sacre e misteriose, e sia in Roma che in Italia in generale molte dee benefiche presiedevano a diverse fontes. Il culto delle sorgenti ricorre in molte civiltà primitive, ed esprime lo stesso sentimento religioso profondo e tenacemente radicato, che ritroviamo nella Roma dei primi secoli. Fu solo – è vero – agli inizi dell’era cristiana che scrittori come Seneca diedero espressione a un senso del divino nascente nella solitudine delle foreste (collegato nel suo caso a riflessioni sul carattere sacro dell’anima e a una vaga spiritualità germogliante sia dalle idee dell’epoca che dalle sue vedute personali). Ma questo presentimento si riallaccia direttamente agli antichi culti latini degli dèi delle foreste e all’horror suscitato nei Romani arcaici dall’atmosfera misteriosa del nemus. (R. Bloch, Le origini di Roma, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 130-132)

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4. Seneca

T 15 Anche gli schiavi sono uomini Epistulae ad Lucilium 47, 1-6; 15-21 ITALIANO

Nella celebre lettera qui riportata, Seneca distingue fra due piani, quello giuridico-sociale (che prevede la schiavitù) e quello morale (gli schiavi sono innanzitutto uomini, al pari dei liberi; ed è anzi possibile che essi siano più liberi nell’animo dei loro padroni, quando questi ultimi siano schiavi delle passioni). Si tratta di una distinzione largamente diffusa in ambito stoico, e che era stata preparata dalla sofistica ateniese (contrapposizione fra nomos e physis, diritto positivo e diritto naturale: gli uomini nascono liberi; la schiavitù è un prodotto del nomos, dunque una violenza contro natura), restando tuttavia su un piano esclusivamente teorico. Quello che in Seneca risulta assolutamente nuovo è il sentimento di umanità e di sdegno che accompagna il ragionamento; l’esortazione a trattare lo schiavo come un uomo e non come una proprietà, a fondare i rapporti con i servi sull’amore e non sul timore.

PERCORSO ANTOLOGICO

Seneca saluta il suo Lucilio. [1] Con piacere ho appreso dalle persone che vengono dalla tua casa, che tratti familiarmente i tuoi schiavi: ciò s’addice alla tua saggezza ed alla tua cultura. «Sono schiavi». Sì, ma anche uomini. «Sono schiavi». Sì, ma anche compagni di abitazione. «Sono schiavi». Sì, ma anche umili amici. «Sono schiavi». Sì, ma anche compagni di schiavitù, se rifletterai che gli uni e gli altri sono soggetti ai capricci della fortuna. [2] Pertanto rido di costoro che giudicano disonorevole pranzare col proprio schiavo: per quale ragione, se non perché una consuetudine, prodotta dalla più superba arroganza, mette attorno al padrone, durante il pranzo, una moltitudine di schiavi che stanno in piedi? Egli, il padrone, mangia più di quanto è capace di contenere, e con straordinaria avidità sovraccarica il ventre già pieno e non più avvezzo a compiere le funzioni proprie del ventre, di modo che espelle ogni cosa con fatica maggiore di quella con cui la introdusse. [3] Ma ai disgraziati schiavi non è lecito muovere le labbra neppure per parlare. Ogni sussurro è represso con la verga, e neppure quei fatti che avvengono accidentalmente, la tosse, gli sternuti, i singulti, sfuggono alle percosse: l’interruzione del silenzio dovuta ad una semplice parola la si sconta con una grave pena; durante tutta la notte stanno in piedi senza mangiare ed in silenzio.[4] Così accade che costoro, non potendo parlare in presenza del padrone, parlino del padrone. Ma quelli che potevano conversare non solo alla presenza dei padroni, ma con gli stessi

Seneca, De beneficiis: «Nessuno è escluso dalla virtù» Già un’intera sezione del trattato De beneficiis, sicuramente scritta prima delle Epistulae morales, era dedicata al problema degli schiavi. Osservava in particolare Seneca: «Nessuno è escluso dalla virtù; a tutti essa è accessibile, tutti invita e ammette, liberi e liberti, schiavi, re ed esiliati, non guarda al casato o al censo, gli basta l’uomo così com’è» (III, 18, 2). E poco più avanti: «Chi crede che la condizione di schiavo abbracci un uomo nella totalità del suo essere

si sbaglia. La sua parte migliore ne è esclusa: il corpo è sottomesso e registrato come possesso del padrone ma l’anima è indipendente ed è così sciolta e libera che nemmeno questo carcere nel quale è chiusa la può limitare e le può impedire di usufruire del suo istinto naturale e di meditare su grandi problemi e di spaziare, compagna dei celesti, nell’infinito. Perciò è solo il corpo che la fortuna ha dato in potere al padrone, solo questo egli può vendere o comprare ma il resto, l’intimo, non si può dare per compravendita. Tutto ciò che proviene da questa parte è libero» (III, 20; la traduzione è di Salvatore Guglielmino).

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PERCORSO ANTOLOGICO

padroni, ed a cui le labbra non venivano cucite assieme, erano disposti a porgere il collo in luogo del padrone, a rivolgere un pericolo incombente sul proprio capo: durante i banchetti parlavano, ma in mezzo ai tormenti sapevano tacere. [5] Si ripete poi il proverbio, conseguenza della stessa arroganza, che il numero dei nemici è uguale a quello degli schiavi: essi non sarebbero nostri nemici, se noi non li rendessimo tali. Pel momento passo sotto silenzio altri trattamenti crudeli, disumani: l’abuso che facciamo di loro non come uomini, ma come animali, il fatto che, quando ci siamo sdraiati per pranzare, l’uno asciuga gli sputi, l’altro, posto sotto il divano, raccoglie i resti degli ubriachi. [6] Un altro ancora squarta uccelli molto costosi: introducendo la mano esperta lungo una linea ben precisa nel petto e nel codrione, ne stacca i pezzi, infelice! egli che vive solo per tagliare convenientemente gli uccelli; senonché è più infelice chi insegna tale arte per il suo piacere, di chi la impara per necessità. [...] [15] «Che dunque? lascerò sedere alla mia mensa tutti gli schiavi?». Non più facilmente che tutti gli uomini liberi. Ti sbagli, se credi che io terrò lungi da me taluni quasi che facciano un mestiere troppo basso, come, per esempio, quel mulattiere e quel bifolco: non li giudicherò secondo il mestiere, ma secondo la condotta. La condotta dipende da ciascuno di noi, il mestiere dalla sorte. Taluni pranzino con te perché ne son degni, altri per diventarlo: la dimestichezza con persone dabbene distruggerà in essi quel tanto di abbietto che proviene dalla convivenza con gente di bassa educazione. [16] Non c’è ragione per cui, o mio Lucilio, tu cerchi un amico soltanto nel Foro e nel Senato: se farai ben attenzione, lo troverai anche a casa. Sovente una buona materia senza l’artefice rimane inerte: prova e sperimenterai. Come è sciocco chi avendo intenzione di comperare un cavallo non osserva il cavallo, ma il basto ed il morso, così è più sciocco che mai chi giudica un uomo secondo l’abito o la condizione, che ci sta attorno come un abito. «È uno schiavo». Ma forse libero nell’animo. [17] «È schiavo». Tale condizione gli nuocerà? indicami qualcuno che non sia schiavo: c’è chi è schiavo della lussuria,

La condizione degli schiavi nel pensiero cristiano delle origini: le lettere degli apostoli ▰ Dalla Lettera ai Galati di san Paolo Seneca

non pensa ovviamente che la schiavitù vada abolita; non lo pensava neppure san Paolo, che pure negli stessi anni, nella lettera ai Galati (3, 28) scriveva qualcosa di molto affine alle parole di Seneca: non est Judaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus neque femina: omnes enim vos unum estis in Christo Jesu. E ancora, nella lettera agli Efesini (6, 5): «Servi, obbedite a quelli che secondo la carne vi sono padroni, con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, servendo non all’occhio quasi per piacere

agli uomini, ma come servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, e servendo con affetto, come se si trattasse del Signore e non di uomini, ben sapendo che ciascuno, servo o libero che sia, riceverà dal Signore la ricompensa di ciò che avrà fatto di bene. E voi, o padroni, fate altrettanto riguardo ad essi, astenendovi dalle minacce, ben sapendo che il padrone loro e vostro è nei cieli e che davanti ad esso non ci sono preferenze personali».

▰ Dalla I lettera di san Pietro Un concetto

analogo si ritrova nella prima lettera di san Pietro (2, 13 e 18): «State dunque, per riguardo a Dio, soggetti ad ogni autorità umana [...] Servi, siate con ogni rispetto soggetti ai vostri padroni, non soltanto ai buoni e dolci, ma anche agli intrattabili».

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4. Seneca

PERCORSO ANTOLOGICO

chi dell’avidità del denaro, chi dell’ambizione, chi della speranza, chi del timore. Eccoti un uomo consolare del tutto sottomesso ad una vecchierella, un ricco ad una servetta, ti mostrerò dei giovani di nobilissima famiglia divenuti schiavi di pantomimi: nessuna servitù è più vergognosa di quella che è dovuta alla nostra stessa volontà. Perciò non c’è ragione per cui cotesti uomini sdegnosi ti distolgano dal dimostrarti ilare coi tuoi schiavi e non arrogantemente superiore: ti rispettino piuttosto che temerti. [18] Ora qualcuno dirà che io incito gli schiavi alla conquista della libertà e cerco di buttar giù i padroni dall’alto della loro dignità, perché affermai: rispettino il padrone piuttosto che temerlo. «Proprio così?» egli soggiunge; «rispettino il padrone come clienti, come chi va a casa a salutarlo per omaggio?». Chi parlerà così dimostrerà di dimenticare che non è poco per i padroni ciò che basta alla divinità. Questa è rispettata ed amata: ora l’amore non può andar congiunto col timore. [19] Pertanto ritengo che tu ti comporti molto giustamente non volendo essere temuto dai tuoi schiavi, correggendoli colle parole: colle percosse si redarguiscono i bruti. Non tutto ciò che ci spiace, anche ci danneggia: ma l’eccessivo benessere ci rende assai facili ad accessi di rabbia, di modo che qualunque cosa accada non conforme al nostro desiderio provoca l’ira. [20] Facciamo nostro il modo di sentire dei despoti: infatti essi pure, dimentichi del loro potere e dell’altrui debolezza, vanno in collera, incrudeliscono, quasi che avessero ricevuto ingiuria, mentre la loro alta condizione li rende del tutto sicuri da siffatto pericolo. E ben lo sanno, ma lagnandosi vanno in cerca dell’occasione di nuocere; hanno ricevuto ingiuria per farla. [21] Non voglio trattenerti più a lungo; infatti non hai bisogno di esortazioni. Fra gli altri vantaggi la condotta onesta ha questo: è contenta di sé stessa, sta salda, mentre la malvagità è leggera, spesso si muta mirando non al meglio ma al diverso. Addio. (trad. di U. Boella)

 La cattura di uno schiavo in un rilievo dell’età imperiale. 176 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

T 16 Membra sumus corporis magni Epistulae ad Lucilium 95, 51-53 LATINO

Nei paragrafi 47-50 di questa lunga lettera, Seneca ha trattato la seguente quaestio: quomodo sint dii colendi («in che modo dobbiamo venerare gli dèi»), dimostrando che il male non può venire da essi, poiché è la loro stessa natura a non permetterlo, è proprio degli dèi fare del bene senza chiedere alcun compenso. Di qui la conclusione del discorso: Vis deos propitiare? Bonus esto. Satis illos coluit quisquis imitatus est («Vuoi propiziarti gli dèi? Sii buono. Si rende loro il culto dovuto imitandoli»). Subito dopo, nel brano che riportiamo, Seneca pone una seconda quaestio, chiedendosi quomodo hominibus sit utendum (par. 51): come dobbiamo comportarci con gli altri. Quid agimus? Quae damus praecepta? Egli stesso, nondimeno, sente il limite di una precettistica che si incarichi di regolare minuziosamente quae praestanda ac vitanda sunt (par. 51): molto meglio delineare un principio generale dal quale sgorghino naturalmente i singoli precetti di vita di cui abbiamo man mano bisogno. E quel principio è delineato nel paragrafo successivo: omne hoc quod vides, quo divina atque humana conclusa sunt, unum est (par. 52). Soccorrere gli uomini è un dovere sociale cui nessuno può sottrarsi. Seneca lo ribadisce qui con la consueta forza sentenziosa; non si limita a elencare dei precetti astratti, ma si impegna ad esemplificarli nella concretezza di un’immagine o di una situazione: un naufrago, un viaggiatore smarrito, un uomo che ha fame. Così, il discorso si conclude con la similitudine fra l’umana societas e una lapidum fornicatio: «una volta di pietre» destinata a cadere, se i singoli blocchi non si sorreggono tra di loro. [51]

Ecce altera quaestio, quomodo hominibus sit utendum. Quid agimus? Quae damus praecepta? Ut parcamus sanguini humano? Quantulum est ei non nocere cui debeas prodesse! Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est. Praecipiemus ut naufrago manum porrigat, erranti viam monstret, cum esuriente panem suum dividat? Quare omnia quae praestanda ac vitanda sunt dicam, cum possim breviter hanc illi formulam humani offici tradere? [52] Omne hoc quod vides, quo divina atque humana conclusa sunt, unum est; membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et [51] Ecco un’altra questione: come ci si deve comportare con gli uomini. Che cosa facciamo? Quali precetti diamo? [Insegniamo] a risparmiare il sangue umano? Che poca cosa è non nuocere a colui al quale dovresti giovare! È proprio un grande motivo di lode, se un uomo è mite con un [altro] uomo. Insegneremo a porgere la mano al naufrago, a indicare la via a chi è smarrito, a dividere il proprio pane con chi ha fame? Perché dovrei dire tutte le cose che si devono fare ed evitare, quando posso brevemente trasmettergli questa formula dei doveri umani? quomodo: l’avverbio introduce la proposizione interrogativa indiretta che segue. – hominibus sit utendum: perifrastica passiva in forma impersonale. – Quid... Quae: il primo è un pronome,

il secondo un aggettivo interrogativo (concordato con praecepta). – Ut parcamus... humano: proposizione sostantiva dichiarativa, dipendente da un verbo sottinteso che va ricavato dall’interrogativa precedente (ad esempio prae­cipimus: «insegniamo). Parco regge, come sempre, il dativo (sanguini huma­ no). – non nocere: infinito sostantivato, con funzione di soggetto. Si osservi la litote, per dare più evidenza al contiguo prodesse. – debeas: è il consueto congiuntivo potenziale: puoi anche tradurre con una forma impersonale. – Magna... est: tutta la frase è pervasa di una sferzante ironia (sottolineata dall’avverbio scilicet), e ribadisce il concetto già espresso nella frase precedente. Probabile allusione (con il significato rovesciato) al celebre verso plautino di Asinaria

495 (Lupus est homo homini, non homo). – Praecipiemus (sott. homini): regge le tre proposizioni completive che seguono, le prime due delle quali presentano una struttura analoga (complemento di termine + complemento oggetto + predicato verbale), la terza una variante (cum + ablativo in luogo del dativo). – erranti... esuriente: participi sostantivati. – dicam: congiuntivo deliberativo, piuttosto che futuro, come pure si può intendere. – cum possim: proposizione avversativa. – illi = homini. – humani offici: singolare collettivo. Traduci volgendo al plurale. [52] Tutto ciò che vedi, da cui è racchiuso ogni elemento divino ed umano, costituisce un’unica realtà; noi siamo le membra di un grande corpo. La natura ci ha generato fratelli, poiché ci

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit. Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. [53] Ille versus et in pectore et in ore sit: Homo sum, humani nihil a me alienum puto.

PERCORSO ANTOLOGICO

Ita habeamus: in commune nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur. ha fatti nascere dai medesimi elementi e in vista dei medesimi fini; essa ci ha ispirato un amore reciproco e ci ha reso socievoli. Essa ha stabilito ciò che è equo e ciò che è giusto; secondo la sua legge, è più miserevole fare del male che subire un’offesa: secondo il suo comando, le mani siano pronte per coloro che devono essere aiutati. Omne hoc: l’universo. – quo: ablativo di causa efficiente. – corporis magni: secondo lo stoico Posidonio, che è una delle fonti di Seneca, questo «grande corpo» è lo stesso logos divino. – Natura... cognatos: si noti la figura etimologica (entrambi i termini derivano dal verbo nascor). Cognatus (da cum e nascor) è propriamente il consanguineo. Meglio tradurre con «fratello». – cum gigneret: proposizione causale. – iisdem... eadem: neutri sostantivati: esprimono origine e fine. – indidit: da in + do («mettere dentro»), va letto in corrispondenza con il precedente edidit (da ex + do: «dare fuori», e dunque «mettere al mondo»). – sociabiles: predicativo di

un nos sottinteso. – Illa... ex illius... ex illius: i tre pronomi (poliptoto) vanno riferiti a natura. – miserius est nocere quam laedi: il concetto è già in Platone, Gorgia 469, dove Socrate afferma che «il male peggiore che possa capitare è commettere ingiustizia» e che, se costretto a scegliere, preferirebbe «piuttosto patire che commettere ingiustizia». Miserius è comparativo neutro di miser. – ex illius imperio: in simmetria con il precedente ex illius constitutione. – paratae sint: congiuntivo esortativo. – iuvandis: dativo di vantaggio, gerundivo sostantivato. Sottintende hominibus. [53] Sia [sempre] nell’animo e sulle labbra quel famoso verso: «Sono un uomo, nulla di umano reputo estraneo a me». Teniamo fermo questo: siamo nati per vivere insieme. La nostra società è molto simile ad una volta di pietre, che, destinata a cadere se [le pietre] non si sorreggessero a vicenda, proprio per questo si sostiene. Ille: con valore enfatico: «quel famoso», «quel ben noto». – et in pectore et in

Analizzare il testo 1.

Qual è la quaestio che Seneca pone al centro di questo brano? 2. Riassumi i concetti espressi nei tre paragrafi, seguendo l’ordine del discorso delineato dall’autore. 3. Rileggi il verso di Terenzio citato da Seneca, tratto da un brano che puoi leggere nel vol. I [ T6, cap. 5]. Perché questo verso ha goduto di tanta fortuna sia nel mondo pagano sia in quello cristiano? 4. Nel brano, l’autore ricorre ad alcuni congiuntivi esortativi: individuali, e spiega il valore di questa scelta espressiva.

Confrontare i testi

5. Totum hoc quo continemur et unum est et deus; et socii sumus eius et membra: dopo aver

ore: il parallelismo enfatizza il legame tra parola e sentimento. – Homo sum... puto: celebre verso di Terenzio (Heau­ tontimorumenos, 77), fondamento di ogni futura humanitas. Cicerone, non a caso, lo cita più volte (De legibus I, 33; De finibus bonorum et malorum III, 63; De officiis I, 29-30); lo faranno proprio anche autori cristiani come Ambrogio (De officiis ministrorum III, 45) e Agostino (Epistulae 155, 14). Humani è genitivo partitivo retto da nihil. – habeamus: congiuntivo esortativo. – in commune: complemento di fine. Nella traduzione, meglio volgere il complemento in una proposizione finale. – fornicationi: fornicatio (termine tecnico dell’architettura) è una «costruzione a volta», da fornix («arco»). – simillima: superlativo assoluto di similis, che, come qui, regge di consueto il dativo. – casura: participio futuro di cado: è l’apodosi implicita di un periodo ipotetico dell’irrealtà, la cui protasi è il successivo nisi obstarent. – nisi in vicem obstarent: sott. lapides. – hoc ipso: ablativo di causa.

tradotto questo passo di Seneca (Ep. ad Luc. 92, 30), mettilo a confronto con quanto hai letto dell’epistola 95, rintracciando le analogie di ordine sia linguistico sia concettuale che intercorrono fra i due brani. 6. Sicut enim corpus unum est, et membra habet multa, omnia autem membra corporis cum sint multa, unum tamen corpus sunt. Etenim in uno Spiritu omnes nos in unum corpus baptizati sumus, sive Judaei, sive Gentiles, sive servi, sive liberi: et omnes in uno Spiritu potati sumus. Così scrive, nella prima lettera ai Corinzi, san Paolo, forse nel 57 d.C., dunque pochi anni prima delle Epistulae ad Lucilium di Seneca: quali analogie intravedi fra i due testi? E quali novità, rispetto al pensiero stoico, sono presenti nella lettera di san Paolo?

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 17 T 18

Un’altra nascita ci attende

Epistulae ad Lucilium 102, 21-30

L’epoca della mia prima giovinezza: gli studi filosofici

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Epistulae ad Lucilium 108, 1-7; 13-29

T 19 Il progresso delle scienze Naturales quaestiones, VII, 25, 1-5 LATINO ITALIANO

Come Immanuel Kant nelle celebri pagine conclusive della Critica della ragion pratica («il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi»), nel passo seguente Seneca connette lo spettacolo del cielo stellato con la coscienza dell’interiorità. L’osservazione del mondo fisico è parte dell’indagine filosofica, e finisce per avere una forte impronta etica, separandosi, secondo un modello culturale molto diffuso, dalle competenze tecniche. In queste righe del VII libro delle Naturales quaestiones, dopo aver a lungo confrontato le diverse teorie sulla natura delle comete, e aver concluso che si tratta di corpi astrali come i pianeti, Seneca sostiene una posizione piuttosto originale nel mondo antico: mentre per un poeta-filosofo controcorrente come Lucrezio la conoscenza era già stata formulata una volta per tutte nei testi di Epicuro, per Seneca l’indagine scientifica è un processo dinamico, aperto e progressivo. Il concetto verrà ribadito poco più avanti, verso la fine dell’opera: Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet, «Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla gente dell’evo futuro» (VII, 30, 5; trad. di D. Vottero). Interessanti anche spunti antiantropocentrici (Neque enim omnia deus homini fecit, «Poiché Dio non ha fatto tutto per l’uomo» (VII, 30, 3) e di un relativismo quasi copernicano (Fuerunt enim qui dicerent nos esse quos rerum natura nescientes ferat, nec caeli motu fieri ortus et occasus, nos ipsos oriri et occidere: «Vi furono infatti di quelli che sostennero che siamo noi ad essere trasportati a nostra insaputa dalla natura e che le albe e i tramonti non dipendono dal movimento del cielo, ma che siamo noi stessi a sorgere e a tramontare» (VII, 2, 3). [25, 1]

Si quis hoc loco me interrogaverit: «Quare ergo non, quemadmodum quinque stellarum, ita harum observatus est cursus?», huic ego respondebo: multa sunt quae esse concedimus, qualia sint ignoramus. [2] Habere nos animum, cuius imperio et impellimur et revocamur, omnes fatebuntur; quid tamen sit animus ille rector dominusque nostri1, non magis tibi quisquam expediet quam ubi sit: alius illum dicet spiritum esse, alius concentum quendam, alius vim divinam et

[25, 1] Se a questo punto qualcuno mi domandasse: «Perché dunque non è stato osservato anche il corso delle comete così come lo è stato quello dei cinque pianeti?», gli risponderei: molte cose vi sono delle quali noi ammettiamo l’esistenza senza conoscerne l’essenza. [2] Tutti riconosceranno che noi abbiamo un’anima, che è guida suprema nello spingerci e nel distoglierci dall’agire; nessuno tuttavia ti spiegherà quale sia la natura di quest’anima, che ci dirige e ci governa1, così come non ti chiarirà quale sia la sua sede: uno dirà che essa è soffio vitale, un altro che è una specie di armonia, un altro che è energia divina ed è una parte della divinità, un 1 rector dominusque nostri: concetto presente anche altrove in Seneca: Ep. ad Luc. 92, 33; 114, 23; De clementia I, 3,

5. Si ricordi Sallustio, Bellum Iugurthi­ num: 1, 3.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

dei partem, alius tenuissimum animae, alius incorporalem potentiam; non deerit qui sanguinem dicat, qui calorem2: adeo animo non potest liquere de ceteris rebus ut adhuc ipse se quaerat. [3] Quid ergo miramur cometas, tam rarum mundi spectaculum, nondum teneri legibus certis nec initia illorum finesque notescere, quorum ex ingentibus intervallis recursus est? Nondum sunt anni mille quingenti3, ex quo Graecia «stellis numeros et nomina fecit»4, multaeque hodie sunt gentes quae facie tantum noverunt caelum, quae nondum sciunt cur luna deficiat, quare obumbretur: haec apud nos quoque nuper5 ratio ad certum perduxit. [4] Veniet tempus6 quo ista quae nunc latent in lucem dies extrahat et longioris aevi diligentia; ad inquisitionem tantorum aetas una non sufficit, ut tota caelo vacet: quid, quod tam paucos annos inter studia ac vitia non aequa portione dividimus? Itaque per successiones ista longas explicabuntur. [5] Veniet tempus quo posteri nostri tam aperta nos nescisse mirentur.

PERCORSO ANTOLOGICO

altro che è l’elemento più sottile del principio vitale, un altro una potenza incorporea; né mancherà chi dice che è sangue o che è calore2: a tal punto l’anima non è in grado di veder chiaro a proposito delle altre realtà che va ancora alla ricerca di se stessa. [3] Perché dunque ci meravigliamo se uno spettacolo cosmico tanto raro come quello delle comete non è ancora inquadrato nell’ambito di leggi regolari e se non sono ben note le circostanze in cui hanno inizio e fine questi fenomeni, che ricompaiono a distanza di intervalli smisurati? Non sono ancora trascorsi millecinquecento anni3 da quando la Grecia «contò e diede un nome alle stelle»4, ed esistono ancor oggi molti popoli che conoscono il cielo soltanto nel suo aspetto esteriore, che non sanno ancora perché la luna si eclissi, perché si oscuri: anche presso di noi solo di recente5 la ricerca scientifica è giunta a dare una risposta sicura a questi problemi. [4] Verrà il giorno6 in cui il tempo e gli sforzi che vi avrà dedicato un maggior numero di generazioni porteranno decisamente alla luce codeste nozioni che per ora restano celate; l’arco di una sola vita, pur ammettendo che si dedicasse completamente allo studio del cielo, non sarebbe sufficiente a portare a termine una ricerca di tali proporzioni: ma che pensare del fatto che noi dividiamo in parti disuguali fra lo studio e il vizio i così pochi anni che abbiamo a disposizione? E dunque questi fenomeni saranno spiegati attraverso lunghe successioni di studiosi. [5] Verrà il giorno in cui i nostri posteri si meraviglieranno che noi abbiamo ignorato realtà così evidenti. (trad. di D. Vottero) 2 alius… calorem: rassegna, di spirito dossografico, delle principali definizioni della natura dell’anima elaborate dalle scuole filosofiche dell’antichità: i concetti di spiritus, vis divina, dei pars, calor rimandano al contesto stoico; l’anima come concentus è idea pitagorica; tenuissimum animae è di ambito epicureo; incorporalis potentia va forse messo in relazione con il concetto aristotelico di «entelechìa»; sanguis si trova in Empedocle.

3 anni mille quingenti: la datazione si riferisce all’impresa degli Argonauti, che per primi avrebbero osservato gli astri per orientarsi nella navigazione; curiosamente il diverso contesto suggerisce ben diverso concetto in Medea 309-317, dove il coro osserva che all’epoca della nave Argo nondum quisquam sidera no­ rat, «ancora nessuno conosceva le costellazioni». 4 «stellis… fecit»: citazione dalla nota «teodicea del lavoro» di Virgilio (Georgi­

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che I, 118-159; il verso citato è il 137), passo citato da Seneca anche altrove. 5 nuper: se il primo astronomo romano fu C. Sulpicio Gallo, vissuto al tempo del circolo degli Scipioni, può essere che qui Seneca si riferisca alla passione per gli studi astronomici diffusa in età giulio-claudia, da Ovidio a Germanico a Manilio. 6 Veniet tempus: si osservi il tono profetico con cui viene espressa la certezza del progresso scientifico.


PERCORSO ANTOLOGICO

T 20 Claudio sale in cielo Apokolokyntosis 5-7, 1 ITALIANO

Con la morte di Claudio, che «esala l’anima» assistendo a uno spettacolo di comici, si conclude la parte introduttiva della satira. Può dunque aver inizio, annunciata da un secondo proemio (5, 1), la narrazione delle esilaranti vicende celesti. Rivolgendosi direttamente al pubblico dei lettori (Scitis enim optime... audite), il narratore assume parodisticamente il ruolo dello storico imparziale e oggettivo che si affida a testimoni garanti del suo racconto. L’arrivo in cielo, come del resto la discesa agli inferi, era un topos della satira menippea. Qui l’elemento comico è dato dal fatto che non è il morto a spaventarsi ma gli dèi stessi, Ercole in particolare, quando si trovano dinanzi al monstrum Claudio, strana creatura che solo a fatica può essere ascritta alla specie umana (quasi homo). Ma la parodia tocca anche il tradizionale apparato mitologico: Ercole, raffigurato come un bruto dotato di scarsa intelligenza (minime vafer), rischia di esser messo nel sacco perfino dallo sciocco imperatore. [5, 1] Quello

che successe poi sulla terra, è inutile riferirlo: lo sapete benissimo, e non c’è pericolo che sfuggano quelle cose che la pubblica gioia ha impresso nella memoria: nessuno si dimentica della propria felicità. State a sentire quello che è accaduto in cielo: l’attendibilità la garantirà il testimone. [2] Viene annunciato a Giove che è arrivato un tale, alto di statura, assai canuto, minaccia non so che, muove infatti continuamente la testa, trascina il piede destro. Gli era stato chiesto di che gente fosse, aveva risposto non so che con suoni confusi e voce imbrogliata, la sua lingua non si capiva: non era né greco, né romano, né di altra popolazione nota. [3] A questo punto Giove comanda ad Ercole, che aveva percorso in lungo e in largo tutto il mondo e pareva che conoscesse tutte le genti, di andare ad esplorare che uomo fosse. Ercole a prima vista rimase veramente sconcertato, come uno che non tutte le mostruosità abbia ancora provato. Come vide quella figura di nuovo genere, l’andatura insolita, la voce di nessun animale terrestre, ma quale di solito hanno gli animali del mare, roca e ingarbugliata, credette che fosse arrivata la sua tredicesima fatica. [4] Guardando poi con più attenzione gli parve in certo senso un uomo. E così gli si avvicinò e – cosa facilissima per un Greco – gli disse: Chi sei, e di che paese? Qual è la tua città e i tuoi parenti?1 Si rallegra Claudio che ci siano lì persone dotte: spera che ci sarà un posto per le sue Storie. E così anche lui, con un verso omerico, facendo capire di essere un Cesare, dice: Da Ilio spingendomi il vento presso i Ciconi mi condusse.2 1. chi sei... parenti: Odissea I, 170. Inizia qui la serie delle citazioni omeriche: Claudio era un appassionato cultore di Omero, del quale soleva spesso citare i versi. Nella maggior parte dei casi, le citazioni si riferiscono a Odisseo, che in questo passo incomincia a raccontare le sue avventure. 2. Da Ilio... mi condusse: Odissea IX, 39. «Le prime parole distinte di Claudio

nell’aldilà, dopo quelle triviali con cui si era chiusa la sua vita mortale sono rappresentate da un verso dell’Odissea (IX, 39), con cui riecheggiando la presentazione di Odisseo ad Alcinoo, Claudio vuole qualificarsi a Ercole, che lo aveva apostrofato a sua volta con un verso omerico, come un grande re; ma il commento dello storico, che argutamente completa la citazione dall’Odissea (IX, 40), svela

l’ironia della scena: la somiglianza fra Claudio e Ulisse non riguarderebbe tanto la regalità, quanto il fatto che entrambi hanno distrutto una città: Ulisse quella dei Cìconi con un’impresa di guerra, Claudio Roma con il suo malgoverno! Il dialogo a colpi di citazioni è tipico della satira menippea e contribuisce qui a mettere in burla la presunzione di Claudio di essere persona colta (Focardi).

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

– Più vero sarebbe stato il verso seguente, ugualmente di Omero: ... dove io la città distrussi e gli abitanti uccisi –.3

PERCORSO ANTOLOGICO

[6, 1]

E avrebbe gabbato Ercole che è niente affatto scaltro, se non ci fosse stata lì Febbre che, abbandonato il suo tempio, era venuta, lei sola, con lui: tutti gli altri dèi li aveva lasciati a Roma:4 «costui – disse – racconta solo menzogne. Te lo dico io, che son vissuta con lui tanti anni:5 a Lione è nato, vedi un concittadino dell’uva “Marcus”.6 Ti dico che è nato a sedici miglia da Vienna,7 è un Gallo genuino.8 E così – ciò che doveva fare un Gallo – ha preso Roma. Te l’assicuro che è nato a Lione, dove Licino9 ha dominato come un re per molti anni. Tu poi, che hai calpestato più luoghi di un mulattiere che non si ferma mai, dovresti sapere che ci sono molte miglia tra lo Xanto10 e il Rodano!». [2] Si riscalda a questo punto Claudio e si adira brontolando a più non posso. Quello che diceva non lo capiva nessuno. Poi ordinava di condurre Febbre al supplizio con quel suo gesto della mano ciondoloni – ma ferma per quest’unica operazione – con cui soleva decapitare le persone. Aveva dato ordine di tagliarle il collo: c’era da credere che fossero tutti suoi liberti,11 tanto nessuno si curava di lui. [7, 1] Allora Ercole: «ascoltami – gli disse – finiscila di farneticare! sei venuto in un luogo dove i topi rodono il ferro.12 Presto, la verità, che non ti debba spogliare delle tue stravaganze». E per essere più terribile, diventa attore tragico13 e dice [...] (trad. di G. Roncali) 3. dove... uccisi: Odissea IX, 40. 4. tutti... a Roma: spunto di carattere encomiastico: tutti gli dèi, tranne Febris (cui era dedicato un tempio sul Palatino), sono rimasti in Roma a celebrare Nerone, il nuovo imperatore. 5. che... tanti anni: Claudio non aveva mai goduto di buona salute. 6. Marcus: Marcus era chiamata in Gallia una qualità di vite, da cui per altro, secondo la testimonianza di Columella (III, 2, 25), si estraeva un vino mediocre. Evidente l’allusione all’ebrietas di Claudio, denunciata anche da Svetonio

(Claudius 5 e 33). 7. Vienna: Vienne, nell’attuale Delfinato, anch’essa un importante centro vinicolo (e per questo nominata). 8. Gallo genuino: «probabile gioco fra il valore di germanus (= genuino, purosangue), che è qui il significato più ovvio, e Germano (= nativo della Germania). Claudio si può definire Gallus germanus, essendo nato nella Gallia Narbonese, divenuta provincia romana (Provenza) prima delle guerre di Cesare» (Focardi). 9. Licino: schiavo di Cesare, divenuto in età augustea procuratore della Gallia Lug-

dunense; era proverbiale per la sua rapacità e per le immense ricchezze accumulate. 10. Xanto: fiume della Troade. 11. liberti: di cui Claudio era notoriamente alla mercé. Nel finale della satira, l’imperatore viene non a caso posto alle dipendenze di un liberto, come «addetto alle istruttorie». 12. i topi rodono il ferro: detto proverbiale. 13. diventa attore tragico: seguono versi in senari giambici, di evidente tono parodistico.

T 21 Il furore di Medea Medea 116-178 LATINO ITALIANO

La tragedia, ispirata all’omonimo dramma di Euripide, ha inizio con un monologo di Medea (vv. 1-55): dopo aver saputo delle nozze fra Giasone e la giovane figlia di Creonte, la maga, in preda al furore, invoca gli dèi inferi e le Erinni perché diano morte alla nuova sposa, maledice l’antico amante augurandogli di vivere esule e ramingo nel mondo, sogna d’incenerire la città di Corinto insieme all’Istmo, così che i due mari si confondano, mentre già rivolge in mente la vendetta estrema e più atroce, l’eccidio dei figli. A lei si contrappone il coro, che intona un epitalamio rivolto agli dèi sùperi (vv. 56-115). Dopo questa sorta di prologo, viene introdotta la scena qui presentata, protagoniste Medea (espressione furente della passione più incontrollata) e la sua nutrice (che rappresenta la voce, inascoltata, della ragione).

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PERCORSO ANTOLOGICO

Nota metrica: senari giambici.

me.

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medea, nutrix

Occidimus, aures pepulit hymenaeus meas. Vix ipsa tantum, vix adhuc credo malum. Hoc facere Iason potuit, erepto patre patria atque regno sedibus solam exteris deserere durus? Merita contempsit mea qui scelere flammas viderat vinci et mare? Adeone credit omne consumptum nefas? Incerta vecors mente non sana feror partes in omnes; unde me ulcisci queam? Utinam esset illi frater! Est coniunx: in hanc ferrum exigatur. Hoc meis satis est malis? Si quod Pelasgae, si quod urbes barbarae novere facinus quod tuae ignorent manus, nunc est parandum. Scelera te hortentur tua et cuncta redeant: inclitum regni decus raptum et nefandae virginis parvus comes divisus ense, funus ingestum patri sparsumque ponto corpus et Peliae senis

medea, nutrice

Sono perduta, il suono dell’imeneo ha raggiunto le mie orecchie. A stento ancora io stessa posso credere a una simile sventura. Ha potuto far questo Giasone? Dopo avermi strappato al padre, alla patria e al regno, con duro cuore abbandonarmi sola in un luogo straniero! Ha disprezzato i miei meriti lui che pure aveva visto esser vinti dal mio delitto le fiamme e il mare? Egli crederà che fino a questo punto sia consumata tutta la mia capacità di compiere delitti? Incerta, forsennata, dalla mia mente folle sono trascinata per ogni dove; con che cosa potrei vendicarmi? Oh, se egli avesse un fratello! Ha una moglie: contro costei si estragga la spada. Questo è abbastanza per le mie sventure? Se le città pelasghe, se le città barbare conoscono un crimine che le tue mani ignorano, questo ora si deve preparare. Ti esortino i tuoi delitti e tutti ritornino: il celebre tesoro del regno rubato, e il piccolo compagno dell’empia vergine diviso a pezzi dalla spada, l’assassinio compiuto davanti al padre e il cadavere disperso nel mare e le membra del vecchio Pelia cotte in un calderone di bronzo; quanto spesso ho medea

118-119. erepto... regno: allusione alle vicende precedenti, narrate fra l’altro nelle Argonautiche di Apollonio Rodio: per amore di Giasone, la donna giunge ad addormentare il drago che custodiva il vello d’oro, a organizzare la fuga dal regno del padre Eeta e a uccidere il fratello, inviato dal re all’inseguimento

dei fuggiaschi (vedi vv. 131-133). Dopo varie avventure, Medea e Giasone giungono infine a Corinto, dove si svolge l’azione della tragedia. 125. Utinam... frater!: per poterlo uccidere, compensando l’assassinio del proprio fratello. 131-133. et nefandae virginis... cor-

pus: il corpo del fratello di Medea era stato fatto a pezzi e disseminato per rallentare la corsa degli inseguitori, obbligati dalla pietas a recuperarne i miseri resti. La nefanda virgo è naturalmente lei stessa, Medea. 133-134. et Peliae... membra: altro orrendo delitto perpetrato dalla maga: Pe-

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

decocta aeno membra: funestum impie quam saepe fudi sanguinem, et nullum scelus irata feci: saevit infelix amor. Quid tamen Iason potuit, alieni arbitri iurisque factus? Debuit ferro obvium offerre pectus – melius, a melius, dolor furiose, loquere. Si potest, vivat meus, ut fuit, Iason; si minus, vivat tamen memorque nostri muneri parcat meo. Culpa est Creontis tota, qui sceptro impotens coniugia solvit quique genetricem abstrahit natis et arto pignore astrictam fidem dirimit: petatur, solus hic poenas luat quas debet. Alto cinere cumulabo domum; videbit atrum verticem flammis agi Malea longas navibus flectens moras. 150 nu. Sile, obsecro, questusque secreto abditos manda dolori. Gravia quisquis vulnera patiente et aequo mutus animo pertulit, referre potuit: ira quae tegitur nocet; professa perdunt odia vindictae locum.

PERCORSO ANTOLOGICO

135 140 145

empiamente sparso sangue funesto, eppure non ho compiuto nessun delitto con ira: ad infuriare è solo il mio amore infelice. Che cosa, tuttavia, poteva Giasone, posto sotto l’arbitrio e il comando altrui? Avrebbe dovuto offrire il petto alla spada – pazzo dolore, parla meglio, ah meglio. Se può, viva mio, come fu un tempo, Giasone; se no, viva comunque e memore di me mi risparmi, in grazia dei miei servigi. La colpa è tutta di Creonte, che senza conoscere freni a causa dello scettro regale scioglie i matrimoni, e strappa la madre ai figli e rompe la fede nuziale annodata da un così stretto pegno d’amore: si assalti solo costui, paghi il fio che deve. Renderò la sua casa un cumulo di alta cenere e il capo Malea, che costringe le navi a un lungo giro, vedrà levarsi dalle fiamme un nero vortice di fumo. nutrice Taci, ti scongiuro, e affida i tuoi lamenti nascosti a un segreto dolore. Chiunque sa sopportare in silenzio con animo paziente ed equilibrato gravi ferite, sa anche rendere il contraccambio: l’ira che si nasconde sa nuocere; gli odi confessati perdono l’occasione per la vendetta. lia, zio di Giasone, non aveva restituito al nipote il regno, come era stato invece pattuito nel caso il giovane si fosse impadronito del vello d’oro. Medea, allora, aveva indotto le figlie di Pelia a bollire in una caldaia il corpo del padre, facendo

loro credere che in tal modo il vecchio avrebbe magicamente riacquistato la giovinezza. A causa di questo misfatto, i due amanti erano stati poi costretti a fuggire in Corinto. 143. Creontis: il re di Corinto.

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149. Malea: promontorio dirupato sul mare e battuto dai venti, dunque pericoloso per le navi; costituisce la punta sud-est del Peloponneso, dove si chiude il golfo Laconico.


PERCORSO ANTOLOGICO

155 me.

Levis est dolor qui capere consilium potest et clepere sese: magna non latitant mala. Libet ire contra. nu. Siste furialem impetum, alumna: vix te tacita defendit quies. me. Fortuna fortes metuit, ignavos premit. 160 nu. Tunc est probanda, si locum virtus habet. me. Numquam potest non esse virtuti locus. nu. Spes nulla rebus monstrat adflictis viam. me. Qui nil potest sperare, desperet nihil. nu. Abiere Colchi, coniugis nulla est fides 165 nihilque superest opibus e tantis tibi. me. Medea superest, hic mare et terras vides ferrumque et ignes et deos et fulmina. nu. Rex est timendus. me. Rex meus fuerat pater. nu. Non metuis arma? me. Sint licet terra edita. 170 nu. Moriere. me. Cupio. nu. Profuge.

È lieve il dolore che sa prendere una decisione e tenersi nascosto; le grandi sventure non restano occulte. Mi piace andare all’assalto dei miei nemici. nutrice Ferma la folle violenza, tu che da me fosti allattata; è molto se lo stare tranquilla e in silenzio ti può difendere. medea La fortuna teme i forti, affligge gl’ignavi. nutrice Il valore si fa apprezzare solo se trova l’occasione di manifestarsi. medea Il valore non può non trovarla. nutrice In una situazione di disgrazia nessuna speranza mostra una via di salvezza. medea Chi non può sperare nulla non deve disperare di nulla. nutrice I Colchi sono lontani, nulla è la fede verso di te del tuo sposo e di tanta potenza niente ti rimane. medea Rimane Medea, qui vedi il mare e la terra e la spada e il fuoco e gli dèi e i fulmini. nutrice Un re è da temersi. medea Era re anche mio padre. nutrice Non temi le armi? medea No, siano pure spuntate dalla terra. nutrice Morirai. medea Lo desidero. nutrice Fuggi! edea

164. Colchi: gli abitanti della remota Colchide, patria di Medea, dove era custodito il vello d’oro.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

4. Seneca

me. Paenituit

fugae. Medea – me. Fiam. nu. Mater es. me. Cui sim vides. nu. Profugere dubitas? me. Fugiam, at ulciscar prius. nu. Vindex sequetur. me. Forsan inveniam moras. nu. Compesce verba, parce iam, demens, minis 175 animosque minue: tempori aptari decet. me. Fortuna opes auferre, non animum potest. Sed cuius ictu regius cardo strepit? Ipse est Pelasgo tumidus imperio Creo. nu.

Mi sono dovuta pentire della fuga già una volta. nutrice Medea... medea ... la diventerò. nutrice Sei madre. medea Vedi bene per chi lo sono. nutrice Sei incerta se fuggire? medea Fuggirò, e prima anche mi vendicherò. nutrice Ti inseguiranno per punirti. medea Forse troverò il modo di ostacolarli. nutrice Trattieni le parole, risparmiati, folle, le minacce e placa la tua superbia: è giusto adattarsi alle circostanze. medea La fortuna può togliere il potere, non il coraggio. Ma chi fa cigolare il cardine della porta della reggia? È proprio lui, Creonte, tutto insuperbito dal suo dominio sui Pelasghi.

PERCORSO ANTOLOGICO

medea

(trad. di G. Giardina)

Leggere un TESTO SCENICO Staticità dell’azione, dinamismo tragico delle parole Alla staticità dell’azione scenica corrisponde per contrasto il dinamismo tragico delle parole e dei sentimenti. Prima sequenza: il monologo di Medea Apre la scena l’ampio monologo della protagonista (vv. 116-149), che s’incarica fra l’altro di fornire un febbrile resoconto degli antefatti, presentati in chiave allusiva (ma il lettore o spettatore è senz’altro in grado di decifrarli grazie alla sua conoscenza della vicenda mitica). Seconda sequenza: il duello fra logos e pathos Segue il dialogo con la nutrice: il duello fra logos e pathos è risolto nel linguaggio sentenzioso delle brevi sticomitìe (= metà di un 186 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

verso): le massime sagge e razionali della nutrice vengono sistematicamente rovesciate, in una sorta di lucida e invincibile anti-sapienza, da quelle di Medea. La chiusa: costruzione di un effetto memorabile Seneca costruisce le battute in funzione di un effetto memorabile: al culmine dello scambio, ormai affidato a una sola parola per ciascuno dei due personaggi (vv. 170-171) la nutrice può solo sussurrare il nome di Medea, e Medea può finalmente rispondere con un solo verbo riassuntivo del suo destino (Fiam). Io sarò Medea, anzi «la diventerò»; porterò cioè a compimento il mio destino di furore e di cieca vendetta contro ogni logica e contro gli stessi dèi. Così, quasi al termine della tragedia, quando l’ira ha ormai travolto nel suo fuoco inarrestabile la città, poco prima di uccidere i figli, la protagonista può infine esclamare: Medea nunc sum («Ora sono Medea», v. 910). La tragedia si è compiuta.

T 22

Un nefando banchetto

ONLINE

Thyestes 920-1068

COMPITO di REALTÀ • Lettere a Seneca La consegna La classe, dopo la lettura di un numero significativo delle Lettere a Lucilio, redigerà una raccolta di lettere immaginarie a Seneca, in cui mostrerà al filosofo se, come e quanto i suoi insegnamenti siano seguiti nel mondo contemporaneo. Gli strumenti Da un’edizione, anche antologica, delle Lettere a Lucilio, verranno scelte alcune lettere rappresentative su cinque temi: 1. il potere e la clemenza; 2. il tempo e l’ozio; 3. passioni e razionalità; 4. individui e masse; 5. schiavitù e libertà. Utili saranno indicazioni di saggi e/o articoli di filosofi, sociologi, psicologi, in collaborazione con l’insegnante di filosofia. Le fasi operative • Divisione in cinque gruppi, possibilmente assecondando le preferenze tematiche di studenti

e studentesse, privilegiando comunque un certo equilibrio tra i vari gruppi. • Scelta dei materiali da parte di ciascun gruppo: almeno due o tre lettere senecane sull’argomento scelto; fonti informative per la modernità: articoli di quotidiani cartacei e online, testi saggistici, ma anche arti figurative, cinema, musica o altre forme che esprimano la cultura contemporanea. • Redazione delle lettere, concepite come risposta a quelle di Seneca, che ne ricalchino il più possibile il metodo e lo stile: il lavoro potrà essere svolto in parte in presenza in parte online, anche attraverso software di scrittura collaborativa. • Potrebbe essere utile la realizzazione di un breve video, in cui il gruppo illustra il metodo e i risultati del proprio lavoro. • Raccolta delle lettere in un testo complessivo, cartaceo e/o digitale; raccolta dei file video, da condividere eventualmente con altre classi quinte dell’istituto.

AUTOVALUTAZIONE Conoscenza dell’argomento

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di narrazione e di esposizione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di aggregazione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Competenze digitali

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Giudizio complessivo sul progetto

 coerente

 esaustivo

 originale

 adeguato

 non adeguato

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LABORATORIO

Nell’officina di Seneca Magni animi est magna contemnere Epistulae ad Lucilium 39, 4-5

POLIPTOTO OMOTELEUTO ANAFORA

ANTITESI

Magni animi est magna contemnere ac mediocria malle quam nimia; illa enim utilia vitaliaque sunt, at haec eo quod superfluunt nocent. Sic segetem nimia sternit ubertas, sic rami onere franguntur, sic ad maturitatem non pervenit nimia fecunditas. Idem animis quoque evenit quos immoderata felicitas rumpit, qua non tantum in aliorum iniuriam sed etiam in suam utuntur. Qui hostis in quemquam tam contumeliosus fuit quam in quosdam voluptates suae sunt? Quorum inpotentiae atque insanae libidini ob hoc unum possis ignoscere, quod quae fecere patiuntur. Nec inmerito hic illos furor vexat; necesse est enim in immensum exeat cupiditas quae naturalem modum transilit. Ille enim habet suum finem, inania et ex libidine orta sine termino sunt.

I dati

3

Le Epistulae morales ad Lucilium comprendono 124 lettere suddivise in 20 libri. Furono composte tra il 62 e il 65, negli anni in cui Seneca si distacca apertamente da Nerone, ritirandosi a vita privata. In seguito a tale scelta, secondo la testimonianza di Tacito (Annales XIV, 56, 3), Seneca «modificò le abitudini della passata potenza, non volle più affollamento di visitatori, evitò di farsi accompagnare da un seguito, diradò le apparizioni in città»: le Lettere a Lucilio testimoniano dunque il passaggio definitivo alla vita filosofica.

4

5

6

Dentro il testo 1 2

Traduci il passo di Seneca. Costruisci una tabella in cui porre, da un lato i termini di carattere morale, su cui Seneca va a edificare la sua nozione di virtus e di saggezza, dall’altra i termini che invece pertengono alla sfera del vizio e della passione.

7 8

ANTITESI

FORMA ARCAICA E POETICA PER FECERUNT

CONGIUNZIONE DI VALORE AVVERSATIVO

Nel brano ricorrono figure di suono, quali poliptoti, allitterazioni e omoteleuti: ricercale nel testo, individuandone il valore espressivo. Con quali sostantivi (o meglio aggettivi sostantivati) concordano, sempre nella frase d’apertura, i pronomi illa e haec? Possiamo parlare di strutture oppositive? Sono presenti, nel testo, tre similitudini con il mondo naturale, e in specifico vegetale: quali? Conosci altri passi di Seneca in cui l’autore ha fatto ricorso a similitudini naturalistiche? Come spesso nella sua prosa morale, Seneca articola il discorso mediante espressioni di carattere fortemente sentenzioso: scegliendo un esempio adeguato, esponi la funzione che svolgono le sententiae nella sua filosofia. Elabora una sintesi del passo proposto (max tre righe). Consideri importante, in questa lettera, la presenza silenziosa di un lettore-discepolo? In quale misura questa presenza modella lo svolgimento del discorso, così come il suo esito espressivo?

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9

Dell’epistola di Seneca riportiamo la conclusione: Il necessario (Necessaria) ha come sua misura l’utile (utilitas) che reca; ma con quale criterio si può misurare il superfluo (supervacua)? Perciò gli uomini si immergono nelle passioni e, una volta che ne hanno fatto un’abitudine, non possono più farne a meno; e sono veramente infelici, poiché giungono a sentire come necessarie le cose prima superflue. Non godono dei piaceri, ma ne rimangono schiavi e, quella che è la peggiore disgrazia, amano anche il proprio male. Si raggiunge il colmo dell’infelicità quando le cose turpi non solo sono gradite, ma procurano un intimo compiacimento; e non c’è rimedio quando quelli che erano sentiti come vizi diventano abitudine quotidiana. Addio.

Che cosa aggiunge questo brano al discorso? A quale domanda cerca di dare una risposta? Trova un titolo adeguato a questo paragrafo conclusivo.

Oltre il testo 10

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Possiamo ricondurre il pensiero sviluppato da Seneca in questo brano alla dottrina filosofica stoica? Motiva la tua risposta. Fin dalla prima frase del testo, Seneca fonda il suo discorso sull’antitesi fra mediocria e nimia. Un tema ben noto alla poesia e alla filosofia classica, e che ricorre anche in una celebre ode di Orazio (II, 10), di cui riportiamo le prime due strofe: Rectius vives,

12

Licini, neque altum / semper urgendo neque, dum procellas / cautus horrescis, nimium premendo / lituus iniquuum. // Auream quisquis mediocritatem / diligit, tutus caret obsoleti / sordibus tecti, caret invidenda / sobrius aula. Quali analogie intercorrono fra i due testi? A quali metafore ricorre Orazio, diversamente da Seneca, per sviluppare il discorso? Come già si è accennato nella rubrica sulla fortuna di Seneca, Quintiliano, alla fine del secolo, scrisse una pagina molto dura sulla prosa di uno scrittore di cui egli riconosceva l’intelligenza, ma di cui stigmatizzava lo stile. Leggi il seguente giudizio e commentalo alla luce dei testi senecani che conosci, prendendo soprattutto in considerazione i punti sottolineati: In lui vi sono numerosi e brillanti aforismi, molto merita di essere letto per ragioni morali, ma lo stile è generalmente corrotto ed è pericolosissimo perché abbonda di difetti attraenti. Si vorrebbe che si fosse espresso con la sua intelligenza, ma con il gusto di un altro. Se avesse disdegnato alcune cose, se non si fosse appassionato di una forma di espressione corrotta, se non avesse amato tutto quello che era suo, se non avesse spezzato il peso dei concetti in frasette minute, sarebbe apprezzato unanimemente dalle persone colte piuttosto che amato dai ragazzi. (Institutio Oratoria X, 1, 129-130; trad. di C.M. Calcante)

189 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

MAPPA LUCIO ANNEO SENECA (4 A.C. CIRCA – 65 D.C.)

Opere filosofiche

• • • •

dieci Dialogi su temi di filosofia morale De clementia e De beneficiis, trattati etico-politici Naturales quaestiones, trattato filosofico-scientifico Epistulae morales ad Lucilium, lettere di argomento etico-morale

Satira menippea

Apokolokyntosis o Ludus de morte Claudii, prosimetro

Tragedie

• • • • •

nove cothurnatae modelli: Euripide e Sofocle vicende cupe e orride furor contro ratio una praetexta (Octavia) quasi certamente spuria

• •

dalla dottrina stoica i princìpi fondamentali autonomia nell’avvalersi di diverse scuole di pensiero rapporto tra vita attiva e contemplativa e tra intellettuale e potere indagine sull’interiorità e ricerca della vera libertas riflessione sul tempo e sulla morte

Temi e pensiero

• • •

Lingua e stile

• • • • • •

linguaggio intenso e persuasivo, non tecnicistico stile “anticlassico” e “drammatico” andamento paratattico, spezzato, asimmetrico connettivi di tipo analogico-intuitivo uso insistito di metafore, similitudini, figure di suono sententiae concettose, pregnanti e incisive

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Vero / Falso

1 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Lucio Anneo Seneca nacque in una città della Spagna Betica V|F b. La formazione culturale-filosofica di Seneca si concluse ad Atene V|F c. Tra il 33 e il 34 Seneca ricoprì l’incarico di questore V | F d. Per alcuni anni, dopo il 26, Seneca visse nella Spagna Betica V|F e. Nel 39 Seneca fu condannato a morte da Tiberio; la condanna fu poi revocata V|F f. Nel 41 Seneca fu condannato alla relegatio in Corsica per otto anni V|F g. Seneca ricoprì l’incarico di precettore e di consigliere del princeps V|F h. Nel 65, coinvolto nella congiura pisoniana, venne ucciso da sicari dell’imperatore V|F p._____/8

Quesiti a scelta multipla

2

■ dieci cothurnatae ■ nove cothurnatae e una palliata p._____/5

Completamento

3 Attribuisci a ciascuna opera di Seneca indicata la cronologia, il dedicatario, l’argomento. Epistulae morales ad Lucilium a. Cronologia b. Dedicata

c. Argomento De vita beata a. Cronologia b. Dedicata

c. Argomento De clementia a. Cronologia b. Dedicata

c. Argomento

Indica il completamento corretto.

1. Le Naturales quaestiones sono ■ sette lettere a Lucilio su tematiche non filosofiche ■ sette libri su problematiche esistenziali ■ un trattato scientifico ■ un trattato etico-filosofico 2. I due trattati di Seneca di argomento etico-politico sono ■ il De clementia e il De vita beata ■ il De tranquillitate animi e il De beneficiis ■ il De vita beata e il De beneficiis ■ il De clementia e il De beneficiis 3. La prima delle Epistulae ad Lucilium è dedicata ■ all’esortazione alla vita contemplativa ■ al tema del tempo ■ al tema della felicità ■ al valore degli studi e delle letture 4. Delle dieci tragedie pervenuteci sotto il nome di Seneca, l’Octavia ■ è una praetexta spuria ■ è una praetexta attribuita con sicurezza a Seneca ■ è una cothurnata spuria ■ è una cothurnata attribuita con sicurezza a Seneca 5. Il corpus delle opere tragiche di Seneca si compone di ■ una cothurnata e nove praetextae ■ nove cothurnatae e una praetexta

Consolatio ad Helviam matrem a. Cronologia b. Dedicata

c. Argomento p._____/12 Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. La concezione della libertas nel pensiero di Seneca. 2. Argomenti e struttura delle Naturales quaestiones. 3. Apokolokyntosis: significato del titolo. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Vita attiva e vita contemplativa nel pensiero di Seneca. 2. La riflessione senecana sui temi del tempo e della morte. 3. Le principali caratteristiche stilistico-espressive della prosa di Seneca. 191

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Seneca

Verifica finale


5 Il Satyricon di Petronio 1 L’autore e l’opera Chi è l’autore del Satyricon? Da una serie di codici, avventurosamente giunti fino a noi, sono stati tramandati degli estratti di un lungo romanzo in prosa e in versi comunemente intitolato Satyricon e attribuito a un certo Petronio Arbitro. Già i primi editori, in età rinascimentale, ritennero di poter identificare questo Petronio con l’omonimo personaggio di cui parla Tacito in un celebre passo degli Annales: un uomo raffinato ed eccentrico vissuto durante l’età neroniana, dedito a un’esistenza di piaceri squisiti, divenuto elegantiae arbiter all’interno della corte imperiale; uno fra i pochi intimi di Nerone fino a quando, caduto in disgrazia, fu costretto al suicidio durante la congiura pisoniana del 65-66 d.C. Nella descrizione tacitiana la morte di Petronio appare un’evidente parodia del suicidio stoico di Seneca [ cap. 4 Documenti e testimonianze ONLINE]: dopo essersi fatto aprire le vene, non volle ascoltare «opinioni sull’immortalità dell’anima o massime care ai filosofi, ma poesie piacevoli e versi licenziosi (levia carmina et faciles versus)». 192 © Casa Editrice G. Principato


Il Satyricon di Huysmans L’autore che Des Esseintes amava davvero, che gli faceva bandire per sempre dalle sue letture le roboanti tirate di Lucano, era Petronio. Eccolo finalmente un acuto osservatore, un fine analista, un pittore meraviglioso. Tranquillamente, senza partito preso, senza animosità di sorta, Petronio descriveva la vita d’ogni giorno a Roma, fermava nei vivaci corti capitoli del Satyricon i costumi del tempo. Annotando via via i fatti, consegnandoli in una forma definitiva, egli faceva passare sotto gli occhi del lettore la minuta vita del popolo con le sue peripezie, le sue bestialità, le sue foie. (J.-K. Huysmans, Controcorrente, trad. di C. Sbarbaro)

scholasticorum turba

Graeca urbs

per anfractus obscurissimos

lupus factus est

Cena Trimalchionis

stridere strigae coeperunt

Questo Petronio di Tacito sembra coincidere con il T. Petronius Niger, console nel 62, a cui accennano anche Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia (37, 20) e Plutarco nei Moralia (60 d-e). Presumibile datazione e destinazione dell’opera Il Satyricon fu composto presumibilmente dopo il 60, e in particolare negli anni 63-65, dal momento che gli ultimi versi del Bellum civile declamati all’interno del romanzo contengono diverse allusioni al libro X della Pharsalia, che restò interrotto, come sappiamo, proprio nell’anno 65 a causa della morte dell’autore. Non è improbabile che destinatario dell’opera fosse lo stesso entourage di Nerone, prima che l’autore cadesse in disgrazia e fosse costretto al suicidio: lo confermerebbe anche il gusto per gli ambienti sordidi (taverne, bettole, lupanari), che sappiamo condiviso dall’imperatore e dai suoi cortigiani. È anche possibile che il romanzo fosse stato composto per una recitazione pubblica da tenersi all’interno della corte imperiale. 193 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

2 Il Satyricon PROFILO STORICO

Estensione del testo Già soggetto in età tardo-antica a tagli, censure e interpolazioni (per ragioni di natura morale), il Satyricon è giunto gravemente mutilo, mancante sia della parte iniziale sia di quella finale, senza contare le numerose lacune interne alla narrazione. Non sappiamo quanto fosse realmente esteso. Da alcune testimonianze, i frammenti in nostro possesso dovrebbero corrispondere ai libri XIV-XV-XVI dell’opera: se fosse vero, il Satyricon sarebbe stato un testo molto più ampio delle Metamorfosi di Apuleio, che pure è una delle opere più lunghe del mondo antico. Ma è possibile che il romanzo di Petronio facesse parte di una miscellanea contenente diverse storie, come accadeva, ad esempio, nelle satire menippee di Varrone. Ordinamento attuale La parte superstite è stata raccolta dagli studiosi moderni in 141 brevi capitoli, senza alcuna divisione in libri: comprende parti in prosa (dominanti) e brani poetici (in tutto 33, di estensione e di metro diversi). La narrazione è condotta in prima persona da Encolpio, protagonista della vicenda; ma all’interno della storia principale vengono a inserirsi, secondo la tecnica del racconto “ad incastro”, quattro novelle, affidate a voci narranti diverse.

La questione petroniana ▰ Due tesi contrapposte L’identificazione

dell’autore del Satyricon con il Petronio di Tacito è stata a lungo discussa. Due le tesi contrapposte: quella «unionista», che sostiene l’identificazione e assegna perciò l’opera all’età di Nerone; quella «separatista», che nega l’identificazione e sposta la composizione dell’opera a un’età più tarda, che alcuni fanno coincidere con l’età dei Flavi, altri con quella degli Antonini se non addirittura dei Severi.

▰ La tesi separatista Le ragioni dei separatisti, oggi nel complesso poco condivise, partono da una serie di constatazioni: – Tacito non accenna, nel suo ampio e approfondito ritratto di Petronio, all’esistenza di un romanzo (ma va subito detto che fa lo stesso nei ritratti dedicati a Seneca e Lucano, ignorando completamente la loro attività letteraria); – tutte le testimonianze sul Satyricon sono posteriori alla fine del II secolo d.C.; – il tessuto linguistico del Satyricon, ricco di volgarismi e di irregolarità, sembrerebbe a prima vista estraneo all’età di Nerone e più affine alla lingua letteraria del secolo successivo (ma anche in questo caso è stato validamente dimostrato come i caratteri linguistici e stilistici del Satyricon siano già presenti nell’Apokolokyntosis di Seneca, composta nel 54, e nelle iscrizioni pompeiane, tutte anteriori all’eruzione del 79 d.C.). ▰ La tesi unionista A favore dell’identificazione

del Petronio tacitiano con l’autore del Satyricon intervengono invece argomenti di varia natura: testuali, storico-sociali, linguistici, letterari. In particolare: – la coincidenza del cognomen Arbiter, nei codici che hanno trasmesso il romanzo, con l’espressione tacitiana elegantiae arbiter; – l’atmosfera del romanzo, che pare adattarsi perfettamente al ritratto di un uomo bizzarro e raffinato come il Petronio degli Annales; – il richiamo, in alcuni passi (52, 3; 64, 4; 71, 6; 73, 3), ad attori, cantanti e gladiatori assai noti all’epoca di Caligola e di Nerone (mentre non ne appaiono di età successive); – la pertinenza delle discussioni letterarie, sviluppate nel romanzo, al clima culturale dell’età neroniana: esemplare la polemica contro il poema storico (118), seguita da un lungo brano poetico sul tema del Bellum civile, nel quale vi sono echi inequivocabili della Pharsalia di Lucano; – la presenza di un altro squarcio poetico intitolato Troiae halosis («La presa di Troia»), che potrebbe alludere parodisticamente alle ambizioni letterarie di Nerone, autore, secondo la testimonianza di Svetonio (Nero 38) e di Tacito (Annales XV, 39), di un poemetto sul medesimo argomento; – le impressionanti analogie di stile e di linguaggio, come già si è accennato, con l’Apokolokyntosis di Seneca. È dunque ragionevole supporre che l’autore dell’opera sia il Petronio di cui parla Tacito. Nessun elemento di carattere storico o linguistico sembra d’altronde contraddire tale ipotesi.

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PROFILO STORICO

La vicenda Possiamo orientativamente suddividere il lungo frammento narrativo che ci è pervenuto in cinque blocchi. Blocco Contenuti narrativi 1

le avventure di Encolpio, Ascilto e Gítone in una Graeca urbs dell’Italia meridionale (presumibilmente Pozzuoli, ma secondo altri Cuma, Terracina, Napoli o Baia: in ogni caso una città della Campania, prosperosa e brulicante di vita)

2

la Cena Trimalchionis (l’episodio più compatto e unitario)

3

nuove avventure nella Graeca urbs, durante le quali Encolpio fa la conoscenza del poeta Eumolpo, mentre Ascilto scompare completamente dalla scena

4

l’episodio sulla nave di Lica e Trifena (con scene di travestimento, agnizione, tempesta, naufragio)

5

l’arrivo a Crotone

Da vari accenni sparsi lungo il testo, possiamo anche tentare di ricostruire, almeno in parte, le vicende smarrite (che chiameremo «antecedente perduto»). Antecedente perduto Encolpio, uno studente squattrinato di buona cultura, narratore e protagonista del romanzo, appare perseguitato dall’ira di Priàpo (dio della fecondità e del sesso), di cui ha profanato i misteri o divulgato un segreto durante una permanenza a Marsiglia. Fuggito in Italia, viene incriminato forse per una rapina in un tempio e condannato all’arena (ad bestias). Sfuggito al carcere grazie a un terremoto o al crollo dell’anfiteatro nel quale doveva combattere, si dirige verso sud assieme al fanciullo Gitone, di cui si è invaghito, e che diventa il suo amasio. I due vivono un’avventura erotica con Trifena, una cortigiana impetuosa e possessiva, e con Lica, un trafficante di schiavi che comanda una nave. Di nuovo soli, Encolpio e Gitone fanno la conoscenza di Ascilto, un avventuriero senza scrupoli che diventa immediatamente rivale in amore di Encolpio, insidiando il bellissimo e contesissimo fanciullo. I tre, insieme, arrecano disturbo alle cerimonie in onore di Priapo officiate dalla sacerdotessa Quartilla. Fin qui la probabile ricostruzione degli episodi che precedono la narrazione superstite. Inizia il lungo frammento pervenuto. Primo blocco I nostri tre eroi sono da poco giunti in una città della Campania. Encolpio frequenta la scuola del retore Agamennone, con il quale ha una disputa sulle cause della decadenza dell’oratoria [ T1]. A causa della rivalità in amore

Satyricon: che cosa significa questo titolo?

titolo tradizionale Satyricon non è altro che il genitivo plurale neutro retto da libri (come Georgicon libri).

▰ «Storie di satiri» Il titolo dell’opera doveva essere

▰ «Racconti satirici» Satyrica era peraltro sentito dal lettore romano come un termine ambiguo, che richiamava, accanto al mondo dei satiri, anche il vocabolo latino satura. Il titolo allora finirebbe per significare «Racconti satirici» e non soltanto «Racconti di satiri», mescolando temi licenziosi e piccanti a temi di satira sociale e letteraria. In effetti il Satyricon si presenta come una forma narrativa aperta, caratterizzata dall’intersecarsi di una pluralità di generi e di modelli.

con molta probabilità Satyrica, una parola composta da due grecismi: satyri più il suffisso di derivazione greca -icus (-ikós), sul modello di numerosi altri titoli della storia letteraria romana (ad esempio Georgica o Bucolica). Il titolo, letteralmente, significava dunque «storie di satiri», nel senso di «racconti di argomento osceno e licenzioso»: i satiri erano infatti caratterizzati, nel mito classico, da una sfrenata esuberanza erotica. Il

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

PROFILO STORICO

che li oppone, Encolpio e Ascilto decidono di separarsi entro tre giorni. Recatisi al mercato per vendere un mantello rubato, hanno la ventura di recuperare una tunica piena di monete d’oro di cui avevano a loro volta subito il furto. Felici tornano alla locanda, dove li sorprende la sacerdotessa Quartilla, che li obbliga per tre interminabili giorni a un’estenuante kermesse sessuale. Secondo blocco Sfuggiti all’inesauribile Quartilla, i tre si recano a una cena nella casa di Trimalchione, un liberto ricchissimo che fa il suo ingresso in portantina, ostentando un lusso pretenzioso e volgare [ T2]. L’episodio si svolge con un sottofondo di voci, di suoni, di canti sguaiati e di litigi, tra il chiacchiericcio prolungato dei numerosi ospiti, alcuni abituali (di origine servile), altri (come i nostri eroi) d’eccezione. Lusingato dalla presenza dei letterati, Trimalchione dà inizio a una straordinaria performance, monopolizzando l’attenzione generale: filosofeggia, recita versi, racconta storie raccapriccianti [ T3], rievoca il suo passato di schiavo, enumera le sue ricchezze, costringe gli ospiti a far la prova generale del suo funerale, cade schiantato dal vino. Richiamati dal chiasso, intervengono i pompieri, che temevano un incendio. Nella confusione, Encolpio e Ascilto, scortati da Gitone, riescono finalmente a guadagnare l’uscita.

Affresco raffigurante un paesaggio portuale, 70 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Terzo blocco Sfuggiti al dispotico padrone di casa, Encolpio e Ascilto si affrontano a causa del solito Gitone: invitato a scegliere tra i due, il ragazzo indica beffardamente Ascilto. Affranto dal dolore, Encolpio entra in una pinacoteca, dove fa la conoscenza di Eumolpo, un vecchio poeta di scarse fortune che per consolarlo gli racconta la novella del fanciullo di Pergamo. Finito il racconto i due iniziano a discutere sulle cause della decadenza dell’arte, che Eumolpo attribuisce all’avidità di denaro e al crollo dei valori morali. Poi, prendendo a spunto il soggetto di un quadro, il vecchio poeta improvvisa un poemetto in trimetri giambici sulla presa di Troia (Troiae halosis), ma viene interrotto dalle sassate dei presenti che lo costringono a fuggire. Dopo una serie di concitate avventure, Encolpio ritrova Gitone: geloso di Ascilto, decide di partire con Eumolpo su una nave, abbandonando la città. Quarto blocco Quando già la nave è salpata, Encolpio e Gitone si accorgono di essere capitati sul mercantile di Lica e di Trifena, che durante la notte hanno un sogno premonitore: Encolpio e Gitone si trovano sulla nave. Nonostante il travestimento, i due vengono riconosciuti e minacciati di terribili punizioni. La contesa degenera in una grottesca battaglia, finché il pilota della nave ottiene che sia proclamata una tregua d’armi. Eumolpo riesce così a placare gli animi e ad imporre un trattato di pace in piena regola. Segue un allegro banchetto di riconciliazione generale, durante il quale Eumolpo racconta la novella della matrona di Efeso [ T4]. Una violenta tempesta fa naufragare la nave: Lica muore durante il naufragio; Encolpio, Gitone ed Eumolpo riescono fortunosamente a toccar terra.

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PROFILO STORICO

Quinto blocco Un contadino, da un’altura, indica loro Crotone, informandoli sugli strani costumi della città: la popolazione si divide in cacciatori di eredità e uomini straricchi ma privi di eredi, e perciò tenuti in sommo onore [ T5]. Eumolpo ha l’idea di fingersi anch’egli un ricco possidente; Encolpio e Gitone saranno i suoi schiavi. Sulla strada di Crotone, Eumolpo tiene una lezione sul poema epico [ T6 ONLINE], cui fa seguire un brano poetico sulla guerra combattuta tra Cesare e Pompeo (Bellum civile). In città seguono nuove avventure, che sembrano favorire il progetto di Eumolpo. Encolpio, di nuovo perseguitato dal dio Priapo, non riesce a soddisfare le voglie di una matrona chiamata Circe. Infuriata, la donna ordina ai servi di frustarlo. Il giovane recupera finalmente la sua virilità grazie all’intervento di Mercurio. Temendo di essere smascherato, Eumolpo detta un testamento in base al quale entreranno in possesso delle sue fortune (in realtà inesistenti) coloro che si saranno nutriti del suo cadavere. L’ultimo capitolo che possediamo si chiude con il discorso di un crotoniate favorevole ad accettare la sconcertante clausola testamentaria [ T8].

Guida allo studio

1.

Qual è l’estensione della parte superstite del Satyricon? Come è stata ordinata dagli studiosi? Qual è il significato del titolo tradizionale? 2. Dopo aver riassunto il contenuto del cosiddetto «antecedente perduto», esponi la vicenda narrata nel frammento pervenuto, rispettando la suddivisione in cinque blocchi.

3. Traccia un breve profilo dei personaggi principali. Chi è il protagonista del romanzo? A chi appartiene la voce narrante? 4. Qual è la sequenza narrativa più ampia del Satyricon? Come s’intitola per tradizione? Chi ne è il protagonista?

3 Il problema del genere e i modelli A quale genere letterario appartiene l’opera di Petronio? E a quali modelli si richiama? Già nell’antichità il problema era aperto: Macrobio collocava il Satyricon tra le opere narrative di puro intrattenimento; Giovanni Lido, uno scrittore bizantino del VI secolo, tra quelle satiriche, accanto a Giovenale. Gli studiosi moderni hanno spesso esitato, constatando nell’opera di Petronio la presenza di elementi del romanzo antico, della fabula Milesia, del mimo, della satira menippea, della satura latina. Il problema non è affatto secondario: dalla risposta dipende per buona parte l’interpretazione critica del testo. Caratteri del romanzo greco Il romanzo greco presentava una vicenda di carattere erotico-avventuroso centrata su una coppia di innamorati (fidanzati o sposi), giovani, belli, di alto lignaggio, moralmente virtuosi, reciprocamente fedeli a dispetto di ogni avversità. Le vicende prendevano invariabilmente le mosse da una situazione iniziale obbligata: la separazione dei due amanti-protagonisti, dovuta a ostacoli di vario genere, spesso alla presenza di pericolosi rivali. Le peripezie successive comprendevano dei topoi avventurosi che resisteranno nei secoli fino alla più recente letteratura di consumo: peregrinazioni, travestimenti, scambi di 197 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

PROFILO STORICO

persona, agnizioni, intrighi di rivali, persecuzioni, finte morti, tentativi di suicidio, sogni premonitori, viaggi in luoghi esotici e remoti, naufragi, tempeste, castità insidiate, fughe miracolose, sino all’inevitabile conclusione lieta con i due innamorati che possono finalmente riabbracciarsi, e questa volta per sempre. Il registro dominante era quello sentimentale e patetico; l’amore era idealizzato e virtuoso; l’eroina riusciva sempre a difendere la propria verginità contro ogni insidia. I fatti si svolgevano in scenari più o meno improbabili, poveri di riferimenti all’attualità contemporanea. Non mancavano naturalmente varianti ed eccezioni, ma era proprio la fissità delle vicende e delle situazioni, ricche di complicazioni e di colpi di scena, a costituire il segreto del successo: il lettore voleva essere sorpreso da storie incredibili ma nello stesso tempo ritrovare personaggi sempre identici e soluzioni rassicuranti. Rapporti del Satyricon con il romanzo greco Anche nel Satyricon i protagonisti vivono situazioni avventurose molto simili a quelle del romanzo greco (tempeste, naufragi, riconoscimenti, travestimenti, fughe, persecuzioni di nemici) su un registro patetico e melodrammatico (lamenti declamatorii, tentativi di suicidio, sfoghi epistolari), nell’ambito di un medesimo gusto narrativo centrato sul singolo episodio. Ma si tratta di un ribaltamento ironico e parodistico della materia romanzesca, operato fin dalla situazione-base: i protagonisti del Satyricon (Encolpio e Gitone) sono sì una coppia di innamorati, ma omosessuale; non virtuosi e fedeli ma viziosi, corrotti, pronti ad ogni avventura. Ascilto ed Eumolpo sono l’antitesi dell’amico leale che in genere accompagna i protagonisti del romanzo greco d’a-

Il genere LETTERARIO Il romanzo antico

▰ Le opere sopravvissute Per questo motivo,

▰ Il termine «romanzo» è un anacronismo Come si sa, i termini novella e romanzo non trovano corrispondenti nel mondo classico. Opere come il Satyricon, in Roma, venivano variamente definite con termini generici come fabula, e non trovavano una precisa collocazione all’interno del sistema dei generi.

▰ Il romanzo antico compare in epoca ellenistica La stessa genesi del romanzo antico non è chiara: sicuramente ignoto in età classica, compare solo in epoca ellenistica, probabilmente sulla scia della nuova storiografia di indirizzo avventuroso e di tono patetico successiva alla morte di Alessandro Magno.

▰ Letteratura di intrattenimento e di evasione Disertati dalla letteratura ufficiale, ignorati dai retori e dai critici letterari, i testi narrativi si rivolgono a un pubblico di cultura non elevata e di gusti facili, imponendosi come letteratura di puro intrattenimento e di evasione.

di una produzione sicuramente vastissima, sono sopravvissute solo poche opere: due in lingua latina (il Satyricon di Petronio e le Metamorfosi di Apuleio), cinque in lingua greca: Chérea e Callìroe di Caritone (composta fra il I secolo a.C. e la prima metà del II d.C.); Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio (II secolo d.C.); Dafni e Cloe di Longo Sofista (il testo più celebre, scritto nel II secolo d.C.); Abrocóme e Anzia (intitolato anche Storie efesiache) di Senofonte Efesio (probabilmente del II secolo d.C.); Teàgene e Cariclèa (o Etiopiche) di Eliodoro (presumibilmente del III-IV secolo d.C.).

▰ Dove leggere i romanzi greci antichi Tutti i titoli sopra citati si trovano tradotti nel volume Il Romanzo antico greco e latino, a cura di Q. Cataudella, Sansoni, Milano 1993. Dafni e Cloe di Longo Sofista è stato pubblicato in un’ottima edizione, con ricca introduzione e ampio commento a cura di M.P. Pattoni, Rizzoli BUR, Milano 2005.

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PROFILO STORICO

more, come dimostrano le continue insidie ordite nei confronti di Gitone. Sembra esclusa la possibilità di una conclusione felice: lo schema del romanzo è rigorosamente e implacabilmente fondato sulla rovina di ogni progetto. Una parodia del romanzo greco Il Satyricon si presenta dunque come una parodia del romanzo greco, una sorta di antiromanzo irridente e disincantato che capovolge le situazioni topiche dei suoi modelli, capovolgendone anche la sostanza ideologica: l’idealizzazione sentimentale dell’amore è sostituita dall’irrompere di desideri esclusivamente materiali (riconducibili alla triade sesso, cibo, denaro); le situazioni non sono serie ma comiche e umoristiche; viene accentuato, rispetto alla vaghezza dei luoghi e degli ambienti del romanzo greco, l’elemento realistico. Un’«Odissea comica» Già nell’Ottocento uno studioso tedesco, Elimar Klebs, interpretava il Satyricon come un’«Odissea comica», vale a dire una parodia dell’Odissea omerica: al pari di Odisseo, perseguitato dall’ira di Poseidone, il povero Encolpio è perseguitato dal dio Priapo, che lo costringe a un interminabile tour de force erotico con Quartilla (capp. 16-26), rivela in sogno a Lica la sua presenza sulla nave (cap. 104) e addirittura lo priva della potenza virile nell’episodio della matrona crotoniate dal nome, che è tutto un programma, di Circe (capp. 126139). La suggestiva interpretazione trova conferme anche sul microtesto: Gitone, ad esempio, si nasconde sotto il letto «come un tempo Ulisse si era attaccato sotto il ventre del montone di Polifemo» (97, 4); quando lo stesso Gitone viene intrappolato nella nave di Lica assieme ad Encolpio, Eumolpo osserva: «Fate conto di essere entrati nell’antro del Ciclope» (101, 7); poco più avanti lo stesso Encolpio, riconosciuto non dal volto ma dalle sue parti virili, osserva: «Andatevi adesso a meravigliare che la nutrice di Ulisse abbia riconosciuto dopo vent’anni la cicatrice che denunziava il suo padrone» (105, 10). La tecnica è sempre la stessa: l’abbassamento comico del mito. Ma questo non significa, come pensava Klebs, che tutto il Satyricon sia da intendersi come una parodia dell’Odissea: il motivo dell’ira di Priapo resta il filo conduttore della vicenda, che tuttavia cresce liberamente intorno ad altri nuclei sia epici sia romanzeschi. La fabula Milesia Ancor più del romanzo greco, da almeno un secolo nel mondo latino era diffusa la fabula Milesia, un popolarissimo genere narrativo che doveva il nome ai Milesiakà («Storie di Mileto») di Aristíde di Mileto, composti nel II secolo a.C. e tradotti in Roma dallo storico Sisenna. Si trattava di novelle di argomento per lo più erotico e piccante, narrate (data la materia) con maggior realismo rispetto alle vicende sentimentali e idealizzate del romanzo greco. Petronio si richiama direttamente a questo genere, che dimostra di conoscere benissimo, facendo raccontare ad Eumolpo proprio due novelle milesie, quella del fanciullo di Pergamo (85 sgg.) e quella della matrona di Efeso [ T4]. Affinità con il mimo Il materiale narrativo delle milesie si era del resto diffuso da tempo anche nel mimo latino, dove situazioni scabrose e piccanti venivano ambientate con effetti di realismo e di comicità negli strati più bassi della popolazione romana. Alla milesia e al mimo Petronio deve sicuramente la predilezione per gli aspetti più triviali della realtà sociale, rappresentati tuttavia con il lucido distacco e la superiore sapienza registica che caratterizzano tutto il Satyricon. 199 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

PROFILO STORICO

Rapporti con la satira I legami con la letteratura satirica, nel romanzo di Petronio, appaiono evidenti fin dal titolo, e vanno indagati sia nella direzione della satira menippea sia della satira esametrica. Il lungo episodio della Cena Trimalchionis, ad esempio, si richiama in parte alla Cena Nasidieni di Orazio (Satire II, 8). Alla satira appartengono l’incisiva caratterizzazione delle figure dei convitati, il realismo mimetico dell’osservazione, il tono arguto e spregiudicato del narratore, tutti elementi che concorrono a delineare un vivido affresco del mondo contemporaneo. Ma va anche sottolineata una profonda differenza: lo scrittore satirico romano è innanzitutto un moralista che vuole denunciare il vizio e trasmettere valori positivi ed esemplari su un registro di tollerante bonomia (Orazio) o di acerba indignatio (Giovenale), mentre la rappresentazione di Petronio non ha fini morali e non tocca mai le corde della protesta o dell’invettiva; il suo sguardo ha l’aristocratico, lucidissimo «realismo del distacco» (Canali). Rapporti con la satira menippea Ancora più stretti sono i rapporti con la satira menippea, alla quale il Satyricon deve per prima cosa la sua forma prosimetrica (prosa mista a versi), la varietà dei registri stilistici (dal più basso al più elevato), il gusto per la parodia e per il pastiche, la fusione di elementi realistici e fantastici. I profondi legami linguistici e stilistici con l’Apokolokyntosis di Seneca confermano che la satira menippea è probabilmente il genere a cui più si avvicina il romanzo di Petronio.

Guida allo studio

1.

A quale genere letterario appartiene il Satyricon? Per quali ragioni si ritiene che il genere cui maggiormente si avvicina sia la satira menippea? 2. Esponi i caratteri fondamentali del romanzo e della novella nel mondo antico. Quale posto occupavano questi generi narrativi

entro il sistema letterario? Quali rapporti intrattiene il Satyricon con il romanzo ellenistico e con la fabula Milesia? 3. Per quali ragioni il Satyricon è stato interpretato come un’«Odissea comica»? 4. Evidenzia analogie e differenze tra il romanzo di Petronio e la satira esametrica.

4 Struttura del romanzo e strategie narrative Il Satyricon si presenta come un’opera letterariamente complessa, indirizzata non al pubblico ingenuo dei romanzi d’amore e delle milesie, ma a un pubblico colto capace di apprezzare l’uso spregiudicato e parodico dei materiali narrativi, la qualità delle allusioni intertestuali, la commistione dei registri e degli stili. Il viaggio e il labirinto Intorno al motivo del viaggio si era modellata gran parte della narrativa antica, a cominciare dal sublime archetipo dell’Odissea. Anche nel Satyricon i personaggi si spostano in continuazione, gli scenari cambiano (Marsiglia, poi una città ligure o tirrenica, la Graeca urbs dove ha inizio il frammento superstite, infine Crotone), variano i luoghi delle singole avventure (un portico dove si tiene lezione, il mercato, un’infima locanda, un convito, la stiva di una nave ecc.). Ma il motivo del viaggio, nel romanzo di Petronio, assume la forma di un affannoso vagare labirintico entro luoghi disseminati di trappole e di insidie alla ricerca 200 © Casa Editrice G. Principato


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di una via d’uscita. Una lettura attenta del Satyricon dimostra che sullo schema del labirinto sono modellati tutti gli episodi del romanzo, compreso quello della Cena, durante la quale gli invitati sono di continuo ingannati nelle loro aspettative, sorpresi dall’ambiguità depistante delle portate e dai trabocchetti verbali di Trimalchione [ T2], ostacolati infine negli affannosi tentativi di fuga, mentre l’atmosfera dell’interminabile banchetto si fa sempre più densa e opprimente, assumendo la consistenza onirica di un incubo. Ma anche fuori di lì, la città greca dove si aggirano i protagonisti appare come un labirinto dov’è facile perdersi e restare intrappolati in balìa di indesiderate avventure. Lo stesso tentativo di Encolpio di disfarsi dei suoi rivali in amore è destinato ogni volta a fallire: a Trifena (nell’antecedente perduto), seguono Ascilto, Eumolpo e di nuovo Trifena. Alla frenesia del vagare sembra corrispondere, per antitesi, la fissità della situazione-base, quella di un triangolo amoroso che si riproduce immancabilmente, avventura dopo avventura. Il viaggio di Encolpio è dunque un viaggio a vuoto, un peregrinare confuso nel corso del quale si ritorna sempre al punto di partenza. Caricandosi di un preciso significato simbolico, il motivo del labirinto definisce lo stato di precarietà, di incertezza e di sradicamento dei personaggi, sballottati caoticamente nel viaggio della vita senza alcun punto di riferimento sociale o morale.

Affreesco raffigurante una scena di banchetto romano, I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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5. Il Satyricon di Petronio

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Narratore e autore Ci chiediamo chi sia il regista di questa narrazione solo apparentemente caotica e disordinata, in realtà regolata come un perfetto congegno meccanico entro il quale ogni personaggio viene sospinto verso impreveduti trabocchetti che scattano con implacabile regolarità. Non certo il povero narratore (Encolpio), che è anzi la vittima designata del proprio stesso racconto, costretto ogni volta a constatare il fallimento disastroso dei suoi progetti. Dietro Encolpio si cela l’autore (Petronio), che monta all’insaputa – e quasi sempre ai danni – del personaggio (figura ironicamente degradata, indifesa contro gli eventi) la complicata macchina del romanzo. Scarto ironico: confronto con i modelli eroici Lo scacco del protagonista-narratore viene enfatizzato mediante un procedimento ricorrente, tanto semplice quanto efficace: il confronto a distanza tra gli avvenimenti del romanzo e i grandi modelli eroici del mondo letterario. Questo confronto, va osservato, non è esterno al racconto, perché è Encolpio stesso, il narratore-letterato, a raccontare (e a commentare) le vicende con la mentalità e il linguaggio di uno scholasticus. Lo scarto ironico tra il piano dell’autore (che è anche quello del lettore) e il piano del narratore (perennemente disilluso e sconfitto), è avvertibile proprio in quanto Encolpio vive la realtà meschina e triviale del mondo circostante commisurandola continuamente ai modelli tragici ed epici dei suoi libri prediletti. Il mondo del Satyricon Intorno ad Encolpio si muovono personaggi sordidi e viziosi: studenti scapestrati, poeti affamati, avventurieri senza scrupoli, truffatori di ogni genere, parvenus volgari come Trimalchione e i suoi amici liberti, matrone libidinose, serve scaltre, sacerdotesse corrotte, amasii pronti a tutto (come il bellissimo e capriccioso Gitone). E questi personaggi si aggirano nei luoghi ca-

Mosaico con la raffigurazione del labirinto e al centro Teseo che uccide il Minotauro, IV secolo d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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nonici della vita romana, quelli che si ritrovano anche negli epigrammi satirici di Marziale: arene, scuole di retorica, pinacoteche, piazze di mercato, postriboli, templi, sordidi vicoli, squallide locande di ventura, conviti. Problemi sociali dell’epoca Lo sguardo di Petronio è sempre lucido e affilato, e non manca di toccare i grandi problemi sociali del suo tempo: la crisi dell’agricoltura (causata dall’avanzare del latifondo), le carestie (attribuite agli edili disonesti), il sovraffollamento delle città, l’emergere di ceti sociali nuovi (i potentissimi liberti) a danno dell’antica classe dirigente aristocratica e senatoria, la corruzione sociale e morale dell’impero. Pluralità delle voci e realismo della narrazione Risulta tuttavia difficile stabilire quale sia l’atteggiamento dell’autore nei confronti di questa formicolante materia: non certo quello di uno scrittore satirico che voglia denunciare o giudicare dall’alto di una superiore visione morale. Petronio non prende mai posizione in merito agli avvenimenti, abbandonando ogni eventuale giudizio alla pluralità

Leggere un TESTO CRITICO Soggettivismo e obiettività: un’illusione di vita concreta nello «specchio doppio» della narrazione Erich Auerbach è l’autore di Mimesis, un’opera sotto ogni aspetto eccezionale, che per campioni testuali traccia una storia della letteratura occidentale da Omero a Virginia Woolf, incentrata sui diversi modi di rappresentazione della realtà. Il secondo capitolo

(Fortunata), dedicato a uno squarcio della Cena Trimalchionis, mette in luce il particolarissimo realismo petroniano: un potente effetto di oggettività che scaturisce dalla soggettività più estrema.

Quella che ci viene presentata non è la cerchia di Trimalchione come realtà obiettiva, ma invece come immagine soggettiva, quale si forma nel capo di quel vicino di tavola, che però di quella cerchia fa parte. Petronio non dice: – È così; – lascia invece che un soggetto, il quale non coincide né con lui né col finto narratore Encolpio, proietti il suo sguardo sulla tavolata, un procedimento assai artificioso, un espediente di prospettiva, una specie di specchio doppio che nell’antica letteratura conservataci costituisce non oserei dire un unicum, ma tuttavia un caso rarissimo. [...] Qui si tratta del soggettivismo più spinto, che viene maggiormente accentuato dal linguaggio individuale da una parte, e per intenzione d’obiettività dall’altra, dato che l’intenzione mira, per mezzo del procedimento soggettivo, alla descrizione obiettiva dei commensali, compreso colui che parla. Il procedimento conduce a un’illusione di vita più sensibile e concreta, in quanto, descrivendo il vicino di tavola la compagnia a cui egli stesso appartiene, il punto di vista vien portato dentro all’immagine, e questa ne guadagna in profondità così da sembrare che da uno dei suoi luoghi esca la luce da cui è illuminata. (E. Auerbach, Fortunata, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, I, Einaudi, Torino 1984, pp. 32-33)

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5. Il Satyricon di Petronio

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e alla varietà delle voci che animano il romanzo. I personaggi sono caratterizzati dall’interno, per mezzo delle loro parole e dei loro comportamenti: il dialogo fissa la loro cultura, l’educazione, l’indole, gli stati d’animo, dunque anche i giudizi che essi esprimono nei confronti della realtà circostante. Manca in ogni caso un personaggio che detenga una visione globale, positiva e coerente, dei fatti, o che possa essere considerato portavoce dell’autore. Come ha osservato Auerbach, la dispersione delle prospettive e la dimensione esclusivamente soggettiva delle singole esperienze conferisce paradossalmente forza realistica alla narrazione, trasmette cioè al lettore la sensazione di assistere in presa diretta, e senza deformazioni moralistiche, alla rappresentazione obiettiva e concreta di un mondo e di una società.

Coppa d’argento rinvenuta a Boscoreale con figure di scheletri, a monito della brevità della vita, I secolo d.C. Parigi, Musée du Louvre.

La figura di Trimalchione È del resto noto come gran parte del fascino del Satyricon risieda nella capacità di cogliere la natura ambigua e contraddittoria degli eventi, l’insensatezza a volte ridicola e mostruosa dei comportamenti umani. La figura di Trimalchione ne è l’esempio più felice: nella medesima sequenza può citare Seneca (et servi homines sunt), dettare un’epigrafe funebre dove proclama orgogliosamente di non aver mai ascoltato un filosofo (nec unquam philosophum audivit), maltrattare impunemente i servi per una leggerezza. Eppure il personaggio sfugge a una definizione univoca: miscuglio di istrionismo accattivante e di ridicole stramberie, di sordidezze plebee e di istintiva vitalità, rex convivii dispotico ed eccentrico, Trimalchione monopolizza la scena soggiogando i malcapitati ospiti al pari dei lettori. Petronio non si limita a farne una

Ambiguità prospettica del Satyricon: le discussioni letterarie ▰ La disputa sulla decadenza dell’oratoria Significativi, nell’ambiguo dipanarsi delle sequenze narrative del romanzo, sono gli episodi che si svolgono nella scuola di retorica (1-4 [ T1]) e nella pinacoteca (83). Nel primo, il retore Agamennone e lo studente Encolpio disputano sulle ragioni che hanno causato la decadenza dell’oratoria: le singole argomentazioni sembrano annullarsi vicendevolmente, inghiottite nell’imbuto imprevedibile del romanzo, senza che una di esse prevalga sull’altra o beneficii, almeno apparentemente, della simpatia dell’autore.

▰ Il Bellum civile e la polemica antilucanea Ancor più enigmatico è il lungo brano poetico noto come

Bellum civile e recitato, sulla via di Crotone, da Eumolpo. Il vecchio poeta ha appena sostenuto la necessità dell’apparato mitologico nel tessuto del poema epico [ T6 ONLINE]: i suoi princìpi sembrerebbero dunque in polemica con quelli che presiedono alla composizione del Bellum civile di Lucano, tanto più che l’esemplificazione si propone di affrontare il medesimo soggetto. I quasi trecento versi del Bellum civile recitati da Eumolpo contengono tuttavia, accanto a moduli virgiliani, anche echi della poesia lucanea. Ci troveremmo dunque dinanzi a un esempio della raffinata ironia che l’autore esercita nei confronti dei suoi personaggi: Eumolpo parla da tradizionalista (è a favore dell’epos virgiliano) ma di fatto subisce l’influsso della nuova scuola. La contaminazione non pregiudica d’altronde la polemica antilucanea, che appartiene nella narrazione ad Eumolpo e potrebbe (come non potrebbe) appartenere all’autore.

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grottesca caricatura: è sordido e grossolano, ma anche patetico, gioviale, teatrale, persino arguto. Ama la vita ma è anche ossessionato dal pensiero della morte, che esorcizza in tutti i modi (lo scheletro d’argento [ T2], il monumento funebre, l’epigrafe, il testamento, le finte esequie). Sarebbe facile, come è stato fatto, interpretare Trimalchione come una caricatura di Nerone o come il rovescio del sapiens stoico: ma Petronio non è un moralista, e lascia che siano i fatti, nella loro tumultuosa vitalità, a prevalere sui giudizi e sulle sentenze.

Guida allo studio

1.

Nel Satyricon il motivo del viaggio si risolve, a ben guardare, in una serie di variazioni sullo schema del labirinto. Sviluppa il tema mediante un’opportuna scelta di esempi.

2. Perché la figura di Trimalchione si presta più di ogni altra a dimostrare l’ambiguità della rappresentazione nel romanzo di Petronio?

5 Realismo mimetico ed effetti di pluristilismo Pluristilismo Straordinaria composizione a più voci, il Satyricon è una delle rare opere del mondo antico che accolgano un’esigenza di scrittura pluristilistica. Anche nella palliata plautina e nella satira di Lucilio e di Orazio affluiva una larga corrente di sermo cotidianus, ma stilizzata entro un codice letterario convenzionalmente definito, di cui si conoscevano e si rispettavano i limiti. Nel Satyricon, invece, e nell’episodio della Cena in particolare, la materia linguistica penetra con irruenza e con libertà, dando luogo a un risultato espressivo assolutamente unico. Realismo mimetico Nel Satyricon ogni personaggio viene individuato e caratterizzato dal linguaggio che usa: parliamo per questo di «realismo mimetico» o di «mimesi dello stile». In generale possiamo distinguere due categorie di personaggi: quelli colti, che fanno uso di un latino semplice ma elegante, improntato a un idea­le di urbanitas, aperto (come già Cicerone delle Lettere, Catullo o Orazio satirico) alle forme del sermo familiaris e colloquiale (il narratore Encolpio, Ascilto, Gitone, il retore Agamennone, il poeta Eumolpo); quelli incolti, che si esprimono invece in un latino fortemente espressivo, paratattico, popolaresco, ricco di volgarismi e di forme idiomatiche, di irregolarità fonetiche, morfologiche e sintattiche tipiche del sermo plebeius o rusticus (i liberti che partecipano alla Cena). Effetti di contrasto Fra queste due fasce, occupa una sorta di posizione intermedia Trimalchione, che ora appare teso nello sforzo di impiegare un linguaggio elevato e pretenzioso, ora improvvisamente ricade nel linguaggio plebeo e volgare della classe sociale cui appartiene. Va ricordato che la cena immortalata da Petronio assume un carattere speciale agli occhi di Trimalchione, parvenu ricchissimo ma privo di prestigio intellettuale, grazie alla presenza del retore Agamennone e di due suoi studenti appena giunti da Marsiglia. L’apparizione di Trimalchione all’inizio del banchetto e la scena finale, durante la finta cerimonia funebre, sono perciò caratterizzate da due diversi livelli linguistici. All’inizio [ T2] Trimalchione vuole far colpo, sfoggiare un linguaggio scelto: «Amici», inquit «nondum mihi suave erat in triclinium venire, sed ne diutius absentivos 205 © Casa Editrice G. Principato


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5. Il Satyricon di Petronio

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morae vobis essem, omnem voluptatem mihi negavi. Permittitis tamen finiri lusum» («Cari amici, disse, non avevo ancora nessuna voglia di venire nel triclinio, ma, per non farvi più struggere dal desiderio della mia presenza, mi sono sacrificato per voi. Permettetemi tuttavia di finire questa partita»). A parte l’inopportunità grossolana dei concetti, «la frase è abbastanza ricercata nel suo impianto; noteremo alicui suave esse, il doppio dativo morae alicui esse e l’astratto voluptas. Ma troviamo a contatto i volgarismi absentivos (morfologico) e permittitis (sintattico: presente al posto del futuro)» (Dell’Era). L’effetto di contrasto determina il ridicolo del personaggio, che cerca inutilmente di darsi un tono, finché, negli ultimi capitoli della Cena, completamente ubriaco, non perde ogni ritegno linguistico e si abbandona al linguaggio dei suoi commensali abituali. Gli effetti di contrasto, in personaggi come Nicerote o Trimalchione, sono involontari e a spese dei personaggi; al contrario, in personaggi “alti” come Encolpio o Eumolpo, sono frutto della loro intenzionale volontà di “abbassarsi” al livello dei destinatari. Il latino di Encolpio, ad esempio, che appare elegantemente regolato secondo i canoni del linguaggio più urbano, come del resto si conviene a uno scholasticus quale egli è, presenta irregolarità e impurità solo durante la conversazione della Cena Trimalchionis: il mimetismo linguistico di Petronio non dipende dunque solo dalla cultura e dal ruolo sociale del personaggio, ma anche dal contesto nel quale si trova ad agire.

Guida allo studio

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

1.

Illustra gli aspetti linguistici e stilistici del Satyricon, spiegando il significato dei seguenti termini: pluristilismo; realismo mimetico; urbanitas; sermo familiaris,

plebeius, rusticus. 2. Si può affermare che l’autore ricerchi effetti di contrasto? Sapresti fare qualche esempio?

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Ritratto di Petronio (Tacito) • Il Satyricon di Des Esseintes (Huysmans) BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Edizioni Fra le numerose traduzioni del Satyricon la migliore continua ad essere quella curata da U. Dettore (Rizzoli, BUR, Milano 1986). Per lo stesso editore si segnala l’edizione a cura di A. Aragosti, prefazione di L. Canali, Milano 1995. � Studi Sul genere e i modelli dell’opera: P. Fedeli, Il romanzo, in AA.VV., Lo spazio lette-

rario di Roma antica, I, Salerno editore, Roma 1989, pp. 343373. Sulle strutture narrative dell’opera e sul personaggio del narratore: M. Barchiesi, L’orologio di Trimalchione, in I moderni alla ricerca di Enea, Bulzoni, Roma 1981, pp. 109146; G.B. Conte, L’autore nascosto. Un’interpretazione del «Satyricon», Scuola Normale Superiore, Pisa 2007. Sul materiale novellistico del

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Satyricon: M. Salanitro, Il racconto del lupo mannaro in Petronio. Tra folclore e letteratura, «Atene e Roma», 43, 1998, pp. 156-167. Su lingua e stile: E. Castorina, La questione della lingua, in Petronio, D a l « S a t y r i c o n »: « C e n a Trimalchionis» - «Troiae halosis» - «Bellum civile», Patron, Bologna 1970 (con traduzione italiana e commento dei passi indicati).


PROFILO STORICO

Il Satyricon

nel TEMPO

In età imperiale Per motivi moralistici, il Esseintes, il maniacale e raffinato protagonista Satyricon fu trascurato dalla cultura ufficiale ed escluso dal canale scolastico: nessuno lo cita prima di Terenziano Mauro, metrologo vissuto in un’età compresa tra la fine del II e gli inizi del IV secolo; continuò tuttavia a essere diffuso almeno fino al V secolo, quando ancora lo lodano autorevoli personaggi come il grammatico Fulgenzio e il poeta Sidonio Apollinare (che colloca Petronio fra i maggiori scrittori della latinità).

Sparizioni e ritrovamenti Con lo sfaldamento dell’impero e della cultura pagana, l’opera subì mutilazioni e interpolazioni: poca cosa dovettero essere le parti ancora note nel XII secolo. Né ebbero seguito le scoperte di Poggio Bracciolini, che nel 1423 annuncia di aver ritrovato due manoscritti petroniani, in uno dei quali è forse contenuto anche l’episodio della Cena Trimalchionis: i due manoscritti spariscono dalla circolazione, e le prime stampe dell’opera, alla fine del secolo, si limitano a miseri estratti. Soltanto nel XVII secolo, con la scoperta a Traù, in Dalmazia, di un codice contenente la Cena Trimalchionis, ha inizio la fortuna moderna dell’opera, che influenza profondamente il romanzo picaresco spagnolo e il romanzo libertino del Settecento francese.

Fortuna moderna del Satyricon Lo stesso Parini, nel Giorno, allude all’enorme diffusione del Satyricon nei salotti culturali dell’epoca: «... a lui declama i versi/ del dilicato cortigian d’Augusto/ o di quel che tra Venere e Lieo/ pinse Trimalcion. La moda impone/ ch’Arbitro o Flacco a un bello spirto ingombri/ spesso le tasche» (Il Mezzogiorno, 926-933). Nel secondo Ottocento, la fortuna di Petronio fu vasta negli ambienti naturalisti e decadenti: Des

di Controcorrente di Huysmans (1884), esalta il Satyricon in polemico contrasto con i tradizionali maestri della classicità [ Documenti e testimonianze ONLINE], scorgendo nell’opera latina «singolari parentele», «curiose analogie» con i romanzi di scuola verista e naturalista, che ambivano a riprodurre delle tranches de vie ritagliate dal mondo reale. Le qualità della narrazione petroniana (acutezza dell’osservazione; distaccata oggettività del racconto; sospensione del giudizio morale; stile pluristratificato, che attinge ai dialetti e alla lingua quotidiana; studio dei costumi sociali, con particolare attenzione per gli strati più bassi della popolazione) sono in larga misura le stesse, infatti, che caratterizzano l’esperienza del naturalismo francese. Alla narrativa di indirizzo decadente, della quale Controcorrente di Huysmans è uno dei maggiori esempi, vanno invece riferiti il tema della fine di un mondo («una civiltà decrepita, un impero che si va sfasciando») e l’ideale estetizzante di una «lingua da orafo». Anche Dorian Gray, protagonista del celebre romanzo di Oscar Wilde (1891), guarda a Petronio come a un modello di vita gaudente e estetizzante. Sienkiewicz lo inserisce nel suo fortunato Quo vadis? (1894), facendone il simbolo della crisi morale del mondo imperiale. Marcel Schwob dedica a Petronio una delle sue Vite immaginarie (1896). Da Flaubert a Joyce, buona parte degli esperimenti narrativi del romanzo moderno vanno ricondotti al modello del Satyricon. Quale epigrafe alla Waste Land («La terra desolata», 1922) Eliot sceglie un passo dalla Cena Trimalchionis (Sat. 48). Negli anni Sessanta del secolo scorso, l’interesse nei confronti di Petronio è testimoniato da una virtuosistica rielaborazione di Sanguineti (Il giuoco del Satyricon. Un’imitazione da Petronio) e da un celebre film di Fellini (1969).

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5. Il Satyricon di Petronio

Sintesi

PROFILO STORICO

S

Il Satyricon di Petronio Sono stati tramandati fino a noi degli estratti di un romanzo in prosa e in versi intitolato Satyricon e attribuito a un Petronio Arbitro. La datazione dell’opera e l’identificazione dell’autore sono state a lungo discusse. Prevale oggi la tesi che l’autore sia l’omonimo personaggio di cui parla Tacito negli Annales, un eccentrico e raffinato gaudente dell’epoca di Nerone, elegantiae arbiter presso la corte imperiale, costretto al suicidio durante la repressione della congiura pisoniana. Il Satyricon sarebbe dunque stato composto negli anni 63-65 d.C. I frammenti superstiti sono stati ordinati dagli editori in 141 brevi capitoli. La narrazione è condotta in prima persona dal protagonista Encolpio, ma nella storia principale si inseriscono “ad incastro” quattro novelle, affidate a voci narranti diverse. Il materiale narrativo in nostro possesso si articola in cinque blocchi: 1) le avventure in una Graeca urbs della Campania dei tre protagonisti: Encolpio, studente ed esteta squattrinato, il suo amasio Gìtone, ed Ascilto, un avventuriero anch’egli invaghito del bellissimo efebo, che si aggirano nei bassifondi e vivono di espedienti; 2) la Cena Trimalchionis, il frammento più ampio: Encolpio, Ascilto e Gìtone, in compagnia del retore Agamennone, sono invitati nella sfarzosa domus di Trimalchione, un liberto immensamente ricco, dispotico e volgare, che offre a un eterogeneo gruppo di ospiti un interminabile banchetto, trionfo del cattivo gusto e dell’esibizionismo più sfrenato, in cui si susseguono elaboratissime portate a sorpresa tra le straordinarie performances del padrone di casa e dissonanti conversazioni a più voci, finché i nostri tre eroi riescono a darsi alla fuga; 3) nuove avventure nella Graeca urbs, durante le quali al posto di Ascilto, che scompare dalla scena, subentra l’anziano poeta Eumolpo; 4) l’episodio sulla nave di Lica e Trifena, con scene di travestimento, agnizione, tempesta e naufragio; 5) il fortunoso arrivo a Crotone, dove gli abitanti si dividono in due categorie, i ricchi senza figli e i cacciatori di eredità. Eumolpo, che si è finto un ricco possidente, detta

un testamento in base al quale erediteranno le sue (inesistenti) fortune coloro che si ciberanno del suo cadavere. Alla morte del vecchio poeta un crotoniate si adopera in una grottesca suasoria per convincere gli aspiranti ad accettare la sconcertante clausola testamentaria. Controversa anche l’individuazione dei modelli e del genere cui ascrivere il Satyricon. Nell’opera si intersecano elementi del romanzo greco antico, dell’epos avventuroso, della fabula Milesia, del mimo, della satira esametrica e della satira menippea. In particolare, il romanzo di Petronio si presenta come un rovesciamento parodistico (secondo la nota tecnica dell’abbassamento comico del mito) del romanzo greco e insieme dell’Odissea omerica, cui è accomunato dal motivo conduttore del viaggio, che tuttavia qui si rivela un labirintico, inquietante vagabondare a vuoto. Il richiamo alla Milesia è palese nelle insertae fabulae, tra cui la celebre novella della matrona di Efeso. Alla satira esametrica rinviano il realismo della rappresentazione e il tono arguto e spregiudicato del narratore; ma l’autore, nel suo lucido distacco, si astiene da qualsiasi giudizio e/o finalità morale. La forma prosimetrica, la varietà dei registri stilistici, il gusto per la parodia, la mescolanza di elementi realistici e fantastici indicano nella satira menippea il genere cui probabilmente il Satyricon più si avvicina. Difficile stabilire quale sia l’atteggiamento dell’autore, misteriosamente inafferrabile: i personaggi sono caratterizzati dall’interno, e la pluralità delle voci non permette di riconoscere in alcuno di essi un portavoce dell’autore, che si cela lasciando parlare i fatti e i comportamenti umani, ma cogliendone al tempo stesso l’ambiguità e l’insensatezza. La scrittura del Satyricon si distingue per due caratteristiche essenziali: il pluristilismo (senza precedenti, neppure nella commedia o nella satura) e il «realismo mimetico»: ogni personaggio è caratterizzato dal linguaggio che usa, e che per di più varia secondo il contesto in cui si trova ad agire.

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Percorso antologico Satyricon T1

Una disputa de causis corruptae eloquentiae (1-4)

IT

T2

Cena Trimalchionis: l’ingresso di Trimalchione (32-34)

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T3

Cena Trimalchionis: il lupo mannaro e altre storie (61-64)

T4

La novella della matrona di Efeso (110, 6-113, 2)

T5

La città rovesciata: Crotone (116)

T6

Contro l’epica storica (118)

T7

Un’ambigua dichiarazione di poetica (132, 15)

T8

Una suasoria antropofagica (141)

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T 1 Una disputa de causis corruptae eloquentiae Satyricon 1-4 ITALIANO

Il giovane Encolpio, proveniente da Marsiglia, è giunto da poco in una città greca dell’Italia meridionale, dove frequenta, assieme all’amico-rivale Ascilto, la scuola del retore Agamennone. Sotto il portico della scuola, sostiene con il maestro una lunga disputa sulle ragioni della decadenza dell’oratoria contemporanea. Secondo Encolpio, le scuole di retorica non educano gli studenti alla vita, obbligandoli ad affrontare argomenti fittizi in un linguaggio enfatico e ampolloso che ha il solo scopo di impressionare l’uditorio; la condanna dello stile ridondante di origine asiana viene estesa alla poesia e alla pittura. Ma Agamennone ribatte ad Encolpio sottolineando le difficoltà in cui devono operare gli insegnanti, sottoposti alla pressione dei genitori e costretti ad adeguarsi agli «interessi» degli studenti. La causa della decadenza sta dunque nella mancanza di un serio lavoro negli studi: le famiglie e gli scolari scelgono la scorciatoia di una preparazione approssimativa e sommaria, rinunciando alle letture severe e agli studi filosofici (che già secondo Cicerone costituivano un fondamento irrinunciabile nella preparazione del perfetto oratore). Fin da queste prime pagine, risulta difficile stabilire quale sia il punto di vista dell’autore, che non aderisce esplicitamente alle tesi sostenute da Encolpio, né a quelle del retore Agamennone, ma si limita ad accostare i loro interventi, abbandonandoli al flusso della narrazione. È certo che Petronio si sta divertendo alle spalle di Encolpio, il quale, nel corso del romanzo, finisce in fondo per vivere delle avventure molto simili a quelle che egli stesso bolla, nella sua animosa arringa, come estranee alla vita reale (cap. 1). Il tema affrontato costituisce uno degli argomenti più dibattuti dalla cultura latina del I secolo: si vedano in particolare le tesi sostenute da Velleio Patercolo, da Tacito (nel Dialogus de oratoribus) e da Quintiliano. 209 © Casa Editrice G. Principato


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5. Il Satyricon di Petronio

PERCORSO ANTOLOGICO

[1] «O che non vi sembra che i nostri oratori abbiano in corpo le Furie stesse? Sentiteli lì che blaterano: “Queste ferite le ho ricevute per la comune libertà! Quest’occhio l’ho dato per voi! Deh! concedetemi una guida che mi conduca ai miei pargoletti, ché mi hanno spezzato le ginocchia e non mi reggo in piedi!”. E pazienza se tutto ciò riuscisse a fare un solo oratore. Ma quell’enfasi maledetta, quella strepitante vuotaggine servono solo a questo, che, appena usciti dalle scuole e portati nel foro, a quei ragazzi gli sembra di essere capitati in un altro mondo. La faccenda sta così: gli studenti nelle scuole rimbecilliscono da capo a piedi perché non si mette davanti ai loro occhi nulla che sappia di vita reale, ma solo pirati appiattati sulla spiaggia con tanto di catene pronte, tiranni che ci dàn dentro a scrivere editti che condannano figli a tagliar la testa al proprio padre, oracoli che per far finire una pestilenza comandano di immolare tre vergini e magari più, paroline melate, burrose e rotondette, tutte impolverate di papavero e di sesamo. [2] Che razza di buon gusto possono avere dei disgraziati infarciti di questa roba? Un cuoco saprà sempre di cucina. Con vostra buona pace, signori retori, siete stati voi i primi a mandare in malora l’eloquenza. E, a forza di ridurla a una vuota musichetta di suoni ben ridondanti, ne avete fatto una robaccia smidollata e impotente. Quando Sofocle ed Euripide trovavan le parole di cui avevan bisogno, i giovani non erano ancora stati messi nelle pastoie delle vostre declamazioni; e, quando Pindaro e i nove lirici1 rinunziarono a servirsi dei ritmi di Omero, i pedanti muffiti nell’ombra delle scuole non avevano ancora imparato a far da smoccolatoio al genio. Ma non voglio limitarmi ai poeti; né Platone né Demostene si diedero mai a esercitazioni di questo genere. La grande e, lasciatemelo dire, la casta eloquenza non s’imbelletta né si gonfia ma balza sù con la sua bellezza naturale. Ed ecco invece che questo enorme gracidume sbuffante se n’è venuto dall’Asia ad abbattersi su Atene e, come una mala stella, ha smorzato lo spirito di quei giovani che avrebbero potuto combinare qualcosa di serio; e la vera eloquenza, uscita di carreggiata una volta per sempre, non ha più saputo riprender fiato. Insomma, dopo di allora, c’è stato mai qualcuno che abbia raggiunto la fama di un Tucidide o di un Iperide?2 Nemmeno la poesia ha più potuto ritrovare il suo bel colorito, e di queste nostre liriche, che ribiascicano tutte le stesse cose, non ce n’è stata una che potesse decentemente giungere alla vecchiaia. Quanto alla pittura, le è toccata la stessa sorte dopo che l’impudenza degli egiziani ha messo in compendio le regole di questa grande arte». [3] Agamennone non poté sopportare che io continuassi a declamare sotto il portico più a lungo di quanto non si fosse sgolato lui stesso nella scuola. «Giovanotto,» mi disse «visto che ti piace andar contro corrente e che, cosa molto singolare, il buon senso non ti manca, voglio iniziarti ai segreti della nostra arte.

1. i nove lirici: oltre a Pindaro, la canonica lista dei grandi lirici greci comprendeva Saffo, Alceo, Ana­c reonte,

Alcmane, Ibico, Stesicoro, Simonide di Ceo e Bacchilide. 2. Iperide: oratore ateniese del IV seco-

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lo a.C.; con Demostene, si era fieramente opposto alla potenza macedone.


PERCORSO ANTOLOGICO

Non c’è da meravigliarci se, in queste esercitazioni, i maestri vanno fuori strada: stanno coi pazzi e devono dir pazzie. Perché se non dicessero cose che vadano a genio ai nostri signorini, “rimarrebbero soli nelle scuole”, come dice Cicerone, 3 a parlare ai muri. Guarda come fa l’adulatore in commedia quando cerca di scroccar la cena a qualche ricco: non si lascia sfuggir di bocca una parola che non suoni bene alle orecchie più sensibili; guai se cadesse in qualche stonatura. Per il maestro di eloquenza è la stessa cosa; e se dimentica di mettere all’amo un’esca appetitosa perché i pesciolini abbocchino, se ne resterà a disperarsi su uno scoglio come un pescatore iellato». [4] «Qual è dunque la verità? Bisognerebbe bastonare i genitori che sono i primi a sviare i loro ragazzi da una strada difficile e onesta. Sacrificano tutto alle proprie ambizioncelle e, tutti smaniosi di vedersele subito realizzate, li spingono nel foro quando non hanno ancora le ossa formate, e questa eloquenza, che credono onnipotente, la buttano addosso a dei ragazzini appena nati. Se li lasciassero seguire degli studi regolari in modo da farli abituare gradatamente a imbeversi di letture severe, a formarsi l’animo agli insegnamenti della filosofia, a correggere lo stile con una penna spietata, ad ascoltar cento volte i modelli che vogliono imitare, a badar bene a non restare a bocca aperta davanti a qualche gran magnificenza da ragazzi, la grande oratoria ritroverebbe tutta la sua nobiltà e il suo peso. Oggi i bamberottoli si baloccano nelle scuole, i giovani si fanno rider dietro nel foro, e, cosa più indegna di tutte, i vecchi non vogliono convenire di avere imparato, da ragazzi, quattro sfrappole messe sù alla carlona. Ma, con tutto questo, non credermi un tipo serioso e cachettico, incapace di gustare un’improvvisazione leggera e senza pretese alla maniera di Lucilio; quel che penso te lo dirò in versi: [...].4 (trad. di U. Dettore)

3. come... Cicerone: cfr. Pro Caelio 41. 4. Segue un brano poetico nel quale Agamennone sostiene l’esigenza di un’arte severa fondata su costumi di vita virtuosi e frugali.

Natura morta con aglio, datteri e miele, affresco dalla Casa dei Cervi di Ercolano, I secolo d.C.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

T 2 Cena Trimalchionis: l’ingresso di Trimalchione Satyricon 32-34

PERCORSO ANTOLOGICO

ITALIANO

1. scacchiere di terebinto: di un legno molto pregiato.

Sfuggito alle insidie dell’invasata Quartilla, Encolpio si reca con Gitone e Ascilto nella casa di Trimalchione, dove avrà luogo una ricca cena. Il motivo epico della ékphrasis (cioè la descrizione di un’opera d’arte) viene parodizzato fin dall’ingresso dei nostri eroi nel portico della casa, sul muro del quale appare effigiato un grande molosso che incute loro spavento. Più oltre è dipinta in numerosi quadri la vita di Trimalchione, da quando giunse schiavo in Roma fino alla sua attuale ricchezza. In una pisside d’oro è addirittura conservata, come una sacra reliquia, la sua prima barba offerta in dono agli dèi. I tre giungono infine nella sala da pranzo, dove già vengono serviti i primi antipasti, e dove finalmente fa il suo trionfale ingresso il padrone di casa. Il lunghissimo episodio della Cena (26,7 - 78) è una straordinaria sequenza narrativa dominata dalla figura di Trimalchione, un grottesco miscuglio di istrionismo e di trivialità (emblematico lo stuzzicadenti d’argento), di linguaggio plebeo e di linguaggio semicolto, di vitalità e di angosciose ossessioni centrate sul motivo del tempo e della morte (le considerazioni sul vino centenario; lo scheletro d’argento; la sgangherata declamazione finale). Molti hanno voluto vedere in Trimalchione una raffigurazione plebea e caricaturale di Nerone; nonostante l’arbitrarietà dell’identificazione, restano molte affinità: la stravaganza artificiosa e tirannica del personaggio, la sua teatralità spettacolare, il suo volgare esibizionismo. [32] Ce ne stavamo immersi in questo mare di delizie quando, tra un grande strimpellio di canti e suoni, portarono Trimalchione e lo deposero in mezzo a un mucchio di cuscini imbottiti da scoppiare. Ci fu impossibile trattenere un riso piuttosto imprudente. Figuratevi un gran mantello scarlatto da cui scappava fuori la testa pelata; intorno al collo, tutto infagottato in quel mantello, si era avvolto un tovagliolo dal largo orlo rosso e ornato di frange che pendevano da tutte le parti. Al mignolo della sinistra portava un enorme anello dorato e, all’ultima falange dell’anulare, un anello più piccolo e, a quanto sembrava, tutto d’oro ma incrostato di piccole stelle di ferro. Per non limitarsi, poi, a questa sola ostentazione di opulenza, scoprì il braccio destro ornato da un braccialetto d’oro e da un cerchio d’avorio rilucente di fregi laminati. [33] Dopo essersi frugato in bocca con uno stuzzicadenti d’argento: «Cari amici,» disse «non avevo ancora nessuna voglia di venire nel triclinio, ma, per non farvi più struggere dal desiderio della mia presenza, mi sono sacrificato per voi. Permettetemi tuttavia di finire questa partita». Lo seguiva difatti uno schiavo con uno scacchiere di terebinto1 e dadi di cristallo; ed ebbi così occasione di notare una cosa di gusto squisitissimo: invece di pedine bianche e nere adoprava nientemeno che monete d’oro e d’argento. Mentre egli, giocando, esauriva tutto lo scelto e raffinato vocabolario dei trivi, fu messo dinanzi a noi, che eravamo ancora all’antipasto, un gran vassoio con una cesta nella quale si vedeva una gallina di legno con le ali aperte a ventaglio come fanno quando covano. Subito si avvicinano due schiavi, e, sempre a suon di musica – e che stridula musica! – si mettono a frugar nella paglia e tiran fuori delle uova di pavone che distribuiscono ai convitati. A questo colpo di scena, Trimalchione si volge a noi. «Amici miei,» dice «sono uova di pavone che ho fatto covare da una gallina. Perercole! Ho paura che ci sia già dentro il pulcino. Guardiamo un po’ se sono ancora mangiabili». Ci

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dànno allora dei cucchiaini – ma che razza di cucchiaini! Pesavano almeno mezza libbra – e spezziamo il guscio di quelle uova, fatto di densa farina. Poco mancò che non buttassi via quello che mi era toccato perché mi sembrava di vederci il pulcino già formato, ma, in quel momento, sento uno pratico di casa che dice: «Ci dev’essere qualcosa di buono qui dentro!». Sicché tolsi il guscio con la mano e trovai un beccafico bello grasso che nuotava in un rosso d’uovo pepato. [34] Frattanto, Trimalchione aveva lasciato andare la sua partita e, fattosi servire tutto quello che noi avevamo avuto, ci aveva invitati ad alta voce a riprendere vino melato a volontà, quando l’orchestra dà un segnale e gli antipasti sono portati via da un altro coro che ci dava dentro alla più bella. In quella confusione un piatto d’argento cadde di mano a uno schiavo che si affrettò a raccattarlo. Trimalchione se ne accorse e, fatte dare al ragazzo tre o quattro sberle, comandò che il piatto fosse gettato ancora a terra.2 Poi arriva un cameriere con la scopa e spazza via il piatto d’argento insieme con gli altri rifiuti. Dopo di che, entrano due etiopi dai lunghi capelli crespi, con due piccoli otri simili a quelli che servono per innaffiar la sabbia negli anfiteatri, e ci versano del vino sulle mani: acqua, nemmeno una goccia. Facciamo al padron di casa i nostri complimenti per tante raffinatezze. «Marte» ci risponde «ama l’eguaglianza. Per questo ho voluto che ognuno avesse una mensa per sé. Senza contare che questi fetenti schiavi non ci soffocheranno tanto venendoci addosso a ogni momento». In quell’istante portarono anfore di vetro accuratamente ingessate; sul collo c’erano etichette con questa scritta: «Falerno del consolato di Opimio.3 Più di cento anni». Mentre decifriamo questa iscrizione, Trimalchione batté le mani. «Ahimè,» disse «il vino vive dunque più di noi, poveri omuncoli? Be’, trinchiamocelo tutto. Il vino è vita. E questo, poi, è opimiano autentico. Ieri ne ho fatto mettere in tavola del meno buono, e sì che avevo degli ospiti molto più di riguardo». Mentre noi attacchiamo a bere e andiamo debitamente in estasi davanti a tanta munificenza, entra uno schiavo con uno scheletro4 d’argento fatto in modo che le articolazioni e le vertebre potessero muoversi in ogni direzione; e lo fa cadere più volte sulla mensa e, data la mobilità delle giunture, gli fa prendere le posizioni più diverse. Allora Trimalchione declamò: «Ahimè, poveri noi, ché tutto è niente! Solo quattr’ossa restan dell’ometto. Tutti, nell’Orco, avremo questo aspetto: viviam, finché il destin ce lo consente».5

2. comandò... a terra: nella sua ostentazione di ricchezza, Trimalchione ordina di gettar via qualsiasi oggetto, anche costoso, sia andato in terra. Già in un passo precedente, all’ingresso delle Terme, Encolpio e Ascilto avevano assistito alla scena di Trimalchione «che, in pantofole, si divertiva con delle palle verdi. E non raccattava mai quella che era caduta

a terra, ché c’era lì uno schiavo con un sacco pieno e riforniva di volta in volta i giocatori» (cap. 28). 3. Opimio: Lucio Opimio era stato console nel 121 a.C. 4. scheletro: «L’usanza è di origine egizia, ma la troviamo largamente documentata anche in Campania, specie a Pompei: lì sul litorale, dove tanto si era-

no fatte sentire le influenze dell’Oriente, e così viva era sempre stata la tradizione epicurea, sono tornati alla luce mosaici tricliniari decorati di teschi e di altri simboli di morte» (Ciaffi). 5. «Ahimè... consente»: due esametri e un pentametro, accostamento zoppicante che rivela l’approssimativa cultura di Trimalchione.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

[35] Ai nostri elogi seguì una portata che, se non rispondeva esattamente alle nostre

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aspettative, attirò tuttavia gli sguardi di tutti per la novità della presentazione. Era un grande trionfo da tavola, di forma circolare, con i dodici segni dello zodiaco disposti in giro; e su ognuno di essi l’artefice aveva posto un cibo corrispondente: sopra l’Ariete dei ceci cornuti; sul Toro una bistecca di manzo; sui Gemelli testicoli e rognoni; sul Cancro una corona; sul Leone dei fichi d’Africa; sulla Vergine la vulva di una scrofetta; sulla Libra una bilancia che portava in un piatto una torta e nell’altro una focaccia; sullo Scorpione un pesciolino di mare; sul Sagittario un corvo; sul Capricorno una locusta di mare; sopra l’Acquario un’oca e sui Pesci due triglie. Nel centro, poi, una zolla tagliata con la sua erba sosteneva un favo di miele. Uno schiavetto egiziano portava in giro il pane in un piccolo forno d’argento, e anche lui straziava con voce orribile una canzonetta tolta dal mimo del «Mercante di laserpizio». Siccome noi avevamo accolto senza eccessivo entusiasmo dei cibi così ordinari: «Date retta a me» disse Trimalchione «mangiamo; questa è la legge della cena». [36] E aveva appena detto questo che si avanzano quattro servi a passo di danza, secondo il ritmo della musica, e tolgono la parte superiore del trionfo. Allora vediamo, su di un vassoio che stava sotto, pollame ingrassato, ventresche di scrofa e, nel mezzo, una lepre con le ali in modo da raffigurare Pegaso. Agli angoli del trionfo si vedevano inoltre quattro satiri armati di piccoli otri, intenti a versare salsa piccante sopra alcuni pesci che vi nuotavano come nello stretto di Euripo. Ci mettiamo tutti ad applaudire, a cominciare dai servi, e attacchiamo allegramente queste vivande prelibate. Trimalchione, rallegrato anche lui dalla sorpresa, gridò: «Taglia!». E immediatamente si fece avanti lo scalco che, con bei gesti cadenzati al suono dell’orchestra, affettò le varie pietanze: pareva un gladiatore che combattesse sul carro al suono dell’organo. Intanto Trimalchione insisteva calcando con intenzione sulla parola: «Taglia! Taglia!». Io sospettai che, sotto questo comando tante volte ripetuto, si nascondesse qualche piacevolezza e mi arrischiai a chiedere spiegazioni al mio vicino. Quello, ch’era abituato da tempo a giochetti di quel genere, mi rispose: «La faccenda è che lo scalco si chiama Taglia; sicché, ogni volta che Trimalchione grida: “Taglia!”, con una parola sola lo chiama e gli comanda quel che deve fare». (trad. di U. Dettore)

Mosaico raffigurante uno schiavo che versa del vino, III secolo d.C. Tunisi, Museo del Bardo.

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PERCORSO ANTOLOGICO

I conviti di Nerone in Svetonio e la Cena del Satyricon ▰ Una grande macchina teatrale Il convito,

in età giulio-claudia, diventa un luogo teatrale, una grande macchina barocca programmata per stupire i commensali. Impressionante l’analogia fra l’apparato sfarzoso e spettacolare della cena offerta da Trimalchione e la sala dei banchetti di Nerone, il cui soffitto «era a tasselli di avorio mobili e perforati, in modo da poter spargere fiori e profumi sui convitati. Il principale di questi saloni era rotondo e girava su se stesso tutto il giorno, continuamente, come la terra» (Svetonio, Nero 31; trad. di F. Dessì). Anche nella sala di Trimalchione, a un certo punto (cap. 60), «ecco aprirsi il soffitto e calar giù un cerchio enorme, che sembrava tolto a una botte smisurata, da cui pendevano tutt’in giro corone dorate e vasetti di alabastro pieni di profumi».

▰ La sala ottagonale della Domus Aurea Gli studiosi moderni hanno proposto di identificare il singolarissimo salone dei banchetti neroniani descritto

da Svetonio con la grande sala ottagonale della Domus Aurea sul colle Esquilino; si sarebbe trattato di una sorta di planetario, una sfera ruotante secondo il moto solare. Si è inoltre ipotizzato che contenesse anche un trono su cui Nerone, assimilatosi al dio Sole come già il suo modello Alessandro-Helios, si sarebbe fatto adorare al modo di un astro scorrente sulla volta celeste.

▰ Arditi meccanismi di ingegneria idraulica

Si ritiene che tali mirabolanti effetti fossero ottenuti mediante complessi congegni di ingegneria idraulica, probabilmente allestiti dai magistri machinatores Severo e Celere, ricordati da Tacito, «la cui ardita genialità creava coll’artificio quanto non era stato concesso dalla natura e si sbizzarriva colle grandi risorse dell’imperatore» (Annales XV, 42, 1: trad. di A. Arici).

▰ Confronto con una satira di Giovenale

Si confronti con la satira XI di Giovenale, in cui viene riaffermato polemicamente, di contro agli eccessi delle mense cittadine, l’ideale già oraziano del convito modesto in campagna.

T 3 Cena Trimalchionis: il lupo mannaro e altre storie Satyricon 61-64 LATINO ITALIANO

Durante il banchetto, Trimalchione invita Nicerote, un ex schiavo come lui, a narrare una storia piacevole. Nicerote racconta l’episodio di un uomo trasformatosi improvvisamente in lupo durante una notte di luna piena. Segue un nuovo racconto, questa volta dello stesso Trimalchione, dove si narra di streghe che rapiscono il corpo di un bambino morto, sostituendolo durante la veglia funebre con un fantoccio di paglia. Le storie narrate, caratterizzate dalla presenza di elementi magici e irrazionali, ambientate in un pauroso scenario notturno, appartengono al patrimonio della cultura orale e popolare. Ma l’orrore delle fabulae è ironicamente bilanciato dalla cornice allegra e conviviale nella quale vengono inserite. Entrambi i narratori introducono le storie di cui furono testimoni in una dimensione familiare di ricordi personali e domestici, che servono a dare verosimiglianza al racconto. Nicerote, ad esempio, ammicca ai presenti precisando il luogo dove si svolge parte della vicenda (un’osteria), e il nome della sua amante: sia il luogo sia l’ostessa sono evidentemente ben noti da tempo ai presenti. Uno dei procedimenti più consueti della tecnica mimetica di Petronio è l’effetto contrastivo. Ad esempio, nel dare inizio al racconto conviviale dell’uomo-lupo, Nicerote usa il classico pulcher invece del colloquiale bellus, utilizzato ripetutamente dagli altri commensali: ma la ricercatezza del liberto è subito punita dall’autore con l’accostamento di un pesante volgarismo lessicale come bacciballum, che allude comicamente alle fisiche rotondità dell’ostessa Melissa. Si confronti la favola narrata da Nicerote con una pagina di Plinio il Vecchio dedicata al motivo folclorico del lupo [ T5, cap. 3 ONLINE]. 215 © Casa Editrice G. Principato


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5. Il Satyricon di Petronio

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[61] Postquam ergo omnes bonam mentem bonamque valitudinem sibi optarunt, Trimalchio ad Nicerotem respexit et: «Solebas,» inquit «suavius esse in convictu; nescio quid nunc taces nec muttis. Oro te, sic felicem me videas, narra illud quod tibi usu venit». Niceros delectatus affabilitate amici: «Omne me» inquit «lucrum transeat, nisi iam dudum gaudimonio dissilio, quod te talem video. Itaque hilaria mera sint, etsi timeo istos scholasticos,1 ne me rideant. Viderint: narrabo tamen; quid enim mihi aufert, qui ridet? satius est rideri quam derideri». Haec ubi dicta dedit2 talem fabulam exorsus est: «Cum adhuc servirem, habitabamus in vico angusto; nunc Gavillae domus est. Ibi, quomodo dii volunt, amare coepi uxorem Terentii coponis: noveratis Melissam Tarentinam, pulcherrimum bacciballum. Sed ego non mehercules corporaliter aut propter res venerias curavi, sed magis quod benemoria fuit. Si quid ab illa petii, nunquam mihi negatum; fecit assem, semissem habui; in illius sinum demandavi, nec unquam fefellitus sum. Huius contubernalis ad villam supremum diem obiit. Itaque per scutum per ocream egi aginavi, quemadmodum ad illam pervenirem: nam, ut aiunt, in angustiis amici apparent».

[61] Dopo che tutti si furono coscienziosamente augurati buona salute di spirito e di corpo, Trimalchione si volse a Nicerote. «Un tempo solevi essere più allegro, a tavola» disse. «Ma ora, non so perché, te ne stai lì zitto senza aprir bocca. Da bravo, se vuoi farmi un piacere, racconta qualcuna delle tue avventure». Nicerote, tutto contento per questo affabile invito, non si fece pregare. «Che possa vedermi ogni guadagno scappar via di sotto il naso,» disse «se non è vero che già da un pezzo sto per schiantar di gioia nel vederti qual sei. Dunque parlerò di cose allegre sebbene abbia paura che tutta questa gente di scuola1 che c’è stasera finirà col burlarsi di me. Be’, facciano pure; io racconterò lo stesso la mia storia e, se mi canzoneranno, poco male; è meglio essere sfottuti che sfottere». Così detto,2 cominciò questo racconto: «Quando ero ancora schiavo, abitavamo in un vicoletto, là dove c’è ora la casa di Gavilla. E là, come vollero gli dèi, m’innamorai della moglie dell’oste Terenzio. La conoscevate anche voi Melissa la Tarentina, un pezzo di figliola che lèvati. Ma, perercole, io tenevo a lei non tanto perché fosse bella o per divertirmici, ma soprattutto perché era una brava ragazza. Non mi ha mai rifiutato nulla di quel che le ho chiesto; se guadagnava un asse me ne dava mezzo; io affidavo a lei tutto quello che avevo e non mi ha mai rubato un soldo. Suo marito venne a morire mentre erano in campagna, e io m’arrabattai colle mani e coi piedi per trovare il modo di raggiungerla: perché gli amici si riconoscono nelle disgrazie».

1. istos scholasticos: Agamennone, Encolpio e Ascilto, ospiti d’onore della serata.

2. Haec... dedit: citazione parodistica da Eneide II, 790; nel testo di Virgilio è il fantasma di Creusa che sparisce per

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sempre, dopo aver parlato per l’ultima volta a Enea in fuga da Troia.


PERCORSO ANTOLOGICO

[62]

«Forte dominus Capuae exierat ad scruta scita expedienda. Nactus ego occasionem persuadeo hospitem nostrum, ut mecum ad quintum miliarium veniat. Erat autem miles, fortis tanquam Orcus. Apoculamus nos circa gallicinia; luna lucebat tanquam meridie. Venimus inter monimenta: homo meus coepit ad stelas facere; sedeo ego cantabundus et stelas numero. Deinde ut respexi ad comitem, ille exuit se et omnia vestimenta secundum viam posuit. Mihi anima in naso esse; stabam tanquam mortuus. At ille circumminxit vestimenta sua, et subito lupus factus est. Nolite me iocari putare; ut mentiar, nullius patrimonium tanti facio. Sed, quod coeperam dicere, postquam lupus factus est, ululare coepit et in silvas fugit. Ego primitus nesciebam ubi essem; deinde accessi, ut vestimenta eius tollerem: illa autem lapidea facta sunt. Qui mori timore nisi ego? Gladium tamen strinxi et matavitatau3 umbras cecidi, donec ad villam amicae meae pervenirem. In larvam intravi, paene animam ebullivi, sudor mihi per bifurcum volabat, oculi mortui; vix unquam refectus sum. Melissa mea mirari coepit, quod tam sero ambularem, et: “Si ante,” inquit, “venisses, saltem nobis adiutasses; lupus enim villam intravit et omnia pecora tanquam lanius sanguinem illis misit. Nec tamen

[62]

«Per fortuna, il mio padrone era andato a Capua per spedire una partita di stracci. Io afferro l’occasione a volo e persuado un ospite che avevamo ad accompagnarmi per cinque miglia. Era un militare forte come il diavolo. Ci mettemmo in cammino al canto dei galli; la luna splendeva che sembrava giorno fatto. Arriviamo a certe tombe e il mio compagno comincia ad avvicinarsi alle stele funerarie; io mi siedo canticchiando e mi metto a contar le stele. A un tratto volgo gli occhi verso di lui e te lo vedo che si toglie i vestiti e li depone lungo i bordi della via. Io mi sentivo l’anima nelle calcagna e stavo lì più morto che vivo. Quanto a lui, si mette a pisciare intorno ai suoi vestiti e subito si cambia in lupo. Ohè, mica vi racconto frottole; non vi direi una bugia per tutto l’oro del mondo. Dicevo dunque, si cambia in lupo, si mette a urlare e scappa in mezzo ai boschi. Io sulle prime non riuscivo a capire in che mondo mi fossi; poi mi avvicinai per prendere i suoi abiti, ma erano diventati di pietra. Se non morii di colpo vuol dire che di paura non si muore. Basta, tirai fuori la mia daga e andai per tutta la strada menando gran fendenti all’ombra davanti a me, finché non arrivai alla fattoria della mia amante, che era già notte. Entrai che parevo un cadavere; per poco non sputai l’anima; il sudore mi gocciolava giù per la schiena e avevo gli occhi di pesce morto. Credevo di non riuscir più a rimettermi in piedi. La mia Melissa era tutta meravigliata di vedermi arrivare così tardi. “Se fossi arrivato prima,” mi disse “almeno ci avresti aiutato. Un lupo è entrato nella fattoria e ci ha scannato tutte le bestie peggio d’un macellaio. Però

3. matavitatau: termine misterioso, «che riproduce probabilmente una formula greca di scongiuro (forse le lettere

greche my, tau, iota e ancora tau)» (Castorina).

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5. Il Satyricon di Petronio

PERCORSO ANTOLOGICO

derisit, etiamsi fugit; servus enim noster lancea collum eius traiecit”. Haec ut audivi, operire oculos amplius non potui, sed luce clara Gai nostri domum fugi tanquam copo compilatus; et postquam veni in illum locum, in quo lapidea vestimenta erant facta, nihil inveni nisi sanguinem. Ut vero domum veni, iacebat miles meus in lecto tanquam bovis, et collum illius medicus curabat. Intellexi illum versipellem esse, nec postea cum illo panem gustare potui, non si me occidisses. Viderint quid de hoc alii exopinissent; ego si mentior, genios4 vestros iratos habeam». [63] Attonitis admiratione universis: «Salvo,» inquit «tuo sermone,» Trimalchio, «si qua fides est, ut mihi pili inhorruerunt, quia scio Nicerotem nihil nugarum narrare: immo certus est et minime linguosus. Nam et ipse vobis rem horribilem narrabo. Asinus in tegulis.5 Cum adhuc capillatus essem, nam a puero vitam Chiam gessi, ipsimi nostri delicatus decessit, mehercules margaritum, caccitus et omnium numerum. Cum ergo illum mater misella plangeret et nos tum plures in tristimonio essemus, subito <stridere> strigae coeperunt; putares canem leporem persequi. Habebamus tunc hominem Cappadocem, longum, valde audaculum et qui valebat: poterat bovem iratum tollere. Hic audacter stricto gladio extra ostium procucurrit, involuta sinistra manu curiose, et mulierem tanquam hoc loco – salvum sit, quod tango! – mediam traiecit. Audimus gemitum, et – plane non mentiar – ipsas non vidimus.

4. genios: divinità tutelari della persona. 5. Asinus in tegulis: oggi diremmo: «un asino che vola».

l’ha pagata cara, anche se è riuscito a scappare: uno dei nostri schiavi gli ha passato la lancia attraverso il collo”. A sentir questa non potei chiuder occhio per tutta notte e, appena giorno, scappai a casa di Gaio, nostro padrone, come un mercante svaligiato. Arrivato al punto dove gli abiti eran diventati di pietra, ci trovo solo una pozza di sangue. Quando giunsi a casa, il mio militare se ne stava a letto, giù come un bove caduto in un fosso, e un medico gli curava il collo. Io capii che era un lupo mannaro e, da allora in poi, non avrei mangiato un boccone di pane con lui nemmeno se m’ammazzavano. Padroni tutti di pensarla come credono, ma se v’ho mentito, che tutti i vostri Geni4 mi confondano». [63] Tutti eravamo rimasti sbigottiti. «Mica per criticare il tuo racconto,» disse Trimalchione «ma, parola d’onore, ho tutti i peli ancora arricciati. So che Nicerote non racconta balle, perbacco; non c’è uomo più sicuro e meno chiacchierone di lui. Adesso vi racconterò io qualche cosa di spaventoso; altro che un asino sul tetto!5 Quando avevo ancora i capelli lunghi da vagheggino – perché da ragazzo ho fatto un po’ una vita da sibarita – morì il figlio prediletto del mio padrone: una perla di ragazzo, perercole, bravo, intelligente, perfetto in tutto. Mentre quella povera donna di sua madre lo piangeva e la più parte di noi si era con lei a fare il lamento, all’improvviso si sente il grido delle streghe: era come un cane che inseguisse una lepre. C’era allora con noi uno di Cappadocia, un gigante che non aveva paura di nulla e forte da potersi tirar sù un bove infuriato. Costui afferra la daga e si slancia fuori della porta, dopo essersi accuratamente avvolta la sinistra nel mantello, e passa da parte a parte una di quelle megere proprio in questo punto (gli dèi proteggano la parte che tocco). Sentimmo un gemito ma, per dir la verità, di streghe non ne

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PERCORSO ANTOLOGICO

Baro autem noster introversus se proiecit in lectum, et corpus totum lividum habebat quasi flagellis caesus, quia scilicet illum tetigerat mala manus. Nos cluso ostio redimus iterum ad officium, sed dum mater amplexaret corpus filii sui, tangit et videt manuciolum de stramentis factum. Non cor habebat, non intestina, non quicquam: scilicet iam puerum strigae involaverant et supposuerant stramenticium vavatonem. Rogo vos, oportet credatis, sunt mulieres plussciae, sunt Nocturnae, et quod sursum est, deorsum faciunt. Ceterum baro ille longus post hoc factum nunquam coloris sui fuit, immo post paucos dies freneticus periit». [64] Miramur nos et pariter credimus, osculatique mensam rogamus Nocturnas, ut suis se teneant, dum redimus a cena. Et sane iam lucernae mihi plures videbantur ardere totumque triclinium esse mutatum, cum Trimalchio: «Tibi dico,» inquit «Plocame, nihil narras? nihil nos delectaris? Et solebas suavius esse, canturire belle deverbia, adicere melicam. Heu, heu, abistis dulces caricae». – «Iam» inquit ille «quadrigae meae decucurrerunt, ex quo podagricus factus sum. Alioquin cum essem adulescentulus, cantando paene tisicus factus sum. Quid saltare? quid deverbia? quid tonstrinum? Quando parem habui nisi unum Apelletem?6». Appositaque ad os manu, nescio quid taetrum exsibilavit quod postea Graecum esse affirmabat.

6. Apelletem: un noto attore tragico vissuto sotto Caligola.

vedemmo. Quel gigante, appena rientrato, si gettò sul letto: era tutto livido come se fosse stato flagellato, perché di certo la mala mano lo aveva toccato. Noi chiudiamo la porta e torniamo al nostro ufficio, ma, appena la madre si fu gettata sul corpo del figlio per abbracciarlo, si trova fra le braccia un fantoccio pieno di paglia. Non c’eran più né cuore, né intestini, né nulla: le streghe se l’eran portato via e avevano messo al suo posto quel bambolotto. Bisogna crederci, cari miei: ci son delle donne che sanno cose che non immaginiamo nemmeno, delle maghe notturne che capovolgono tutto l’ordine delle cose. Quanto all’omaccione di Cappadocia, dopo questo fatto non riprese più il suo colorito e in pochi giorni morì rabbioso». [64] Noi, tutti stupiti, non pensammo nemmeno a mettere in dubbio questo racconto e, baciate le mense a scongiuro, pregammo le Notturne di starsene a casa loro quando noi saremmo tornati dalla cena. A dire il vero, cominciavo già a veder doppio il numero delle lampade e mi sembrava che tutto il triclinio mi si mutasse davanti agli occhi, quando Trimalchione riprese: «Ehi dico, Plòcamo! Non ci racconti niente? Non vuoi divertirci un po’? Un tempo eri di miglior compagnia, ci recitavi dei bei dialoghetti e scappava sempre fuori qualche canzoncina. Ahimè, se ne sono andati quei bei momenti di fin di pranzo!». «È vero,» rispose l’altro «ormai le mie quadriglie hanno finito di correre; ho la gotta, caro mio. Quando ero giovane, per poco non son diventato tisico a forza di cantare. E la danza, poi? E la commedia? E il mimo del barbiere? Non c’era che il grande Apellete6 che potesse starmi a paro!». E, messasi una mano sulla bocca, ci zufolò non so quale orribile arietta che poi ci gabellò per musica greca. (trad. di U. Dettore)

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

CULTURA e SOCIETÀ

«Licantropo» secondo la voce greca composta da lýkos, «lupo» e ánthropos, «uomo», o «lupo mannaro» da un’evoluzione del latino popolare lupus hominarius, l’uomo-lupo è figura dell’immaginario europeo probabilmente fin dalla prima età del bronzo. È possibile che i racconti di licantropia affondino la propria origine nella competizione fra le tribù primitive di cacciatori e i branchi di lupi; con il passaggio alla stanzialità e alla pastorizia, il lupo, più che temuto in quanto competitore, venne demonizzato come nemico, come simbolo della natura più sanguinaria e selvaggia. Già nell’Epopea di Gilgamesh la dea Ishtar, nella serie delle capricciose metamorfosi a cui ha sottoposto i suoi amanti, trasforma (ironicamente!) un pastore in lupo (Tavola 6, vv. 56-60). Nel mito greco la terra dei licantropi è l’Arcadia, il cui primo re fu Licàone: secondo il racconto di Ovidio, portò al culmine l’empietà del genere umano nell’età del ferro, e fu perciò trasformato in lupo da Giove, quasi a sancire fisicamente la ferocia animalesca già presente nel personaggio (Ovidio, Metamorfosi, I, 209-241). Sempre in ambiente arcadico si collocano rituali legati alla figura di Zeus «Liceo», collocato sul monte omonimo, i cui sacerdoti, dopo aver compiuto un sacrificio umano, venivano trasformati in lupi; trascorsi nove anni, se non si fossero cibati di carne umana, avrebbero recuperato l’aspetto di uomini. Un racconto di ambientazione arcade, legato a questa origine religiosa, è riferito anche da Plinio il Vecchio (Naturalis historia VIII, 80-82) [ T5 ONLINE, cap. 3], e storie analoghe si trovano in varie civiltà antiche, presso le quali la metamorfosi in lupo rappresenta un rito di iniziazione dei giovani membri di stirpi guerriere. All’Arcadia era ricollegato da alcuni anche il rito dei Lupercalia, le cui origini vengono illustrate da Ovidio nei Fasti (II, 267-452): si tratta di un rituale di purificazione e di fecondità, in cui due giovani, detti Luperci, a metà febbraio si spogliano e si rivestono di un perizoma di pelle caprina, girano intorno al Palatino e sferzano chiunque incontrino sulla loro strada, e in particolare le donne. Costante è il tema dell’ingresso nel mondo animale attraverso l’abbandono delle vesti umane, appese a una quercia nel racconto di Plinio, protette da un bizzarro, animalesco cerchio magico di urina in Petronio: in latino l’uomo-lupo è per eccellenza versipellis (termine usato anche da Petronio), cioè nasconde, sull’altro lato della pelle umana, una pelliccia animale, che appare alla luce durante la trasformazione. Nelle tradizioni germaniche il berserkr («orso-lupo», poiché ricoperto di pelli d’orso o di lupo) era il

guerriero votato al dio Odino, le cui vesti ferine alludevano all’assunzione magica di una ferocia distruttiva animalesca. Uomini-belva, assetati di sangue, la cui immagine demoniaca ricorre in miti di trasformazione dell’area balcanica, fino al vampirismo. Già in età antica, peraltro, medici come il poeta Marcello di Side o il più noto Galeno di Pergamo, entrambi vissuti nel II secolo d.C., testimoniano di una spiegazione razionalistica della licantropia: chi ne è affetto nel mese di febbraio (lo stesso mese dei Lupercali) vaga di notte in preda al delirio, imitando in tutto un lupo o un cane, e si aggira per i cimiteri come il soldato petroniano. La licantropia (o cinantropia) sarebbe dunque una patologia psichica che richiede precise terapie (salassi, purgazioni, sonniferi).

Miniatura raffigurante un branco di lupi che assiste alla trasformazione di un uomo in lupo, Rochester Bestiary, 1230 ca. Londra, British Library.

PERCORSO ANTOLOGICO

Gli uomini-lupo

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 4 La novella della matrona di Efeso Satyricon 110, 6-113, 2 ITALIANO

Ci troviamo sulla nave dove Encolpio e Gitone hanno corso un grave pericolo, superato grazie all’intervento di Eumolpo. Nel clima disteso e confortevole di un convito, lo stesso Eumolpo intrattiene i presenti con una novella piccante, di tono leggero e scanzonato, nel gusto delle fabulae Milesiae. Diversamente dalle novelle del lupo mannaro e delle streghe, raccontate da liberti incolti in un linguaggio colorito e plebeo, questa novella, narrata dal poeta Eumolpo, è caratterizzata da un linguaggio piuttosto elevato, arricchito di citazioni parodistiche (da Virgilio) e da un malizioso contrappunto sulla castità della bella matrona. La donna infatti, iperbolicamente presentata come «una dama di... rispecchiata virtù», «donna più unica che rara», incomparabile «esempio di castità vera e di sincero amor coniugale» (cap. 111), continua a essere designata – ovviamente in chiave ironica – mediante l’epiteto di «castissima» (cap. 112) anche dopo aver ceduto alle premure del soldato; soltanto nella chiusa del racconto, a suggello della sua sorprendente trasformazione, viene detta «avvedutissima donna», cioè, con un elogio non privo di ambiguità, donna oltremodo saggia e prudente. La vittoria degli istinti e dei piaceri fisici (dal cibo al vino all’amore) è accolta festosamente dai marinai, con rossore da Trifena, con indignazione da Lica. Non meno vivida la caratterizzazione dei protagonisti della novella: si pensi alla figurina ovidiana della «fedelissima ancella», ma soprattutto a quella straordinariamente ricca e cangiante del soldato, che passa dalla curiosità iniziale alla sorpresa paurosa, e poi dalla pietà già mista di desiderio alle accorte blandizie con cui conquista la donna.

Frattanto Eumolpo, nostro difensore nel pericolo e autore dell’attuale concordia, non volle che la nostra allegria rimanesse a corto di storielle e cominciò a infilar facezie sulla leggerezza delle donne: e come piglino subito fuoco, e come sian pronte a dimenticarsi anche dei figli, e che non c’è donna tanto casta da non perder la testa per una nuova passione. Infine disse che, senza tirare in ballo le antiche tragedie o i nomi famosi da secoli, ci avrebbe raccontato, se gli facevamo la grazia di ascoltarlo, un fatterello capitato ai tempi suoi. Tutti volsero dunque gli occhi e gli orecchi verso di lui, ed egli cominciò: [111] «V’era in Efeso una dama di così rispecchiata virtù che perfino le donne dei paesi vicini accorrevano a vederla come una meraviglia. Avvenne ch’ella perse il marito, e, non contenta di seguirne il funerale coi capelli sparsi percotendosi davanti a tutti il petto nudo, come tutte fanno, volle seguire il defunto perfin nel sepolcro. Così che, quando il corpo fu posto nel sotterraneo, secondo l’uso greco, questa dama gli si mise accanto, dolente custode, piangendolo giorno e notte. Né il padre, né la madre, né i parenti riuscirono a strapparla di là, afflitta e decisa a lasciarsi morire di fame; gli stessi magistrati, fatto un ultimo tentativo, dovettero ritirarsi. E, compianta da tutti, questa donna più unica che rara aveva già lasciato trascorrere cinque giorni senza prender cibo. Una fedelissima ancella era rimasta accanto all’infelice, e, unendo le proprie lacrime a quelle di lei, badava a riaccender la lampada funeraria ogni volta che la vedeva venir meno. Tutta la città parlava di quel pietoso evento; la gente di ogni classe affermava unanime che nessun altro esempio di castità vera e di sincero amor coniugale aveva mai brillato così sulla terra. In quel tempo, il governatore della provincia condannò alcuni ladroni ad esser crocifissi proprio accanto al sepolcro in cui la matrona stava 221 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

PERCORSO ANTOLOGICO

piangendo il recente cadavere del marito. E, la notte seguente, il soldato che vigilava presso le croci affinché nessuno ne togliesse i corpi per seppellirli, vedendo un lume che brillava tra i sepolcri e udendo gemiti di pianto, spinto dalla curiosità propria della natura umana, volle sapere chi fosse e che avvenisse. Discese dunque nel sepolcro, e, alla vista di quella donna bellissima, dapprima rimase sbigottito come davanti a un fantasma o a qualche apparizione infernale; ma poi, notando la salma distesa, e quel pianto, e quel volto graffiato dalle unghie, capì, com’era di fatti, di aver dinanzi una vedova inconsolabile. E subito portò nel sepolcro la sua povera cena e prese ad esortare l’afflitta a non ostinarsi nel suo vano dolore, a non spezzarsi il cuore in inutili gemiti: tutti, diceva, ci attende una egual fine, e un egual domicilio; e aggiunse tutto ciò che potesse richiamare al senno un animo esulcerato. Ma le consolazioni di quell’ignoto esasperano ancor più la donna che si batte il petto con rinnovata furia e si strappa i capelli per deporli sulla salma. Tuttavia il soldato non si diede per vinto e, con eguali esortazioni, si volse alla fanticella tentando di indurla a prender cibo, finché essa, non sapendo resistere al profumo del vino, ormai vinta, tese la mano verso quella caritatevole seduzione; poi, riconfortata dal vino e dal cibo, cominciò a dar l’assalto all’ostinazione della sua padrona. “Che ti gioverà” le diceva “lasciarti morir di fame, seppellirti viva, render l’anima innocente prima che la tua ora sia giunta? Forse la fredda cenere e i Mani a questo badano?1 Perché non vuoi tornare alla vita? Perché non liberarti da questo pregiudizio femminile e godere della luce del giorno finché ti sia concesso? Questo stesso corpo che ti giace innanzi dovrebbe incoraggiarti alla vita”. Nessuno sa respingere l’invito a vivere e a prender cibo. La dama, dunque, estenuata da tanti giorni di digiuno, si lasciò vincere nella sua ostinazione, e si rifocillò con non minore avidità della sua ancella che per prima s’era arresa. [112] Voi già sapete quali altri desidèri vengano a chi si è saziato a suo agio. Le stesse lusinghe a cui era ricorso per indurre la dama a vivere, il soldato le impiegò anche per metter l’assedio alla sua virtù. Il giovanotto non sembrava per nulla brutto né sciocco alla nostra castissima, e l’ancella, da parte sua, badava a metterglielo in buona luce ripetendo: “Combatter vuoi tu proprio un amor che ti aggrada? Non ti sovviene, dunque, qual sia questa contrada?” Per farla breve, la dama non seppe mantener digiuna nemmeno quell’altra parte del suo bellissimo corpo, e il soldato riportò una doppia vittoria. Giacquero dunque insieme non solo quella notte nella quale fu consumato il loro imene, ma anche il giorno dopo e l’altro ancora, tenendo naturalmente chiuse le porte del sepolcro affinché chiunque venisse, noto o ignoto, a quel monumento, pensasse che la castissima sposa avesse reso l’anima sulla spoglia del marito. Quanto al soldato, orgoglioso della bellezza della sua donna e del segreto del loro 1. Forse la fredda cenere... badano?: verso, come i due poco dopo citati, tratti da Eneide IV, 34 e 38-39: sono le parole

con cui Anna cerca di persuadere la sorella Didone a cedere alla sua passione

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per Enea e a venir meno alla fedeltà nei confronti del defunto marito Sicheo.


PERCORSO ANTOLOGICO

amore, si procurava tutto ciò che di meglio poteva con le sue modeste risorse e, appena calata la notte, portava tutto nella tomba. Avvenne dunque che i parenti di uno di quei crocifissi, nel veder diminuita la sorveglianza, tolsero giù, durante la notte, l’appeso dal suo supplizio e gli resero gli estremi uffici. Il giorno dopo, il soldato, che ormai irretito dalla passione aveva dimenticato la consegna, quando vide una croce senza il cadavere, atterrito dal supplizio che lo attendeva, raccontò tutto alla donna: no, non avrebbe atteso la sentenza del giudice, meglio far giustizia con la spada della propria negligenza. Chiedeva solo che ella gli concedesse un luogo per morire, così che quella tomba fatale raccogliesse insieme le spoglie dell’amante e dello sposo. Ma la dama, non meno pietosa che casta, esclamò: “Non vogliano gli dèi ch’io veda in egual tempo i funerali dei due uomini che mi furono più cari al mondo. Preferisco appendere il morto che uccidere il vivo”. E, fedele alle sue parole, gli impone di togliere dall’arca il corpo del marito e di affiggerlo alla croce spoglia. Il soldato approfittò dell’astuzia di quella avvedutissima donna, e il giorno dopo tutta la gente si domandava come mai quel morto si fosse messo in croce da solo». [113] I marinai accolsero questa storiella con gran risate, mentre Trifena, arrossendo tutta, appoggiava teneramente il volto sulla spalla di Gitone. Non rise invece Lica, che esclamò scotendo il capo pieno di corruccio: «Se il governatore avesse compiuto il suo dovere avrebbe fatto rimettere nella tomba il corpo del marito e appendere alla croce la donna». (trad. di U. Dettore)

Dialogo con i MODELLI Un racconto filosofico di Voltaire: Zadig ■ Un episodio di Zadig si ispira alla novella della matrona di Efeso Voltaire pubblicò Zadig o del destino

nel 1747. È una «storia orientale»: la vicenda si svolge a Babilonia, in Egitto, in Arabia, attraversando quasi tutto il Medio Oriente; ambientazione prediletta da Voltaire e molto diffusa nella narrativa del secolo dei Lumi. Nell’episodio intitolato Il naso, ispirato alla novella di Petronio, Azora, moglie del protagonista Zadig, racconta scandalizzata dell’incostanza di una vedova sua conoscente. Zadig, irritato dall’ostentazione di virtù della donna, decide di fingersi morto, incaricando un amico, con il quale è d’accordo, di mettere alla prova la moglie, che naturalmente giunge sul punto di cedere. Il sorprendente finale (che dà il titolo all’episodio) richiama invece con molta probabilità la novella di Telifrone nell’Asino d’oro di Apuleio (II, 21-30 [ T3 ONLINE, cap. 14]), per il motivo del naso tagliato connesso alla veglia funebre. ■ I racconti e i romanzi di Voltaire: un filo conduttore Secondo le più caratteristiche e innovative

concezioni dell’Illuminismo europeo, un filo

conduttore «accomuna tutti i romanzi di Voltaire: è quello di un processo di formazione del protagonista, che si compie attraverso molteplici esperienze, prima fra tutte l’esperienza della diversità. Tutti gli eroi e le eroine di Voltaire sono grandi viaggiatori, per necessità o per curiosità, e tutti [...] sono molto disponibili all’osservazione etnologica e alla discussione di filosofia morale, di politica, e di metafisica. L’esperienza, cercata o subita, suscita la riflessione: ciò di cui all’inizio si era sicuri non appare più tanto certo, cadono alcune preclusioni, gli orizzonti si allargano, il giudizio si fa più duttile e complesso, si fa strada l’idea della relatività di ogni norma e giudizio, lo scetticismo, morale e metafisico, sostituisce il dogmatismo iniziale» (Moneti). ■ Dove leggere Zadig Quattro fra le più celebri e interessanti opere narrative di Voltaire, Candido, Zadig, Micromega e L’Ingenuo, sono riunite in un volume della collana economica I grandi libri Garzanti, con introduzione e traduzione di Maria Moneti, Milano 2004.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

T 5 La città rovesciata: Crotone Satyricon 116 LATINO ITALIANO

Miracolosamente sopravvissuti a un naufragio, il poeta Eumolpo, il servo Corace, Encolpio e Gitone giungono alla città di Crotone, che appare loro dall’alto di un monte. Un vilicus, in un insolito linguaggio aulico, assumendo la funzione del prologus di una carnevalesca commedia che fra poco sarà recitata dai nostri avventurosi eroi, illustra loro il carattere straordinario di questa città, un vero e proprio mondo alla rovescia [ Leggere un testo critico, p. 226] dove tutti i valori tradizionali e consueti appaiono capovolti: il commercio è mal visto; la letteratura, l’eloquenza, i sancti mores banditi; matrimonio e prole scoraggiati. Gli uomini si dividono in due sole categorie: imbroglioni e imbrogliati. La metafora conclusiva dei corvi che spolpano i cadaveri anticipa il quadro dei cacciatori di eredità costretti a mangiare cannibalescamente il corpo di Eumolpo, nell’illusione di ereditare i suoi inesistenti beni [ T8]. [116] Hoc peracto libenter officio destinatum carpimus iter, ac momento temporis

PERCORSO ANTOLOGICO

in montem sudantes conscendimus, ex quo haud procul impositum arce sublimi oppidum cernimus. Nec quid esset sciebamus errantes, donec a vilico quodam Crotona esse cognovimus, urbem antiquissimam et aliquando Italiae primam. Cum deinde diligentius exploraremus qui homines inhabitarent nobile solum, quodve genus negotiationis praecipue probarent post attritas bellis frequentibus opes: «O mi» inquit «hospites, si negotiatores estis, mutate propositum aliudque

[116]

Dopo aver compiuto questo pio ufficio, c’incamminiamo per la via scelta, e in breve giungiamo, tutti in sudore, sul sommo di un monte dal quale scorgiamo non lungi una città dominata da un’alta rocca. Spinti alla ventura come eravamo, nessuno di noi sapeva di qual città si trattasse, finché un villico non ci disse che era Crotone, città antichissima e, un tempo, la prima d’Italia. Cercammo allora di sapere con minuziose domande quali uomini abitassero quel nobile suolo e a quali commerci particolarmente si dedicassero dopo che le continue guerre ne avevano distrutto la prosperità. «Cari i miei forestieri,» ci rispose quello «se siete

Le FORME dell’ESPRESSIONE Il discorso del villico ▰ Un linguaggio sorprendentemente elevato Si è parlato, certo non senza ragione, di «realismo mimetico» per la lingua e lo stile del Satyricon; alcuni episodi, tuttavia, sembrano almeno in parte smentire tale definizione, presentando soluzioni di maggiore complessità. Nella pagina che apre l’episodio di Crotone, ad esempio, un villico si rivolge ai protagonisti con un linguaggio sorprendentemente elevato.

▰ Una rappresentazione teatrale In questo caso il

livello linguistico è determinato da una precisa necessità narrativa: Petronio sente evidentemente il bisogno di introdurre la nuova avventura illustrando, dall’alto di un monte, in un’eccezionale posizione prospettica, gli inauditi costumi della città di Crotone. Tutto l’episodio di Crotone presenta intenzionalmente i segni di una rappresentazione teatrale: il villico svolge la funzione protatica del personaggio che ragguaglia gli spettatori sullo stato della vicenda all’inizio della recita.

▰ Un comico effetto di contrasto Tuttavia, anche

qui, Petronio non manca di sollecitare un comico effetto

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PERCORSO ANTOLOGICO

vitae praesidium quaerite. Sin autem urbanioris notae homines sustinetis semper mentiri, recta ad lucrum curritis. In hac enim urbe non litterarum studia celebrantur, non eloquentia locum habet, non frugalitas sanctique mores laudibus ad fructum perveniunt, sed quoscunque homines in hac urbe videritis, scitote in duas partes esse divisos. Nam aut captantur aut captant. In hanc urbe nemo liberos tollit, quia quisquis suos heredes habet, non ad cenas, non ad spectacula admittitur, se omnibus prohibetur commodis, inter ignominiosos latitat. Qui vero nec uxores unquam duxerunt nec proximas necessitudines habent, ad summos honores perveniunt, id est soli militares, soli fortissimi atque etiam innocentes habentur. Adibitis» inquit «oppidum tanquam in pestilentia campos, in quibus nihil aliud est nisi cadavera, quae lacerantur, aut corvi, qui lacerant».

commercianti cambiate programma e cercatevi un altro mestiere. Se invece siete gente più raffinata e sapete mentire con arte e costanza, fate conto di correr dritti verso la ricchezza. Perché in questa città non sono in onore le belle lettere; non si stima l’eloquenza; la frugalità e la santità dei costumi non riportano la minima lode; e mettetevi bene in mente che tutti coloro che incontrerete laggiù si dividono in due grandi classi: gli imbroglioni e gli imbrogliati. In quella città nessuno vuole aver figli perché chiunque abbia eredi diretti non è ammesso né ai banchetti né agli spettacoli, è escluso da tutti i piaceri e vive oscuramente tra la canaglia. Quelli invece che non hanno preso moglie e mancano di parenti prossimi, raggiungono i sommi onori, quanto a dire che solo a loro è riconosciuto il genio militare, loro soli sono gli intrepidi, loro soli gli onesti. Insomma, potete entrare in questa città come in un campo di pestilenza dove non ci sono altro che cadaveri spolpati e corvi che li spolpano». (trad. di U. Dettore)

di contrasto stilistico: il discorso del villico esordisce infatti con una forma irregolare che caratterizza il suo basso livello culturale (mi vocativo plurale), ma che qui funge da paradossale preludio a un discorso forbito e retoricamente ornato. Infatti «subito dopo il discorso diviene corretto, e perfino elegante: riscontriamo concinnitas, tricolon, asindeti correlativi, iperbati, uso corretto dei tempi del verbo, scelta dell’astratto necessitudines per designare i parenti, numerose allitterazioni e infine la presenza, su tre congiunzioni copulative, di due -que e dell’unico altro atque usato dai

personaggi incolti (uso raffinato e letterario rispetto al comune et), dopo quello di Trimalchione a 59, 2, in un contesto generale perfettamente analogo» (Dell’Era).

▰ Una stilizzazione del reale Proprio questo

esempio deve indurre a una certa cautela nell’uso di espressioni quali «realismo mimetico» o «linguistico» a proposito del Satyricon: come ha scritto ancora Dell’Era, il «realismo» classico «è sempre una stilizzazione del reale, anche in Petronio, che pure appare il più vicino alla sensibilità moderna, da questo punto di vista».

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

5. Il Satyricon di Petronio

Leggere un TESTO CRITICO Una chiave di lettura per l’episodio di Crotone: la legge dell’inversione Nell’episodio crotoniate del Satyricon domina incontrastata, a tutti i livelli, la legge dell’inversione.

Sull’argomento, si leggano le pagine illuminanti di Paolo Fedeli.

PERCORSO ANTOLOGICO

Il discorso del vilicus si chiude con una visione apocalittica: la città, i cui abitanti aut captantur aut captant, è come un campo in tempo di pestilenza, popolato solo di cadaveri da lacerare e di corvi che li lacerano. Gli abitanti di Crotone assumono già qui le connotazioni animalesche e le stesse caratteristiche (cannibalismo, antropofagia) che ritroveremo in occasione del testamento di Eumolpo [ T8]. Se, dunque, il vilicus si esprime con accenti che sono diametralmente opposti a quelli che da lui ci attenderemmo (tecnica del periodare, enfasi, atteggiamento censorio e pedagogico), ciò non avverrà per un preteso fine ironico da parte di Petronio, ma perché s’inserisce anch’egli nel meccanismo dell’inversione che caratterizza Crotone e il comportamento dei suoi abitanti. Sin dalle parole del vilicus si capisce che la condizione attuale di Crotone non solo equivale al rovesciamento dell’antica situazione di floridezza, ma corrisponde anche al rovesciamento della realtà: in ogni episodio, quindi, la soluzione sarà l’opposto di quella attesa. [...] Crotone, caratterizzata dall’inerzia degli abitanti e dall’assenza di un qualsivoglia ritmo di vita, diviene il simbolo di una città in sfacelo. Per queste sue caratteristiche e per la sua staticità è l’inverso della Graeca urbs, così ricca di traffici e di vita. Difatti dalle parole di Trimalchione e dai discorsi dei liberti nella cena si ricava la netta impressione di un mondo dedito ai commerci, in cui il cambiamento investe la società sin dalle radici: l’antica aristocrazia è stata progressivamente soppiantata e rimpiazzata dal ceto emergente dei liberti; i loro discorsi nella cena presentano ampi squarci di un mondo in cui i patrimoni possono crescere o svanire; ma comunque la loro accumulazione e la loro dissipazione sono sempre in rapporto col commercio e con gli affari. A Crotone, invece, non avviene nulla di tutto ciò: d’altronde il vilicus aveva messo in guardia i suoi interlocutori dal recarsi, qualora fossero stati dei negotiatores, in una città priva di un qualsivoglia genus negotiationis (116, 4). A Crotone chi desidera accrescere il proprio patrimonio e migliorare la propria fortuna deve necessariamente ridursi in uno stato di inerzia: non ha che da scegliere la preda e attenderne pazientemente la morte. Ma anche per altri versi Crotone, così come viene presentata dal vilicus, costituisce il rovescio della Graeca urbs: per quello che possiamo dedurre dai resti del Satyricon, la Graeca urbs ha comunque una scuola di eloquenza, quella diretta dal retore Agamennone, e i retori devono essere tenuti in non poco conto, se l’arricchito Trimalchione non solo li invita a cena a casa sua, ma si sforza addirittura di competere con loro sul terreno dell’eloquenza; il ‘parvenu’, quindi, capisce l’importanza della cultura e ne prova un nostalgico desiderio, anche perché si tratta dell’unico bene che non gli appartiene pienamente. A Crotone, invece, come c’informa il contadino, non litterarum studia celebrantur, non eloquentia locum habet (116, 6). E ancora: nella Graeca urbs persino il rozzo Trimalchione può rimpiangere amaramente di non aver avuto figli (74, 15). A Crotone, invece, nemo liberos tollit (116, 7); anzi, i cittadini si divorano, sono simili a corvi e cadaveri in un deserto. Appare, dunque, inevitabile che in una città siffatta sia possibile entrare solo facendo di se stessi il proprio contrario. (P. Fedeli, Petronio. Crotone o il mondo alla rovescia, in «Aufidus» 1, 1987, pp. 12-14)

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PERCORSO ANTOLOGICO

T6

Contro l’epica storica

T7

Un’ambigua dichiarazione di poetica

ONLINE

Satyricon 118

Satyricon 132, 15

ONLINE

T 8 Una suasoria antropofagica Satyricon 141 LATINO ITALIANO

È l’ultimo frammento del romanzo che possediamo. Dopo la morte di Eumolpo, coloro che aspirano a ereditare sono costretti per testamento a mangiare pubblicamente il suo cadavere fatto a pezzi e cucinato. Uno di essi s’incarica di convincere i compagni ad affrontare la prova. Il discorso assume la forma di una grottesca suasoria, con i necessari riferimenti a noti episodi storici. In altri passi del romanzo Petronio si era servito di elementi del mito classico, abbassati parodisticamente per sottolineare con un impietoso confronto il degrado della realtà contemporanea; qui, analogamente, il riferimento agli eventi gloriosi della storia romana ha la funzione di denunciare lo squallore e la volgarità del presente. L’ossessione del denaro e della ricchezza, leitmotiv costante dell’opera, si veste delle sue forme più ignobili e impressionanti.

«De stomachi tui recusatione non habeo quod timeam. Sequetur imperium, si promiseris illi pro unius horae fastidio multorum bonorum pensationem. Operi modo oculos, et finge te non humana viscera, sed centies sestertium comesse. Accedit huc, quod aliqua inveniemus blandimenta, quibus saporem mutemus. Neque enim ulla caro per se placet, sed arte quadam corrumpitur, et stomacho conciliatur averso. Quod si exemplis vis quoque probari consilium, Saguntini oppressi ab Hannibale humanas edere carnes, nec hereditatem expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame, nec quicquam aliud in hac epulatione captabant, nisi tantum ne esurirent. Cum esset Numantia1 a Scipione capta, inventae sunt matres, quae liberorum suorum tenerent semesa in sinu corpora». «Quanto alla ripugnanza del tuo stomaco non ho alcun timore. Ti obbedirà facilissimamente se gli prometterai, per un’ora di nausea, un compenso di infiniti beni. Chiudi gli occhi e fa conto di trangugiarti non visceri umani ma un bel milione di sesterzi. Aggiungi che troveremo dei buoni intingoli per migliorare il sapore. Nessuna carne è buona di per sé ma solo per l’arte con cui è cucinata e conciliata alla naturale ripugnanza dello stomaco. E se poi vuoi qualche esempio storico per rafforzare la tua decisione, ricòrdati che i saguntini, assediati da Annibale, si nutrirono di carne umana, e quei poveri diavoli non aspettavano alcuna eredità. I petelini, ridotti agli estremi, fecero altrettanto: e non si guadagnavano altro che di non morir di fame. E, quando Numanzia1 fu espugnata da Scipione, si trovarono delle madri che stringevano al seno i corpi semidivorati dei loro fanciulli...». (trad. di U. Dettore) 1. Saguntini... Petelini... Numantia: episodi notissimi della storia romana. L’iberica Sagunto e Petelia, città dei Bruttii a una ventina di chilometri da

Crotone, furono entrambe espugnate da Annibale durante la seconda guerra punica dopo una coraggiosa e ostinata difesa; Numanzia si arrese a Scipione

Emiliano nel 133 a.C., dopo un assedio di quindici mesi.

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LABORATORIO

Nell’officina del Satyricon

Dum versas te, nox fit Satyricon 41, 9-12

Ab hoc ferculo Trimalchio ad lasănum surrexit. Nos, libertatem sine tyranno nacti, coepimus invitare convivarum sermones. Dama itaque primus cum pataracina poposcisset, «Dies» inquit «nihil est. Dum versas te, nox fit. Itaque nihil est melius quam de cubiculo recta in triclinium ire. Et mundum frigus habuimus. Vix me balneus calfecit. Tamen calda potio vestiarius est. Staminatas duxi, et plane matus sum. Vinus mihi in cerebrum abiit».

I dati

8

Ci troviamo nel bel mezzo della Cena Trimalchionis, alla quale partecipa il narratore Encolpio in compagnia di Ascilto e del giovinetto Gitone. Da poco è stato servito un immenso cinghiale, dal cui ventre squarciato esce, a sorpresa, uno stormo di tordi. Uno schiavetto coronato di edera (emblema del dio Dioniso) distribui­ sce uva ai commensali, cantando ad alta voce poesie di Trimalchione, che con un nuovo colpo di scena affranca il fanciullo pronunciando una battuta («Dioniso – disse – sii Libero») giocata sui vari appellativi del dio. Trimalchione si ritira un attimo per andare ad lasanum.

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Dentro il testo 1

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Con l’aiuto del vocabolario traduci il brano, prima in modo letterale, poi cercando di trovare il registro linguistico più adeguato al latino del romanzo. ferculo: ferculum, in prima battuta, è un vassoio per portare i cibi (da fero), ma qui è usato in senso metonimico. lasanum: un grecismo da làsanon. libertatem... tyranno: chi è il tiranno in questione? Dama: un personaggio maschile: sarà un caso che il nome ricorra anche in Orazio (Sermones II, 6, 38) e in Persio (Saturae 5, 76)? pataracina: neutro plurale di un vocabolo di coniazione popolare, originato dall’innesto di un termine latino (patera = coppa) con un termine greco (pátachnon, diminutivo di patáne = padella): una coppa-padella, per indicare un boccale di grandi dimensioni. Come potresti tradurlo? de cubiculo... triclinium: aiutandoti con le piantine di alcune case patrizie pompeiane (coeve al romanzo di Petronio), verifica l’ubicazione consueta e la funzione di queste stanze. Qual è il senso della battuta di Dama?

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mundum: è un sostantivo o un aggettivo? balneus: in latino il termine è neutro: Dama, evidentemente, ha poca dimestichezza con la lingua latina, e fa uno strafalcione. Possiamo dire che l’errore grammaticale svela il ceto sociale del personaggio? Altri commentatori osservano però che Dama è completamente ubriaco, e che i suoi errori potrebbero essere soltanto il frutto della sua condizione. Quale spiegazione ti convince di più? calda potius vestiarius est: una metafora di gusto molto popolare, che andrà tradotta con qualche ingegnosa invenzione verbale. staminatas: aggettivo sostantivato femminile, qui in accusativo plurale: dal greco stámnos (= brocca di vino), in connessione con la metafora precedente. matus: forma sincopata dall’aggettivo madidus. vinus: ancora un errore di genere. In latino vinum è neutro. Come risolvere in traduzione gli errori di Dama? Descrivi la sintassi del brano. Come mai, in questo passo, si trovano tanti grecismi? Dove si svolge l’episodio della Cena Trimalchionis? Possiamo parlare, per questo brano, di mimesi linguistica? La narrazione è condotta in prima persona da Encolpio. Rileggi le osservazioni critiche di Auerbach nel par. 4 del profilo: sei d’accordo con lo studioso? Si possono applicare anche a questa breve sequenza?

Oltre il testo 18

Dum versas te, nox fit: ricordi qualche espressione di Seneca che può essere accostata a quella di Dama, sia sul piano tematico che linguistico?

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5. Il Satyricon di Petronio

MAPPA IL SATYRICON DI PETRONIO

L’autore

Il genere

• •

identificazione a lungo discussa probabilmente il Petronio di cui parla Tacito, arbiter elegantiae alla corte di Nerone

il romanzo nel mondo antico: opera di intrattenimento, ai margini del sistema letterario all’intersezione di diversi generi: romanzo antico, fabula Milesia, mimo, satira esametrica, satira menippea, epos avventuroso parodia: «Odissea comica»; ribaltamento ironico del romanzo greco

• •

L’opera

• • • • Lingua e stile

forma – prosimetro – giunta gravemente mutila – se ne ignora l’originaria estensione – il testo pervenuto è ordinato in 141 brevi capitoli – frammento conservato più ampio: Cena Trimalchionis contenuti narrativi, ambienti, personaggi – avventure dello scholasticus Encolpio, protagonistanarratore – personaggi viziosi e senza scrupoli – ambienti e scenari in continua mutazione, spesso sordidi e degradati – lucida rappresentazione della realtà sociale dell’epoca – assenza di messaggi morali, di interventi e giudizi dell’autore o di un suo portavoce

plurilinguismo e pluristilismo realismo mimetico effetti di contrasto linguaggio dei personaggi: – caratterizzato dalla loro cultura e condizione sociale, ma variabile secondo il contesto – personaggi colti: latino semplice ed elegante, urbanitas e sermo familiaris – personaggi incolti: latino paratattico, irregolare e popolaresco, forme idiomatiche e volgarismi 229 © Casa Editrice G. Principato


IL SATYRICON DI PETRONIO

Verifica finale Vero / Falso

1 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. La cronologia e l’attribuzione del Satyricon sono state a lungo discusse b. Prevale oggi la datazione all’epoca dei Flavi c. Il testo è giunto fino a noi pressoché integro d. Il materiale narrativo in nostro possesso si articola in cinque blocchi e. A volte l’autore esprime giudizi sui personaggi e sugli eventi narrati f. Nel Satyricon si rispecchiano i grandi fenomeni sociali dell’epoca g. La sequenza narrativa più ampia del romanzo è l’episodio di Crotone h. C’è chi ha interpretato Trimalchione come una caricatura di Nerone i. Il Satyricon è stato definito un’«Odissea comica»

V | F V | F V | F

p._____/6

V | F V | F V | F V | F V | F V | F

p._____/9

Quesiti a scelta multipla

2

■ la presa di Troia e la guerra civile fra Ottaviano e Antonio ■ il giudizio di Paride e la guerra civile fra Cesare e Pompeo 6. Il genere cui forse si avvicina di più il Satyricon è ■ la satira esametrica ■ la satira menippea ■ il romanzo greco ■ la fabula Milesia

Indica il completamento corretto.

1. La parte superstite del Satyricon è stata ordinata in ■ 5 libri di ampiezza diseguale ■ 141 capitoli, senza suddivisione in libri ■ 5 lunghe sequenze, senza suddivisione in libri ■ 141 capitoli, suddivisi in tre libri 2. La narrazione della vicenda principale è condotta ■ in terza persona dall’autore-narratore ■ in prima persona da diversi personaggi-narratori ■ in prima persona dal protagonista Encolpio ■ in prima persona, alternativamente da Encolpio e da Eumolpo 3. La novella della matrona di Efeso è narrata ■ da Trimalchione ■ da Nicerote ■ da Encolpio ■ da Eumolpo 4. Encolpio è perseguitato dall’ira ■ di Poseidone ■ di Priàpo ■ di Apollo ■ di Afrodite 5. I due brani poetici recitati da Eumolpo hanno per argomento ■ la contesa per le armi di Aiace e la battaglia di Farsàlo ■ la presa di Troia e la guerra civile tra Cesare e Pompeo

Collegamento

3 A ciascun personaggio del Satyricon abbina la descrizione pertinente. 1. Encolpio 2. Ascilto 3. Gìtone 4. Agamennone 5. Quartilla 6. Trimalchione 7. Fortunata 8. Nicerote 9. Abinna 10. Eumolpo a. b. c. d. e. f. g. h. i. j.

Liberto arricchito, offre una cena sontuosa Anziano poeta di scarse fortune Maestro di retorica Studente, protagonista e narratore Moglie di Trimalchione Avventuriero rivale di Encolpio Liberto convitato alla cena Trimalchionis Bellissimo efebo, conteso da Eumolpo e Ascilto Sacerdotessa di Priàpo Marmista, incaricato di erigere il monumento funebre di Trimalchione p._____/10 Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Le principali vicende ricostruite nel cosiddetto «antecedente perduto». 2. I cinque blocchi in cui si suddivide il materiale narrativo in nostro possesso. 3. Cronologia e destinazione presumibili del Satyricon. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Il Satyricon rovesciamento parodistico del romanzo greco. 2. Il motivo conduttore del labirinto nel Satyricon. 3. Lingua e stile del romanzo: il «realismo mimetico».

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2 L’età dei Flavi e di Traiano Lo scenario temporale

Dall’anno dei quattro imperatori alla morte di Traiano (69-117 d.C.)

6 Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano 7

Epica nell’età dei Flavi

8

Marziale e la poesia epigrammatica

9

La satira di Giovenale

10

Le epistole di Plinio il Giovane

11

La storiografia di Tacito

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Le biografie di Svetonio

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6 Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano 1 Gli avvenimenti L’anno dei quattro imperatori Con Nerone si concludeva la dinastia giulio-claudia. La sua morte (9 giugno 68) sembrò precipitare l’impero in una situazione per certi aspetti analoga a quella delle guerre civili che avevano insanguinato Roma cento anni prima. Quattro imperatori si contesero, nel giro di un anno, la successione: Galba, espressione della nobilitas senatoria tesa a riaffermare il principio della libertas da troppo tempo umiliata; Otone, appoggiato dalle coorti pretorie e vicino ai sostenitori del regime recentemente abbattuto; Vitellio, comandante delle legioni stanziate lungo la frontiera del Reno, appoggiato dagli eserciti delle province occidentali; Vespasiano, che dal 66 era impegnato a reprimere la rivolta giudaica in Palestina, sostenuto dalle truppe orientali e danubiane. Galba fu assassinato dai pretoriani il 15 gennaio 69; Otone si uccise dopo esser stato sconfitto da Vitellio a Bedrìaco, presso Cremona, il 15 aprile 69; Vitellio conobbe una morte ignominiosa il 20 dicembre [ T17, cap. 11], dopo giornate di scontri cruenti tra vitelliani e flaviani; due giorni dopo, al senato non restava che riconoscere quale princeps Tito Flavio Vespasiano. Vespasiano Con Vespasiano (69-79 d.C.) ha inizio la dinastia dei Flavi. Il nuovo imperatore, nato a Rieti verso la fine del principato augusteo da una famiglia 232 © Casa Editrice G. Principato


Elogio di Quintiliano E, molti essendo stati gli autori latini, come sai, egregi nell’arte di perfezionare e adornare il discorso, fra tutti illustre ed eccellente fu M. Fabio Quintiliano, il quale così chiaramente e compiutamente, con diligenza somma, espone le doti necessarie a formare un oratore perfetto, che non mi sembra gli manchi cosa alcuna, a mio giudizio, per raggiungere una somma dottrina o una singolare eloquenza. Se egli solo rimanesse, anche se mancasse il padre dell’eloquenza Cicerone, raggiungeremmo una scienza perfetta nell’arte del dire. (Lettera di Poggio Bracciolini a Guarino Veronese, 15 dicembre 1416, trad. di E. Garin)

Roma resurgens

Lex de imperio Vespasiani

De causis corruptae eloquentiae Ars grammatica Institutio oratoria excitabitur laude aemulatio

di modeste origini (il padre era stato esattore delle imposte), «apparteneva a quei medi ceti italici che fornivano allo Stato i suoi nuovi quadri civili e militari» (Levi). Nell’assumere la suprema carica dello Stato, Vespasiano non poteva dunque vantare legami di sangue con la precedente dinastia (che aveva fondato il proprio potere sulla sacralità di un’auctoritas avvalorata da discendenze divine), né d’altra parte contare sul prestigio dell’antica nobiltà o su una posizione eminente nell’ordine senatorio. La lex de imperio Vespasiani Ottaviano si era assicurato il potere senza formalmente intaccare le strutture dell’antica res publica; Vespasiano si preoccupò innanzitutto di dare stabilità all’istituto imperiale, ottenendone il riconoscimento giuridico mediante la lex de imperio Vespasiani. Il principato assumeva per la prima volta i contorni di una magistratura a vita; il senato, nel quale vennero immessi uomini nuovi provenienti dai municipi italici e dalle province, vedeva ridimensionate de iure le sue prerogative tradizionali. D’altro canto la definizione giuridica dei rispettivi campi d’azione poneva le basi di una coesistenza pacifica tra il princeps e l’ordine senatorio, messo al riparo dagli eccessi dispotici che avevano funestato i regni di Caligola e di Nerone. 233 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

PROFILO STORICO

Restaurazione e riorganizzazione Al pari di Augusto, Vespasiano si presenta come il restauratore della pace e della concordia, lungi da ogni disegno assolutistico e autocratico. Rifiuta lo sfarzo delle corti orientali e le pretese di divinizzazione, tornando invece a impegnarsi in un’opera di riorganizzazione amministrativa, economica e militare dello Stato: risanamento delle casse pubbliche, svuotate dalla megalomania di Nerone; grandi stanziamenti per opere edilizie; riforma dell’arruolamento legionario. Roma resurgens è il motto che leggiamo sulle monete emesse durante il suo impero: lo Stato romano aveva ritrovato solidità e stabilità all’interno; gli attriti fra princeps e senato parevano sopiti; dove solo pochi anni prima infuriava la guerra civile, regnavano l’ordine e la pace. Tito Vespasiano moriva improvvisamente nel 79. Gli succedeva il figlio Tito (7981 d.C.), di fatto già associato all’impero fin dal luglio del 71, poco dopo il suo ritorno in Roma dall’Oriente. Al trono il primogenito di Vespasiano arrivava con una fama non priva di ombre: valoroso generale in Palestina (a lui si doveva la conclusione della guerra giudaica con l’espugnazione, nel 70, di Gerusalemme, e la distruzione della città) ma anche spietato e crudele prefetto del pretorio (carica che tenne senza interruzione a partire dal 71). Destava preoccupazione in particolar modo la storia d’amore con la principessa ebrea Berenice, che Tito aveva condotto con sé a Roma e che si diceva esercitasse un forte ascendente su di lui: il pensiero correva agli amori di Antonio e Cleopatra, e alle conseguenze politiche di un possibile, e ventilato, matrimonio, tanto più che Tito non aveva mai nascosto la sua predilezione per le zone orientali dell’impero. Salendo al trono, Tito volle al contrario dissipare ogni sospetto: rinunciò a Berenice, rassicurando i tradizionalisti circa la sua volontà di proseguire la politica romano-italica e filo-occidentale del padre; intraprese grandi opere di edilizia pubblica, restaurando acquedotti e migliorando le reti viarie; non ricorse a procedimenti per lesa maestà, né tollerò le odiose figure dei delatori. Gli strepitosi giochi con i quali fu inaugurato l’anfitea­ tro Flavio [ T5-8, cap. 8] provarono che egli intendeva proseguire la tradizionale politica demagogica adottata fin dai tempi di Giulio Cesare nei confronti delle plebi urbane.

Busto dell’imperatore Domiziano, Parigi, Musée du Louvre.

Domiziano Con l’ultimo dei Flavi si infransero i delicati equilibri raggiunti dai due predecessori nelle relazioni col senato. Domiziano (81-96 d.C.) ripropose il modello autocratico che era stato di Caligola e di Nerone: si fece chiamare dominus et deus, sottoponendo al proprio totale controllo le nomine senatorie mediante la censura perpetua. Diversamente da Caligola e da Nerone, Domiziano restò tuttavia legato alla tradizione romano-italica: favorì la cultura delle province occidentali dell’impero; contrastò la diffusione delle sette filosofiche e religiose che provenivano da Oriente, decretando nell’89, e ancora negli anni 93-95, l’espulsione di filosofi ed astrologi dalla città di Roma; si fece custode dei tradizionali culti italici. A tale indirizzo politico

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6. Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

va ricondotta anche la persecuzione delle comunità cristiano-giudaiche (93-95 d.C.). L’ostilità della nobilitas senatoria acuì i sospetti e la diffidenza dell’imperatore, innestando nuovamente il perverso sistema di delazioni, processi ed esecuzioni che aveva caratterizzato l’epoca giulio-claudia. Il 18 settembre dell’anno 96 Domiziano cadeva vittima di una congiura senatoria tra gli sdegni e le minacciose reazioni dell’esercito, che sempre lo aveva sostenuto e che, secondo il racconto di Svetonio, avrebbe tentato di divinizzarlo. Nerva Il ceto senatorio continuava dunque ad alimentare l’opposizione alle spinte assolutistiche del principato; la sua forza non era tale, tuttavia, da consentire il ritorno al sistema repubblicano. Fu Nerva (settembre 96-gennaio 98 d.C.), un anziano esponente della nobilitas italica, ad assumersi il compito di riannodare il legame tra l’istituzione imperiale (sostenuta principalmente dai ceti proletari e dalle forze militari) e il senato. Nel brevissimo periodo del suo principato, Nerva seppe agire con accortezza, riuscendo a placare le agitazioni dei legionari e delle coorti pretorie, fedeli al ricordo di Domiziano al punto da pretendere la condanna a morte dei suoi assassini. Curò la riforma delle finanze pubbliche, mise fine alla pratica della lex de maiestate (strumento giuridico della repressione imperiale), si preoccupò della restaurazione morale dello Stato romano. Al principio dinastico fu sostituito quello dell’adozione, che avrebbe dovuto garantire la “scelta del migliore” nel segno della stabilità e della continuità. Alla dinastia dei Flavi faceva seguito l’epoca dei cosiddetti imperatori adottivi.

Ritratto dell’imperatore Nerva rinvenuto a Tivoli, 96-98 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

Traiano Furono i pretoriani a decidere il nome del successore, M. Ulpio Traiano (98-117 d.C.), un ufficiale di carriera di origine spagnola (dunque il primo imperatore di origine provinciale) che godeva del favore delle truppe. Traiano non commise l’errore di osteggiare il senato, al quale lasciò l’illusione di poter ancora intervenire nel controllo della vita civile. Il senato non era più, del resto, se non l’ombra dell’antica assemblea repubblicana, un tempo espressione dell’oligarchia cittadina: secondo le ricerche del Groag, sotto Traiano non più di trenta senatori risalgono alle antiche gentes; la gran parte è costituita da uomini di rango equestre proveniente dall’Italia e dalle province occidentali, una nuova nobilitas, dunque, supina ai voleri del principe e favorevole senza troppi dilemmi all’istituzione imperiale. Con la generazione di Tacito, si può dire, si spengono definitivamente le nostalgie repubblicane, alimentate per più di un secolo dall’aristocrazia senatoria. La rinnovata concordia con il senato consentì di attuare riforme economiche ed amministrative di ampio respiro che incisero profondamente sullo sviluppo delle province, assicurando loro stabilità politica e prosperità sociale. Grazie a fortunate campagne militari, l’impero raggiunse il culmine dell’espansione: furono annesse nel giro di pochi anni la Dacia (odierna Romania), l’Armenia, parte della Mesopotamia e l’Arabia Petraea. 235 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

PROFILO STORICO

Furono inoltre sconfitti i Parti ad Oriente, spina nel fianco di Roma sin dall’epoca di Cesare. Un vasto programma di lavori pubblici consentì di rendere efficienti le città mediante la costruzione di porti (fra cui quello di Ostia), strade e acquedotti. Le campagne italiche furono bonificate; nuove vie carovaniere e marittime furono aperte; nuovi giacimenti minerari scoperti e sfruttati. Si apriva uno dei periodi più floridi e «felici», secondo una consueta definizione manualistica, della storia di Roma [ cap. 13.1].

Guida allo studio

1.

Esponi i principali avvenimenti politici e militari verificatisi tra la morte di Nerone e il principato di Traiano. 2. Quali relazioni stabilirono i principi flavi, e dopo di loro Nerva e Traiano, con l’ordine senatorio? 3. Quando al principio dinastico subentrò la pratica dell’adozione? Per iniziativa di quale imperatore?

4. Sotto quale principe e in seguito a quali campagne militari l’impero romano raggiunse la sua massima espansione? 5. Per quali ragioni il principato di Traiano viene tradizionalmente considerato uno dei periodi più felici della storia di Roma?

2 I prìncipi e la cultura Il principato di Nerone, un periodo di straordinaria vitalità letteraria ed artistica, si era concluso con il suicidio delle maggiori personalità dell’epoca. Fra di esse, come si ricorderà, Seneca, Lucano e Petronio. L’età dei Flavi Con il suo clima torbido e stravagante, la corte neroniana aveva costituito il terreno di coltura più adatto allo stile frondoso e sovreccitato dell’epoca. Sotto i Flavi, mutano rapidamente i costumi di vita, le parole d’ordine, il gusto letterario. Entriamo in una fase caratterizzata da una nuova richiesta di severità, misura e disciplina: la figura più prestigiosa è ora quella di un retore, Quintiliano, che bandisce lo stile fascinoso e irregolare di Seneca a favore del modello ciceroniano. L’epica storica e drammatica di Lucano lascia il posto a quella mitologica di Stazio e di Valerio Flacco, o agli esperimenti di Silio Italico, che tenta di ricongiungere il racconto storico (seconda guerra punica) al tradizionale apparato mitologico di derivazione omerica. Le personalità più consapevoli, come Tacito, preferiscono non esporsi. Il poeta più umorale e vivace è senz’altro Marziale, che si limita tuttavia a recuperare i toni irriverenti di Catullo solo nel privato (e a puro scopo di divertimento), mentre sul versante pubblico esibisce quello spirito di cortigianeria e di adulazione che caratterizza nella sostanza l’intero trentennio. L’uomo che meglio sintetizza lo spirito dell’epoca è senza dubbio Plinio il Vecchio [ cap. 3.7], autore di un’imponente opera che non si preoccupa tanto di pensare quanto di catalogare il mondo: l’onesta laboriosità di un funzionario dell’impero sembra aver sostituito l’inquietudine dei poeti e i dubbi dei filosofi. Ritorno alla semplicità dei costumi Con la dinastia flavia, si interrompe temporaneamente il processo di orientalizzazione dei costumi: semplicità e parsimonia tornano a costituire un valore, di contro all’ostentazione e al lusso della corte 236 © Casa Editrice G. Principato


6. Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

giulio-claudia. Al nuovo indirizzo non si oppose neppure Domiziano, che volle ripercorrere la via assolutistica di Caligola e di Nerone senza tuttavia mettere in discussione gli arcaici valori romano-italici. Neoclassicismo e manierismo Alla restaurazione dei costumi e alla nuova esigenza di sobrietà corrispose, sul piano del gusto, il ritorno al «classicismo» del secolo precedente: auspice Quintiliano, che condannò lo stile baroccheggiante di Lucano e di Seneca, additando quali supremi modelli Cicerone e Virgilio. Eppure una lettura approfondita delle opere poetiche di questo periodo fa intravedere uno scenario ben più complesso, tutt’altro che risolvibile nelle formule di «classicismo» o «neoclassicismo» sotto le quali è stata spesso etichettata la letteratura dell’epoca flavia. L’esperienza del poeta più spregiudicato dell’epoca, Marziale, testimonia come la rivoluzione poetica prodottasi dopo Ovidio e culminata con Lucano e Seneca tragico non fosse stata dimenticata. Quello che colpisce è piuttosto l’uso tecnico e virtuosistico della tradizione con la quale i nuovi poeti si confrontano: smarrite le tensioni ideali e i furori tragici dell’età neroniana, le scelte espressive si traducono in un’operazione colta e raffinata di manipolazione dei modelli, antichi come recenti.

Fine del mecenatismo nell’età dei Flavi L’età di Nerone aveva assistito a un rilancio del mecenatismo; in quella dei Flavi si registra una sostanziale indifferenza alla questione.

▰ Effimero rilancio delle manifestazioni culturali in età domizianea Solo negli anni del

8.1], in occasione dell’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio, dove ogni epigramma sembra quasi un pretesto per celebrare la figura di Tito. Congedandosi dal suo libretto, l’autore scrive: Da veniam subitis: non displicuisse meretur, / festinat, Caesar, qui placuisse tibi («Perdona queste improvvisazioni: non merita di dispiacerti, / Cesare, chi si affretta a piacerti»).

principato domizianeo ritornano in auge manifestazioni pubbliche, quali i ludi Albani (che si tenevano ogni anno nella villa albana dell’imperatore) e i ludi Capitolini (che si svolsero negli anni 86, 90, 94, con gare ippiche, ginniche, musicali, concorsi di eloquenza e di poesia sia in greco sia in latino). Manca tuttavia un rapporto motivato e stabile fra principato e cultura, così come tra privati committenti e singoli scrittori: le iniziative restano episodiche e occasionali, senza giungere a modificare radicalmente la condizione di quei letterati che non possiedono redditi personali.

▰ Prevalgono i toni dell’ossequio e dell’encomio La dipendenza dei poeti dal pubblico poteva tradursi, al livello più alto, nella necessità di ossequiare il principe, il lettore più potente e ambito. Non può dunque destar stupore il tono encomiastico e panegiristico che caratterizza si può dire tutte le maggiori opere poetiche dell’epoca. de spectaculis pubblicato da Marziale nell’80 [ cap.

Quadriga, dettaglio di un affresco da Pompei, I secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

▰ Un esempio di ossequio: il De spectaculis di Marziale Si veda, per fare un solo esempio, il Liber

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

PROFILO STORICO

Filosofia ed eloquenza Seneca aveva tentato invano di trapiantare la filosofia all’interno della corte; la dinastia flavia sancisce il distacco fra governanti e filosofi, che vengono espulsi sia da Vespasiano (nel 71) sia da Domiziano (nell’89; tra la fine del 93 e il 95). Parallelamente, è lo stesso Vespasiano a fondare la prima cattedra pubblica di retorica a spese dello Stato, che viene affidata a Quintiliano. Una scelta lungimirante, che aveva tuttavia un preciso significato: favorire una cultura di tipo tecnico, ponendola sotto il controllo diretto dell’amministrazione statale. Significativamente, mentre espelle il filosofo Epitteto da Roma, Domiziano offre al retore Quintiliano l’incarico di educare i futuri prìncipi. Solo nell’età di Adriano e dei suoi immediati successori la filosofia potrà essere integrata nel vasto disegno imperiale [ cap. 13.1]. Letteratura e resistenza Accanto all’imponente messe di letteratura ossequiosa al regime non mancò tuttavia una coraggiosa letteratura di resistenza. Curiazio Materno, uno dei protagonisti del Dialogus de oratoribus [ cap. 11.2], scrive due praetextae di chiara marca filorepubblicana: Domitius (probabilmente Gneo Domizio Enobarbo, che aveva partecipato alla congiura contro Cesare); Cato (l’Uticense, che si era sacrificato per la libertas). Più o meno negli stessi anni va collocata anche l’unica praetexta integralmente pervenuta, l’Octavia, di cui si è parlato a proposito del teatro tragico di Seneca [ cap. 4.7]: la rappresentazione di Nerone come un tiranno sanguinario fa pensare che il dramma sia stato composto nella cerchia aristocratica dell’opposizione senatoria. Negli stessi ambienti si svilupparono le biografie celebrative cui si è già accennato [ cap. 1.2]. La cultura nell’età di Nerva e di Traiano Nunc demum redit animus: così Tacito apriva, poco dopo la morte di Domiziano, le pagine dell’Agricola [ T2, cap. 11]. Agricola era stato uno di quegli uomini che aveva preferito, negli anni precedenti, tacere; non era il solo ad esprimere il sentimento di una rinascita: concetti affini ritornano nel Panegirico rivolto a Traiano da Plinio il Giovane, nei versi antidomizianei di Giovenale come nella prefazione delle Storie di Floro, nelle quali si afferma che grazie a Traiano l’impero «quasi ringiovanisce dalla decrepitudine in cui era caduto». La svolta politica fu tuttavia più formale che sostanziale; ed è significativo che né Tacito narri gli eventi storici di età traianea, né Giovenale faccia riferimenti al nuovo principato. Traiano si disinteressa d’altronde della cultura, né si preoccupa di favorire una letteratura cortigiana: tutta la sua attività, sotto questo aspetto, si limita alla fondazione delle due famose biblioteche (una in greco, una in latino) annesse alla Basilica Ulpia. La vita letteraria, dopo i primi fervidi anni, dovette continuare sui ritmi dell’età precedente: la poesia, se stiamo almeno alle lettere di Plinio, dà la sensazione di non essere molto più di una simpatica attività salottiera; continua la pratica delle recitationes pubbliche; sopravvivono perfino i ludi voluti da Domiziano; l’oratoria si risolve nei virtuosismi encomiastici (e non importa quanto ora davvero condivisi) del Panegirico a Traiano di Plinio [ cap. 10.2]; le biografie letterarie di Svetonio denotano una preoccupante assenza di profondità morale e intellettuale. In cambio, Giovenale sembra intensificare, nei suoi versi, le impressionanti descrizioni della Roma di Marziale. E se a Tacito viene concesso di esaltare le grandi vittime del primo impero, non per questo la libertas repubblicana torna a risorgere, e lo stes238 © Casa Editrice G. Principato


6. Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

so storico è ben cosciente che la monarchia è ormai un’istituzione insostituibile: l’ultima opera di Tacito, gli Annales, denuncia del resto un acuirsi dei toni pessimistici e dei colori foschi. Fra le nostalgie libertarie di Tacito, l’acre pessimismo di Giovenale e il beato lealismo di Plinio il Giovane, la tradizionale cultura romana sembra avviarsi verso il suo fulgente, ma non per questo meno triste, tramonto.

Guida allo studio

1.

Quali mutamenti di gusto e di indirizzo in ambito letterario si verificarono in epoca flavia? 2. Illustra il rapporto fra i principi flavi e la cultura. 3. Il “neoclassicismo” dell’età dei Flavi: spiega in che cosa consista e per quali ragioni si parli di un fenomeno ambiguo. 4. Filosofia e retorica: quali furono rispettivamente le sorti di queste discipline nel periodo che consideriamo?

5. Accanto alla dominante letteratura di ossequio al regime continua a vivere una letteratura di opposizione? In quali forme? Sapresti fare qualche esempio? 6. È possibile affermare che nell’età di Nerva e di Traiano ebbe luogo un’effettiva rinascita politica e culturale?

3 Grammatici e filologi nel I secolo d.C. Gli studi grammaticali in età imperiale Come già si è posto in evidenza nel capitolo dedicato alla prosa tecnica [ cap. 3.1], in età imperiale si assiste a una crescente diffusione della cultura e degli studi, collegata sia all’ascesa di nuovi ceti sociali, sia all’esigenza, da parte della macchina statale, di poter contare su una burocrazia preparata ed efficiente. Di qui una serie di provvedimenti imperiali finalizzati a promuovere l’istruzione pubblica, dall’istituzione di cattedre finanziate direttamente dallo Stato all’edificazione di importanti biblioteche.

Statua del grammatico Marco Mettio Epafrodito. Roma, Museo della Civiltà Romana.

Impostazione tecnico-pratica delle discipline Tali mutamenti, sociali e culturali, determinarono un processo di tecnicizzazione delle discipline filologiche e grammaticali, che in età repubblicana erano strettamente collegate agli studi filosofici, e ora acquistano un loro speciale statuto autonomo: la conseguenza più importante è che le ricerche sull’origine della lingua e sul suo funzionamento vengono accantonate a favore di un’impostazione tecnico-pratica, di carattere essenzialmente normativo e classificatorio. I più illustri grammatici dell’epoca I più illustri grammatici della prima età imperiale furono Remmio Palèmone (attivo in epoca giulio-claudia), che apre verso il nuovo 239 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

PROFILO STORICO

indirizzo di carattere tecnicistico, Asconio Pediano, fautore della reazione classicistica al gusto asiano, e soprattutto Valerio Probo, eminente filologo autore di fondamentali edizioni critiche secondo il metodo degli studiosi alessandrini.

Guida allo studio

1.

In seguito a quali mutamenti socio-culturali le discipline filologiche e grammaticali acquisiscono uno statuto autonomo? Con

quali conseguenze sull’impostazione delle ricerche? 2. Ricorda, fra i cultori di tali studi, le personalità di maggiore rilievo.

4 Quintiliano La vita e le opere La vita Marco Fabio Quintiliano nasce a Calagurris (oggi Calahorra), nella Spagna Tarragonese, in una data compresa fra il 35 e il 40 d.C. In giovanissima età viene condotto a Roma dal padre, professore di retorica. Studia nella capitale presso i migliori maestri, fra i quali il grammatico Remmio Palemone e il retore Domizio Afro. Intorno al 60 torna in patria, dove svolge la professione di retore. Galba, acclamato imperatore dalle legioni di Spagna dopo l’assassinio di Nerone (68 d.C.), lo vuole con sé prima di partire alla volta dell’Italia. Dieci anni dopo, nel 78, Vespasiano gli affida la prima cattedra pubblica di retorica con l’alto stipendio di 100.000 sesterzi annui. Continuò a insegnare fino all’88, esercitando in Roma un’influenza culturale decisiva: fra i suoi allievi ci fu anche Plinio il Giovane; forse lo stesso Tacito. Nel 94 l’imperatore Domiziano gli affidò l’educazione di due pronipoti, assicurandogli anche le insegne consolari. Morì entro il 100 d.C. Le opere Quintiliano svolse con successo anche attività forense, pubblicando in vita un’orazione: altre, stenografate durante i processi, furono invece divulgate senza il suo consenso a scopo di lucro. Dispense e appunti delle sue lezioni circolarono anch’essi arbitrariamente a cura degli studenti. Pubblicò invece personalmente, intorno al 90, un libro De causis corruptae eloquentiae, non pervenuto. In esso affrontava un tema alquanto sentito dalla cultura del suo secolo, quello della decadenza dell’oratoria: le cause di questo fenomeno, secondo Quintiliano, andavano imputate allo scarso livello delle scuole di declamazione, nelle quali si dava eccessivo spazio a esercitazioni fittizie e astratte, prive di rapporto con la realtà. Agli ultimi anni di vita appartiene la composizione dell’opera per la quale resta ancor oggi famoso, l’Institutio oratoria, un trattato retorico in dodici libri pubblicato poco prima del 96 e integralmente pervenuto. A Quintiliano vengono infine attribuite due raccolte di Declamationes, che gli studiosi contemporanei tendono oggi a considerare non quintilianee.

L’Institutio oratoria L’Institutio oratoria («La formazione dell’oratore») si articola in dodici libri, più della metà dei quali introdotti da singoli proemi. Precede l’opera un’interessante lettera all’editore, dalla quale apprendiamo che l’Institutio oratoria era da più parti sollecitata e attesa, evidentemente in ragione del prestigio e della fama del suo 240 © Casa Editrice G. Principato


6. Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

autore. Insieme al trattato ci è anche pervenuto un sommario di tradizione assai antica ma non di mano dell’autore. Retorica e pedagogia La retorica, nell’ordinamento romano degli studi, era il punto più alto e conclusivo del curriculum scolastico. Dopo aver studiato presso un litterator e un grammaticus, verso i diciassette anni lo studente veniva affidato al rhetor, presso il quale si esercitava, mediante la pratica delle suasoriae e delle controversiae, a divenire un provetto oratore. Quintiliano, tuttavia, decide di partire da molto più lontano, convinto che il buon oratore vada educato e orientato fin dalla nascita e dall’infanzia: ingloba dunque nel suo trattato retorico anche nozioni di pedagogia e di grammatica, che occupano la parte più rilevante del I libro. L’interesse pedagogico è uno degli aspetti più originali del trattato. Quintiliano non è attento solo ai contenuti della sua disciplina, ma anche al modo con cui essa può venire insegnata; di qui l’interesse per lo sviluppo della personalità e per quella che oggi chiameremmo psicologia dell’età evolutiva: il buon maestro deve saper valutare l’indole di ogni alunno; l’apprendimento va impostato in modo graduale; il gioco stimola l’intelligenza; il sistema delle punizioni corporali va condannato, perché avvilisce la persona e deprime l’animo del fanciullo. Ottimismo educativo Nel programma educativo di Quintiliano non c’è posto solo per il maestro: l’educazione ha inizio nella famiglia, con le figure della nutrice e dei genitori. Tutti possono inoltre apprendere e migliorare, ciascuno ovviamente entro i limiti segnati dalla natura. È quello che viene tradizionalmente definito l’«ottimismo educativo» quintilianeo: gli uomini sono in sé inclini ad apprendere, «e a quella guisa che gli uccelli sono generati per volare, i cavalli per correre, le fiere per incrudelire, così è tipicamente nostra la solerte attività dello spirito, per cui si crede che l’animo umano abbia origine divina» (I, 1, 1). Insomma, conclude l’autore, «non si riesce a trovare nessuno, che con l’appassionata applicazione non abbia raggiunto una benché minima meta».

Institutio oratoria Struttura e contenuti dell’opera: i dodici libri

▰ Storia della retorica; partizioni della materia; compiti dell’oratore Il libro III traccia una

▰ La formazione dell’oratore deve iniziare dall’infanzia Il I libro è dedicato in massima parte a nozioni di pedagogia e di grammatica, in contrasto con il tradizionale ordinamento romano degli studi, che situava l’insegnamento della retorica nella fase conclusiva dell’apprendimento; invece Quintiliano è convinto che la formazione dell’oratore debba prender le mosse fin dalla primissima infanzia.

▰ La scuola di retorica Solo nel II libro si comincia a trattare in modo specifico della scuola di retorica: a che età sia più conveniente iniziare; qualità e compiti del precettore; metodi di insegnamento; questioni generali («se la retorica sia utile»; «se la retorica sia un’arte»; «di quali arti essa si componga»; «se all’eloquenza conferiscano di più le doti naturali o la dottrina»).

piccola storia della retorica, delineando le partizioni fondamentali della materia e i compiti dell’oratore. I libri centrali entrano nel vivo della materia, affrontando le questioni relative all’inventio (libri IV-VI), alla dispositio (VII) e all’elocutio (VIII-IX), le tre fasi necessarie nella costruzione di un discorso. Della memoria e dell’actio, le ultime due parti della retorica, si tratta invece nel libro XI.

▰ Il X libro: excursus sugli scrittori greci e latini Il

libro X, il più noto dell’intera opera, contiene un excursus sugli scrittori greci e latini più idonei a formare il gusto del futuro oratore. Suddivisa per generi, la rassegna si configura come una sintetica storia della letteratura antica, ricca di giudizi rapidi e incisivi che rispecchiano i gusti di Quintiliano e della sua epoca.

▰ Il perfetto oratore Il libro XII, infine, delinea l’immagine del perfetto oratore, precisandone le competenze e gli obblighi professionali.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

PROFILO STORICO

Studio privato e scuola pubblica Una delle prime questioni affrontate nell’Institutio oratoria è se sia più utile lo studio privato, svolto cioè in casa sotto la guida di un precettore, o quello pubblico. Quintiliano si schiera apertamente per la seconda soluzione: la scuola pubblica favorisce la vita di relazione e fonda amicizie destinate a durare per tutta la vita; il confronto costante con altri compagni tiene desta l’intelligenza e favorisce l’emulazione. PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 Vantaggi della scuola pubblica Institutio oratoria I, 2, 17-22 ITALIANO

È più utile un’educazione condotta domi atque intra privatos parietes, cioè in casa (in questo senso l’autore parla di «scuola privata») oppure in una scuola pubblica? Quintiliano prende decisamente posizione per il modello della scuola pubblica, perché abitua i giovani a stare insieme, a confrontarsi, dando il meglio di sé e superandosi in un gioco di reciproca emulazione. Lo studio privato e solitario, al contrario, deprime l’intelligenza e mortifica l’ambizione, talora alimentando una sterile presunzione (parr. 18-19). La scuola pubblica appare insomma a Quintiliano come una piccola comunità all’interno della quale si apprendono le regole della vita civile. [17]

Ora che abbiamo confutato le obiezioni che si fanno alla scuola pubblica, esprimeremo il nostro punto di vista. [18] Prima di tutto, il futuro oratore, che è destinato a vivere una vita di relazione con molta gente e ad esporsi continuamente in società, si abitui fin da ragazzo a non esser timido in pubblico e a non intristire nella solitudine di una vita umbratile. Il pensiero va sempre tenuto sveglio e teso, mentre, se si apparta, langue e, tenendosi nell’ombra, arrugginisce; oppure, al contrario, si gonfia di vuota e superba sicumera: perché è naturale che troppo conceda a sé chi non si vuol paragonare a nessuno. [19] Poi, però, quando uno così abituato deve mostrare in pubblico i frutti dei suoi studi non ci vede in pieno giorno e inciampa in cose per lui del tutto nuove, come deve fatalmente accadere a chi avrà imparato a fare in solitudine quanto dovrà fare tra la folla. [20] Non parlo delle amicizie, le quali, basate su vincoli, vorrei dire, religiosi, durano saldamente fino alla vecchiaia: infatti, essere iniziati ai medesimi riti religiosi non costituisce un legame più indissolubile che essere iniziati ai medesimi studi. Dove il futuro oratore acquisterà il cosiddetto senso comune, se si sarà appartato dagli scambievoli rapporti, che sono naturali non solo agli uomini, ma anche agli esseri privi di ragione e di parola? [21] Si aggiunga il fatto che, a casa sua, egli può apprendere solo quanto sarà insegnato a lui; nella scuola, anche quanto sarà insegnato agli altri. Sentirà ogni giorno molte cose approvare, altre correggere, gli sarà un’utile lezione il rimprovero della pigrizia, l’elogio della diligenza, [22] la lode ne susciterà l’emulazione, si convincerà che è vergognoso restare indietro a un suo pari e che dà soddisfazione l’aver superato i migliori. Tutto ciò accende di entusiasmo l’animo, ed è vero che l’ambizione, malgrado sia un difetto, è tuttavia spesso uno stimolo alle virtù. (trad. di R. Faranda e P. Pecchiura)

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6. Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

Educazione CIVICA Scuola e istruzione ▰ Nell’antica Roma L’espressione «scuola pubblica» per la scuola romana è appropriata se con essa intendiamo un luogo di apprendimento collettivo, e non un’istituzione “statale”, con i connessi diritti e doveri. Per lo più le spese venivano sostenute dalle famiglie, come sembra confermare una lettera di Plinio il Giovane (IV, 13). D’altra parte non c’era neppure un obbligo di istruzione: le famiglie più povere si trovavano nell’alternativa tra rinunciare alla formazione culturale dei propri figli o corrispondere stipendi minimi ai maestri; quelle più ricche potevano comunque decidere di provvedere a un’istruzione domestica affidata a precettori privati. I gradi dell’istruzione erano tre: dai sette agli undici anni si frequentava il ludus litterarius, dove bambini e bambine apprendevano dal litterator a leggere, scrivere e far di conto (lo testimonierà ancora Agostino alla fine del IV secolo, in Confessiones I, 13). Il grado successivo, a cui accedeva una minoranza, e certamente in gran parte maschile, era curato dal grammaticus, che impartiva cognizioni linguistiche e letterarie. Al livello superiore accedevano solo pochi privilegiati, tra i diciassette e i vent’anni circa: si trattava di una sorta di college, in cui i giovani della classe dirigente, sotto la guida del rhetor, affinavano le tecniche oratorie e acquisivano un bagaglio culturale sulle cosiddette «arti liberali», tra le quali primeggiava il diritto, e che comprendevano discipline quali filosofia, matematica, geometria, musica, astronomia. Il contesto ordinato e rasserenante evocato dal rilievo di Neumagen [ p. 244] non deve trarre in inganno: le “scuole” non erano edifici separati con strutture comode, ma tabernae in cui scolari spesso di età diverse sedevano su sgabelli senza banco, disposti intorno alla cattedra del maestro, e che usualmente solo una tenda separava dal traffico e dal rumore circostanti. Le punizioni corporali erano la norma, i metodi più tradizionali erano poco motivanti, provocando la scontentezza degli alunni, testimoniata da testimonianze letterarie ed epigrafiche. ▰ In Italia, oggi Sostanzialmente la scuola romana rifletteva le grandi disparità della società, cercando di garantire le nozioni minime per affrontare la vita quotidiana. Una delle grandi sfide dell’istruzione moderna è invece quella di superare le differenze socio-economiche, offrendo ai «capaci e meritevoli» un’istruzione accurata fino ai più alti livelli. Nella storia dell’Italia unita in effetti l’obbligo e la gratuità dell’istruzione si affermano fin dall’inizio: la legge Casati del 1859, nata nel Regno di Sardegna, rimase in vigore anche nel Regno d’Italia fino al 1877, quando fu sostituita dalla legge Coppino, che elevò l’istruzione obbligatoria dai due ai tre anni, fino ai

nove anni d’età, prevedendo anche delle sanzioni per i trasgressori. L’emergenza era l’altissimo tasso di analfabetismo, in un contesto in cui spesso i bambini aiutavano le famiglie nel lavoro agricolo. Nella Costituzione sono dedicati all’istruzione gli articoli 33 e 34, di cui si commentano qui i passaggi fondamentali: – «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» (art. 33, primo comma). Il principio di libertà, applicato all’insegnamento, implica sia la cosiddetta “autonomia didattica” nella programmazione del corpo docente, sia la libertà di istituire scuole private «senza oneri per lo Stato», anche se non è chiarissimo se si tratti di oneri relativi alla sola fondazione o anche al mantenimento di tali istituti. In ogni caso è sempre l’articolo 33 a stabilire che le scuole non statali debbono assicurare «un trattamento scolastico equipollente» rispetto a quello delle scuole statali. – «La scuola è aperta a tutti» (art. 34, primo comma). L’istruzione inferiore, «obbligatoria e gratuita», si presenta come un diritto-dovere per bambini e bambine che risiedano in Italia, a prescindere dalla loro condizione di italiani o stranieri, regolari o irregolari. Il testo del 1948 fissava l’obbligo a otto anni di istruzione, già stabilito dalla riforma Gentile del 1923; a partire dal 2007 l’obbligo è stato innalzato a dieci anni, prevedendo comunque il conseguimento di un diploma di scuola superiore o di una qualifica professionale entro il diciottesimo anno di età (è il cosiddetto «obbligo formativo»). – «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34, terzo comma). Pietro Calamandrei, nel suo noto Discorso sulla Costituzione del 1955, esordì mettendo in relazione quest’enunciato con l’articolo 3: «il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo», proprio perché con esso la Repubblica si impegna a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che impediscono «il pieno sviluppo della persona umana»; nel caso specifico, quindi, a garantire che il diritto-dovere all’istruzione sia sostanziale e non puramente formale. Occorre ricordare che il nostro ordinamento, sulla base dell’articolo 30 della Costituzione (secondo comma: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli») prevede anche la possibilità di assolvere all’obbligo scolastico per mezzo dell’istruzione parentale, o home education. Le famiglie possono avvalersene dichiarando annualmente la propria capacità tecnica ed economica a impartirla; in tali casi l’alunno/a viene annualmente sottoposto/a, presso una scuola statale o paritaria, a un esame che ne accerti l’idoneità ad affrontare l’anno scolastico successivo.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

PROFILO STORICO

La figura del maestro Centro ideale della scuola è la figura del maestro, un uomo colto e moralmente ineccepibile, dotato di autorevolezza e di prestigio, «austero ma non arcigno, cordiale ma non in misura esagerata, per evitare, nel primo caso, l’antipatia e, nel secondo, la mancanza di riguardo» (II, 2, 5). Emergono, nei passi dedicati alla figura del praeceptor, la passione pedagogica di Quintiliano, la sua profonda umanità, il suo innato senso dell’equilibrio e della misura [ T3 ONLINE]. La scuola immaginata da Quintiliano non è fondata sul primato della tecnica ma dell’uomo. Il maestro a cui l’autore pensa è paragonato ora a un buon padre (II, 2, 4), ora a una tenera nutrice (II, 4, 5), ora a un agricoltore che segue con animo trepido le sue pianticelle (II, 4, 9-11). Il perfetto oratore Quintiliano eredita da Cicerone una concezione umanistica della retorica: l’oratore deve essere «completo» (perfectus), cioè istruito in tutte le discipline, e «onesto» (bonus), così che «da lui pretendiamo non solo un’eccellente capacità professionale, ma anche tutte le virtù dell’animo» (prohoemium I, 9). Ciceroniana è anche l’identificazione fra ratio e oratio: la parola eloquente deve infatti essere posta al servizio del bene e del vero, due nozioni che non potremmo conoscere senza studi adeguati. Come era accaduto con Cicerone, anche nell’Institutio oratoria gli studi retorici non sono considerati da un punto di vista strettamente tecnico ma inseriti in una concezione più vasta della cultura che comprende il diritto, la storia, la filosofia, le lettere: in tal modo l’opera di Quintiliano supera i confini di un mero trattato sulla formazione del retore per diventare un’opera di natura pedagogica sulla formazione dell’uomo e del cittadino. Il modello ciceroniano nella nuova situazione politica Il rilancio del modello ciceroniano è destinato tuttavia a scontrarsi, nella pratica, con la nuova realtà sociale e istituzionale del principato. La figura dell’oratore si era imposta in un ambito di libertà politica e di forte conflittualità civile: la democrazia ateniese del V-IV secolo; la Roma del II-I secolo a.C. La grande oratoria greca si era spenta inevitabilmente con la fine delle poleis; quella romana in età augustea. Si è visto

Scena di scuola, rilievo funerario da Neumagen, ca 200 d.C. Treviri, Landesmuseum.

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6. Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

come il tema della decadenza dell’oratoria sia uno dei più dibattuti in Roma nel I secolo d.C., e come Quintiliano eviti di porre la questione sul piano politico, risolvendola in termini sostanzialmente tecnici e pedagogici. Una figura anacronistica Il suo oratore ideale continua in fondo ad agire, nella finzione teorica del trattato, come se ancora esistesse l’antica res publica, come se il senato e il popolo svolgessero le medesime funzioni di un tempo: dovrà dunque operare per il bene comune in nome dei più alti princìpi morali, conservando autonomia di giudizio e di pensiero; i suoi modelli saranno Cicerone e Demostene, indicati come i più alti esempi dell’oratoria antica. La figura del perfetto oratore proposta da Quintiliano appare dunque anacronistica, tanto più se pensiamo che negli stessi anni in cui l’Institutio oratoria viene scritta, Domiziano provvedeva ad eliminare con spietata ferocia tutti gli oppositori del regime. Il compito dell’oratore nella realtà del principato Quintiliano confidava evidentemente nella funzione educatrice e moderatrice della cultura: l’oratore doveva proporsi come una sorta di figura intermedia fra il principe e la società, assumendosi il compito di salvaguardare il messaggio ideale e civile della tradizione culturale romana, di cui l’humanitas ciceroniana continuava a restare il fondamento. È altrettanto evidente, tuttavia, che l’equilibrio del modello ciceroniano si è ormai spezzato: nonostante le intenzioni, in Quintiliano l’oratio prevale sulla ratio, e la retorica impone il suo primato nell’economia complessiva degli studi, relegando la filosofia a disciplina sussidiaria. L’indirizzo classicista: Seneca bersaglio polemico L’opera di Quintiliano segna il culmine della reazione classicista al gusto asiano dell’età precedente. Bersaglio principale della polemica è la scrittura scintillante e irrequieta di Seneca, a cui Quintiliano rimprovera in una celebre pagina di aver corrotto lo stile contemporaneo. L’ideale stilistico di Quintiliano coincide con quello ciceroniano: una terza via, che già Cicerone aveva definito rodiense, fra l’esuberanza asiana e l’eccessiva secchezza dell’atticismo. Dopo Cicerone, Virgilio e Orazio sono gli autori più citati, segno anche questo di un preciso indirizzo classicistico. Quintiliano rigetta sia il linguaggio lussuoso e sperimentale dei moderni sia le tendenze arcaizzanti. È per una scrittura “media” e “regolare”, fondata su princìpi di sobrietà, di misura e di chiarezza espressiva.

PERCORSO ANTOLOGICO

T 2 Lo stile corruttore di Seneca Institutio oratoria X, 1, 125-131 LATINO ITALIANO

Il libro X comprende, come si è detto, una rassegna degli scrittori greci e latini suddivisi per generi. L’ultima pagina dell’excursus è dedicata a Seneca, un autore sul quale Quintiliano doveva avere più volte espresso, in passato, giudizi sfavorevoli. Quintiliano mostra di apprezzare (sottolineandone tuttavia i limiti) la vasta cultura di Seneca, di cui sono lodate in particolare le pagine morali; risolutamente condannato è invece lo stile. Memorabili alcune espressioni (corruptum et omnibus vitiis fractum dicendi genus; sed in eloquendo corrupta pleraque atque eo perniciosissima, quod abundant dulcibus vitiis): difficile non ammirarne la lucida esattezza, anche quando non si condivida il giudizio nella sua globalità. 245 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

PROFILO STORICO

[125] Ex industria Senecam in omni genere eloquentiae distuli propter vulgatam falso de me opinionem, qua damnare eum et invisum quoque habere sum creditus. Quod accidit mihi, dum corruptum et omnibus vitiis fractum dicendi genus revocare ad severiora iudicia contendo: tum autem solus hic fere in manibus adulescentium fuit. [126] [...] Amabant autem eum magis quam imitabantur tantumque ab illo defluebant, quantum ille ab antiquis descenderat. [127] Foret enim optandum, pares ac saltem proximos illi viro fieri. Sed placebat propter sola vitia et ad ea se quisque dirigebat effingenda, quae poterat: deinde cum se iactaret eodem modo dicere, Senecam infamabat. [128] Cuius et multae alioqui et magnae virtutes fuerunt, ingenium facile et copiosum, plurimum studii, multa rerum cognitio, in qua tamen aliquando ab his, quibus inquirenda quaedam mandabat, deceptus est. Tractavit etiam omnem fere studiorum materiam: [129] nam et orationes eius et poemata et epistulae et dialogi1 feruntur. In philosophia parum diligens, egregius tamen vitiorum insectator fuit. Multae in eo claraeque sententiae, multa etiam morum gratia legenda, sed in eloquendo corrupta pleraque atque eo perniciosissima, quod abundant dulcibus vitiis. [130] Velles eum suo ingenio dixisse, alieno iudicio: nam si aliqua

[125]

In questo esame di tutti i generi letterari ho rimandato di proposito fino all’ultimo di parlare di Seneca, perché si è diffusa – falsamente – l’opinione che io ne condanni l’opera e lo detesti. Ciò mi è accaduto, mentre tentavo di richiamare a maggior severità di gusti un tipo di eloquenza corrotta e guastata da ogni sorta di difetti: in quel tempo i giovani non s’interessavano quasi a nient’altro che a lui. [126] [...] Lo prediligevano più che imitarlo e tanto da lui tralignavano quanto egli si era allontanato, in peggio, dagli antichi. [127] Sarebbe stato, in realtà, augurabile che gli diventassero pari o almeno somiglianti. Ma egli piaceva solo per i suoi difetti e ciascuno mirava a riprodurre quelli che poteva: poi, vantandosi di parlare come Seneca, lo screditava. [128] Ebbe, del resto, anche molte e grandi virtù, cioè un’indole duttile e feconda, grandissima applicazione e cultura enciclopedica: ma, a quest’ultimo proposito, qualche volta si lasciò trarre in inganno da coloro che incaricava di consultare testi e farne degli estratti. Trattò pressoché di tutto lo scibile: [129] tant’è vero che di lui si conoscono orazioni, poesie, lettere e dialoghi.1 Poco attento in materia di filosofia, fu, nondimeno, egregio flagellatore dei vizi. Ci sono in lui molti celebri aforismi e di molti suoi brani è consigliabile la lettura a scopo moraleggiante, ma per il riguardo stilistico sono di solito corrotti e tanto più pericolosi, in quanto pieni di allettanti vizi. [130] Avresti voluto che egli si fosse espresso col suo ingegno, ma con il senso critico di un altro. Ché, se avesse alcune cose disprezzate, se poco non 1. orationes... dialogi: nulla ci è pervenuto delle orazioni senecane (sulle quali testimoniano, oltre a Quintiliano, Tacito e lo storico greco Dione Cassio); poema-

ta vanno considerate sia le nove tragedie che la satira menippea Apokolokyntosis; con epistulae si devono intendere le Lettere a Lucilio; per i Dialogi cap. 4.1.

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2. si parum... concupisset: il testo è corrotto.


6. Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

contempsisset, si parum non concupisset,2 si non omnia sua amasset, si rerum pondera minutissimis sententiis non fregisset, consensu potius eruditorum quam puerorum amore comprobaretur. [131] Verum sic quoque iam robustis et severiore genere satis firmatis legendus vel ideo, quod exercere potest utcumque iudicium. Multa enim, ut dixi, probanda in eo, multa etiam admiranda sunt, eligere modo curae sit, quod utinam ipse fecisset: digna enim fuit illa natura, quae meliora vellet: quod voluit effecit. avesse desiderato,2 se non fosse stato indulgente con tutto quel che componeva, se non avesse sminuzzato con pensieri resi frammentariamente argomenti ponderosi, egli sarebbe favorevolmente apprezzato da tutte le persone colte piuttosto che prediletto dai ragazzi. [131] Ma anche così com’è, coloro che sono già irrobustiti e sufficientemente consolidati in un genere di eloquenza più severo dovranno leggerlo, proprio perché egli può in ogni modo esercitare il senso critico. Come ho detto, molte cose si debbono di lui approvare, e molte anche ammirare, purché si abbia cura di scegliere: questo magari l’avesse fatto lui!: perché il suo talento sarebbe stato degno di voler cose migliori: ciò che volle egli riuscì a farlo. (trad. di R. Faranda e P. Pecchiura)

Stile di Quintiliano Lo stile di Quintiliano appare tuttavia distante da quello di Cicerone. Il periodo ciceroniano si presentava come un edificio euritmico e geometrico, costruito secondo rigorosi princìpi di proporzione e di equilibrio formale. I periodi dell’Institutio oratoria non appaiono altrettanto armoniosi e simmetrici: il deprecato modello senecano imprime in qualche modo il suo sigillo sullo stile argenteo dell’opera, fitto di sententiae, di costruzioni ad sensum, di strutture sintattiche ellittiche e artificiose.

Guida allo studio

1.

Riferisci i dati più significativi della biografia di Quintiliano, con particolare riguardo alle sue relazioni con i principi della dinastia flavia. 2. Si ha notizia di opere quintilianee non pervenute? 3. Illustra contenuti e struttura dell’Institutio oratoria. Perché il libro X gode di una speciale notorietà? 4. Esponi le idee pedagogiche di Quintiliano, spiegando il significato dell’espressione «ottimismo educativo».

5. Quali sono le concezioni-base che Quintiliano deriva da Cicerone? 6. Il modello ciceroniano del perfetto oratore può essere considerato attuale nell’ambito della mutata realtà istituzionale? 7. Definisci l’ideale stilistico propugnato da Quintiliano. Qual è il suo principale bersaglio polemico? D’altro canto, lo stile della sua opera si modella effettivamente su quello di Cicerone?

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

nel TEMPO

Presso i contemporanei Quintiliano servirono ancora il Petrarca, il Boccaccio e Cofu l’intellettuale di maggior prestigio della sua epoca. Gli effetti del suo insegnamento, pratico e teorico, si avvertono con chiarezza nello stile urbano ed elegante di Plinio il Giovane, che fu suo allievo. All’influenza di Quintiliano si deve in gran parte il mutamento del gusto letterario contemporaneo, con il passaggio dall’asianesimo di età giulio-claudia al classicismo temperato dell’età flavia.

Nel tardo impero e in età medievale Nel IV secolo una lettura approfondita dell’Institutio oratoria è attestata in numerosi autori, da Ausonio a Gerolamo a Ilario di Poitiers. Lodi a Quintiliano sono contenute nel De ortographia di Cassiodoro (VI sec.). Un rias­sunto dell’Institutio oratoria si deve, ormai in piena età medievale, a Isidoro di Siviglia. Da questo momento dovettero circolare solo copie mutile dell’opera. Di tali esemplari si

Materiali

ONLINE

B essenziale

Bibliografia

PROFILO STORICO

Quintiliano

luccio Salutati.

La riscoperta umanistica La riscoperta integrale di Quintiliano si deve a Poggio Bracciolini, che nel 1416 ritrovò nel monastero di San Gallo un codice contenente il testo completo dell’Institutio oratoria, ricopiandolo personalmente a Costanza, dove si svolgeva lo storico concilio che doveva por fine allo scisma d’Occidente. La notizia della scoperta fu annunciata all’amico Guarino Guarini in una celebre lettera, nella quale leggiamo un alto elogio del retore latino. Da allora il trattato di Quintiliano conobbe enorme fortuna, alimentando il dibattito quattrocentesco sulla formazione dell’uomo e sui modelli letterari. Il Poliziano, che considerò l’Institutio oratoria superiore alle stesse opere retoriche di Cicerone, doveva inaugurare nel 1480 i suoi corsi fiorentini di eloquenza latina e greca con un’orazione dedicata a Quintiliano.

T3 Il valore formativo delle letture (Institutio oratoria I, 8, 1-5) BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Cultura e potere nell’età dei Flavi, di Nerva e di Traiano A.D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori, storici e filosofi latini, Il Mulino, Bologna 1974; I. Lana, La politica culturale dei Flavi, in Sapere lavoro e potere in Roma antica, Jovene, Napoli 1990, pp. 225-278; M. Citroni, Produzione letteraria e forme del potere. Gli scrittori latini nel I secolo dell’impero, in Storia di Roma. L’impero medi-

terraneo, II/3, La cultura e l’impero, Einaudi, Torino 1992, pp. 435-490. � Quintiliano L’edizione di riferimento con traduzione italiana resta: Quintiliano, La formazione dell’oratore, vol. I (introduzione di M. Winterbottom, traduzione e note di S. Corsi), vol. II (traduzione e note di C.M. Calcante), vol. III (traduzione e note di C.M. Calcante e S. Corsi),

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Rizzoli (BUR), Milano 1997. Fra gli studi: A. La Penna, Quintiliano, l’impero, le istituzioni, in Intellettuali e potere nel mondo antico, Atti del Convegno Nazionale di Studi, Torino, 22-24 aprile 2002, a cura di R. Uglione, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2003, pp. 139-163; V. Scarano Ussoni, Il retore e il potere. Progetto formativo e strategie del consenso nell’«Institutio oratoria», D’Auria, Napoli 2008.


6. Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

Sintesi

S

Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano Con la morte di Nerone (68 d.C.) si concludeva la dinastia giulio-claudia, e si apriva un nuovo periodo di guerre civili. Nel giro di un anno si contesero la successione quattro imperatori, Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano, che dopo cruenti scontri fu riconosciuto princeps. Con Vespasiano si inaugura la dinastia dei Flavi. Il principato di Vespasiano (69-79 d.C.) fu caratterizzato da opere di pacificazione, restaurazione dell’ordine e riorganizzazione amministrativa, economica e militare dello Stato. La lex de imperio Vespasiani conferiva all’istituto imperiale stabilità e legittimazione giuridica, inaugurando un clima di coesistenza pacifica con l’ordine senatorio. A Vespasiano successe il figlio Tito (79-81 d.C.), che proseguì sulla strada segnata dal padre. Il secondogenito Domiziano (81-96 d.C.) ripropose invece il modello autocratico e assolutistico di Caligola e di Nerone: si infransero gli equilibri raggiunti dai predecessori flavi nelle relazioni con il senato; si innestò nuovamente il perverso sistema di sospetti, delazioni, processi ed esecuzioni dell’epoca giulio-claudia, finché Domiziano cadde vittima di una congiura senatoria. Nel suo brevissimo principato (settembre 96-gennaio 98 d.C.) Cocceio Nerva, un anziano esponente della nobilitas italica, seppe riannodare il legame tra l’istituzione imperiale e il senato. Al principio dinastico fu sostituito quello dell’adozione, che avrebbe dovuto garantire la “scelta del migliore” nel segno della stabilità e della continuità. Alla dinastia dei Flavi faceva seguito l’epoca degli imperatori adottivi. Fallito il tentativo di una restaurazione senatoria per l’ostilità delle forze militari, Nerva fu costretto ad adottare M. Ulpio Traiano (98-117 d.C.), un ufficiale di carriera di origine spagnola. Traiano continuò la politica di Nerva nel segno di una rinnovata concordia con il senato; realizzò un vasto programma di lavori pubblici e riforme di ampio respiro, assicurando il prospero sviluppo delle province; condusse fortunate campagne militari che portarono l’impero alla sua massima espansione. Il principato di Nerone era stato un periodo di straordinaria vitalità artistica, nel segno di uno stile “barocco” e anticlassico. Nell’età dei Flavi, alla restaurazione dei costumi e alle nuove richieste di sobrietà, misura e disciplina corrisponde sul piano del gusto letterario il ritorno al classicismo del secolo precedente. I supremi modelli saranno dunque Cicerone e Virgilio. Quintiliano bandisce

lo stile irregolare di Seneca a favore del modello ciceroniano; l’epica storica e drammatica di Lucano lascia il posto a quella mitologica di Stazio e Valerio Flacco; Silio Italico ricongiunge il racconto storico all’apparato mitologico dell’epos tradizionale. Eppure, le opere poetiche di quest’epoca presentano uno scenario più complesso: le scelte espressive degli autori, smarrite le tensioni ideali, si risolvono in un raffinato riuso tecnico e virtuosistico della tradizione; nello stesso tempo, sono profondamente influenzate dalla rivoluzione poetica apertasi con Ovidio e culminata con Lucano e Seneca tragico. Si può dunque applicare alla letteratura di età flavia, accanto alla conclamata etichetta di “neoclassicismo”, quella, forse più persuasiva, di manierismo. Se l’età di Nerone aveva assistito a una ripresa del mecenatismo, gli imperatori Flavi mostrano una sostanziale indifferenza alla questione. Manca uno stabile rapporto fra principato e cultura, così come fra privati committenti e scrittori. Ossequiare il principe diventa una necessità: non può dunque stupire il tono encomiastico e panegiristico che si riscontra in pressoché tutte le opere di età flavia. Accanto all’imponente messe di letteratura ossequiosa al regime non mancò tuttavia una coraggiosa letteratura di resistenza: le perdute praetextae di Curiazio Materno e l’Octavia (pervenuta nel corpus tragico senecano) ne sono notevoli esempi. Non si registra un rilancio del mecenatismo neppure con Traiano, che si disinteressa della cultura. Le opere degli autori più prestigiosi dell’epoca (Plinio il Giovane, Tacito, Giovenale) dimostrano che non vi fu, al di là degli entusiasmi iniziali, una vera e propria rinascita, e che la libertas repubblicana era tramontata per sempre. La figura più prestigiosa dell’epoca flavia è quella di un retore, M. Fabio Quintiliano, autore di un’opera di straordinaria fortuna in 12 libri, l’Institutio oratoria («La formazione dell’oratore») pubblicata poco prima del 96 e integralmente pervenuta, grazie alla riscoperta umanistica del 1416. Uno degli aspetti più interessanti e originali del trattato è l’interesse pedagogico: Quintiliano ritiene che la formazione del perfetto oratore debba iniziare fin dall’infanzia. Il libro a tutt’oggi più famoso e citato è il X, che contiene una serie di giudizi sugli scrittori greci e latini. Il modello di Quintiliano, sul piano dello stile così come delle concezioni, è il Cicerone dei trattati retorici; tuttavia, nella nuova realtà del principato, il perfetto oratore ciceroniano appare inevitabilmente una figura anacronistica.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

MAPPA SOCIETÀ E CULTURA NELL’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

• Dalla morte di Nerone (68 d.C.) al principato di Traiano (98-117 d.C.)

Cultura e letteratura

• •

Anno dei quattro imperatori (68-69 d.C.) – Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano Dinastia dei Flavi – Vespasiano (69-79 d.C.) – Tito (79-81 d.C.) – Domiziano (81-96 d.C.) Cocceio Nerva (settembre 96-gennaio 98 d.C.) Marco Ulpio Traiano (98-117 d.C.)

Orientamenti e caratteristiche • Ritorno al classicismo o “neoclassicismo” • Manierismo e virtuosismo • Cultura di tipo tecnico, studi retorici e grammaticali • Letteratura encomiastica e panegiristica, obsequium e adulatio • Letteratura di resistenza (Curiazio Materno, Octavia, biografie celebrative)

Generi e personalità • Prosa tecnico-scientifica: Plinio il Vecchio • Epigramma: Marziale • Epica: Stazio, Valerio Flacco, Silio Italico • Retorica: Quintiliano • Epistolografia: Plinio il Giovane • Storiografia: Tacito • Satira: Giovenale Quintiliano • Prima cattedra pubblica di retorica • De causis corruptae eloquentiae (non pervenuto) • Institutio oratoria – Trattato in 12 libri sulla formazione dell’oratore – Interesse pedagogico, ottimismo educativo – Indirizzo classicista – Modello ciceroniano del perfetto oratore 250 © Casa Editrice G. Principato


Completamento

1 Inserisci i dati storici mancanti. Nel , alla morte di , si apre un nuovo periodo di . Nel giro di un anno si susseguono imperatori: Galba, e Vespasiano, che inaugura la dinastia dei . Il suo principato fu caratterizzato da opere di pacificazione e di riorganizzazione dello Stato. Per dare stabilità e all’istituto imperiale promulga la . Gli succedono i figli: nel 79 ; nell’anno il , che regna fino al secondogenito p._____/12

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Durante il principato di Tito viene meno la coesistenza pacifica con il senato V|F b. Domiziano espelle filosofi e astrologi dalla città di Roma V|F c. Le arti dell’età flavia sono caratterizzate da un ritorno al classicismo V|F d. La figura più prestigiosa dell’età flavia è il retore Quintiliano V|F e. La prima cattedra pubblica di retorica viene fondata da Domiziano V|F f. Le discipline filologico-grammaticali non sono più connesse agli studi filosofici V|F g. Si spegne in quest’epoca ogni fenomeno letterario di resistenza V|F h. Con Traiano risorge non solo formalmente l’antica libertas politica V|F i. Nell’epoca di Traiano l’impero raggiunge la sua massima espansione V|F p._____/9

2. Tra gli allievi di Quintiliano vi fu ■ Marziale ■ Giovenale ■ Silio Italico ■ Plinio il Giovane 3. Il libro X dell’Institutio oratoria è celebre per ■ una breve storia della retorica ■ l’immagine ivi delineata del perfetto oratore ■ l’excursus dedicato ai giudizi sugli scrittori greci e latini ■ le originali osservazioni di natura pedagogica 4. La prosa di Quintiliano ■ si modella rigorosamente sul periodare ciceroniano ■ accoglie taluni elementi del deprecato stile di Seneca ■ precorre le tendenze arcaizzanti ■ si avvicina soprattutto alla scrittura di Livio p._____/4 Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. La lex de imperio Vespasiani. 2. I rapporti fra il princeps e l’ordine senatorio nell’età dei Flavi e di Traiano. 3. Struttura e argomenti dell’Institutio oratoria. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Il “neoclassicismo” dell’età flavia. 2. L’«ottimismo educativo» di Quintiliano. 3. La figura del perfetto oratore delineata da Quintiliano.

Quesiti a scelta multipla

3 Indica il completamento corretto. 1. Quintiliano addita quali più alti modelli di stile ■ Seneca e Lucano ■ Orazio e Tito Livio ■ Cicerone e Virgilio ■ Catone ed Ennio 251 © Casa Editrice G. Principato

Società e cultura nell’età dei Flavi e di Traiano

Verifica finale


7 Epica nell’età dei Flavi 1 Stazio La vita e le Silvae La vita Publio Papinio Stazio nacque a Napoli tra il 40 e il 50 d.C. Figlio di un mae­ stro di letteratura, prima del 69 si trasferì a Roma insieme al padre. D’ingegno precoce, partecipò con successo a importanti gare poetiche, fu apprezzato nell’alta società della capitale ed ebbe il favore dell’imperatore. Giovenale ricorda il successo delle sue recitationes pubbliche, ma nota anche che il suo prestigio letterario non lo esimeva dalla necessità di scrivere poesia di consumo, come i libretti per pantomimi. Intorno al 95 fece ritorno a Napoli. Non abbiamo notizie di lui posteriori al 96 d.C. Le Silvae I cinque libri delle Silvae, ciascuno introdotto da un’epistola dedicatoria in prosa, raccolgono trentadue componimenti lirici d’occasione: il poeta li defi­ nisce variamente opuscula, carmina, libelli, in un paio d’occasioni epigrammata. I primi quattro libri furono pubblicati tra il 92 e il 95, il quinto è quasi sicuramente postumo. In realtà, nella raccolta confluiscono poesie scritte in varie circostanze, parallelamente alla stesura dei poemi epici. Un poeta cortigiano: lodi di Domiziano Grazie alle Silvae siamo informati sull’ambiente raffinato che, nella Roma dei Flavi, circondava un poeta cortigiano: 252 © Casa Editrice G. Principato


Un maestro venerato e ineguagliabile Silio Italico venerava più di ogni altro il ritratto di Virgilio, il cui giorno natale celebrava con devozione maggiore del proprio, particolarmente a Napoli, ove soleva accostarsi alla sua tomba, come si fosse trattato di un tempio.

(Plinio il Giovane, Lettere III, 7, trad. di L. Rusca)

Ecco, mentre sto cercando il sonno e la riva nativa, dove Partenope si nascose trovando rifugio nel porto ausonio, io sfioro con languido pollice le lievi corde, e seduto sulla soglia del tempio di Virgilio prendo animo e rivolgo i miei canti verso il sepolcro del grande maestro. (Stazio, Selve IV, 4, 50-54, trad. di L. Canali)

Fraternas acies alternaque regna dea Thessalici

flammifero tandem consedit Olympo

da bella ducis

Ordior arma quibus caelo se gloria tollit Aeneadum

i dedicatari dei primi quattro libri, Aurunzio Stella, Atedio Meliore, Pollio Felice e Vitorio Marcello (a quest’ultimo Quintiliano dedicò la sua Institutio oratoria) sono anche i protettori del poeta. Naturalmente abbondano le lodi di Domiziano, esal­ tato nella maestosa, più che umana gravità della sua statua equestre, (I, 1) nella magnificenza delle sue feste (I, 6) e delle sue imprese, in guerra (IV, 1) e in pace (IV, 3). L’assimilazione di Domiziano a Giove o a Ercole (IV, 2, 22) è forse l’aspet­ to più appariscente di una visione del mondo in cui gli dèi sono i veri protagonisti, e finiscono per diffondere la loro magnificenza anche sugli uomini. La poesia degli affetti In questo mondo dorato, quasi-divino, in cui l’opera dell’uomo impone grazia sovrannaturale alla selvaggia natura, non mancano la meditazione sulla morte e una confessione più sincera dei propri sentimenti: al­ cune composizioni rappresentano questo versante riflessivo e più intimo, soprat­ tutto gli epicedi del padre e di un puer, giovane schiavo di casa amato come un figlio (V, 3 e 5) e l’Ecloga ad uxorem (III, 5), invito alla moglie Claudia a trasferirsi a Napoli, decantata come luogo di bellezza e di pace. Eterogeneità tematica e varietà delle forme L’eterogeneità dei temi e del­ le atmosfere si riflette nella varietà dei metri, e soprattutto nell’abile riuso di 253 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

7. Epica nell’età dei Flavi

PROFILO STORICO

visive

Un mondo prezioso ed elegante Questo piccolo quadro (44 x 44 cm), generalmente interpretato come la vestizione di una sacerdotessa, rappresenta un ambiente domestico di gusto grecizzante della prima età imperiale. Indipendentemente dal soggetto, su cui si è variamente discusso, colpisce la cura dei dettagli, tutti riferibili al mondo femminile: su un tavolino rotondo a tre gambe sono appoggiati una benda e un ramo d’olivo; sotto il tavolo campeggia una oinochoe di vetro dai riflessi trasparenti; le quattro donne hanno i capelli lunghi raccolti in pettinature complesse, fermate con diademi o con nastri; le tuniche presentano bordure ricamate dai colori tenui e raffinati. Un mondo prezioso ed elegante che ritroviamo nei componimenti più delicati e patetici delle Selve di Stazio.

Affresco con scena d’interno e figure femminili da Ercolano, I secolo d.C. Napoli, Museo Archelogico Nazionale.

fonti

schemi e generi poetici tradizionali, dall’encomio all’epitalamio all’epicedio, dall’elegia all’epigramma all’epica. Anche la splendida invocazione a Somnus (V, 4) è una rielaborazione particolarmente riuscita di un topos epico, conta­ minato con suggestioni delle arti figurative e condensato nell’essenzialità di un epigramma.

Tebaide Riassunto del poema ▰ Dalla maledizione di Edipo alla vicenda di Ipsipile (libri I-VI) Dopo l’ampio proemio, che include una dedica encomiastica a Domiziano, la maledizione di Edipo contro i figli scatena la Furia Tisífone, la quale ispira ai due figli ed eredi di Edipo, Eteocle e Polinice, la decisione di alternarsi annualmente sul trono di Tebe. Scaduto il primo anno, Eteocle si rifiuta di cedere il trono; Polinice, giunto ad Argo, raduna gli eroi per la spedizione contro il fratello: Adrasto, Tideo, Anfiarao, Capaneo, Partenopeo e Ippomedonte. Durante il viaggio verso Tebe, i sette eroi incontrano per caso Ipsípile, che nei pressi di Nemea si prende cura di Ofelte, figlio del re di quella città: il piccolo viene divorato da un mostruoso serpente mentre la donna indica una sorgente agli Argivi assetati. Ofelte,

di cui si celebrano i funerali, sarà venerato con il nome di Archémoro.

▰ La guerra e l’intervento di Teseo (libri VIIXII) Scoppia la guerra sotto le mura di Tebe: gli Argivi, di cui si narrano le singole imprese eroiche (“aristíe”), muoiono uno dopo l’altro (tra gli altri, Anfiarao ingoiato dalla terra, Tideo addentando il capo del suo uccisore, Capaneo sfidando gli dèi sulle mura della città), eccetto Adrasto. Nel duello decisivo i due fratelli si uccidono l’un l’altro [ T3]. Il nuovo tiranno di Tebe, Creonte, vieta di seppellire i corpi dei nemici, ma Antigone e Argia, sorella e moglie di Polinice, gettano il suo corpo sulla stessa pira di Eteocle, dalla quale si sprigiona una fiamma bipartita: l’odio tra i due fratelli persiste oltre la morte. Il re di Atene, Teseo, chiamato dalle donne argive, salva le due disobbedienti dalla condanna a morte e uccide in duello Creonte. Si possono così celebrare i funerali degli eroi defunti.

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PROFILO STORICO

Un disordine elaborato Oltre alla varietà di temi e di forme, un’altra caratteristi­ ca saliente della raccolta, sottolineata da Stazio nella prefazione al libro I, è la rapidità compositiva (celeritas) legata alla spontaneità dell’ispirazione. Significativo, sotto questo aspetto, è il titolo stesso (Silvae), che allude appunto alla varietà della vegetazione spontanea. Ma dietro quest’affettazione di provvisorietà e di noncuranza delle forme c’è un sapiente dosaggio di temi e di stili, un “disordine elaborato” che ricorda la studiata armonia dei giardini artificiali.

L’epica: Tebaide e Achilleide La Tebaide: l’argomento, le fonti, la struttura La Tebaide (Thebaı̆s), composta probabilmente tra l’80 e il 92, racconta in dodici libri la celebre vicenda dell’assedio di Tebe, un episodio della più vasta saga tebana che vede coinvolti in una maledizione comune tutti i discendenti di Edipo. Si discute sulle fonti determinanti per l’ispirazione di Stazio: certamente le tragedie incentrate sui miti tebani, ma probabilmente anche i perduti poemi del cosiddetto “ciclo” epico, fioriti intorno e successivamente alla produzione omerica. L’opera è divisa in due parti, sul modello dell’Eneide: nella prima (libri I-VI) sono narrati i preparativi della guerra; nella seconda (libri VII-XII) è rappresentata la guerra stessa. Un’anti-Eneide Stazio riconosce esplicitamente il valore esemplare dell’Eneide, da cui, oltre alla struttura “bipartita” del poema, derivano anche situazioni e scene precise. Ma, mentre Virgilio aveva trovato nel mito una sanzione provvidenziale a giustificazione e celebrazione del presente, la Tebaide proietta sullo sfondo mitico, assoluto, dell’odio fratricida tra Eteocle e Polinice, il tema della guerra civile (o meglio: della guerra) come evento in cui trionfa il male. Fin dall’inizio si delinea una paradossale collaborazione tra gli dèi dell’Olimpo e le divinità degli inferi per portare alla rovina la stirpe maledetta dei re di Tebe; non solo, ma in diversi luoghi del poema lo scopo che Giove dichiara di proporsi nel fo­ mentare il conflitto fra i Tebani e gli Argivi è la distruzione di entrambe le stirpi. Appare dunque evidente l’influenza della Pharsalia di Lucano, in risalto già nell’esordio del proemio.

Duello mortale tra Eteocle e Polinice, rilievo su un’urna cineraria etrusca, II secolo a.C. Siena, Museo Archeologico Nazionale.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

7. Epica nell’età dei Flavi

fonti

PROFILO STORICO

visive

Achille e Chirone Il soggetto godette di ampia fortuna nell’antichità, sia in ambito letterario che figurativo. Stazio, nell’Achilleide, si accinse a narrare il mito di Achille fin dalla prima giovinezza. All’inizio del poema l’eroe si trova presso Chirone, «il più saggio dei centauri» secondo Omero, esperto in medicina, nella caccia e nella musica, già precettore di Giasone e di Asclepio. Teti, per evitare che il figlio vada a combattere a Troia, dove lo attende un destino di morte, si reca dal vecchio centauro per strappargli il ragazzo e condurlo nell’isola di Sciro, con l’intento di nasconderlo tra le figlie del re, travestito da fanciulla. Teti e Chirone stanno parlando, quando, trafelato e coperto di polvere per aver abbattuto una leonessa, giunge Achille: «il vecchio lo ammira e gli ricompone i capelli, carezzandogli ora il petto ora le spalle robuste: ciò che fa la sua gioia di madre è per lei [= Teti] fonte di angoscia. Chirone allora la prega di gustare le vivande e i doni di Bacco, cercando in vari modi di distrarla dal suo turbamento: infine prende la lira e muove le corde che danno sollievo agli affanni, e dopo averlo dolcemente accordato col pollice porge lo strumento al ragazzo. Egli canta, entusiasta, le grandi imprese da cui nasce la gloria» (Achilleis I, 182-189; trad. di G. Rosati). Nell’affresco di Ercolano, Chirone insegna ad Achille come accordare la cetra. La scena è proiettata su uno sfondo architettonico di grande eleganza, che richiama le ricche domus contemporanee piuttosto che la tradizionale caverna incavata nelle rocce del monte Pelio.

Affresco raffigurante Achille giovinetto e il centauro Chirone dalla Basilica di Ercolano, I secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 Dal proemio della Tebaide Thebais I, 1-4 LATINO ITALIANO

La Tebaide di Stazio si apre nelle forme canoniche: i primissimi versi contengono, come imponeva la tradizione epica, la propositio del poema e l’invocatio alle Muse ispiratrici (peraltro il poeta ritornerà ancora sull’argomento e pronuncerà una nuova invocazione, in una sequenza proemiale articolata e amplificata con manieristico virtuosismo per ben 45 versi). Ma la tematica della Tebaide appare vicinissima a quella lucanea (una nefasta guerra fratricida), benché trasferita sul piano remoto del mito.

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PROFILO STORICO

Nota metrica: esametri.

Fraternas acies alternaque regna profanis decertata odiis sontesque evolvere Thebas Pierius menti calor incidit. Unde iubetis ire, deae? Gentisne canam primordia dirae? Gli eserciti di due fratelli che si affrontano; un regno conteso con odio empio da coloro che avrebbero dovuto governarlo a turno; Tebe carica di colpe: questi sono i temi che mi induce a svolgere l’ardente ispirazione infusa nella mia mente dalle Muse. Da dove prendere lo spunto, o dee? Qual è il vostro comando? Dovrò cominciare a cantare l’origine di quella stirpe maledetta? (trad. di G. Faranda Villa) 3. Pierius... calor: lett. «l’ardore Pierio»; l’aggettivo Pierius vale

«delle Muse», dette anche Pierides («Pieridi») da Pieria, regione della

Tracia in cui una versione del mi­ to poneva la loro sede.

Un mondo dominato da una forza maligna Immediatamente, dunque, si ha l’impressione di un mondo dominato da una forza maligna, da un Fatum che opprime gli uomini e scatena il loro desiderio di sangue. Una visione ben diversa da quella prospettata nel poema virgiliano: l’eroica devozione di Enea al progetto divino ha una manifestazione significativa nella pietas filiale che lo induce a salvare il padre Anchise da Troia in fiamme; in una prospettiva completamente rovesciata, con un gesto di violento ripudio dei vincoli familiari, Edipo invoca le potenze del male scagliando una terribile maledizione contro i suoi figli. Sconvolgimento dell’ordine naturale In realtà la vicenda dei re di Tebe, discen­ denti di Labdaco, nel suo inaudito orrore provoca uno sconvolgimento dell’ordine naturale (ancora una reminiscenza della Pharsalia), particolarmente evidente in due episodi simmetrici: l’arrivo sulla terra della Furia Tisifone, di fronte a cui Atlante ha un sussulto e per poco non fa crollare il cielo (I, 98-99); la caduta di Anfiarao ancora vivo agli inferi, che suscita l’indignazione di Plutone (VIII, 34 sgg.). In questo quadro di sovvertimento del mondo, il rappresentante della pietas umana è Adrasto, il giusto re di Argo, il quale pure, incurante degli infausti segni divini, accetta di partecipare alla guerra. Egli rappresenta la regalità nel suo aspet­ to di giustizia e saggezza, ma è un contraltare del tutto insufficiente rispetto al potere tirannico detenuto da Eteocle (e poi da Creonte) e desiderato da Polinice. Critica del potere C’è quindi una fatalità oscura che segna il potere al di là dell’e­ redità funesta dei Labdacidi, e che ha indotto a vedere nel poema una rappre­ sentazione degli esiti tragici del desiderio e dell’esercizio del potere, non senza riferimenti alla situazione storica di Roma: se Stazio era nato tra il 40 e il 50 d.C., aveva assistito da giovane alle atrocità del regno di Nerone e alla guerra civile del 69 d.C. Rispetto a quegli eventi i Flavi erano stati dei liberatori, la loro opera di pacificazione era paragonabile a quella di Augusto dopo le tormentate vicende del I secolo a.C., e a quella di Teseo nella storia di Tebe. Ma nel poema nemmeno l’azione liberatrice di Teseo è priva di ombre: alcune similitudini connotano la violenza del suo intervento in modo simile alla furia sanguinaria di un Tideo. 257 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

7. Epica nell’età dei Flavi

PROFILO STORICO

La struttura “tragica” del poema Certamente la concezione di un Fatum negativo e l’avvertimento dei pericoli di un potere tirannico derivano dalla Pharsalia e dalle tragedie di Seneca. A ben vedere, la struttura portante della Tebaide coincide con una climax tragica, culminante nella doppia morte dei due fratelli nemici nel libro XI. Nel libro XII l’arrivo di Teseo, mosso dalle preghiere delle donne argive, sembra aprire uno spiraglio a un esito positivo. Ma, come abbiamo visto, Teseo è una personificazione assai imperfetta della pietas. Inoltre, benché interrompa la climax negativa dei libri precedenti, quest’ultimo libro “positivo” è racchiuso in un’inquietante struttura circolare: all’inizio e alla fine compaiono scene di lamento sui cadaveri; anche nella gioia della liberazione, il poeta non trascura la nota funebre. L’Achilleide, poema incompiuto Dopo la pubblicazione della Tebaide e dei pri­ mi quattro libri delle Silvae, intorno al 95, Stazio cominciò a lavorare al progetto dell’Achilleide (Achilleis), un poema in cui si proponeva di narrare tutta la vita di Achille, fino alla sua morte a Troia. Il poema rimase incompiuto per la morte dell’autore, e quel che ci resta, poco più di un migliaio di versi, è decisamente singolare. Rispetto all’atmosfera cupa, opprimente e tragica in cui si svolgono gli eventi della Tebaide, in questo “frammento” dell’Achilleide risalta l’apparente libertà d’azione dei personaggi. In realtà il lettore sa che il destino di Achille è segnato, e Stazio aveva intenzione di percorrere tutta la vita dell’eroe, fino alla morte gloriosa sotto le mura di Troia. Possiamo pensare che il poeta, giunto alla narrazione delle im­ prese belliche, sarebbe tornato ai toni foschi della Tebaide, ma occorre constatare che, nei versi scritti, suggestioni elegiache, o comunque estranee all’epica, si con­ trappongono a luoghi comuni di un epos fin troppo convenzionale.

Achilleide Riassunto del “frammento”: i versi scritti (libro I; libro II, incompleto) ▰ Una “commedia degli inganni”: Achille in Sciro Nel libro I abbiamo una sorta di “commedia

Achille e Deidamia si sposano, ma il loro idillio dura una sola notte. Nei non molti versi del libro II (167, di fronte ai 960 del libro I) viene narrata la partenza di Achille, nel cui petto Ulisse accende astutamente l’ardore di guerra.

degli inganni”: Teti, madre di Achille, per evitare all’eroe di partecipare all’imminente guerra di Troia (nella quale è destinato a perire), sottrae il figlio alla custodia del centauro Chirone e lo trasporta nell’isola di Sciro, presso il re Licomede. Travestitolo da fanciulla, lo presenta come sorella di Achille: dapprima riluttante, il giovane si sottopone all’indecoroso travestimento quando scorge Deidamía, figlia di Licomede, di cui s’innamora.

▰ Ulisse e Diomede inducono Achille a tradirsi Nel frattempo i Greci lo attendono in Aulide: l’indovino Calcante rivela il luogo del nascondiglio, dove prontamente si recano Ulisse e Diomede. Anch’essi ricorrono all’inganno per indurre l’eroe a tradirsi: di fronte al bagliore delle armi e al suono marziale di una tromba le fanciulle sbigottiscono, mentre Achille non sa resistere. Dopo aver tenuto nascosto il loro amore,

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Achille in Sciro. Affresco dalla Casa dei Dioscuri a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale


PROFILO STORICO

Lingua e stile Dal punto di vista linguistico, su una trama di base mutuata da Virgilio, Stazio inserisce la ricchezza lessicale di Ovidio; la lezione ovidiana sarà stata sicuramente essenziale anche per la versatilità e l’agilità nell’utilizzo dell’e­ sametro. L’audacia di Stazio nell’uso dell’astratto per il concreto (e viceversa), dell’inanimato per il vivente (e viceversa) sembra invece derivare da Lucano. Un tratto stilistico fondamentale è la tendenza all’intensificazione patetica, che certo deve molto alla retorica contemporanea delle declamazioni.

La fortuna di Tebaide e Achilleide Antichità e Medioevo La Tebaide godette di grande fortuna fin dall’antichità: ne scrisse un commento Lattanzio Placido nel V-VI secolo; ne diede un’interpreta­ zione allegorica il poeta Fulgenzio. La materia del poema ricompare nel medievale Roman de Thèbes (XII secolo), mentre l’Achilleide fu trasmessa in vari mano­ scritti destinati soprattutto all’uso scolastico. Dai poemi epici di Stazio trassero ispirazione Petrarca (nell’Africa) e Boccaccio (nel Teseida). Stazio epico nella Divina Commedia Ma fu soprattutto Dante a riprenderne immagini ed episodi in diversi luoghi della Commedia, in particolare nell’Inferno: sul personaggio della Tebaide è modellato l’indomito Capaneo del canto XIV (vv. 46-60); alla scena in cui Tideo morente addenta la testa troncata di Melanippo è esplicitamente paragonata l’allucinante apparizione del Conte Ugolino, intento a rodere il teschio del suo nemico, l’arcivescovo Ruggieri (XXXII, 130-132); nel canto XXVI, allorché scorge avanzarsi la fiamma che avvolge Ulisse e Diomede, il poeta esclama: «chi è ’n quel foco, che vien sì diviso / di sopra, che par surger de la pira / dov’Eteòcle col fratel fu miso?» (vv. 52-54). Nel IX del Purgatorio (vv. 34-42), Dante paragona il proprio riscuotersi, pieno di spavento, al risveglio di Achille, trafugato in Sciro dalla madre Teti (Achilleide I, 247-251). Stazio personaggio di rilievo nel Purgatorio Sappiamo inoltre che Dante, al di là delle deformazioni leggendarie, conferisce notevole rilievo allo stesso Stazio fra i personaggi della seconda cantica, facendogli tra l’altro pronunciare un commosso, altissimo elogio di Virgilio, nel quale riconosce umilmente la fonte di tutta la sua poesia (Purg. XXI, 94-99).

Guida allo studio

1.

Illustra gli aspetti formali e tematici delle Silvae di Stazio. 2. La Tebaide: argomento, struttura e riassunto delle vicende narrate. 3. Come già per la Pharsalia di Lucano, per la Tebaide si parla di un’«anti-Eneide».

Quali aspetti del poema giustificano tale definizione? 4. Come si configurava il progetto originario dell’incompiuta Achilleide? Quale parte della vicenda viene narrata nel “frammento” che Stazio ha composto? 259

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

7. Epica nell’età dei Flavi

2 Gli Argonautica di Valerio Flacco PROFILO STORICO

Notizie biografiche Gaio Valerio Flacco Setino Balbo è il nome completo del poe­ ta, come ci viene riferito da un manoscritto: Setinus sembra indicare come luogo di nascita Setia (l’odierna Sezze) nel Lazio. Dalla sua stessa opera deduciamo che fu quindecemvir sacris faciundis: apparteneva cioè al collegio sacerdotale, consacrato ad Apollo, cui competevano la consultazione dei Libri Sibillini e la sorveglianza dei culti stranieri in Roma. Alla sua morte fa cenno Quintiliano, che è l’unico nell’antichità a fare il suo nome: Valerio, quindi, morì intorno al 90, pri­ ma della pubblicazione dell’Institutio oratoria. Il proemio della sua opera è stato scritto molto probabilmente prima della morte di Vespasiano (imperatore dal 69 al 79 d.C.), a cui il poeta si rivolge nella dedica, dopo la propositio e l’invocazione ad Apollo; nei libri III e IV si fa riferimento all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Argomento del poema L’opera di Valerio Flacco, composta negli anni Settanta del I secolo d.C., ha il titolo di Argonautica («Le Argonautiche»): narra cioè le vicende degli Argonauti, i primi a solcare i mari (dal Mediterraneo al Mar Nero) a bordo della nave Argo. Il poema è diviso in otto libri; l’ultimo, peraltro, s’inter­ rompe al v. 467, probabilmente per la morte dell’autore. Le Argonautiche di Apollonio Rodio Il precedente letterario più illustre è il poema ellenistico di Apollonio Rodio (III sec. a.C.), tradotto in latino nel I sec. a.C. dal poeta neoterico Varrone Atacino. Il mito degli Argonauti è però molto più antico: Omero mostra di conoscerlo e Pindaro (V sec. a.C.). ne dà una versione lirica nella Pitica V.

Argonautica Riassunto del poema ▰ Costruzione della nave Argo e convegno degli eroi La narrazione di Valerio Flacco comincia con la costruzione della nave Argo e il convegno degli eroi che parteciperanno al viaggio, chiamati da Giunone che diffonde nelle città della Grecia la notizia dell’inaudita impresa. Tra i molti eroi giunti a Iolco vi sono Meleagro, i gemelli Castore e Polluce, Telamone, Peleo, Mopso, Ercole e il cantore Orfeo. Comandante è Giasone, figlio di Esone, re di Iolco, il cui regno è stato usurpato dal fratello Pelia: segni divini ammoniscono Pelia a disfarsi di Giasone, e pretesto del viaggio è il recupero del vello d’oro, che si trova in Colchide, sulla sponda caucasica del Mar Nero (libro I).

▰ Il viaggio avventuroso verso la Colchide Seguono i tradizionali episodi della saga argonautica: l’arrivo e la sosta a Lemno, dove Giasone si unisce alla regina Ipsipile; i due approdi a Cízico, presso il re omonimo, nel secondo dei quali si scatena una terribile battaglia; la scomparsa di Ila, giovinetto amato da Ercole, che indugia a cercarlo ed è abbandonato a terra; lo scontro di pugilato in cui Polluce sconfigge Àmico, re dei Bebrici; il racconto

di Fineo perseguitato dalle Arpie e l’attraversamento delle Simplegadi, le isolette mobili che dopo il passaggio di Argo non si muoveranno mai più (libri II-IV).

▰ Sbarco in Colchide; il re Eeta promette a Giasone il vello d’oro; Medea si innamora di Giasone Con lo sbarco in Colchide, appare la figura di Medea, figlia del re Eeta, il quale promette a Giasone il vello d’oro, purché s’impegni a combattere al suo fianco contro il fratello Perse. Si intrecciano le imprese belliche e l’innamoramento di Medea (libri V-VI).

▰ Giasone supera difficili prove e si impadronisce del vello d’oro grazie alle arti magiche di Medea; fuga di Giasone e Medea Gli ultimi due libri narrano gli eventi risolutivi della vicenda: Eeta non rispetta l’impegno assunto, e impone a Giasone terribili prove (aggiogare all’aratro due mostruosi tori dagli zoccoli di bronzo, che spirano fiamme; seminare nei solchi denti di drago da cui spunta una messe di uomini armati, che l’eroe dovrà sterminare), per superare le quali sarà indispensabile l’aiuto di Medea, esperta in arti magiche. Addormentato il drago che sta a guardia del vello, Medea fugge per mare con Giasone. La raggiunge il fratello Absirto. Qui il poema si interrompe (libri VII-VIII).

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PROFILO STORICO

PERCORSO ANTOLOGICO

T 2 Dal proemio delle Argonautiche Argonautica I, 1-4 LATINO ITALIANO

Nota metrica: esametri.

Il poema si apre con la tradizionale protasi o propositio (dichiarazione dell’argomento), quattro densi versi in cui si concentrano le espressioni rivelatrici dei nuclei tematici più significativi dell’opera.

Prima deum magnis canimus freta pervia natis fatidicamque ratem, Scythici quae Phasidis oras ausa sequi mediosque inter iuga concita cursus rumpere, flammifero tandem consedit Olympo. Io canto i mari che furono, primi, una via a magnanimi figli di dèi, la profetica nave che osò, nella Scizia, cercare le sponde del Fasi e fra scatenate montagne, rompere il varco, e finalmente posò, nel cielo fiammante di stelle. (trad. di F. Caviglia)

2. fatidicam... ratem: «profetica» è la nave Argo, perché nella sua struttura era stato inserito il legno di una quercia tratta dal bosco sacro di Dodona in Epi­ ro, sede di un venerato oracolo di Zeus. Durante la traversata la nave stessa esprimerà profetici responsi. – Scythici: propriamente nella Colchide; nella lin­

gua poetica, la Scizia designa in senso la­ to le terre estreme di Nord-Est. Il Fasi è l’attuale fiume Rion, che sfocia nel Mar Nero, a Sud del Caucaso. 3. iuga concita: le Simplegadi («le rocce che urtano l’una contro l’altra»), nella tradizione greca mitici scogli semoventi all’altezza del Bosforo.

4. flammifero... Olympo: la nave è de­ stinata al catasterismo («trasformazione in astro»), cioè ad approdare negli spazi celesti sotto forma di costellazione. Ar­ go, detta anche la Nave, è in effetti una costellazione australe che sorge all’oriz­ zonte in marzo e tramonta in settembre.

Inaudita novità dell’impresa argonautica Prima è la parola che apre il poema ed è parola-chiave nell’ideologia dell’opera: la nave Argo è la prima a violare i flutti, e continuamente l’autore insiste sulla novità dell’impresa compiuta dagli Argonauti. Essa rappresenta un sovvertimento dell’ordine naturale, un’intrusione nel regno di Nettuno che sarebbe pericolosa senza l’aiuto di altri dèi, in particolare di Giunone e Minerva, ma soprattutto di Giove, che con la prima navigazione in­ tende concludere l’età dell’oro di Saturno e inaugurare l’età del ferro (I, 498-500). Il viaggio della nave Argo è dunque una sorta di missione civilizzatrice, che sarà premiata col catasterismo (= trasformazione in astro) della stessa nave (flammifero... consedit Olympo; I, 4). Mito e presente storico: Valerio Flacco e Virgilio Si ricorderà il proemio dell’Eneide, dove Enea è primus a raggiungere l’Italia per volere del fato. Il viag­ gio di Enea era una fuga da Troia per fondare un’altra patria, Roma, che in que­ sto modo trovava nel lontanissimo passato mitico un’illustre radice genealogica. Invece, il viaggio di Giasone sulla nave Argo non può avere col presente di Roma che una relazione esemplare, archetipica: più che lo scopo della navigazione conta 261 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

7. Epica nell’età dei Flavi

PROFILO STORICO

allora la navigazione stessa, in cui si può vedere, con adulatoria amplificazione, il modello mitico delle imprese oltremare (in Britannia) compiute dal futuro im­ peratore Vespasiano durante il regno di Claudio (I, 7-9). Già Virgilio, nell’ecloga IV (vv. 34-35), aveva messo in relazione le spedizioni di Ottaviano in Oriente con l’impresa argonautica: fin dall’inizio il modello virgiliano funziona come strumen­ to di “romanizzazione” di un mito estraneo alla storia di Roma. La figura di Giasone La fonte principale di Valerio Flacco, Apollonio Rodio, aveva ritratto Giasone come un antieroe, del tutto inadeguato a un progetto di grande epica. Valerio riplasma Giasone sul modello di Enea: inserisce episodi guerreschi per far risaltare la virtus bellica del protagonista; lo rappresenta intento ad elevare preghiere agli dèi e a celebrare sacrifici, evidentemente mirando a farne un eroe della pietas. La funzione narrativa di Medea La storia d’amore fra Giasone e Medea ricorda quella di Enea presso Didone. Tuttavia la funzione narrativa di Medea è opposta a quella di Didone: l’unione con la regina di Cartagine è un indugio rispetto alla realizzazione del Fatum, mentre la storia d’amore con Medea è essenziale al suo compimento, ben più di qualunque fatto d’armi. La duplice natura di Medea La maestria di Valerio consiste nella gradualità con cui descrive gli stadi successivi dell’innamoramento, rendendo l’immagine di un conflitto tutto interiore tra Amor e Pudor. Ma non si può dire che il poeta riesca ad unificare i diversi volti di Medea in un carattere coerente: il lato più oscuro del personaggio, quello di maga e sacerdotessa di Ecate, non giunge ad armonizzarsi con la figura dell’adolescente inesperta, in preda ai primi turbamenti d’amore [ T4]. Gli dèi e il fato Un tema presente in Valerio, che assume rilievo assoluto in Stazio, è la problematizzazione della volontà degli dèi. Esemplare l’interrogazione pa­ tetica a Giove all’inizio del III libro: perché il padre degli dèi ha permesso che si scontrassero in armi uomini che si erano lasciati da amici, che, anzi, erano legati da un rapporto di ospitalità? C’è un Fatum che accieca gli uomini e li induce agli atti più terribili. Valerio, a differenza di Stazio, ha comunque fiducia nel progresso del mondo e nelle possibilità conoscitive dell’uomo: le sue invocazioni ad Apollo e alle Muse, in punti particolarmente importanti, non solo riprendono un topos del genere epico, ma sono anche un’affermazione di ottimismo gnoseologico. Tecnica compositiva Sul piano compositivo Valerio interviene sovente a spezzare la linearità del racconto, con cambiamenti di scena, sospensioni patetiche, moltiplicazione dei punti di vista: nel libro VI, ad esempio, la guerra è vista ora attraverso gli occhi di Giasone, ora attraverso quelli di Medea; nel libro VII il poeta narra le vicende dell’innamoramento di Medea per fasi successive e staccate, in modo da suscitare un’atmosfera di attesa. La fortuna Come si è detto, l’unico a citare Valerio Flacco nell’antichità è Quintiliano. Gli studiosi tuttavia hanno individuato tracce della lettura delle sue Argonautiche in Stazio, Silio Italico e in poeti della tarda antichità come Claudiano e Draconzio. Sappiamo che fu letto anche nel Medioevo, quando si trassero diver­ se copie da un unico manoscritto, perduto. Perduta è anche la copia trovata a S. 262 © Casa Editrice G. Principato


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Gallo nel 1416 da Poggio Bracciolini. Nel Rinascimento un giudizio solo parzial­ mente positivo fu espresso dallo Scaligero, mentre lesse Valerio il poeta portoghese Luiz de Camões, autore del poema epico I Lusiadi, sull’impresa di Vasco de Gama.

Guida allo studio

1.

Qual è il modello greco, nonché la fonte principale, degli Argonautica di Valerio Flacco? Sono riconoscibili nel poema gli influssi di altri modelli? 2. Esponi argomento e struttura degli Argonautica, delineando la trama narrativa

sviluppata negli otto libri. 3. Traccia un profilo dei due personaggi principali, Giasone e Medea, indicando analogie e differenze rispetto ai modelli.

3 I Punica di Silio Italico La vita: la testimonianza di Plinio il Giovane Il nome completo del poeta è Tiberius Catius Asconius Silius Italicus. L’epistola III, 7 di Plinio il Giovane, scritta in occasione della morte di Silio Italico, ce ne dà una sorta di ritratto, ricordan­ doci le tappe principali della sua vita: fu l’ultimo console nominato da Nerone nel 68 d.C., e si diceva che in quel periodo fosse stato un delatore; morto Nerone, fu vicino a Vitellio; dopo un proconsolato in Asia (77-78), si ritirò a vita privata in Campania. Raggiunse così i settantacinque anni d’età circondato dalla stima di molti, che ascoltarono anche sue recitationes poetiche. In base alla datazione della lettera di Plinio, possiamo fissare la morte al 101-102 d.C., e quindi la data di nascita al 25-26 d.C. I Punica: composizione e argomento Scrisse la sua opera, i Punica («Le guerre puniche»), in età avanzata, probabilmente a partire dall’88 d.C. circa. A diffe­ renza dei poemi epici di Stazio e di Valerio Flacco, il poema di Silio è di soggetto storico, e tratta della seconda guerra punica (219-202 a.C.). L’opera comprende diciassette libri, numero decisamente insolito (anche se non privo di precedenti ellenistici), in cui è stata vista la realizzazione imperfetta di un progetto originario di diciotto libri, come negli Annales di Ennio: anche sulla scorta di questa sugge­ stione, si è individuata nell’opera una divisione in tre èsadi (o gruppi di sei libri). Storia e mito: i modelli poetici La scelta di un tema storico non porta Silio sulle tracce di Lucano: egli introduce nel racconto dei fatti, risalenti alla fine del III secolo a.C., l’apparato mitologico dell’Eneide. E dall’Eneide l’argomento trae la sua giustificazione mitica: la guerra romano-cartaginese trova origine nella ma­ ledizione scagliata da Didone morente contro Enea e i suoi discendenti (Aen. IV, 621-629). Accanto a Virgilio, tra i modelli del poeta ci sono Nevio, Ennio, Lucano, lo stesso Omero. Le fonti storiche Accanto ai modelli poetici, vi sono naturalmente delle fonti sto­ riografiche: in primo luogo la terza decade (libri XXI-XXX) di Tito Livio, ma anche annalisti come Valerio Anziate, che d’altronde fu una fonte importante 263 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

7. Epica nell’età dei Flavi

PROFILO STORICO

per lo stesso Livio. Le falsificazioni e le omissioni di dati storici non mancano, e per lo più consistono in riduzioni e semplificazioni di episodi che Silio preferisce adattare ai moduli compositivi dell’epica. Così, dopo un “quadro” generale del campo di battaglia, si susseguono le omeriche aristíe, le imprese eroiche dei singoli combattenti. Una scelta tradizionalista Tra storia ed epica, Silio sceglie la conciliazione tra­ dizionale, quella che già appariva in Nevio ed Ennio, e nei confronti della quale Lucano rappresentava l’eccezione. Rispetto a Nevio ed Ennio, tuttavia, la forte distanza storica dagli eventi accentua l’atteggiamento dell’antiquario erudito ri­ spetto a quello del poeta “impegnato”. Ma proprio la scelta dell’argomento susci­ ta alcune considerazioni sullo sfondo etico-filosofico del poema, sostanzialmente stoico e per taluni aspetti influenzato da Lucano. Il piano “stoicizzante” di Giove Come Giove dice espressamente nel suo di­ scorso a Venere, protettrice dei Romani, che lamenta l’avvenuto passaggio delle Alpi da parte di Annibale, egli intende mettere alla prova con la guerra la virtù di un popolo destinato a regnare sul mondo, ma che sembra essersi indebolito. Il progetto paradossale di innalzare un popolo alla gloria attraverso la sofferenza, inducendolo a ritrovare il proprio vigore originario, è quello di un Giove passato al filtro dello stoicismo. D’altra parte questo atteggiamento stoicizzante si innesta facilmente su una visione della storia romana condivisa da storici come Sallustio e lo stesso Livio, secondo la quale la grandezza di Roma è indissolubilmente legata alla sua capacità di vincere i nemici esterni esclusivamente grazie alla virtus.

Punica Riassunto del poema ▰ La prima esade Nei libri I-II è narrato l’assedio di

conquista di Siracusa da parte di Marcello (libro XIV), le vittorie di Scipione in Spagna, di Claudio Nerone e Livio Salinatore al Metauro (libro XV) e la definitiva vittoria di Scipione a Zama (libro XVII).

Sagunto, conclusosi con l’atto tragicamente eroico della morte volontaria dei suoi abitanti, che riescono così a sfuggire al dominio cartaginese. Nei libri III-V abbiamo l’attraversamento delle Alpi da parte di Annibale [ T6] e le vittorie cartaginesi del Ticino, della Trebbia e del Trasimeno. Gli exempla di eroismo del libro VI, tra cui spicca quello di Attilio Regolo (vv. 140-544), illustrano la virtus romana in un momento di estremo pericolo.

▰ La seconda esade Al centro della seconda esade

(libri VII-XII) è posta la gravissima sconfitta di Canne (libri IX-X), preceduta dalla descrizione della condotta di guerra di Quinto Fabio Massimo e seguita dalla prima significativa vittoria romana, la riconquista di Capua, guidata da Claudio Marcello. A questa però fa da contraltare l’arrivo di Annibale sotto le mura di Roma, da cui lo allontanano gli dèi (XII, 686-752).

▰ La terza esade La terza “esade” (in realtà una

pentade, libri XIII-XVII) è dominata dalle figure di P. Cornelio Scipione e di Claudio Marcello. Il giovane Scipione discende agli inferi per ritrovare le ombre dei due Scipioni morti in Spagna (XIII, 397-895). Seguono la

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Un moro a cavallo di un elefante da guerra, statuetta da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


PROFILO STORICO

Esaltazione della virtus romana Quest’impasto di moralismo romano e di stoi­ cismo romanizzato porta comunque a un’esaltazione dei mores antiqui di Roma, nella quale però si è ormai esaurita ogni tensione politica filo-repubblicana. La virtù è premio a se stessa, ma è anche premiata dagli dèi; come in Valerio Flacco, la prospettiva è l’ascesa al cielo attraverso il superamento dei pericoli: «Narro la guerra grazie a cui la gloria degli Eneadi si eleva al cielo» (Punica I, 1-2). Campioni della virtù, nelle sue molteplici manifestazioni, sono i grandi generali romani: Quinto Fabio Massimo è connotato dalla fides e dalla saggezza; Publio Cornelio Scipione coniuga a pietas e fides un positivo impulso all’azione. Annibale come anti-Enea Ma l’unico personaggio che assuma la consistenza di un protagonista è Annibale, tratteggiato con caratteri di forza e di malvagità che ricordano il Cesare di Lucano. Annibale è una sorta di anti-Enea: se Enea è desti­ nato a costruire le mura di Roma, Annibale è desideroso di abbatterle, e il motivo dell’inviolabilità dei moenia Romae percorre tutto il poema. In questo egli è simile ad Achille, il distruttore di Troia: ma se la madre Teti conforta Achille della morte prematura con una prospettiva di gloria, la dea Giunone incita Annibale alla guer­ ra nascondendogli fino alla conclusione il suo destino di sconfitta. Uno scontro tra Bene e Male, ragione e irrazionalità Tuttavia non è solo al piano paradossale di Giove e alla malvagità di Annibale che si devono le sconfitte romane. Infatti, volta per volta Silio attribuisce la responsabilità a qualche co­ mandante romano, connotato dall’irrazionalità contro la razionalità di un altro: si delinea così, all’interno dello stesso esercito romano, l’opposizione tra la folle violenza di G. Terenzio Varrone e la moderazione di Lucio Emilio Paolo nella bat­ taglia di Canne (libri IX-X). Il poema rappresenterebbe dunque uno scontro co­ smico tra le forze del Bene (Roma - Giove - ragione) e quelle del Male (Cartagine - Giunone - irrazionalità). Lingua e stile Linguisticamente e stilisticamente Silio è considerato un “classi­ cista” di stretta fede virgiliana, con una certa tendenza all’arcaismo ma senza le oscurità di Valerio Flacco o le impennate barocche di Stazio. La fortuna Menzionato nell’antichità solo da Plinio il Giovane, Marziale e Sidonio Apollinare, verosimilmente Silio fu ignoto al Petrarca, che scrisse l’Africa sen­ za tener conto del suo poema. Fu di nuovo letto in seguito alla scoperta di un manoscritto a San Gallo da parte di Poggio Bracciolini, nel 1416 o nel 1417. Testimonianza della fortuna di Silio Italico nella Firenze del Rinascimento sarebbe il quadro di Raffaello intitolato Il sogno del cavaliere (Londra, National Gallery), in cui André Chastel ha riconosciuto una rappresentazione dell’episodio di Scipione al bivio tra Virtus e Voluptas nel libro XV dei Punica.

Guida allo studio

1.

Qual è la nostra principale fonte per la biografia di Silio Italico? 2. I Punica: epoca di composizione, argomento, struttura, riassunto delle vicende narrate, con riguardo ai personaggi e agli episodi principali.

3. Indica i modelli letterari cui Silio si richiama nei Punica. 4. Metti in luce l’impianto etico-filosofico del poema di Silio, precisando l’indirizzo dottrinale seguito dall’autore.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

7. Epica nell’età dei Flavi

Materiali

essenziale

Bibliografia

B

S Sintesi

PROFILO STORICO

ONLINE

BIBLIOGRAFIA ESTESA

� I quattro poemi supersti­ ti di età flavia si possono leggere con testo a fronte, traduzione italiana e ottimi apparati critici nelle seguen­ ti edizioni: Stazio, Tebaide, a cura di G. Faranda Villa,

Rizzoli (BUR), Milano 1998; Stazio, Achilleide, a cura di G. Rosati, Rizzoli (BUR), Milano 1994; Valerio Flacco, Le Argonautiche, a cura di F. Caviglia, Rizzoli (BUR), Milano 1999; Silio Italico, Le

guerre puniche, a cura di M.A. Vinchesi, Rizzoli (BUR), Milano 2001. Per le Selve di Stazio si consiglia l’edi­ zione a cura di L. Canali e M. Pellegrini, Mondadori (Oscar), Milano 2006.

Epica nell’età dei Flavi Nell’età dei Flavi (69-96 d.C.) la poesia epica conosce una nuova, significativa fioritura: il “ritorno all’ordine” imposto da Vespasiano trova un modello ideale in Virgilio, simbolo insigne del classicismo augusteo. L’epica storica e drammatica di Lucano lascia il posto a quella mitologica di Stazio e Valerio Flacco; Silio Italico ricongiunge il racconto storico all’apparato mitologico dell’epos tradizionale. Gli esperimenti di Ovidio e di Lucano, tuttavia, avevano scosso profondamente le strutture del genere epico e avevano lasciato un’impronta indelebile nel gusto e nelle tecniche poetiche. Perciò Valerio Flacco, Stazio e Silio Italico, i tre poe­ti di quest’epoca dei quali possediamo le opere, oscillano tra un “neoclassicismo” d’ispirazione virgiliana e le suggestioni del “barocco” d’età neroniana.

La Tebaide di Stazio narra dell’inimicizia mortale fra i figli di Edipo, Etèocle e Polinice, colpiti dalla maledizione paterna, e della guerra mossa dai Sette contro Tebe. Un secondo poema d’argomento mitologico, l’Achilleide, rimase incompiuto per la morte dell’autore. Nelle Argonautiche Valerio Flacco rivisita la mitica saga di Giasone e degli Argonauti partiti alla conquista del vello d’oro nella Colchide, già cantata dal poeta greco Apollonio Rodio in età ellenistica. Nei Punica Silio Italico si orienta invece verso il poema nazionale romano dagli intenti celebrativi: sceglie un argomento storico, la seconda guerra punica, ma introduce nuovamente nella narrazione epica l’apparato mitologico tradizionale, seguendo fedelmente il modello virgiliano.

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Percorso antologico Thebais di Stazio T1

Dal proemio della Tebaide (I, 1-4)

LAT

IT

LAT

IT

Argonautica di Valerio Flacco T2

Dal proemio delle Argonautiche (I, 1-4)

Thebais di Stazio T3

IT Il duello mortale tra Etéocle e Polinice (XI, 518-579)

Argonautica di Valerio Flacco T4

Il dissidio interiore di Medea (VII, 305-326)

IT

Punica di Silio Italico T5

La traversata delle Alpi (III, 477-534)

IT

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T 3 Il duello mortale fra Eteocle e Polinice Thebais XI, 518-579 ITALIANO

I due figli di Edipo, divisi da un odio implacabile, si affrontano in un duello che dovrebbe decidere le sorti della guerra; ma lo scontro si chiude tragicamente con la morte di entrambi i contendenti. Dalla lettura di questo brano, episodio culminante di tutto il poema, emerge con chiarezza l’incrociarsi, nell’epica di Stazio, di due principali (e per molti aspetti divergenti) influssi. Da una parte la tradizione omerico-virgiliana, cui rimandano la situazione topica del duello, accuratamente descritto nelle sue varie fasi, e le similitudini di stampo tradizionale, solenni e maestose, ampiamente sviluppate (vv. 520-523; vv. 530-536). Dall’altra la tendenza più recente, baroccheggiante ed enfatica, rappresentata dalla Pharsalia di Lucano e dalle tragedie di Seneca: non mancano le antitesi concettose né le immagini ardite e paradossali (le Furie che si astengono ormai dall’intervenire, «superate dal furore mortale» dei due rivali, vv. 537-538), così come al cupo pessimismo lucaneo rimanda l’insistita negatività della tematica.

Si confondono le redini, le mani, le armi 1; entrambi, perduto l’equilibrio, piombano a terra. Come di notte due navi, avvolte dall’Austro piovoso, vedono infranti i loro remi e le gomene a pezzi e, dopo lunga lotta colle tenebre e colla tempesta e con se stesse, così come sono, sprofondano insieme nell’abisso: tale è l’aspetto della lotta. Si scontrano senza regola, senz’arte2, obbedendo soltanto al furore dell’animo; vedono, traverso le visiere, avvampare i loro odii, si cercano i visi 1. entrmbi: Etéocle e Polinice. 2. senza regola, senz’arte: suggestiva la reminiscenza tassiana nel duello di

Tancredi e Clorinda: «toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte» (Ger. lib. XII, 55, 4); e ancora: «Oh fera pugna,/ u’ l’arte

è in bando, u’ già la forza è morta,/ ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!» (ib. 62, 2-4).

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

PERCORSO ANTOLOGICO

7. Epica nell’età dei Flavi

3. l’esule: Poli­ nice. 4. sovrano: Etéocle. 5. Citerone: monte presso Tebe. 6. del giudice... Agenore: Minosse re di Creta (perciò Gnosia... urna, da Cnosso, cit­ tà regia dell’iso­ la), discenden­ te di Agenore e giudice infer­ nale. Agenore era sovrano di Tiro e padre d’Europa, ra­ pita da Zeus in forma di toro: Minosse nac­ que dall’unione della fanciulla con il dio.

con sguardo feroce: nessuno spazio fra loro; intersecando le spade, avvinghiando le braccia, stanno attenti a cogliere, nelle loro furia bestiale, i reciproci mormorii, come se fossero squilli di corni o segnali di trombe. Come quando due cinghiali, spinti da un’ira infrenabile, si scontrano fulminei, rizzando sul dorso le setole irte: gli occhi fiammeggiano, le fauci lunate rintronano, nel cozzo delle zanne adunche; il cacciatore segue la lotta da una rupe vicina, smorto, e raccomanda il silenzio ai suoi cani: così quelli si assalgono con avida rabbia, né ancora si assestano colpi mortali, e tuttavia il sangue già scorre, il crimine è compiuto. Non c’è più bisogno delle Furie; stanno solo a guardare, lì vicino, e manifestano la loro approvazione, dispiaciute soltanto di vedersi superate dal furore mortale. Ciascuno dei due non brama, nella sua follia, che il sangue del fratello; non sentono il proprio che scorre; infine l’esule3 si avventa e, esortata la sua mano, la cui ira è più intensa e più giustificato il delitto, immerge la spada nel corpo del fratello, fino in fondo, là dove l’estremità della corazza copre appena l’inguine colle scaglie. Quello non sente subito il dolore ma, atterrito dal freddo improvviso della lama, ripara il corpo tremante dietro lo scudo; poi, avvertita la ferita, vacilla, sempre più respirando a fatica. Indietreggia, ma il nemico non lo risparmia, anzi incalza: «Dove fuggi, fratello? Ecco l’effetto d’un ozio illanguidito dal sonno, svigorito dal regno, ecco l’effetto d’un lungo governo ben protetto! Ma davanti ti sta un corpo rafforzato dall’esilio e dal bisogno; apprendi a usare le armi e a confidare meno nella buona sorte». Così combattono, gli scellerati; al perverso sovrano4 restava ancora un po’ di vita, e qualche stilla di sangue; ancora era in grado di mantenersi in piedi; ma a bella posta si getta a terra, e già sul punto di morte appresta un ultimo inganno. Il Citerone5 è scosso dalle grida. Il fratello, credendosi ormai vincitore, leva al cielo le mani: «Finalmente! Non furono vane le mie preghiere: vedo i suoi occhi pesanti, lo sguardo errante nella morte. Presto, mi si porti qui lo scettro e il diadema, finché vede». Così diceva, e si mosse verso di lui, bramando pure di spogliarlo delle armi, come se volesse portarle, come trofeo, ai templi e alla patria giubilante: ma quello non era ancora morto, tratteneva la vita per la vendetta della sua ira. Appena avverte che l’altro gli sta sopra e si china sul suo petto, solleva di nascosto la spada e, compensando coll’odio la vita che manca, ormai contento del suo fato immerge il ferro nel cuore del fratello. E l’altro: «Sei vivo, o è la tua rabbia che ancora ti sopravvive, perfido e indegno per sempre d’una dimora tranquilla? Vieni con me fra le ombre! Anche là pretenderò il rispetto dei patti, se pur c’è l’urna cretese del giudice della stirpe di Agenore6, con cui è concesso punire i re». E null’altro disse, e cadde, e seppellì il fratello col peso di tutte le sue armi. Andate, anime feroci, contaminate con la vostra morte il Tartaro funesto, esaurite tutte le pene dell’Erebo7! E voi, dee dello Stige8, abbiate ormai riguardo per le sventure degli uomini: su tutta la terra e per ogni tempo questo solo giorno possa essere stato spettatore d’un tale delitto; cada presso i posteri il ricordo del mostruoso misfatto e solo i re rammentino questa lotta.

7. Erebo: divinità primordiale delle te­ ogonie elleniche, figlio del Caos e sposo

(trad. di G. Aricò)

della Notte. Con il suo nome si usava anche designare l’oltretomba.

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8. dee dello Stige: le tre Furie o Erinni.


PERCORSO ANTOLOGICO

T 4 Il dissidio interiore di Medea Argonautica VII, 305-326 ITALIANO

Siamo di fronte a una svolta cruciale della vicenda: Medea, in procinto di lasciare la reggia paterna per incontrarsi con l’amato Giasone presso il tempio di Ecate, onde prestargli l’aiuto dei suoi filtri magici, senza i quali l’eroe non potrà superare le tremende prove che lo attendono, ondeggia a lungo, delirante e sconvolta (come la Didone virgiliana), fra opposti pensieri e risoluzioni, lacerata dal dissidio fra i doveri imposti dalla pietas familiare e la passione per lo straniero. Ora, fanciulla inesperta in preda alla violenza dei turbamenti d’amore, vorrebbe resistere e serbare il pudor verginale; ora appare sospinta da un disperato desiderio di morte; ora prende il sopravvento in lei la maga, misteriosamente posseduta da «un qualche nume» (v. 323), depositaria di una potenza oscura e terribile. 305

310

315

320

325

La fanciulla, lasciata sola, ha paura e si guarda intorno dappertutto e non riesce a lasciare la reggia. D’altronde la incalza l’amore crudele, il pensiero di Giasone destinato a morire e le parole udite più gravi si fanno nel suo cuore. Che fare? Vede se stessa scellerata tradire il padre per un uomo straniero e si prospetta la fama dei suoi misfatti e col suo pianto stanca i celesti, stanca gli dèi degli inferi; batte la terra e tra le mani adunche emette rochi suoni, invocando Dite e la signora della notte, che finalmente le vengano in aiuto con la morte e facciano perire al tempo stesso l’uomo che l’ha resa folle; ora chiede furiosa all’assente Pelia perché voglia mandare in rovina il giovane, spinto da tanto odio. Spesso decide di promettere il suo aiuto allo sventurato, poi si pente e si risolve piuttosto a morire con lui; e proclama di non volersi assoggettare per sempre a una turpe passione, che mai con le sue forze darà aiuto ad uno sconosciuto; e rimane prostrata su0l letto, quando ancora le sembra di sentire un richiamo e, spinte le imposte, le porte cigolano. Poi, quando avverte d’essere preda d’un qualche nume, e che ogni senso di pudore che prima la frenava s’è dissolto, allora entra nel vano segreto della stanza, cercando quali magie conosca più efficaci per aiutare il re della nave emonia. (trad. di D. Medici)

313. la signora della notte: Ecate o Proserpina, sposa di Dite (detto anche Ade o Plutone), dio degli inferi. 315. Pelia: lo zio di Giasone, che ha

T5

imposto all’eroe la conquista del vello d’oro. 326. per aiutare il re: Giasone, che Me­ dea ha deciso di aiutare con i suoi filtri

La traversata delle Alpi

Punica III, 477-534

magici; – nave emonia: la nave Argo, venuta dall’Emonia, nome poetico della Tessaglia.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

MAPPA EPICA NELL’ETÀ DEI FLAVI (69-96 d.C.)

Nuova fioritura di poesia epica

Papinio Stazio (tra 40 e 50 post 96 d.C.)

• • • • •

neoclassicismo flavio epos mitologico (Stazio; Valerio Flacco) fusione di mito e storia (Silio Italico) il modello ideale è l’Eneide di Virgilio influssi tematici e stilistici della Pharsalia di Lucano

Thebais – 12 libri in esametri – argomento: la spedizione dei Sette contro Tebe – negatività della tematica: la guerra fratricida, il potere tirannico – struttura tragica del poema Achilleis – poema incompiuto: libro I e inizio del II, per 1127 versi esametri – progetto: narrazione dell’intera vita di Achille – il “frammento” narra di Achille giovinetto in Sciro

Argonautica – poema incompiuto: 8 libri in esametri – argomento: l’impresa di Giasone e degli Argonauti – fonte principale: le Argonautiche di Apollonio Rodio (III sec. a.C.)

Punica – 17 libri in esametri – argomento: la seconda guerra punica – fedeltà al modello virgiliano – poema nazionale romano, intenti celebrativi – esaltazione della virtus in chiave stoicizzante

Valerio Flacco (? - ca 90 d.C.)

Silio Italico (25 o 26 - 101 o 102 d.C.)

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Completamento

1

Inserisci i dati mancanti della biografia di Stazio.

Publio Papinio Stazio nasce a tra ; si trasferisce a Roma prima del . Tiene apprezzate pubbliche e partecipa con successo a importanti ; ottiene il favore . Compone tra l’80 e il la , un poema epico in . Tra il 92 e il 95 pubblica i primi quattro libri delle . In seguito lavora a un secondo poema epico, , quasi certamente interrotto a causa ; ne restano poco più di . Intorno al 95 fa ritorno a Napoli; non si hanno di lui notizie posteriori al . p._____/14

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Nella Tebaide il personaggio depositario della pietas è Anfiarao b. La struttura portante della Tebaide è di natura tragica c. Nell’Achilleide si narrano le imprese dell’eroe fino alla morte di Patroclo d. Gli Argonautica di Valerio Flacco constano di 12 libri, come l’Eneide e. L’autore attribuisce all’impresa argonautica una missione civilizzatrice f. La funzione narrativa di Medea è analoga a quella di Didone nell’Eneide g. Nei Punica Silio Italico concilia storia e mito secondo tradizione

2. Nella Tebaide Stazio ■ si ispira ai miti tebani trattati dai tragici greci ■ narra dell’odio fratricida di Eteocle e Polinice ■ scandisce la narrazione in due parti sul modello dell’Eneide ■ delinea una visione provvidenzialistica di impronta stoica 3. Negli Argonautica Valerio Flacco ■ assume quale modello il poema di Apollonio Rodio ■ tratta un mito strettamente legato al passato di Roma ■ riplasma il protagonista Giasone sulla figura di Enea ■ non riesce a dare un carattere coerente al personaggio di Medea 4. Nei Punica Silio Italico ■ tratta un soggetto storico, eliminando l’apparato mitologico ■ compone un poema in 17 libri sulla seconda guerra punica ■ attinge a fonti storiografiche, Livio e gli annalisti ■ esalta la virtus romana in chiave stoicizzante p._____/4

V|F

Totale p._____/25

V|F V|F V|F V|F V|F V|F

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Varietà tematica delle Silvae di Stazio. 2. Precedenti letterari, fonti e modelli delle Argonautiche. 3. Il personaggio di Giasone nel poema di Valerio Flacco.

p._____/7

Trattazione sintetica

Quesiti a scelta multipla

3 Indica, fra le quattro affermazioni riportate, quella non pertinente. 1. In età flavia la poesia epica ■ conosce una nuova importante fioritura ■ tratta esclusivamente soggetti mitologici ■ trova un modello ideale in Virgilio ■ appare in sintonia con il “ritorno all’ordine”

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Influssi della Pharsalia lucanea nella Tebaide di Stazio. 2. Le vicende narrate nelle Argonautiche di Valerio Flacco. 3. Aspetti etico-filosofici nel poema di Silio Italico.

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Epica nell’età dei Flavi

Verifica finale


8 Marziale e la poesia epigrammatica 1 La vita e le opere La vita Di origine spagnola (come Seneca Padre, Seneca Filosofo, Lucano e Quintiliano), di condizione sociale modesta, Marco Valerio Marziale nasce a Bìlbili, centro montano della Spagna Tarraconense, in un anno compreso fra il 38 e il 41 d.C. Compiuti i tradizionali studi di grammatica e di retorica, intorno al 64 si trasferisce a Roma, forse per intraprendere l’attività di avvocato. Accolto nelle case di Seneca e di Lucano, perde ben presto i suoi potenti protettori, costretti al suicidio in seguito alla congiura antineroniana del 65. Ha inizio per lui, da questo momento, la vita convulsa e precaria del cliente, desti­ nata a protrarsi durante tutto il trentennio della permanenza romana. Solo nell’80, grazie alla pubblicazione e al successo del Liber de spectaculis [ T5-8], Marziale raggiunge una certa notorietà come scrittore. Tito, più volte elogiato nel corso del libro, lo benefica concedendogli il ius trium liberorum, cioè il privilegio di usufrui­ re dei diritti riconosciuti ai padri di almeno tre figli. Più tardi, con il successore Domiziano, diviene tribuno ed è ammesso nel rango equestre. Stringe rapporti d’amicizia e di stima con Quintiliano, Giovenale, Plinio il Giovane e Silio Italico. Migliora il suo livello di vita, che continua però a restare subordinato ai favori dei protettori: in quest’epoca lascia la modesta soffitta in Trastevere, uno dei quartieri più poveri della città, per trasferirsi in una casa sul Quirinale. 272 © Casa Editrice G. Principato


Toto notus in orbe Martialis Hic est quem legis ille, quem requiris, toto notus in orbe Martialis, argutis epigrammis libellis: cui, lector studiose, quod dedisti viventi decus atque sentienti, rari post cineres habent poetae. Ecco quel Marziale che tu leggi, quello di cui vai in cerca, noto in tutto il mondo per i suoi arguti libretti di epigrammi: tu gli hai dato, devoto lettore, mentre era vivo e vegeto, una fama che a ben pochi poeti tocca dopo la morte. (Epigrammata I, 1, trad. di M. Scàndola)

Hominem pagina nostra sapit Aprosdóketon Lusus Iocus

Fulmen in clausula

Enumeratio

Alla morte di Domiziano (settembre 96), nei confronti del quale Marziale si era prodi­ gato in ripetute adulazioni, cerca inutilmente di entrare nelle grazie dei nuovi potenti. Nel 98 decide infine di far ritorno a Bilbili: Plinio il Giovane gli regala il denaro per il viaggio, e una ricca matrona sua ammiratrice un podere. Ma a Bilbili non c’erano biblioteche, sale di recitazione, terme dove passare la giornata a conversare: insoddi­ sfatto, con il pensiero nostalgicamente rivolto alla grande città, muore tra il 101 e il 104. Il corpus delle opere Di Marziale ci sono giunti quindici libri di epigrammi: in tutto 1561 componimenti per quasi diecimila versi. Tre di essi, i primi pubblicati, presentano un titolo autonomo: Liber de spectaculis, Xenı̆a, Apophoreˉta. Gli altri sono numerati da I a XII. Xenı̆a e Apophoreˉta costituiscono tradizionalmente i libri XIII e XIV, mentre il Liber de spectaculis, normalmente premesso a tutti gli altri libri, non viene numerato. Liber de spectaculis Il Liber de spectaculis (o Liber spectaculorum) fu pubblicato nell’80, durante gli spettacoli organizzati dall’imperatore Tito per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio (più noto come Colosseo). Comprende poco più di trenta epigrammi in distici elegiaci, nei quali vengono descritti giochi e spettacoli svoltisi durante i giorni delle manifestazioni. Originariamente il libro dovette essere ben più ampio di quello a noi pervenuto. 273 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

PROFILO STORICO

I primi tre carmi esaltano la grandiosità e la bellezza del Colosseo, venerabilis... moles (II, 5-6) che sopravanza le prodigiose piramidi e le mura di Babilonia (tra­ dizionali esempi di mirabilia architettonici nell’antichità). Non mancano versi di carattere platealmente celebrativo: dinanzi a Tito finisce per inginocchiarsi in adorazione perfino un elefante, non perché addestrato a compiere quel gesto ma perché nostrum sentit et ille deum («riconosce anche lui in te il nostro dio»). Già si impone, fin da questa prima raccolta, il carattere scenografico e visivo della poesia di Marziale, tesa ad abbagliare il lettore con effetti speciali. Pur aderendo con meticolosa precisione alla realtà degli spettacoli, il poeta ordina i materiali in modo da «maravigliare» il lettore, sorprendendolo con imprevedibili accostamenti e ingegnose pointes epigrammatiche [ T5]. Due libri per i Saturnali Durante i Saturnali dell’anno 84 oppure 85 furono pub­ blicati (insieme, secondo altri separati) gli Xenia e gli Apophoreta, due libri che portano entrambi titoli greci: xenia significa «doni ospitali», quelli che venivano inviati agli amici durante i giorni dei Saturnalia, accompagnati da un bigliettino augurale; apophoreta (dal greco apophéro, «porto via») erano invece i doni estratti a sorte e offerti durante il banchetto agli invitati, doni che venivano poi «portati» a casa. Xenia Gli Xenia comprendono 127 epigrammi: a parte i primi tre, di carattere proe­ miale, sono tutti composti di un solo distico e recano un titolo che è opera del poeta. I doni a cui i bigliettini fanno riferimento sono cibi e bevande od oggetti associati al convito (incensi, unguenti e corone di rose). Si comincia con vivande di vario genere (ortaggi, frutti, formaggi, uova, carni, pesci, prosciutti) per passare all’olio, al miele e infine ai vini. La tendenza è quella di accorpare tutti gli xenia dedicati a un singolo prodotto. Gli epigrammi 106-125, ad esempio, passano in rassegna le varie qualità dei vini: passito, alla pece, mielato, d’Alba, di Sorrento, Falerno, ecc.

Rilievo marmoreo con scena di mercato da Ostia, II secolo d.C. Museo del Parco Archeologico di Ostia Antica.

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PROFILO STORICO

fonti

visive

Preziose suppellettili In primo piano, fra le preziose suppellettili accuratamente disposte sul piano di un tavolino dal vivido colore giallo, figurano quattro coclearia («cucchiai per chiocciole») di varie dimensioni, allineati in ordine di grandezza. «Il cocleare era uno speciale cucchiaio a due capi: uno, appuntito, serviva a prendere la chiocciola dal suo guscio; l’altro, cavo, faceva la funzione di portauovo» (G. Norcio). Così Marziale fa parlare il curioso oggettino in uno dei suoi Apophoreta (121): «Sono adatto per le chiocciole, e non sono meno utile per le uova. Sai forse perché preferiscono chiamarmi cucchiaio per chiocciole?»

Affresco raffigurante un servizio di argenteria da tavola, I secolo d.C. Pompei, Tomba di Vestorio Prisco.

Istituzioni ROMANE I Saturnali ▰ Una festa in continua espansione I Saturnalia

erano una festività che si celebrava a Roma in onore di Saturno. In origine durava un solo giorno (il 17 dicembre), più tardi due, tre, quattro e infine, al tempo di Domiziano, sette giorni, dal 17 al 23 dicembre. La tradizione ne faceva risalire le origini all’età regia; ma la vera e propria organizzazione della festa risale al 217 a.C., al tempo dei rovesci militari subiti dai Romani nella guerra annibalica, quando si trasformò da una festività del ciclo agrario nella celebrazione di un rito in cui riviveva la mitica età dell’oro, che rimase ancora in vigore nel tardo impero, persino in età teodosiana, quando Macrobio (fine IV-V sec. d.C.) compose i Saturnali [ cap. 20.6].

▰ Il dio Saturno Saturno era un’antichissima

divinità agreste; secondo gli antichi, il suo nome era collegato a sata, i «campi seminati». Aveva un altare presso il Campidoglio, che si riteneva dedicato da Ercole; la terra intorno era denominata Saturnia tellus, espressione invalsa poi ad indicare tutta l’Italia (si veda Virgilio, Georgiche II, 173). In seguito l’italico Saturno fu identificato con il dio greco Cronos. Secondo la leggenda, Cronos-Saturno, spodestato dal figlio Zeus-

Giove, aveva trovato rifugio nel Lazio (il cui nome deriverebbe proprio dal verbo lateˉre, che significa appunto «nascondersi»). L’epoca felice del suo regno veniva fatta coincidere con l’età dell’oro, allorché gli uomini vivevano nella pace e nell’eguaglianza, godendo senza fatica degli abbondanti doni della natura.

▰ Le feste dei Saturnalia in Roma Durante i giorni dei Saturnali si scambiavano doni, si offrivano banchetti con regali per gli ospiti (apophoreta, «[doni] da portar via») accompagnati da epigrammi composti per l’occasione (xenia «[versi] ospitali», «per gli ospiti»); gli schiavi avevano temporaneamente gli stessi diritti dei padroni, che ne prendevano il posto (ad esempio servendo a tavola in loro vece); tutti, a rammemorare l’eguaglianza primitiva, vestivano semplicemente, in tunica e pilleo (il pilleus era il copricapo degli uomini liberi; simbolo della libertà, lo si poneva in testa allo schiavo durante la cerimonia dell’affrancamento). Una sorta di felice mondo alla rovescia, una sospensione “carnevalesca” delle gerarchie e delle consuetudini della vita quotidiana. Da notare che fra gli atti rituali degli antichi Saturnalia non pochi sopravvivono nel costume moderno e negli stessi giorni, in occasione delle feste del Natale cristiano e dell’Anno Nuovo. 275

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

PROFILO STORICO

Apophoreta Gli Apophoreta comprendono 223 epigrammi, anch’essi tutti com­ posti di un solo distico con l’eccezione dei primi due, che svolgono funzione di proemio. Qui i doni a cui si fa riferimento sono più vari e preziosi: tavole da gioco, coppe d’oro, scrigni per anelli, mantelli, sciarpe, tovaglie, cinture, statuine, qua­ dri, libri, perfino schiavi. Spesso a doni ricchi si accompagnano doni poveri, con accostamenti giocosi intonati al clima del convito, che è la cornice entro la quale tali epigrammi vanno collocati. Gli epigrammi 183-196 sono tutti doni di libri, e comprendono i notissimi distici sulla Monobiblos di Properzio, su Tito Livio (con­ densato, a causa della mole, pellibus exiguis), su Tibullo (infiammato d’amore per Nemesi lasciva) o su Lucano. Pur nei limiti imposti dal tema, Marziale rivela in questi due libri la sua originale attenzione per il mondo concreto e lussureggiante degli oggetti, la ricerca della battuta scherzosa, l’inesauribile ricchezza dell’invenzione linguistica, il gusto del catalogo. Gli Epigrammata I primi undici libri degli Epigrammata furono pubblicati singo­ larmente, pressappoco uno all’anno, tra gli inizi dell’86 e il dicembre 96; il libro XII fu composto a Bilbili e pubblicato lontano da Roma, negli anni 101-102. La materia, ricchissima benché spesso ripetitiva, comprende carmi di vario genere: autobiografico, erotico, simposiaco, funerario, descrittivo, encomiastico, satirico. Quasi tutti i libri si aprono con un testo di tono proemiale (in versi o in prosa) dove l’autore parla di sé, della propria poetica, dei libri già pubblicati. Dal punto di vista metrico predominano il distico elegiaco e l’endecasillabo falecio, ma non mancano trimetri giambici e alcuni componimenti in esametri. I singoli epigram­ mi sono ordinati in modo apparentemente casuale, per dare una sensazione di naturalezza ed evitare la monotonia.

Guida allo studio

T1

1.

Ripercorri in sintesi le varie fasi della biografia di Marziale. 2. Descrivi il corpus poetico di Marziale, indicando il numero, l’ordinamento e la cronologia dei libri di cui si compone. 3. Come si intitola la prima raccolta epigrammatica di Marziale e quanti

Doni preziosi e doni umili

componimenti include? In quale occasione venne composta e pubblicata? 4. Illustra le caratteristiche-base degli epigrammi che portano i titoli di Xenia e Apophoreta. A quali festività del calendario romano sono collegati?

Apophoreta 97; 98

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PROFILO STORICO

Il genere LETTERARIO L’epigramma in Grecia e in Roma ▰ Origini dell’epigramma Epigramma (epígramma in greco) significa etimologicamente «iscrizione», «cosa scritta sopra» (un cippo, una lapide, un oggetto votivo). Nasce in Grecia già negli ultimi decenni dell’VIII secolo, in forma anonima, con intenti pratici e celebrativi. I testi tramandati sono iscrizioni in metro vario, per lo più di carattere funebre o votivo, che commemorano persone, luoghi, monumenti, episodi di vita civile o quotidiana; si diffondono largamente dal VI secolo in avanti, quando alcuni epigrammi cominciano ad essere attribuiti, talvolta falsamente, a noti poeti: Simonide di Ceo, Archiloco, Saffo, Alceo, Anacreonte. ▰ L’epigramma ellenistico Solo in età ellenistica

l’epigramma acquista valore propriamente letterario, assumendo i suoi caratteri specifici e permanenti: un componimento d’occasione, brevissimo o comunque di misura limitata, di metro libero (con una decisa prevalenza del distico elegiaco), stilisticamente elegante e raffinato, atto ad esprimere contenuti assai vari, soprattutto di natura privata e soggettiva. L’epigramma ellenistico è assai versatile negli argomenti (erotico, conviviale, satirico, parodistico, giocoso, funebre), libero nelle forme (dialogo, descrizione, spunto narrativo) e nel tono (dalla malinconia all’invettiva, dalla tenerezza alla passione, dalla polemica letteraria all’idillio agreste). Sul piano strutturale, tratto distintivo del testo epigrammatico è l’estrema concentrazione espressiva del discorso poetico, che tende a risolversi rapidamente, con un effetto di calcolata sorpresa, nella battuta finale.

▰ L’Antologia Palatina La storia dell’epigramma

letterario in lingua greca si estende per circa quindici secoli e tocca l’intero Mediterraneo, dalla Siria e dalla Fenicia all’Egitto, dalla Grecia all’Italia. I testi vengono diffusi, a partire dall’età alessandrina, in forma antologica: notissima, in particolare, fu la raccolta organizzata da Meleagro di Gadara nel I secolo a.C. La maggior parte degli epigrammi greci che conosciamo si trovano conservati nella monumentale Antologia Palatina, così chiamata dalla Biblioteca Palatina di Heidelberg, dove fu scoperto agli inizi del XVII secolo

l’unico manoscritto tuttora in nostro possesso, redatto con ogni probabilità verso il X-XI secolo da uno studioso bizantino. La silloge contiene, divisi in quindici libri, circa 3700 epigrammi attribuiti a oltre trecento poeti di varie epoche e culture.

▰ L’epigramma in Roma Comparso a Roma con

i poeti del circolo di Lutazio Catulo e fiorito in età neoterica, l’epigramma di tipo ellenistico viene coltivato in età augustea da autori come Domizio Marso e Albinovano Pedone [ vol. II, cap. 1.6], mentre in età neroniana operò un certo Lucillio, autore in lingua greca di epigrammi di forte segno realistico e di tono satirico, in cui veniva accentuato il momento dell’arguzia finale. Nello stesso periodo vanno probabilmente collocati gli epigrammi compresi nella raccolta dei Priapea [ cap. 2.4]. A questi poeti, ma in particolare a Catullo, dovette ispirarsi Marziale, l’unico epigrammista latino di cui ci sia giunta l’opera in forma integrale. Ancora alla fine del I secolo d.C. il termine «epigramma» è solo uno dei tanti con i quali si fa riferimento a questo tipo di poesia. «Ma epigramma è la denominazione che Marziale adotta stabilmente, preferendola alle altre alternative possibili, per indicare tutta la tipologia dei propri carmi, e cioè qualsiasi componimento breve, di metro vario, di carattere occasionale, legato a fatti concreti, a tipi sociali, a esperienze di vita. E proprio la grande fortuna dell’opera di Marziale presso i posteri imporrà questa denominazione alla terminologia moderna della classificazione dei generi, portando anche a una tendenziale identificazione tra i caratteri del genere letterario e i caratteri dell’opera di Marziale, con un’accentuazione dell’elemento comico-satirico e della tendenza alla battuta finale, e cioè delle caratteristiche del tipo epigrammatico che Marziale ha sviluppato più originalmente » (Citroni). Dopo Marziale composero epigrammi i poetae novelli [ cap. 13.4]. Interessanti, benché su un piano esclusivamente virtuosistico e sperimentale, furono anche gli epigrammi in distici ecoici composti nel III secolo da Pentadio [ cap. 15.3]. Più varia e ricca fu la produzione epigrammatica di Ausonio [ cap. 18.3], che esercitò fra l’altro un’influenza decisiva nei confronti della poesia epigrafica cristiana [ cap. 16.7].

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

fonti

PROFILO STORICO

visive

Un cruento spettacolo Nell’ottobre 2019, dagli scavi in corso nella Regio V di Pompei, è riemerso uno straordinario affresco di circa m 1,12 x 1,5, raffigurante due gladiatori al termine del combattimento. Su uno sfondo bianco, delimitato su tre lati da una fascia rossa, si compone una scena di lotta: sulla sinistra un Mirmillone della categoria degli Scutati, armato di gladium (la corta spada romana) e di scutum (il grande scudo rettangolare), e con un elmo a tesa larga (galea) dotato di visiera e cimiero a pennacchi. L’altro, ferito e soccombente, è un Trace, della categoria dei Parmularii; il suo scudo è a terra; con la mano accenna un gesto singolare, forse per implorare salvezza.

Affresco “dei gladiatori combattenti”. Pompei, Regio V.

2 La poetica Obiettivi polemici L’opera di Marziale è non solo vasta, ma anche varia: sia per i temi trattati, sia per i metri adottati. Che cosa unifica una così dispersa e colorata materia? La voce del poeta, che seleziona e descrive; una poetica rigorosa, quella che l’autore enuncia con orgoglio e precisione in numerosi epigrammi. Anche gli obiettivi polemici sono chiari e precisi: l’epos mitologico (quello di Stazio ad esempio) e la tragedia, generi dai quali la sua poesia si allontana per la forma (breve e non lunga), per il linguaggio (non ampolloso ed enfatico, ma scherzoso, ironico e realistico), per i contenuti. Marziale sente ormai la mitologia come pura evasione, qualcosa in cui gli uomini del suo tempo non riescono più a riconoscersi. Analogie e differenze con la satira La pagina di Marziale vuole dunque avere il «sapore» dell’uomo, ritrarre la vita in tutti i suoi aspetti: non vuole essere finzione retorica ma verità; e la verità non si trova più nelle terre lontane del mito ma qui, per le strade affollate di Roma, tra la Suburra e il Quirinale. Sotto questo aspetto, le po­ sizioni di Marziale si riallacciano strettamente a quelle di Lucilio – il fondatore della satura – e di Persio. Altrettanto nette sono tuttavia le differenze rispetto alla tradizione satirica: intento dello scrittore non è correggere il vizio, denunciare l’immoralità o additare esempi di vita beata, ma ritrarre la realtà nelle sue molteplici prospettive. Non è un caso che manchi in Marziale uno degli aspetti che più avevano caratterizzato la poesia luciliana, e cioè l’attacco ad personam: i nomi che affollano i dodici libri degli Epigrammi sono tutti rigorosamente fittizi (eccettuati, s’intende, i nomi di amici, pro­ tettori, potenti personaggi che figurano nei carmi di omaggio e celebrazione). 278 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

PERCORSO ANTOLOGICO

T 2 Hominem pagina nostra sapit Epigrammata X, 4 LATINO ITALIANO

Nota metrica: distici elegiaci.

In questo epigramma Marziale proclama con forza il suo rifiuto della mitologia, accennando a numerosi miti consacrati dalla tradizione; li definisce monstra e vana ludibria privi di interesse, da cui non si può trarre alcun giovamento. Celebri i versi 8 e 10, dove l’autore esorta la poesia contemporanea ad appropriarsi della vita reale. Nella chiusa consiglia a chi non vuole conoscere se stesso né i propri costumi di leggere piuttosto Callimaco, che negli Aitia aveva cantato le mitiche origini di culti rari e antichi.

Qui legis Oedipoden caligantemque Thyesten, Colchidas et Scyllas, quid nisi monstra legis? Quid tibi raptus Hylas, quid Parthenopaeus et Attis, quid tibi dormitor proderit Endymion? 5 Exutusve puer pinnis labentibus? Aut qui odit amatrices Hermaphroditus aquas? Quid te vana iuvant miserae ludibria chartae? Hoc lege, quod possit dicere vita «Meum est». Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyasque 10 invenies: hominem pagina nostra sapit. Sed non vis, Mamurra, tuos cognoscere mores nec te scire: legas Aetia Callimachi. Tu che leggi un Edipo e un tenebroso Tieste e Colchidi e Scille, che altro leggi se non racconti di mostruosi miti? Che interesse puoi trovare nel rapito Ila o in Partenopeo o in Attis? Che giovamento puoi trarre da un Endimione che dorme, o da un fanciullo che ha perduto le ali che gli si sono staccate, o da un Ermafrodito che odia le acque che lo amano? A che ti servono i frivoli virtuosismi di una misera carta? Leggi i carmi, di cui la vita possa dire: «Questo è mio». Qui non troverai né Centauri, né Gorgoni, né Arpie: la nostra pagina ha il sapore dell’uomo. Ma tu, o Mamurra, non vuoi conoscere i tuoi costumi, né te stesso: leggi allora gli Aitia di Callimaco. (trad. di G. Norcio)

2. Colchidas: la Colchide, patria di Me­ dea, è la meta del viaggio degli Argonauti. – Scyllas: due le Scille del mito: l’una fu trasformata da Circe in mostro marino; l’altra per amore di Minosse recise il ca­ pello cui era legata la vita del padre, e fu trasformata in airone. 3. Hylas: durante la spedizione degli Argonauti fu rapito dalle ninfe, attirate

dalla sua bellezza. – Parthenopaeus: uno dei Sette all’assedio di Tebe (cfr. la Tebaide di Stazio [ cap. 7.1]). – Attis: dio frigio compagno di Cibele. 4. Endymion: il bellissimo pastore di cui s’innamorò, dopo averlo veduto dormire, Artemide-Selene (la Luna). 6. Hermaphroditus: figlio di Afrodite e di Hermes, fu invano amato dalla na­

iade Salmacide. 9. Centauros... Gorgona Harpyasque: creature mostruose e semiferine: per metà uomini e per metà cavalli i Centau­ ri; anguicrinita la Gorgone; laidi uccelli dalla testa di donna le Arpie.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

PROFILO STORICO

Il poeta e il suo pubblico Marziale segue una tradizione che si era aperta con Lucilio ed era proseguita con Catullo, il modello più amato. Già Catullo aveva definito la propria poesia con termini quali nugae, iocus, lusus, gli stessi a cui ricorre frequentemente Marziale [ T3 ONLINE], il quale si premura di far notare che la propria poesia è leggera, ma che quella leggerezza è la vera serietà di un poeta contemporaneo. Al contrario, frivola ed evasiva viene giudicata la poesia mitologi­ ca, come si afferma negli epigrammi X, 4 (vana... ludibria, v. 7 [ T2]) e IV, 49 («È più frivolo chi descrive il banchetto del violento Tereo o la tua cena, dispeptico Tieste, o Dedalo che adattò al figlio le ali che si sarebbero sciolte, o Polifemo che pascolava le sue greggi», vv. 3-6), dove Marziale adduce anche una prova circa la giustezza della strada intrapresa: nella chiusa proclama infatti che tutti laudant illa (cioè la poesia epica e tragica) sed ista legunt (i suoi epigrammi). Giambattista Marino, un millennio e mezzo più tardi, affermerà che il giudizio estetico è basato sul successo dell’opera. Non è questa, come avremo modo di vedere, la sola affinità tra Marziale e la poesia barocca. Il committente ideale Con Marziale si affaccia una nuova figura di poeta, che non soltanto vincola la propria poesia a uno sfruttamento sistematico delle oc­ casioni mondane offerte dalla vita cittadina, ma concentra tutte le proprie attese di gloria poetica sulla risposta immediata del pubblico e sul consenso dei lettori contemporanei. Qual è il committente e il giudice più ambito? Ovviamente il princeps, Domiziano in particolare, costantemente lodato con una tecnica raffinata quanto impudente, ma già Tito al tempo del Liber de spectaculis [ T5]. Il sogno più grande di Marziale resta in fondo quello di trovare un vero Mecenate, come toccò a Orazio e a Virgilio (Epigr. I, 107): sogno che si infrange contro la dura realtà di una dinastia, quella dei Flavi, solo parzialmente interessata alla poesia e alle arti [ cap. 6.2]. Poesia celebrativa e poesia di intrattenimento Tutta la poesia di Marziale può essere suddivisa essenzialmente in due filoni: versi di carattere celebrativo, spesso legati ad occasioni pubbliche (emblematico, sotto questo aspetto, il Liber de spectaculis); versi d’intrattenimento, indirizzati agli amici o ai potenti patroni, da leggersi nei conviti, nei teatri o nei salotti della capitale (si pensi in particolare agli Xenia e agli Apophoreta). I due filoni possono ovviamente interagire: il Liber de spectaculis si propone come un omaggio a Tito, ma insieme come un libretto mondano che prolunga l’eco di un evento pubblico nella cerchia dei lettori. Vista la finalità pratica assegnata alla poesia, è naturale che gli Epigrammi di Marziale debbano continuamente fare i conti con il gusto del pubblico contemporaneo, cui l’autore ammicca si può dire ad ogni verso, ora gratificandolo sul versante dell’o­ sceno, ora su quello del pettegolezzo mondano. Nonostante questo, Marziale rie­ sce sostanzialmente a salvaguardare la propria dignità ed autonomia, ponendosi in una prospettiva comico-realistica che esclude ogni identificazione con la materia descritta: lasciva est nobis pagina, vita proba (I, 4, 8).

T3

Lasciva est nobis pagina, vita proba

Epigrammata I, 4

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PROFILO STORICO

Svelamento del reale La rappresentazione crudamente realistica e spregiudicata del formicolante, degradato mondo cittadino è giustificata dall’autore con il pe­ culiare carattere giocoso e liberatorio del genere epigrammatico: una sorta di zona franca, di carnevalesca sospensione delle regole che viene paragonata ora alle feste dei Saturnali, ora agli spettacoli licenziosi dei Floralia, ora al clima sboccato dei carmina triumphalia. Ma è proprio in quella zona franca che può aver luogo lo svelamento del reale: senza voler esagerare le ambizioni poetiche di Marziale, che rimane pur sempre un poeta d’occasione vincolato alle esigenze del suo vasto ed eterogeneo pubblico, gli Epigrammi restano un grande affresco, libero e lucidissi­ mo, della società imperiale romana.

Guida allo studio

1.

Esponi i punti fondamentali della poetica di Marziale, mediante un’opportuna scelta di citazioni testuali, corredate da un breve commento. 2. A quali modelli letterari si richiama Marziale? Qual è la sua posizione nei confronti dei monstra mitologici? 3. Indica le più significative analogie e differenze fra la poesia di Marziale e la tradizione della satira. 4. Con Marziale si affaccia una nuova figura

di poeta: prova a tratteggiarne i lineamenti essenziali, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con la committenza e con il pubblico. 5. L’intera produzione poetica di Marziale può essere suddivisa in due filoni: indica quali. 6. Si è parlato per la sua poesia dell’assunzione di una prospettiva comico-realistica a carattere giocoso e “carnevalesco”: quali sono le implicazioni e le potenzialità conoscitive che ne scaturiscono?

3 Aspetti della poesia di Marziale Il poeta parla di sé I temi affrontati da Marziale nei suoi libri sono numerosi e vari. Possiamo distinguere una prima serie di epigrammi in cui il poeta parla di sé: sono dichiarazioni di poetica, spunti di polemica letteraria, confessioni autobiografiche che riguardano la sua vita quotidiana di cliente non povero ma sempre sul punto di diventarlo, e che perciò deve continuamente affannarsi per difendere il proprio status sociale e mantenere un livello di vita decoroso. Città e campagna Il contrasto tra la propria condizione reale e il desiderio di un otium stabile e sereno prende spesso la forma – e si tratta di una forma tutta letteraria – del contrasto fra la vita di città e quella di campagna [ T4]. Tuttavia la campagna di Marziale non assume mai i riflessi idillici, né il significato morale, che si ritrovano in Virgilio o in Orazio; tanto meno la potenza sacrale della Natura lucreziana, o la suggestione archeologica e remota del Latium vetus di Properzio. Marziale, come Ovidio, è un poeta di città; la campagna rappresenta per lui solo un luogo di svago e di riposo. Un mondo di “cose” Tutta la sua poesia, del resto, appare segnata dai valori materiali: il suo è un mondo di cose concrete che si possono mangiare, toccare, possedere. Marziale sente la povertà come miseria morale, come diminuzione sociale: i valori tipicamente romani della sobrietà e della misura scompaiono di fronte agli inesauribili cataloghi di oggetti che il poeta inventaria libro dopo libro 281 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

[ T10]. Quando talvolta, molto raramente, compare il tema del giusto mezzo, esso si configura come un topos di derivazione puramente letteraria. Il motivo economico assume un rilievo preponderante nell’intero corpus degli epigrammi, e segna con icastico realismo la vita del poeta come quella dei suoi concittadini. PROFILO STORICO

Quadri di vita romana La seconda serie degli epigrammi, la più ampia, è rivolta invece a descrivere ambienti, personaggi, figure, oggetti, cose. Qui appaiono caricature di personaggi di vario genere, per lo più relegati nei bassifondi della società romana: medici che uccidono invece che guarire [ T9b], barbieri che scorticano in­ vece di radere, prostitute, omosessuali, mariti impotenti [ T9f], mezzani, impostori, cacciatori di dote e di testamenti [ T9a; T9e], matrone infedeli e viziose, vecchie in cerca di marito [ T9e], ciarlatani, poetastri, filosofi da quattro soldi, adulatori, pa­ rassiti, avari, imbroglioni [ T9d], sfaccendati, bellimbusti, scocciatori di ogni risma, clienti perennemente in affanno, poveri diavoli ai margini della società [ T10]. Come descrive questo mondo Marziale? Né con tono moralistico, né con la vo­ lontà di denunciare mali o vizi. Nell’assenza di una prospettiva pedagogica, lo sguardo si indirizza alle cose e ai fatti, agli uomini guardati con l’interesse del collezionista curioso ed estraneo a ogni forma di partecipazione emotiva.

Guida allo studio

1.

Individua i temi e i motivi fondamentali della poesia di Marziale.

2. Qual è l’atteggiamento di Marziale nel descrivere i suoi quadri di vita romana?

4 La tecnica e lo stile Strutture epigrammatiche Brevità, concisione, arguzia erano i caratteri essenzia­ li dell’epigramma ellenistico, che Marziale sfrutta con originalità, potenziando in particolar modo due aspetti: la concretezza (dell’osservazione e della descrizione) e l’effetto-sorpresa (concentrato nella chiusa epigrammatica). Uno schema-base Già il Lessing, nel Settecento, aveva individuato una sorta di schema-base nell’epigramma di Marziale, che risulterebbe composto di due parti: un momento descrittivo-rappresentativo, finalizzato a creare attesa nel lettore; lo scatto conclusivo, che risolve il primo momento con un’arguzia ingegnosa. Spesso la chiusa epigrammatica è costruita secondo il procedimento dell’aprosdóketon (o inopinatum): l’elemento «inatteso», che adempie una funzione conoscitiva e in­ sieme liberatoria, gettando all’improvviso una luce nuova sulla situazione descritta in precedenza per volgerla a un esito impreveduto e paradossale. Tale schema sembra adattarsi perfettamente agli epigrammi più brevi e di intonazione giocosa, che tendono a sovvertire mediante la battuta della chiusa le prospettive consuete, ma può anche assumere una forma più complessa, tripartita: dopo il momento descrittivo, si inseriscono allora le domande di un immaginario interlocutore, che consentono all’autore di concludere con la rituale arguzia [ T9]. L’attrazione del finale Data la destinazione dell’epigramma, una forma poetica di consumo legata alla pratica delle recitationes o al momento della festa conviviale, è 282 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

naturale che il poeta concentri l’attenzione sulla parte finale del componimento. Marziale seleziona gli avvenimenti da descrivere, solo se da essi può ricavare una battuta che colpisca e sorprenda. Riprendendo lo schema di cui si è detto, si può dire che la conclusione “precede” la parte iniziale, la quale viene allestita in funzio­ ne del gioco ingegnoso e sfavillante della clausula. La poesia di Marziale è un gioco dell’intelligenza e della meraviglia: anche là dove sembra di rintracciare il segno, assai raro in verità, di un’emozione, il poeta è già volto verso la pointe sentenziosa, verso la ricerca di un effetto capace di strappare l’applauso (si vedano, come esem­ pio, i due epigrammi funebri dedicati alla piccola Erotion [ T11]). Il catalogo L’attenzione al particolare, l’accentuato interesse per le persone e per gli oggetti, rappresentati nella loro fisica concretezza, possono spiegare la tendenza della poesia di Marziale al catalogo. Si legga il componimento ov’è descritto, me­ diante un’impressionante enumerazione di tono grottesco e realistico, il trasloco di Vacerra [ T10], o il catalogo iperbolico che apre il secondo carme di Erotion [ T11b], le cui grazie sono confrontate, in fantastico accumulo, con i prodotti più celebri della geografia letteraria antica (le agnelle del Galeso, le perle del Lucrino, gli avori indiani, le rose di Paestum, il miele attico...). Il poeta vuole ammaliare i suoi lettori-ascoltatori con incalzanti cataloghi di cose, ora sordide ora preziose. Il procedimento tecnico è quello dell’accumulazione enumerativa, che consente effetti di icastica potenza rappresentativa e insieme di grottesca deformazione. Ci troviamo di fronte a una variazione dello schema epigrammatico più ricorrente: il centro di gravità del discorso poetico si sposta; la battuta conclusiva è ri­ mandata e come tenuta sospesa, mentre il poeta dà libero sfogo alla propria inventiva. Varietà della lingua e dello stile Marziale coltiva un ideale stilistico di naturalezza e di semplicità: insistente, nei suoi libri, è la polemica contro l’artificio linguistico, la vuota erudizione, l’eleganza affettata. Modello prediletto è il Catullo delle nugae e degli epigrammata, dove la raffinatezza delle forme è al servizio dell’immediatez­ za espressiva. L’epigramma, come leggiamo nel proemio del primo libro, pretende una scrittura cruda e scabra, che non rinunci ad esplorare alcun livello linguistico, compresi i vocaboli osceni e volgari. Né mancano, nella poesia di Marziale, grecismi, termini tecnici o tratti dal linguaggio infantile; banditi sono invece gli arcaismi, se non in funzione parodistica: una condanna che corrisponde, sul piano dello stile, alla polemica contro la poesia vuota e declamatoria della tradizione epico-tragica. La poesia di Marziale presenta una gamma varia e articolata di registri stilistici, che mutano a seconda del tipo di componimento: più eleganti e manierati quelli di carattere celebrativo; più sobri e composti quelli di argomento autobiografico e familiare; scintillanti e virtuosistici, infine, i carmi di carattere comico-realistico. In tutti i casi, non viene mai meno la finezza letteraria, il culto della pagina limata ad arte e innervata di frequenti citazioni.

Guida allo studio

1.

Illustra la tecnica compositiva di Marziale, descrivendo lo schema-base ricorrente nei suoi epigrammi, con le eventuali varianti. 2. Quali sono gli aspetti essenziali della lingua e dello stile di Marziale?

3. Spiega il significato dei seguenti termini ed espressioni: aprosdóketon; clausula o pointe o chiusa epigrammatica; accumulazione enumerativa.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

PROFILO STORICO

Marziale

nel TEMPO

Presso i contemporanei La fortuna di zato anche dai lettori cristiani (si pensi solo ai Marziale, privilegio toccato a pochissimi poeti dell’antichità, non conosce interruzione. Già in vita le sue opere erano lette, recitate, imparate a memoria da un pubblico vasto ed eterogeneo: laudat, amat, cantat nostros mea Roma libellos,/ meque sinus omnes, me manus omnis habet («La mia Roma loda, ama, canta i miei epigrammi; io sono in ogni piega della toga e in ogni mano»), come scrive orgogliosamente l’autore stesso (VI, 60, 1-2). Una fama che si era rapidamente estesa anche al di fuori dei confini italici: i suoi libri si leggevano a Vienne, sul Rodano (VII, 88) e per­ sino nella remota Britannia (XI, 3, 1-5): Non urbana mea tantum Pipleide gaudent / otia nec vacuis auribus ista damus, / sed meus in Geticis ad Martia signa pruinis / a rigido teritur centurione liber, / dicitur et nostros cantare Britannia versus («della mia poesia non si compiace soltanto la gente oziosa di Roma, ed io non scrivo questi epigrammi per uomini sfaccendati: il mio libro è assiduamente letto dal duro centurione accampato nel freddo paese dei Geti presso le insegne di guerra, e mi dicono che anche i Britanni cantano i miei ver­ si»). Non c’è da stupirsene: Marziale ricerca il consenso del pubblico e ne soddisfa ogni esigen­ za. La sua è una poesia piacevole e raffinata che non disdegna battute spiritose, oscenità, invettive alla moda, adulazioni ben congegnate. Mostra al mondo com’è Roma, in un’epoca in cui il mon­ do parla solo di Roma e in cui tutti i provinciali (come già lo stesso Marziale) sognano di venire ad abitarvi.

In età imperiale e nel Medioevo Assi­ duamente letto nel secolo successivo, special­ mente nell’ambiente dei poetae novelli [ cap. 13.4], citato da grammatici ed eruditi nella tar­ da età imperiale, imitato da poeti come Ausonio [ cap. 18.3] e Claudiano [ cap. 18.9], apprez­

nomi di Gerolamo, di Prudenzio e di Paolino di Nola), Marziale continuò ad essere conosciuto e trascritto nei monasteri anche dopo la cadu­ ta dell’impero. Mentre si perdono i testi di Lu­ crezio o di Tito Livio, gli Epigrammata vengono trasmessi senza interruzione in numerosi codici paralleli. Tracce e citazioni si ritrovano in diversi autori durante tutta l’epoca medievale.

In età moderna Ma è con l’età umanistica che nasce e si sviluppa l’epigramma moderno, uno fra i generi più apprezzati e coltivati tra XV e XVI secolo: il via lo diede il Panormita, con gli ottanta epigrammi osceni e provocatorii con­ tenuti nell’Hermaphroditus (1425); seguirono il Filelfo, Pio II Piccolomini, il Pontano, Sannazaro (con gli splendidi Epigrammata), il Poliziano, l’Alamanni, che scrissero epigrammi sia in lingua italiana che latina su imitazione di Marziale. E il genere avrà immensa fortuna in ogni parte d’Eu­ ropa per secoli: ancora Voltaire, Goethe (autore anche di Xenien), Alfieri vi si misureranno con notevoli risultati. La stessa poesia barocca, fonda­ ta sulla poetica della meraviglia e sul concettismo, sulla ricerca di ingegnosità e di argutezze, deve molto alla tecnica epigrammatica di Marziale.

Nell’Ottocento e in età contemporanea Il XIX secolo screditò l’opera di Marziale, condannando sia l’oscenità sia il servilismo di una parte della sua opera. Resta il fatto che l’im­ pronta fortemente satirica del genere epigram­ matico, ancora oggi abbondantemente praticato, deriva direttamente dai libri di Marziale: si legga­ no, per misurare fino in fondo la tenuta e la forza di questa tradizione, gli Epigrammi (seguiti dai Nuovi epigrammi) presenti in una delle raccolte poetiche più felici di Pasolini, La religione del mio tempo (1958).

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PROFILO STORICO

COMPITO di REALTÀ • Epigrammi moderni La consegna • Alla classe viene affidata la stesura di epigrammi, sul modello di Marziale, che prendano spunto dal Liber de spectaculis e dai libri XIII e XIV, da pubblicare su un giornale scolastico, cartaceo o digitale. • La classe verrà articolata in quattro gruppi. Due si occuperanno di uno “spettacolo” d’attualità (evento sportivo o musicale, per esempio) rappresentandone episodi e personaggi in modo originale e imprevedibile, scegliendo volta a volta un tono enfatico, o spiritoso, o ironico. Due scriveranno “bigliettini” in forma epigrammatica da associare a doni reali o immaginari, ispirati agli Xenia e agli Apophoreta. Gli strumenti • Ogni gruppo leggerà un libro degli Epigrammi a seconda dell’argomento scelto: o il Liber de spectaculis o il XIII o il XIV. Si raccomanda un’edizione con testo latino a fronte, per comprendere meglio e apprezzare le peculiarità del testo originale.

• Sull’argomento scelto occorrerà osservare il

fenomeno a cui ci si ispira: se è un evento sportivo o musicale o altro, deve avere comunque durata limitata e un carattere spettacolare; per i doni ovviamente ci si può ispirare a regali di Natale, veri, immaginari o desiderati, o celebri… • Software di scrittura collaborativa. Le fasi operative • Assegnazione a ogni gruppo dell’argomento e della lettura corrispondente. • Confronto all’interno dei singoli gruppi sulle idee e sugli argomenti, e successiva elaborazione di proposte su cui confrontarsi, a livello individuale ma anche (specie in un secondo momento) collaborando a documenti condivisi online. • Raccolta finale dei testi e selezione di almeno dieci testi per ogni gruppo, che assegnerà un titolo alla sua raccolta; il tutto confluirà sotto un titolo complessivo. • Pubblicazione su una rubrica del giornalino scolastico, o come libretto a parte, su carta o online.

AUTOVALUTAZIONE Conoscenza dell’argomento

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di narrazione e di esposizione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di aggregazione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Competenze digitali

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Giudizio complessivo sul progetto

 coerente

 esaustivo

 originale

 adeguato

 non adeguato

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

Materiali

essenziale

Bibliografia

B

S Sintesi

PROFILO STORICO

ONLINE

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Ricordo di Marziale (Plinio il Giovane) BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Fra le numerose edizioni dell’opera di Marziale si con­ siglia: Marco Valerio Marziale, Epigrammi, voll. I-II, saggio introduttivo di M. Citroni, trad. di M. Scandola, no­ te di E. Merli, Rizzoli BUR,

Milano1996. Per il libro d’e­ sordio: Marziale, Gli spettacoli, a cura di F. Della Corte, Università di Genova, Istituto di Filologia classica e medie­ vale, Genova 1986. � Sulla poesia epigrammatica, e

le sue connessioni con la sati­ ra: M. Citroni, Musa pedestre, in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I: La produzione del testo, Salerno editrice, Roma 1989, pp. 311-341.

Marziale e la poesia epigrammatica Marco Valerio Marziale nasce a Bilbili, nella Spagna Tarraconense, fra il 38 e il 41 d.C. Intorno al 64 si trasferisce a Roma, dove risiede per trent’anni conducendo la vita convulsa e precaria del cliente subordinato ai favori, sempre più o meno incerti, dei protettori. Solo dopo la pubblicazione del Liber de spectaculis (80 d.C.), composto durante la grandiosa inaugurazione dell’anfiteatro Flavio, raggiunge una certa notorietà; l’imperatore Tito e poi Domiziano gli concedono alcuni benefici; stringe rapporti di amicizia con gli scrittori più importanti dell’epoca, fra cui Quintiliano e Plinio il Giovane. Nell’84 (o nell’85) pubblica Xenia e Apophoreta, due libri di epigrammi legati alle festività dei Saturnali; tra l’86 e il 96 si succedono, uno all’anno, i primi undici libri degli Epigrammata, che trattano un’amplissima varietà di temi, dai componimenti autobiografici a quelli encomiastici, dal pettegolezzo mondano alle divertite, ammiccanti oscenità, alle descrizioni, spesso caricaturali, di ambienti, personaggi, oggetti. Nel 98 fa ritorno a Bilbili, dove compone il dodicesimo e ultimo libro di Epigrammata. Nel lontano paese natale il poeta muore fra il 101 e il 104 d.C. Marziale scrive esclusivamente epigrammi, ed è l’unico epigrammista di cui ci sia pervenuta integralmente l’opera. Alla sua copiosa produzione (quindici libri: in tutto 1561 componimenti per

quasi diecimila versi) toccò in ogni tempo grande fortuna, tanto da portare all’identificazione fra i caratteri della sua opera e il genere letterario dell’epigramma. La pagina di Marziale vuole avere il «sapore» dell’uomo, ritrarre la vita così com’è, in un linguaggio semplice, naturale e scherzoso; il poeta dichiara polemicamente il suo rifiuto della mitologia e dei generi “alti” (epos e tragedia), sentiti come inattuali, ripetitivi e lontani dalla vita reale. Brevità, concentrazione espressiva in vista dell’arguzia finale con effetto-sorpresa (la pointe o chiusa epigrammatica), inesauribile ricchezza dell’invenzione linguistica, attenzione per il mondo concreto degli oggetti, gusto del catalogo, accentuazione dell’elemento comico-satirico in assenza di intenzioni moralistiche e di denuncia così come di partecipazione emotiva, sono gli elementi che caratterizzano gli epigrammi di Marziale e che riescono a conferire unità alla varia, dispersa e multicolore materia trattata. Poeta d’occasione, legato alle esigenze del suo vasto ed eterogeneo pubblico sia nei versi di carattere celebrativo sia in quelli di intrattenimento mondano, Marziale si pone in una prospettiva comico-realistica e carnevalesca da cui può sortire un sorprendente svelamento della realtà: nella rappresentazione crudamente spregiudicata del formicolante mondo cittadino, gli Epigrammi restano un grande affresco, libero e lucidissimo, della società imperiale romana.

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Percorso antologico Apophoreta T1

Due distici: doni preziosi e doni umili (Apoph. 97, 98)

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Epigrammata T2

Hominem pagina nostra sapit (Ep. X, 4)

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T3

Lasciva est nobis pagina, vita proba (Ep. I, 4)

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T4

La vita a Bilbili (Ep. XII, 18)

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Liber de spectaculis T5

Spettacoli: la sfilata dei delatori (Liber de spectaculis 4)

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T6

Spettacoli: un cruento pantomimo (Liber de spectaculis 7)

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T7

Spettacoli: i ludi venatorii (Liber de spectaculis 13)

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T8

Spettacoli: una naumachia (Liber de spectaculis 24)

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Epigrammata T9

Epigrammi satirici (Ep. I, 10; I, 47; II, 38; VIII, 10; X, 8; X, 91)

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T10

Quadri di vita romana: lo sfratto di Vacerra (Ep. XII, 32)

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T11

Epigrammi funebri (Ep. V, 34 e 37)

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T12

Nuovi spettacoli: il pugnale di ghiaccio (Ep. IV, 18)

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

T 4 La vita a Bilbili Epigrammata XII, 18 LATINO ITALIANO

Il libro XII degli Epigrammata, ultimo del poeta, fu composto interamente in Spagna, nella natia Bilbili, dove Marziale era ritornato nel 98. Questo componimento è dedicato al poeta Giovenale, tuttora costretto alla vita faticosa e spesso umiliante del cliente, mentre Marziale può finalmente dedicarsi all’ozio, al sonno, alle piccole gioie della vita rurale.

Nota metrica: endecasillabi faleci.

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PERCORSO ANTOLOGICO

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Dum tu forsitan inquietus erras clamosa, Iuvenalis, in Subura aut collem dominae teris Dianae; dum per limina te potentiorum sudatrix toga ventilat vagumque maior Caelius et minor fatigant: me multos repetita post Decembres accepit mea rusticumque fecit auro Bilbilis et superba ferro. Hic pigri colimus labore dulci Boterdum Plateamque – Celtiberis haec sunt nomina crassiora terris –: ingenti fruor inproboque somno, quem nec tertia saepe rumpit hora, et totum mihi nunc repono quidquid ter denos vigilaveram per annos. Ignota est toga, sed datur petenti rupta proxima vestis a cathedra. Surgentem focus excipit superba vicini strue cultus iliceti, multa vilica quem coronat olla.

Mentre tu, o Giovenale, forse ti aggiri indaffarato per la rumorosa Subura o consumi la strada del colle di Diana, mentre varchi le soglie dei palazzi dei signori, ventilato dalla toga, che ti fa sudare, e ti affatichi correndo per il Celio maggiore e minore, io vivo la mia vita campagnola nella mia Bilbili, superba di oro e di ferro, ove sono tornato dopo molti anni. Passo qui le mie giornate in pigrizia e tra piacevoli lavori a Boterdo e a Platea – nella Celtiberia s’incontrano questi rustici nomi –, mi godo le mie profonde e accanite dormite, che spesso non rompe neppure l’ora terza, e mi rifaccio ora di tutto quel sonno che ho perduto in trent’anni d’insonnia. Qui la toga è sconosciuta: mi viene dato, quando lo richiedo, quel vestito che mi sta vicino sulla sedia sgangherata. Quando mi alzo, mi accoglie il focolare ben guarnito di grossi ciocchi portati dal vicino querceto, su cui pendono tutto all’intorno le molte pentole della fattoressa. 2. Subura: quartiere popoloso e malfa­ mato, sito tra i monti Celio ed Esquilino.

3. collem: l’Aventino, su cui sorgeva un tempio di Diana.

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14. tertia... hora: le nove del mattino.


PERCORSO ANTOLOGICO

Scena di vita in un villaggio sulla riva del Nilo. Dettaglio di un mosaico da Uzalis, El Alia, Tunisia. II secolo d.C. Tunisi, Museo del Bardo.

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Venator sequitur, sed ille quem tu secreta cupias habere silva; dispensat pueris rogatque longos levis ponere vilicus capillos. Sic me vivere, sic iuvat perire.

Poi arriva il cacciatore, un giovane che tu vorresti avere con te nel segreto del bosco; e il fattore sbarbato assegna il lavoro agli schiavi e mi chiede il permesso di far tagliare i loro lunghi capelli. Così mi piace vivere, così mi piace morire. (trad. di G. Norcio)

T 5 Spettacoli: la sfilata dei delatori Liber de spectaculis 4 LATINO ITALIANO

La sfilata dei delatori, figure di cui si era costantemente servito Vespasiano, va inquadrata nella politica di moralizzazione della vita pubblica romana perseguita da Tito. Il fenomeno ritornò peraltro in auge sotto il successore Domiziano. I delatori percorsero l’arena dell’anfiteatro, esposti al pubblico ludibrio; furono poi venduti come schiavi o esiliati in terre inospitali. Il motivo dell’adulazione, centrale nel liber di Marziale, compare al v. 4 nella forma di un elegante motto: poiché parte della vendita dei beni degli accusati finiva per legge nelle casse dello Stato, Tito, privandosi delle delazioni, si privava di una ricca fonte di proventi; perciò Marziale può affermare a buon diritto che anche lo spettacolo dei delatori andava aggiunto alle «spese» dell’imperatore. La poesia, come prevedeva il codice epigrammatico, si conclude con una battuta: chi un tempo dava l’esilio, ora lo riceve. Si osservi come un tema serissimo diventi occasione per un lusus letterario sostanzialmente indifferente alla rilevanza politica e civile dell’evento. 289 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

Nota metrica: distici elegiaci.

Turba gravis paci placidaeque inimica quieti, quae semper miseras sollicitabat opes, traducta est, togulas nec cepit harena nocentes: haec licet inpensis principis adnumeres. 5 Exulat Ausonia profugus delator ab urbe: et delator habet quod dabat exilium.

La schiera dei delatori, pericolo permanente di discordia e ostile all’acquetarsi pacifico degli animi, quella che sempre insidiava le ricchezze, fonti d’affanno, è stata data come spettacolo al popolo; l’arena non poté contenere tutti questi uomini colpevoli. Anche questo si può aggiungere alle spese dell’imperatore. Profugo il delatore è bandito dalla città d’Italia e quell’esilio, che procurava ad altri, ora sopporta.

5. Ausonia... urbe: Roma. Il territorio degli Ausoni si estendeva, all’incirca, da

Benevento al Tevere; ma con Ausonia si indicava poeticamente, per antica con­

suetudine, l’intera Italia. Cfr. Virgilio, Eneide VI, 807 [ vol. II, T22, cap. 2].

T 6 Spettacoli: un cruento pantomimo Liber de spectaculis 7 LATINO ITALIANO

Svetonio, nella Vita di Caligola (cap. 57), racconta che l’imperatore aveva assistito poco prima di morire a un pantomimo intitolato Laureolus, dal nome di un celebre ladro punito con la crocifissione e offerto in pasto alle fiere. Lo spettacolo cui Marziale allude è una nuova rappresentazione di quella fabula, ma con un attore che non può fingere, trattandosi di un criminale condannato a morte per parricidio, omicidio, sacrilegio e incendio della città (come viene detto ai vv. 8-10): lo sventurato viene davvero crocifisso e dilaniato da autentiche fiere. Anche in questo caso, Marziale non pare toccato dall’avvenimento; la sua attenzione è rivolta esclusivamente a sottolineare gli effetti più vistosi e sconvolgenti della scena. Tutto è misurato in termini letterari: i crimini del condannato vengono giudicati secondo il metro dell’aemulatio (v. 11); la descrizione della pena è introdotta mediante una similitudine mitologica, con il richiamo alla celebre vicenda di Prometeo incatenato. La battuta finale esalta l’incredibile prodigio di una finzione scenica che si è tramutata in un Gladiatore assalito dalle fiere, mosaico, II secolo d.C. supplizio vero. El Djem, Tunisia, Musée Archéologique.

PERCORSO ANTOLOGICO

(trad. di F. Della Corte)

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PERCORSO ANTOLOGICO

Nota metrica: distici elegiaci.

Qualiter in Scythica religatus rupe Prometheus assiduam nimio pectore pavit avem, nuda Caledonio sic viscera praebuit urso non falsa pendens in cruce Laureolus. 5 Vivebant laceri membris stillantibus artus inque omni nusquam corpore corpus erat. Denique supplicium <expendit namque ille parentis> vel domini iugulum foderat ense nocens, templa vel arcano demens spoliaverat auro, 10 subdiderat saevas vel tibi, Roma, faces. Vicerat antiquae sceleratus crimina famae, in quo, quae fuerat fabula, poena fuit.

Non diversamente da Prometeo che, legato sulla rupe scitica, nutrì con il sempre ricrescente petto l’uccello che mai l’abbandonava, Laureolo, appeso a una non irreale croce, offrì le sue nude viscere a un orso caledonio. Erano ben vivi quegli arti lacerati dalle membra grondanti sangue, e in tutto il corpo non v’era più nulla che avesse forma umana. Questi pagò alfine il fio dei suoi delitti; perché l’assassino tagliò con la spada la gola di suo padre e persino del suo padrone; folle, aveva rapito ai templi l’oro che v’era nascosto, e a te, o Roma, aveva appiccato fuoco con empie fiaccole. Lo scellerato aveva superato i delitti dell’antica fama. Per lui, quello che fino allora era stata una scena teatrale, divenne una pena reale. (trad. di F. della Corte)

1. Prometheus: Prometeo, per aver più volte ingannato gli dèi, era stato con­ dannato ad un atroce supplizio: incate­

nato a una rupe del Caucaso (la Scythica... rupe cui allude Marziale), ogni giorno aveva il fegato lacerato da un’a­

T7

Spettacoli: i ludi venatorii

T8

Spettacoli: una naumachia

Liber de spectaculis 13

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quila; e ogni notte il fegato ricresceva. 3. Caledonio: della Caledonia, l’odier­ na Scozia.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

T 9 Epigrammi satirici Epigrammata I, 10 [a]; I, 47 [b]; II, 38 [c]; VIII, 10 [d]; X, 8 [e]; X, 91 [f] LATINO ITALIANO

Nota metrica: distici elegiaci [b; c; e; f] e trimetri giambici scazonti [a; d].

Nella varietà tematica degli Epigrammata, ampio spazio occupano le composizioni di intonazione comica e aggressiva, fra le più divertenti e incisive per forza di sintesi e realismo della rappresentazione. In particolare si osservi, in [a], lo sviluppo tripartito dell’epigramma: racconto del fatto (vv. 1-2); dialogo a botta e risposta tra il poeta e l’immaginario interlocutore (vv. 3-4); risposta conclusiva (Tussit), che spiega in modo arguto e umoristico il fatto apparentemente strano e paradossale (la donna è tisica, e si suppone che morirà presto, consentendo al marito di ereditare una vasta fortuna). [a]

Petit Gemellus nuptias Maronillae et cupit et instat et precatur et donat. Adeone pulchra est? Immo foedius nil est. Quid ergo in illa petitur et placet? Tussit.

PERCORSO ANTOLOGICO

Gemello vuole sposare Maronilla: lo desidera ardentemente, si dà un gran da fare, prega la donna, le invia regali. È dunque tanto bella? Tutt’altro: non c’è nulla di più repellente. Che cosa dunque cerca in lei, che cosa gli fa gola? Tossisce.

[b]

Nuper erat medicus, nunc est vispillo Diaulus: quod vispillo facit, fecerat et medicus. Poco fa Diaulo era un medico, ora è un becchino: ciò che fa da becchino lo aveva fatto anche da medico.

[c]

Quid mihi reddat ager quaeris, Line, Nomentanus? Hoc mihi reddit ager: te, Line, non video. Mi chiedi, o Lino, che cosa mi renda il mio poderetto nomentano? Ecco cosa mi rende: non vedo la tua faccia, o Lino.

[d]

Emit lacernas milibus decem Bassus Tyrias coloris optimi. Lucri fecit. «Adeo bene emit?» inquis. Immo non solvet. Basso ha comprato per diecimila sesterzi un mantello di porpora tiria di uno splendido colore. Ha fatto un ottimo affare. «L’ha comprato così a buon mercato?» tu dirai. Certo, dal momento che non lo pagherà. 292 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

[e]

Nubere Paula cupit nobis, ego ducere Paulam nolo: anus est. Vellem, si magis esset anus. Paola vuole sposarmi, ma io non voglio sposarla, perché è vecchia. La sposerei volentieri, se fosse più vecchia.

[f]

Omnes eunuchos habet Almo nec arrigit ipse: et queritur pariat quod sua Polla nihil. Almone ha tutti i servi eunuchi e lui stesso è impotente: e poi si lamenta perché la sua Polla non fa bambini. (trad. di G. Norcio)

Leggere un TESTO CRITICO Il realismo di Marziale Mario Citroni ha scritto pagine significative sulla particolare qualità del realismo di Marziale, volto non tanto a indagare delle ragioni sociali o morali, quanto

a rappresentare i comportamenti umani nella loro molteplice e contraddittoria varietà.

A differenza che nella tradizione satirica, nell’epigramma comico-realistico di Marziale l’interesse non è però rivolto all’analisi e alla valutazione morale del comportamento, bensì in primo luogo alla sua rappresentazione in quanto tale. La forza attiva che sentiamo operare in questa poesia è il gusto nel ritrarre la realtà quotidiana, il piacere di scoprire gli aspetti curiosi, contraddittori, ed anche spregevoli, del suo funzionamento. È un tipo di realismo che trova dei precedenti in certi quadri mimici di Catullo (che sono però sempre fortemente legati all’esperienza emotiva dell’io del poeta) e nei mimi satirici oraziani (in cui a volte il giudizio morale sul comportamento rappresentato, per quanto sia ben chiaro, resta implicito) e che certo doveva trovare notevoli precedenti nella tradizione dell’epigramma, ma che probabilmente non ha mai avuto una applicazione così sistematica prima di Marziale e che potrebbe essere accostato a quello petroniano. [...] Il gusto per la rappresentazione realistica della società è una motivazione artistica che va al di là della sola parte «satirica» della produzione di Marziale: esso è largamente presente anche negli epigrammi cerimoniali, nei carmi autobiografici, negli epigrammi di «consumo» quali i bigliettini per i doni ai Saturnali, componimenti che tutti si integrano con gli epigrammi comico-realistici nel dare al lettore un quadro complessivo più ricco dei molteplici aspetti della realtà. Un quadro che deve la sua grande efficacia non alla capacità di penetrazione nelle ragioni dei comportamenti, ma appunto alla ricchezza e vivacità dell’osservazione fenomenica del comportamento, del dettaglio, dell’oggetto. Una lingua duttile, di disinvolta eleganza ovidiana, si apre senza remore a questa funzione artistica, facendo entrare per la prima volta nella poesia con i loro nomi usuali tanti oggetti e figure del mondo quotidiano di cui la poesia non si era mai occupata e ammettendo una larga 293 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

Leggere un TESTO CRITICO

presenza di parole volgari e oscene. L’epigramma di Marziale segna il trionfo del genere poetico più tipicamente «minore» nella dimensione che la poetica antica identificava come più propriamente «minore»: quella della vita quotidiana rappresentata in chiave comica. Marziale, come a suo tempo Lucilio, accetta questa dimensione «minore», ne fa l’impegno unico della sua vita di poeta e crea, entro questa dimensione, un’opera di grande mole e di grande respiro che egli, come Lucilio, contrappone orgogliosamente, in nome dell’autenticità e dell’aderenza alla realtà, ai generi maggiori con i loro temi mitologici lontani dalla vita (monstra in Marziale X, 4, 2; portenta in Lucilio, 587 Marx) e col loro linguaggio gonfio e artefatto. (M. Citroni, Musa pedestre, in Lo spazio letterario di Roma antica, I, La produzione del testo, Salerno editrice, Roma 1989, pp. 339-340)

T 10 Quadri di vita romana: lo sfratto di Vacerra Epigrammata XII, 32

PERCORSO ANTOLOGICO

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Marziale è anche il poeta di una Roma miserabile e degradata, descritta con sguardo crudo e distaccato, realistico e insieme caricaturale. Vacerra è stato da poco sfrattato con tutta la sua famiglia: Marziale si sofferma sui poveri oggetti maleodoranti e sgangherati che ancora gli appartengono, insistendo impietosamente sugli aspetti più sordidi e ripugnanti. In assenza di una prospettiva morale o civile, il poeta sembra tutto preso dal suo tour de force sperimentale: si osservino i riferimenti mitologici (le Furie, Iro) in funzione grottesca e deformante, l’implacabile tecnica enumerativa e la necessaria battuta finale, strumenti adibiti non tanto a interpretare la realtà quanto a creare, presso il lettore, effetti di compiacimento e di «maraviglia».

Nota metrica: trimetri giambici scazonti.

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O Iuliarum dedecus Kalendarum, vidi, Vacerra, sarcinas tuas, vidi; quas non retentas pensione pro bima portabat uxor rufa crinibus septem et cum sorore cana mater ingenti. Furias putavi nocte Ditis emersas. Has tu priores frigore et fame siccus et non recenti pallidus magis buxo Irus tuorum temporum sequebaris.

O Vacerra, vergogna delle calende di luglio!, ho visto, sì, ho visto le tue masserizie che, non essendo state accettate in cambio dell’affitto di due anni, portavano tua moglie coi suoi sette capelli rossi e la tua canuta madre insieme alla tua gigantesca sorella. Ho creduto che le Furie fossero emerse dal buio dell’Inferno. Tu, Iro dei tuoi tempi, insecchito dal freddo e dalla fame e più pallido d’un ramo secco di bosso, le seguivi. 1. Iuliarum... Kalendarum: giorno in cui a Roma scadevano i contratti di lo­ cazione.

9. Irus: il mendico di Odissea XVIII, 1 ss.

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PERCORSO ANTOLOGICO

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Migrare clivom crederes Aricinum. Ibat tripes grabatus et bipes mensa et cum lucerna corneoque cratere matella curto rupta latere meiebat; foco virenti suberat amphorae cervix; fuisse gerres aut inutiles maenas odor inpudicus urcei fatebatur, qualis marinae vix sit aura piscinae. Nec quadra derat casei Tolosatis, quadrima nigri nec corona pulei calvaeque restes alioque cepisque, nec plena turpi matris olla resina Summemmianae qua pilantur uxores. Quid quaeris aedes vilicosque derides, habitare gratis, o Vacerra, cum possis? Haec sarcinarum pompa convenit ponti.

Uno l’avrebbe creduto un trasferimento dei mendicanti di Ariccia. Sfilavano un misero lettuccio a tre piedi, e un tavolo a due piedi: con una lucerna e un cratere di corniolo un vaso da notte crepato pisciava dal fianco sbreccato; il collo di un’anfora stava sotto un braciere di colore verderame; il puzzo nauseabondo del vaso, peggiore di quello che proviene da una piscina di acqua marina, diceva chiaramente che c’erano state acciughe e misere sardelle. Non mancava un pezzo di formaggio di Tolosa, una ghirlanda di nera menta vecchia di quattro anni, reste sguarnite dei loro agli e cipolle e la pentola di tua madre piena di quella lurida resina, con cui si depilano le donne Summemmiane. Perché, o Vacerra, cerchi una casa e vuoi beffare gli amministratori, quando puoi trovare un alloggio gratis? Questa fila di masserizie si addice a un ponte. (trad. di G. Norcio)

10. clivom... Aricinum: sito abitualmente frequentato da mendicanti. 19. pulei: erba odorosa, con proprietà affini alla menta piperita. 22. Summemmianae... uxores: il Summemmio (da sub moenia: «dietro le mura») era un luogo frequentato da prostitute di infimo rango. Marziale vi accenna anche in I, 34 e III, 82.

Natura morta, affresco da Pompei, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

Dialogo con i MODELLI Carlo Emilio Gadda e Marziale: il trasloco della signora Inzaghi La scrittura “barocca” di Carlo Emilio Gadda divide con quella di Marziale il gusto naturalistico e insieme grottesco dell’osservazione, il piacere dell’enumerazione, la fascinazione dei nomi e degli oggetti, la concretezza della nominazione, l’uso stravolto e parodistico dell’universo mitologico. In un «disegno milanese» del Gadda, compreso nell’Adalgisa (1944), possiamo leggere la stupefacente descrizione

di un altro trasloco dove campeggiano oggetti di ogni tipo, compresi il «pitale» che dà inizio al comico disastro (e che già si trovava nel nauseabondo catalogo di Marziale) e un cagnaccio che latra «come un Agamènnone in furie» (secondo un procedimento di riappropriazione comico-realistica dell’immaginario mitologico non ignoto allo stesso poeta latino: cfr. XII, 23, 6).

PERCORSO ANTOLOGICO

Qualunque mestiere, avrebbe fatto.... I calcagni si assottigliavano di giorno in giorno senza rimedio bilanciàbile. Aveva lucidato pavimenti alla fiera campionaria, nel padiglione dell’arredamento e degli spazzoloni elettrici, fin sotto il baffo del sottosegretario inaugurante, e poi dopo, per più giorni. S’era stiacciato un dito col martello, imballatore d’occasione. Aveva aiutato la signora Inzaghi a traslocare in economia, «cont el caretìn del Sciscia»: e quel san michele di cadrèghe e seggette celebrato a san Policarpo, era anche riuscito mica male in una bufera di neve-grandine: con piena esultanza della Inzaghi, e mancia imprevista oltre il guiderdone pattuito. Nonostante i quattordici tavolini da notte, «domandi mì, quatòrdes cifòn!», e le relative lastre di marmo, «me recomandi i mè làster!», discese a spalla tre a tre, quattro a quattro, da parere il Profeta in corruccio decedente dal Sinai; lui invece intenebràtosi nella chiocciola buia della scala, che l’architetto Basletta aveva progettata e, quel che è peggio, costruita, nella forma razionale del cavatappi: o elica. E in quell’altra mano ogni volta un qualche altro aggeggio, «per gòt el viàcc», per usufruire della gita: l’arcolaio, la gabbia, mestoli mandolino e ombrelli, un vaso di peperoni. Era andato tutto bene fino in fine. Proprio in cima delle scale «de l’ültim viàcc», slàffete! che non gli va a scivolar di mano un pitale, di ferro smaltato! con dentro, a sforzare, un pacco tutto ghìngheri e nastrini celesti: «oh poera mì, i òstrik del mè viàcc de nòzz!»: e aveva principiato a rotolare e a rotolare di gradino in gradino, uniformandosi in disciplina perfetta all’andatura elicoide di quel capo d’opera, della ratio baslettiana, ed evacuando gusci d’ostriche centrifugati a ogni nuovo tonfo, che ne seminò giù per tutte le rampe e i ripiani. E rimbalzò come una trottola ad ogni pianerottolo, fra la trepidazione dei casigliani allarmati: «Cose diavol sücéd?»: e nell’acquisita accelerazione a cavaturaccioli verso l’abisso eccitò a una rincorsa precipite il Mustafà dei signori Vanzaghelli: un cucciolone lupo con quattro sciamannate zampacce, più grullo d’uno scolare del liceo. Latrando come un Agamènnone in furie dietro quell’armadillo piroettante e canoro, che seminava ostriche ad ogni gradino, il pazzo quadrupede aveva sorpassato a rompicollo la signora Inzaghi, la quale discendeva a sua volta con tutte le valenze sature, delle più inverosimili carabàttole. All’altezza dello stambugio della portinaia era pervenuto ad azzannare il riottoso recipiente, e a sbuzzargli fuora le trippe, cioè un due o tre ostriche ancora e tutti gli spaghi e la cartaccia, prolungandone però fino all’infinito i rimbalzi e le piroette orbitanti, (vuoto com’era adesso), e quello scampanare del diavolo; con 296 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

forsennati latrati. La portinaia Teresa Fioroni era coraggiosamente accorsa, granata alla mano, per intimargli il «cúcia lì!» e carpirgli, possibilmente, la preda: checché! non osò nemmeno avvicinarlo, quel bolide, e Astarotte in figura di lupo: da tanto il lupo le ghiacciava le budella, intermessa per un momento la giostra, piantato a gambe larghe sulle sue quattro zampacce: gli orecchi ritti, puntuti, discoprendo un acuminato avorio nel buio, ringhiando, bavando, fissandola e sfiammeggiando dagli occhi con il demonio in corpo: ch’era doventato un dragone. (C.E. Gadda, L’Adalgisa. Disegni milanesi, Einaudi, Torino 1963, pp. 45-47)

T 11 Epigrammi funebri Epigrammata V, 34 e 37 LATINO ITALIANO

Nota metrica: distici elegiaci (V, 34) e trimetri giambici scazonti (V, 37).

[a] L’epigramma V, 34 è stato tradizionalmente letto come un esempio di autentica commozione del poeta, rattristato dalla morte della piccola Erotion (letteralmente «Amorino»), una schiavetta di sua proprietà che egli affida nell’oltretomba alla protezione dei propri genitori (vv. 1-2): difficile trovare, nella letteratura latina, un carme di altrettanto gentile e patetica delicatezza. [b] Ma si legga, subito dopo, l’epigramma V, 37, dedicato alla medesima bimba. Marziale quasi dimentica l’evento luttuoso, assorbito dalle possibilità di invenzione letteraria che esso gli schiude: ed ecco il lungo catalogo iniziale, nel quale si fa uso del più tradizionale armamentario esotico e figurativo del mondo latino; o la battuta finale, che ripete il modulo tipico dell’epigramma aggressivo e sarcastico. La collocazione ravvicinata dei due testi denuncia, in Marziale, la volontà di stupire il lettore con due pezzi di bravura intorno al medesimo soggetto.

Hanc tibi, Fronto pater, genetrix Flaccilla, puellam oscula commendo deliciasque meas, parvola ne nigras horrescat Erotion umbras oraque Tartarei prodigiosa canis. 5 Inpletura fuit sextae modo frigora brumae, vixisset totidem ni minus illa dies. Inter tam veteres ludat lasciva patronos et nomen blaeso garriat ore meum. Mollia non rigidus caespes tegat ossa, nec illi, 10 terra, gravis fueris: non fuit illa tibi. [a]

O padre Frontone, o madre Flaccilla, vi raccomando questa bambina, mia boccuccia e mia delizia, affinché la piccola Erotion non tremi di terrore davanti alle nere ombre e alle mostruose fauci del cane tartareo. Avrebbe appena compiuto il sesto inverno, se fosse vissuta almeno altri sei giorni. In compagnia di così vecchi protettori, giuochi spensierata e pronunzi il mio nome con la sua bocca balbettante. Non copra le sue delicate ossa una dura zolla, e non esserle pesante, o terra: lei infatti non lo fu per te. (trad. di G. Norcio)

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

8. Marziale e la poesia epigrammatica

[b]

5

10

PERCORSO ANTOLOGICO

15

Puella senibus dulcior mihi cycnis, agna Galaesi mollior Phalantini, concha Lucrini delicatior stagni, cui nec lapillos praeferas Erythraeos, nec modo politum pecudis Indicae dentem nivesque primas liliumque non tactum; quae crine vicit Baetici gregis vellus Rhenique nodos aureamque nitelam; fragravit ore quod rosarium Paesti, quod Atticarum prima mella cerarum, quod sucinorum rapta de manu gleba; cui conparatus indecens erat pavo, inamabilis sciurus et frequens phoenix: adhuc recenti tepet Erotion busto, quam pessimorum lex amara fatorum sexta peregit hieme, nec tamen tota, nostros amores gaudiumque lususque. Et esse tristem me meus vetat Paetus, pectusque pulsans pariter et comam vellens:

La bambina, la cui voce era per me più dolce del canto di un vecchio cigno, che era più tenera di un’agnella del Galeso falantino, e più delicata di una conchiglia dello stagno Lucrino, a cui non avresti preferito le perle eritree né la zanna della belva indiana or ora levigata, né la neve appena caduta, né il giglio immacolato, che con la chioma vinceva il vello delle pecore betiche, i capelli annodati dei Germani e lo splendore dell’oro, che dalla boccuccia emanava il profumo dei roseti di Pesto e del primo miele dei favi attici e di pezzetti d’ambra strappati dalle mani, al cui confronto era brutto il pavone, privo di grazia lo scoiattolo e uccello comune la fenice, Erotion, è ancora tiepida sul rogo intatto, che la dura legge del più crudele destino mi ha rapito nel sesto anno, e non ancora compiuto, mio amore, mia gioia e mio svago. E Peto non vorrebbe che io fossi triste, egli che battendosi a un tempo il petto e strappandosi i capelli

1. senibus... cycnis: i cigni, secondo l’antica leggenda, cantavano in punto di morte un canto dolcissimo e melodioso. 2. agna Galaesi... Phalantini: il Galeso scorreva nei pressi di Taranto, città fon­ data, secondo la tradizione, dal re spar­ tano Falanto.

3. concha Lucrini... stagni: il lago Lucri­ no, che si trovava nelle vicinanze di Baia, era ricco di pescagione, e in particolare di ostriche. 5. politum... dentem: l’avorio.

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7. Baetici: la Betica era una provincia della penisola iberica. 9. Paesti: la celebre città campana, già lodata da Virgilio nelle Georgiche (IV, 119) per i suoi roseti.


PERCORSO ANTOLOGICO

20

«Deflere non te vernulae pudet mortem? Ego coniugem» inquit «extuli et tamen vivo, notam, superbam, nobilem, locupletem». Quid esse nostro fortius potest Paeto? Ducentiens accepit et tamen vivit.

mi dice: «Non ti vergogni di piangere la morte di una schiavetta? Io ho seppellito la moglie, una donna illustre, superba, nobile e ricca, e tuttavia vivo». Chi potrebbe essere più forte del nostro Peto? Ha ereditato venti milioni di sesterzi e tuttavia vive. (trad. di G. Norcio)

T 12 Nuovi spettacoli: il pugnale di ghiaccio Epigrammata IV, 18 LATINO ITALIANO

Nota metrica: distici elegiaci.

La poesia di Marziale non è mai poesia di emozioni e di sentimenti: un fatto, anche il più doloroso, diventa subito occasione di invenzioni linguistiche e di ingegnosità concettuali. Qui non c’è commozione davanti alla morte del fanciullo, solo meraviglia per l’episodio inconsueto, intorno al quale il poeta elabora per analogia una rete di immagini e di metafore prodigiose: la lastra di ghiaccio che diventa un fragile pugnale; la gelida lama d’acqua che, disciogliendosi nella ferita, si mescola (e si metamorfosa) nel caldo sangue della morte. Le interrogative del distico finale enfatizzano in tono declamatorio lo “spettacolo” offerto agli stupefatti e deliziati lettori.

Qua vicina pluit Vipsanis porta columnis et madet adsiduo lubricus imbre lapis, in iugulum pueri, qui roscida tecta subibat, decidit hiberno praegravis unda gelu: 5 cumque peregisset miseri crudelia fata, tabuit in calido volnere mucro tener. Quid non saeva sibi voluit Fortuna licere? Aut ubi non mors est, si iugulatis aquae?

Là dove gocciola la porta, nelle vicinanze del portico di Agrippa, e la strada sdrucciolevole è sempre umida di acqua, cadde sulla nuca di un fanciullo, che passava sotto la volta gocciolante, una pesante lastra di ghiaccio: dopo avere portato a termine il crudele destino dell’infelice, il fragile pugnale si liquefece nel caldo sangue. Che cosa mai la crudele Fortuna non ha voluto che le fosse permesso? O dove mai non si annida la morte, se voi, o acque, uccidete? (trad. di G. Norcio)

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

MAPPA MARCO VALERIO MARZIALE (fra 38 e 41 – fra 101 e 104 d.C.)

15 libri di epigrammi: 1561 componimenti per circa 10.000 versi – Liber de spectaculis (80 d.C.) – Xenia e Apophoreta (84-85 d.C.) – Epigrammata I-XI (86-96 d.C.) – Epigrammata XII (101-102 d.C.)

ritrarre la realtà contemporanea così com’è – hominem pagina nostra sapit rifiuto della poesia mitologica – inattuale, ripetitiva, frivola, evasiva – quid nisi monstra legis? modelli – epigramma ellenistico: brevità, concisione, arguzia – Catullo: nugae, lusus, iocus – tradizione satirica: concretezza, ironia, spunti autobiografici; – ma: nessun intento moralistico; assenti i luciliani attacchi ad personam nuova figura di poeta – poesia d’occasione, risposta immediata del pubblico

L’opera

• • La poetica

• Aspetti della poesia di Marziale

Tecnica e stile

• • • • •

varietà tematica – il poeta parla di sé: vita del cliens, spunti polemici – descrizioni e caricature di ambienti e personaggi svelamento del reale – carattere carnevalesco e liberatorio – grande affresco della società imperiale romana

ampia varietà di registri stilistici naturalezza e semplicità, immediatezza espressiva scrittura cruda e scabra: lasciva verborum veritas accumulazione enumerativa, gusto del catalogo arguzia finale, aprosdóketon

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Completamento

1

Inserisci i dati mancanti della biografia di Marziale.

Marco Valerio Marziale nasce fra a nella . Si trasferisce a Roma intorno al . È accolto nelle case di , ma nel 65 perde i suoi protettori, costretti al suicidio durante la repressione della congiura pisoniana. Conduce d’ora in poi la vita precaria del , finché nell’80, in seguito al successo del , ottiene i favori di e poi di . Alla morte di quest’ultimo, nel , cerca inutilmente di ingraziarsi i nuovi potenti. Nel decide di tornare nel paese natale, dove muore tra .

■ 13 libri, oltre al Liber de spectaculis 2. I metri più usati nelle sue composizioni sono ■ il trimetro giambico e l’endecasillabo falecio ■ l’esametro e il distico elegiaco ■ la strofe saffica e l’esametro ■ il distico elegiaco e l’endecasillabo falecio 3. I generi che Marziale rifiuta sono ■ la satira esametrica e l’epica storica ■ l’epos mitologico e la tragedia ■ la tragedia e l’epica celebrativa ■ l’epos mitologico e la commedia 4. Marziale loda e celebra sopra ogni altro ■ Vespasiano ■ Plinio il Giovane ■ Domiziano ■ Quintiliano p._____/4

p._____/12

Totale p._____/25

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Oltre all’epigramma, Marziale coltiva altri e diversi generi poetici V|F b. Xenia e Apophoreta sono raccolte di epigrammi per le feste dei Saturnalia V|F c. A Roma Marziale scrisse e pubblicò i libri I-XII degli Epigrammata V|F d. Marziale continua la tradizione degli attacchi ad personam aperta da Lucilio V|F e. Giudica frivola e sorpassata la poesia mitologica V | F f. Conclude quasi sempre l’epigramma con una battuta giocosa e sorprendente V|F g. Come i poeti satirici, inserisce sovente nei suoi versi riflessioni morali V|F h. Scrive in sintonia con il gusto del pubblico contemporaneo V|F i. Quasi tutti i suoi libri si aprono con un testo proemiale V|F

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Caratteri dell’epigramma ellenistico ricorrenti nella poesia di Marziale. 2. Descrivi lo schema-base degli epigrammi di Marziale. 3. Il catalogo: esempi di accumulazione enumerativa negli Epigrammata. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Hominem pagina nostra sapit: la poetica di Marziale. 2. Carattere comico-realistico e “carnevalesco” della poesia di Marziale. 3. Quadri di vita romana: lo sguardo e gli intenti espressivi del poeta.

p._____/9

Quesiti a scelta multipla

3

Indica il completamento corretto.

1. Il corpus degli epigrammi di Marziale comprende ■ 14 libri per oltre 10.000 versi ■ 12 libri per circa 8.000 versi ■ 15 libri per quasi 10.000 versi 301 © Casa Editrice G. Principato

Marziale e la poesia epigrammatica

Verifica finale


9 La satira di Giovenale 1 La vita Scarsità dei dati biografici Decimo Giunio Giovenale è il poeta satirico latino sulla cui vita abbiamo meno notizie. Dalle sue opere si possono trarre poche e incerte informazioni. Molto probabilmente nacque ad Aquino, anche se qualcuno ha ipotizzato che egli venisse da province occidentali (Spagna, Gallie o Africa), essendo in quei luoghi attestata la presenza di molti Decimi Iunii. Poiché nella satira I, scritta poco dopo il 100, egli dice di non essere più iuvenis (v. 25), la data di nascita con ogni probabilità si colloca tra il 50 e il 60 d.C. Marziale, in un celebre epigramma (XII, 18 [ T4, cap. 8]), ci presenta Giovenale occupato nelle peregrinazioni cittadine del cliens, a caccia di sostentamento da un patronus all’altro, e questo farebbe pensare a una situazione economica precaria. Lo stesso Giovenale dedica diversi passi (I, 94 sgg.; III, 125-130 ecc.) alla descrizione della giornata del cliente, con accenti che sembrano alludere a un’esperienza autobiografica: la condizione di cliente, peraltro, può implicare disagio economico, ma non necessariamente un basso status sociale. La morte è sicuramente successiva al 127 d.C. 302 © Casa Editrice G. Principato


Panem et circenses          [...] qui dabat olim imperium, fasces, legiones, omnia, nunc se continet atque duas tantum res anxius optat, panem et circenses.         [...] chi distribuiva un tempo comandi, fasci, legioni, tutto, ora se ne infischia, e due cose soltanto desidera ansiosamente: pane e giochi. (Saturae X, 78-81, trad. di E. Barelli)

farrago

indignatio

Et quando uberior vitiorum copia?

Curios simulant et Bacchanalia vivunt Probitas laudatur et alget Mens sana in corpore sano

Le Satire Da varie allusioni a fatti contemporanei, possiamo collocare la redazione delle Satire tra il 100 e il 127 d.C. I componimenti sono in tutto sedici, distribuiti in cinque libri: il libro I comprende le satire I-V; il libro II la lunghissima satira VI; il libro III le satire VII-IX; il libro IV le satire X-XII; il libro V le ultime quattro. La sedicesima è mutila, probabilmente per un guasto nella trasmissione del testo. È verosimile che l’ordine dei libri tramandato dai manoscritti corrisponda all’ordine di pubblicazione.

Guida allo studio

1.

Che cosa sappiamo della vita di Giovenale? Qual era la sua condizione sociale?

2. In quale periodo furono composte le Satire? Quanti sono in tutto i componimenti? In quanti libri sono distribuiti?

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

9. La satira di Giovenale

2 La poetica dell’indignatio PROFILO STORICO

La satira I, un esplicito programma di poetica Il primo libro delle Satire di Giovenale si apre con un componimento programmatico, nel quale il poeta spiega le ragioni che lo hanno spinto al genere satirico, dichiara i suoi modelli e offre una rassegna pressoché completa dei temi dominanti nell’intera opera. L’esordio è una vivacissima polemica contro la trita ed evasiva poesia mitologica (di cui sono dati vari esempi tratti dal repertorio più consueto), bersaglio della satura latina da Lucilio, il fondatore del genere, fino a Persio: ad essa Giovenale oppone una poesia della realtà, colta nei suoi aspetti più grotteschi e degradati. L’intento moralistico (denunciare i vizi e la corruzione del presente) non nasce pacatamente dalla riflessione ma dall’indignazione di fronte ai costumi perversi della Roma contemporanea, l’iniqua… urbs dei vv. 30-31. Impossibile non scrivere satire: l’ispirazione poetica sorge direttamente e irresistibilmente dall’indignatio (v. 79), dall’ira che brucia il fegato (v. 45), dall’animus flagrans (v. 152) e ardens (v. 165) del poeta, nel solco della tradizione luciliana, cui Giovenale si riallaccia apertamente. A differenza di Lucilio, tuttavia, Giovenale eviterà di fare i nomi dei potenti contemporanei, e si limiterà a parlare dei morti: una scelta che segna con efficacia la distanza incolmabile fra l’età della libera repubblica e quella del principato.

PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 Facit indignatio versum Saturae I, 63-80 LATINO ITALIANO

Giovenale non si presenta, nella satira programmatica su cui si apre il libro, come un poeta affabile di oraziana memoria ma come un difensore della sensibilità morale offesa. Sul piano formale, il testo presenta le movenze retoriche e gli stilemi caratteristici mediante i quali si realizza la poetica dell’indignatio: incalzanti interrogative (vv. 63-68), sententiae (v. 74), accumuli enumerativi (vv. 75-76), antitesi, iperboli, espressioni di amaro e violento sarcasmo. Altri e più ampi passi della satira I si possono leggere ONLINE [ T2].

Nota metrica: esametri. 65

Nonne libet medio ceras inplere capaces quadrivio, cum iam sexta cervice feratur hinc atque inde patens ac nuda paene cathedra et multum referens de Maecenate supino signator falsi, qui se lautum atque beatum exiguis tabulis et gemma fecerit uda?

E non ha da venir la voglia di scrivere interi libri, fosse pur in mezzo a un crocicchio, quando un falsario, che s’è fatto signore con poche tavolette e inumidendo un sigillo, si fa portare in poltrona, sulle spalle di sei schiavi, e si fa vedere da tutti, sdraiato indolentemente come un Mecenate? 66. Maecenate supino: l’indolenza di Mecenate era divenuta

proverbiale, quanto i suoi costumi di gaudente raffinato.

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PROFILO STORICO

70

75

80

Occurrit matrona potens, quae molle Calenum porrectura viro miscet sitiente rubetam instituitque rudes melior Lucusta propinquas per famam et populum nigros efferre maritos. Aude aliquid brevibus Gyaris et carcere dignum, si vis esse aliquid. Probitas laudatur et alget. Criminibus debent hortos, praetoria, mensas, argentum vetus et stantem extra pocula caprum. Quem patitur dormire nurus corruptor avarae, quem sponsae turpes et praetextatus adulter? Si natura negat, facit indignatio versum qualemcumque potest, quales ego vel Cluvienus.

E subito ti viene incontro una grande matrona che, quando il marito ha sete, gli dà da bere molle Caleno mescolato con sugo di rospo e, più abile di Locusta, insegna a tutte le vicine inesperte come si porta a seppellire un marito nero di veleno, senza curarsi per nulla delle chiacchiere della gente. Se vuoi essere qualcuno, devi avere il coraggio di fare cose degne dell’isola di Giari e della galera. L’onestà è lodata da tutti, ma muore di freddo. Ai criminali vanno i giardini, gli onori pretorii, le mense, l’argento vecchio e le belle tazze ornate di caproni rampanti. Ma chi può dormire tra questi corruttori di nuore insaziabili, queste spose miserabili, questi adulteri ancora in pretesta? Se anche la natura non lo concede, è l’indignazione stessa che, come può, mi spinge a scrivere. Io faccio soltanto del mio meglio, ma credo ci riuscirebbe persino Cluvieno. (trad. di E. Barelli) 69. Calenum: il pregiato vino campano di Cales, al quale accenna anche Orazio. 71. Lucusta: una famosa avvele-

natrice vissuta ai tempi di Nerone. 73. Gyaris: isola delle Cicladi, era luogo di deportazione. 78. praetextatus: cioè giovanissi-

mi: la toga pretesta veniva portata fino ai diciassette anni. 80. Cluvienus: un ignoto poetastro.

Giovenale tra Persio e Marziale La satira istituzionalmente metteva alla berlina i difetti degli uomini, ma non le era estraneo nemmeno il momento positivo dell’ammaestramento morale: nella satira oraziana dominava l’indulgenza verso un’umanità imperfetta nella quale, autoironicamente, si inseriva lo stesso poeta. A tale immagine già Persio aveva portato trasformazioni essenziali, rivendicando le esigenze della coerenza filosofico-morale di fronte alla dilagante ipocrisia e superficialità dei costumi umani. Giovenale innesta questa visione della satira sull’audace realismo di Marziale: egli infatti dichiara: quidquid agunt homines, votum, timor, ira, voluptas, / gaudia, discursus, nostri farrago libelli est («tutto ciò che gli uomini fanno, i voti, i timori, le ire, i piaceri, / le gioie, gli errori, tutto sarà mescolato nel mio libro»; I, 85-86). 305 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

9. La satira di Giovenale

PROFILO STORICO

Il “realismo” di Giovenale Ma questa professione di apertura incondizionata (“realistica”) alle vicende umane, riceve subito una limitazione essenziale: chiedendosi et quando uberior vitiorum copia?, «e quando ci fu mai abbondanza più fertile di vizi?» (I, 87), Giovenale seleziona soltanto la parte negativa della realtà, presentandola come oggettivamente dominante nei tempi attuali. Questo è un passaggio fondamentale per intendere il suo “realismo”: egli interpreta tutta la realtà contemporanea alla luce del vizio, sostiene la legittimità del suo punto di vista come l’unico aderente alla realtà stessa, e tuttavia non lascia che le cose parlino da sole (come, ad esempio, Petronio), ma esibisce continuamente il filtro interpretativo della sua ira. Ciò lo induce a un atteggiamento declamatorio non dissimile da quello dei poeti delle recitationes, e a una deformazione della realtà opposta e complementare rispetto alla stucchevole nobilitazione che essa riceveva attraverso l’apparato mitologico [ T2 ONLINE]. Critica del passato Se pensiamo che, negli stessi anni di Giovenale, Plinio il Giovane scrive i suoi entusiastici resoconti di vita mondana, siamo colpiti dal contrasto inconciliabile tra due visioni della stessa realtà. Occorre precisare che Giovenale fa continuamente riferimento a personaggi ed eventi del passato, soprattutto dei regni di Domiziano e di Nerone: ma ciò non significa che egli non intenda criticare l’età di Traiano e di Adriano. Probabilmente, come dichiara alla fine della satira I, conformemente all’uso contemporaneo (e in contrasto con l’originario spirito della satira), il poeta si limita a denigrare i morti per evitare ritorsioni da parte dei vivi, tanto più pericolose quando si colpisce il potere imperiale; il fatto che egli non contrapponga una realtà attuale positiva alla negatività del passato può essere interpretato come una polemica implicita. Persuasione e retorica È consuetudine individuare una frattura tra una prima e una seconda maniera del poeta: la prima ispirata alla poetica di pathos violento dell’indignatio, la seconda più riflessiva e distaccata. Questa seconda fase si apri-

Il genere LETTERARIO Una satira “tragica”? ▰ Un’apostrofe rivelatrice Nella satira VI Giovenale rivolge ai lettori un’apostrofe rivelatrice: «Voi forse crederete che io abbia inventato tutto ciò perché la mia satira cammini sull’alto coturno, e uscito fuori dai confini e dalle regole dei miei predecessori, io abbia voluto a gran voce, come un novello Sofocle, delirare un carme sublime, ignoto ai monti rutuli e al cielo del Lazio? Magari tutto ciò fosse delirio» (vv. 634-638). ▰ Violazione del genere satirico? Nel corso della satira VI il poeta ha esasperato a tal punto le tinte della depravazione femminile [ T4], che sente di aver violato le norme del genere satirico (vincolato alla poetica del sermo), e di aver potuto dare l’impressione di sconfinare nel dominio dello stile tragico.

Tuttavia, significativamente, Giovenale tiene subito a caratterizzare la sua poesia come veritiera, di contro alle invenzioni del mito.

▰ Meschinità dei tempi moderni Ma se anche volessimo credere alla veridicità delle storie tragiche, incalza l’autore, dovremmo constatare che quelle azioni non furono commesse per denaro, come accade ai suoi tempi (VI, 643-646): il ricordo dei miti tragici, col loro misto di terrore e pietà, serve solo a far risaltare per contrasto l’imperdonabile meschinità dei tempi moderni. ▰ Oltre i tradizionali confini del genere Resta il fatto che la massiccia influenza dell’educazione retorica, col suo bagaglio di tecniche persuasive e materiali mitici, sembra mettere in pericolo i tradizionali confini tra i generi.

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PROFILO STORICO

rebbe con la satira X [ T5 ONLINE ], una sorta di nuovo manifesto programmatico, in cui il poeta fa appello all’antica leggenda secondo cui Eraclito piangeva di fronte all’assurdità del mondo, mentre Democrito ne rideva (X, 28-32): tanto più, secondo il poeta, Democrito avrebbe motivo di ridere oggi, vedendo la smisurata e grottesca pompa di cui si circondano i magistrati romani. Oggi tuttavia si tende a ridimensionare lo scarto tra le due fasi della poetica giovenaliana: la struttura, la tecnica compositiva, i procedimenti argomentativi sono assai simili a quelli delle satire precedenti, e alla base vi è un’identica necessità di persuadere il lettore della propria verità ricorrendo a ogni mezzo, badando più all’efficacia emotiva che alla coerenza razionale.

Guida allo studio

1.

Indica i capisaldi della poetica dell’indignatio, così come Giovenale la enuncia nella prima satira. 2. Quali sono gli aspetti dell’opera di Giovenale che permettono di accostarla alla satira di

Persio da una parte, dall’altra all’epigramma di Marziale? 3. Si può parlare di “realismo” per la satira di Giovenale?

3 Aspetti delle Satire di Giovenale

Banchetto sul Nilo, particolare di mosaico, II-I secolo a.C. Palestrina, Museo Archeologico Prenestino.

Temi ricorrenti: realtà e apparenza Non è facile riassumere le satire di Giovenale: peraltro, all’interno di ogni componimento, accanto all’argomento principale si possono individuare temi e motivi ricorrenti, che, lungi dall’essere secondari, sono i capisaldi della visione del mondo di Giovenale. Un primo tema, caratteristico della satira e portato dal nostro autore alle estreme conseguenze, è il contrasto tra realtà e apparenza: il poeta, non avendo da proporre una vera alternativa allo stato delle cose, addita le incoerenze delle posizioni altrui. Ci sono uomini qui Curios simulant et Bacchanalia vivunt («che fingon d’essere dei Curii e vivono invece in un perpetuo baccanale»; II, 3), che si danno cioè arie da virtuosi mentre vivono immersi nel vizio; così probitas laudatur et alget («l’onestà è lodata da tutti, ma muore di freddo»; I, 74 [ T2 ONLINE ]), giacché all’omaggio formale non corrisponde un riconoscimento sostanziale. All’inizio della seconda satira sono presentati i nobili pervertiti che, sotto l’apparenza del culto filosofico di Aristotele e degli stoici, nascondono un’inguaribile propensione al vizio: i vicoli sono pieni di Socratici cinaedi, di omosessuali che si fingono filosofi. 307 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

9. La satira di Giovenale

PROFILO STORICO

I Greci histriones L’odio contro i Greci, spregiativamente chiamati Graeculi, si fonda in buona parte proprio sulla loro presunta capacità di fingere, di travestirsi. Di fronte a questo trionfo della menzogna e dell’ipocrisia, l’amico Umbricio afferma: «Io invece a Roma che ci faccio? Non so mentire» (III, 41). Sempre nella satira III, la denuncia di quest’invasione di stranieri si affianca al lamento sull’onnipotenza del denaro: omnia Romae / cum pretio, «a Roma tutto si compra» (vv. 183-184).

Donna con diadema, ca 110 d.C. Monaco, Glyptothek.

Un tema ossessivo: il denaro L’individuazione nelle divitiae della radice di tutti i mali non è certo un tema nuovo nella letteratura latina, ma in Giovenale esso ricorre ossessivamente, e assomma in sé molteplici connotazioni negative. Sul piano storico, la svolta si è avuta nel momento in cui Roma ha cominciato a importare le preziose opere e le raffinate abitudini dei Greci. Oggi, spogliate le province, Roma è diventata la sede del lusso e della depravazione: ormai i provinciali vengono a Roma per apprendere il vizio. Si sente qui l’astio del cliens defraudato di ogni suo diritto, venuto meno il tradizionale rapporto di devozione reciproca tra lui e il patronus. La sportula, la provvista alimentare che un tempo bastava a soddisfare le esigenze dei clienti, oggi si è ridotta a una ben misera somma di denaro, sicché il cliente per sopravvivere deve vagare da un patrono all’altro. La corruzione di Roma Tra le pagine più memorabili delle Satire sono i grandi affre-

Le Saturae di Giovenale Tutti i manoscritti delle Satire che ci sono giunti ci hanno trasmesso un corpus di sedici satire organizzate in cinque libri.

▰ Libro I Il libro I contiene: una prima satira di

carattere programmatico [ T1; T2 ONLINE ]; la satira II, sulla degenerazione della nobilitas culminante nella depravazione omoerotica; la satira III, requisitoria dell’amico Umbricio contro lo scadimento dell’istituto della clientela [ T3] ; la satira IV, resoconto sarcastico di un consilium principis convocato da Domiziano per decidere come cucinare un enorme rombo; la satira V, sulle umiliazioni che un cliente deve subire alla mensa

del patronus. In questo libro si alternano quindi la denuncia delle difficoltà della vita del cliens onesto e le accuse contro una nobiltà inetta e degenerata.

▰ Libro II Il libro II è costituito dalla sola sesta

satira, che coi suoi quasi settecento versi è il più lungo componimento satirico latino: un’interminabile tirata misogina, che intende dissuadere l’amico Postumo dal proposito di prender moglie [ T4].

▰ Libro III In apertura del terzo libro, la satira VII

lamenta le misere condizioni dei letterati e di tutti gli intellettuali, avviliti a umilianti prestazioni perché le alte opere d’ingegno non conferiscono più alcun prestigio sociale ed economico; la satira VIII denuncia ancora una volta la nobiltà romana, in cui al privilegio del casato

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PROFILO STORICO

schi della vita romana, descritta con tonalità stravolte ed espressionistiche. Alla corruzione imperante nell’urbe si contrappongono gli antichi costumi che ancora vigono in provincia. A questo tema è dedicata in particolare la satira III del primo libro, nella quale la voce narrante è affidata a un amico del poeta, Umbricio [ T3]. Decadenza del genere umano La società romana è degenerata nel tempo, anzi, l’intero genere umano è afflitto da un’irrimediabile tendenza al declino morale. L’età attuale è un’età peggiore di quella del ferro (XIII, 28-30), tanto che l’onestà suscita meraviglia come un portento (XIII, 64-70). Un’immagine positiva, naturalmente mitizzata, è quella dell’età annibalica, quando la povertà, la fatica e i timori della guerra tenevano lontani i vizi; invece «ora noi sopportiamo i mali d’una lunga pace; più feroce della guerra, il lusso è piombato su noi a vendicare il mondo conquistato» (VI, 292-293). Non c’è quindi alcun sicuro punto di riferimento, se non un generico passatismo nostalgico. D’altra parte occorre insistere sulla dominante retorica delle Satire, che rende impossibile identificarvi un pensiero coerente: lo stesso argomento è visto da angolazioni diverse, a volte contraddittorie, col variare dell’obiettivo polemico e degli scopi persuasivi del singolo componimento. L’ultimo Giovenale Il Giovenale degli ultimi due libri sembra riavvicinarsi, in linea con la tradizione satirica, alla morale delle filosofie consolatorie ellenistiche, che si appella all’interiorità individuale: ma tale accettazione è tormentata e incerta.

Guida allo studio

1.

Individua i temi e i motivi ricorrenti nella satira di Giovenale che consentono di gettar luce sulla sua visione del mondo. 2. È corretto individuare due fasi distinte nella produzione satirica di Giovenale?

non corrisponde più il possesso della virtus; la satira IX è un dialogo con un certo Nevolo, cliens che lamenta l’ingratitudine dell’effeminato patronus. Anche in questo libro si alternano i due aspetti complementari della decadenza romana: estremo avvilimento dell’istituto della clientela e inettitudine della nobiltà.

▰ Libro IV All’inizio del quarto libro, la satira X [ T5

ONLINE ] affronta il tema (tradizionale nella satira) della stoltezza delle preghiere che gli uomini rivolgono agli dèi: l’unica cosa desiderabile è avere mens sana in corpore sano (X, 356); la satira XI è un invito a pranzo in cui si esalta la sobrietà contro gli eccessi delle tavole romane; la satira XII riguarda un sacrificio di ringraziamento per lo scampato naufragio dell’amico Catullo.

3. Esponi gli argomenti fondamentali trattati nelle Satire, cercando, ove possibile, di tracciare un percorso significativo attraverso i vari libri.

▰ Libro V Più difficile è rintracciare una coesione

strutturale nel quinto libro: nella satira XIII Giovenale ammonisce l’amico Calvino a non desiderare la vendetta contro chi gli ha sottratto un deposito in denaro, giacché scarsa è l’entità del male subíto e, comunque, la punizione giungerà da sé; nella satira XIV si uniscono il tema della cattiva educazione impartita ai figli dai padri viziosi e quello dell’avaritia, l’avidità di denaro a cui i giovani sono indotti spesso proprio dall’esempio dei padri; la satira XV narra un macabro episodio di cannibalismo avvenuto nel 127 d.C. in Egitto; nella parte conservata della satira XVI sono elencati, non senza punte polemiche, i privilegi della vita militare.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

9. La satira di Giovenale

4 Lingua e stile PROFILO STORICO

Tecnica compositiva Generalmente ammirato per le sue doti stilistiche, Giovenale è stato criticato per l’incapacità di dare alle sue poesie, piuttosto lunghe, una solida struttura formale. Maggiore compattezza e organicità presentano le satire III, V e X (ma si tratta di eccezioni); vistosamente priva di coerenza strutturale appare invece la satira VI, fra tutte la più estesa, nella quale sembra agire un unico principio costruttivo: l’accumulazione di immagini e di sentenze, in una climax negativa solo apparente. Questa tecnica accumulatoria ed elencatoria è anche un tratto stilistico fondamentale nelle strutture sintattiche: vi sono veri e propri cataloghi: il carattere disordinato di questi elenchi, che tende a riprodurre la caotica inafferrabilità del reale, è simboleggiato dalla parola farrago (I, 86 [ T2 ONLINE]). Evidenza rappresentativa Giovenale eccelle soprattutto in due campi: l’evidenza icastica della rappresentazione e la straordinaria condensazione espressiva di molte sententiae. Forte, da entrambi i punti di vista, dovette essere l’influenza dell’epigramma di Marziale, tanto che a volte si ha l’impressione di un agglomerato di epigrammi. Tra i molti quadri indimenticabili per vigore e pregnanza simbolica, vi sono quelli del nobile degenerato Laterano, colto in una folle corsa notturna a bordo di un carro veloce, e poi in una bettola in compagnia di marinai, ladri e assassini (VIII, 146-150; 171-178); quello del crollo delle statue dei potenti, che, come quella di Seiano, vengono fuse per farne urceoli, pelves, sartago, matellae («orciuli, catini, padelle e pitali»; X, 64 [ T5 ONLINE]); quello della matrona che fa frustare gli schiavi e intanto si trucca, spettegola con un’amica e legge il libro dei conti (VI, 481-485). Sententiae e paradossi Tra le sententiae divenute celebri, tanto da cristallizzarsi in proverbi indipendenti dalla poesia dell’autore, ricordiamo: probitas laudatur et alget (I, 74 [ T2 ONLINE]); panem et circenses (X, 81 [ T5 ONLINE]), a indicare sinteticamente i bisogni di una società degenerata; mens sana in corpore sano (X, 356), l’unica cosa che dovremmo chiedere agli dèi; maxima debetur puero reverentia (XIV, 47). A volte si trovano espressioni felicemente paradossali, cui conferisce toni di umor nero l’uso dell’artificio retorico dell’aprosdóketon (= «inatteso»): quando parla la donna saccente, «nessuno osa fiatare, / neppure un avvocato, / neppure un banditore, / neppure un’altra donna!» (VI, 439-440 [ T4]). Un linguaggio espressionistico Il linguaggio poetico di Giovenale è strettamente legato alla sua poetica di smascheramento e demistificazione: le contraddizioni della realtà emergono dallo stridente contrasto tra termini aulici e volgarismi, o dall’uso di parole adatte a contesti alti per situazioni “basse”, a volte ripugnanti. Così Messalina è la meretrix Augusta, dal palazzo imperiale a uno squallido lupana-

Guida allo studio

1.

Illustra le caratteristiche peculiari dello stile di Giovenale, indicando le tecniche compositive, gli artifici retorici, le forme espressive ricorrenti.

2. Cosa intendiamo quando parliamo di un linguaggio «espressionistico»? Sapresti dare una definizione di quell’avanguardia artistica novecentesca che va sotto il nome di «espressionismo»?

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PROFILO STORICO

re (VI, 118); la voracità di Domiziano è malignamente esaltata dal contrasto tra il volgarismo gluttire («ingoiare») e il solenne arcaismo induperator per imperator (IV, 28-29). Nomi e situazioni tolti dall’epica o dalla tragedia sono talvolta impiegati in funzione parodistica, ma per lo più marcano la distanza tra la nobiltà del mito e la miseria della realtà.

Giovenale

nel TEMPO

In epoca tardo-antica Giovenale fu quasi giovenaliano si trova nel Corbaccio del Boccacignorato dai contemporanei e dalle generazioni immediatamente successive. I primi a risentire della sua influenza sono autori cristiani come Tertulliano, tra la fine del II e l’inizio del III secolo. Ma lo troviamo citato esplicitamente solo in Lattanzio, all’inizio del IV: comincia proprio in questo periodo la grande fortuna del poeta. Lo ammirano e lo imitano i poeti, pagani e cristiani: Ausonio e il suo allievo Paolino di Nola, Prudenzio, Claudiano e, dopo la metà del secolo V, Sidonio Apollinare; lo citano ripetutamente i grammatici, da Servio a Prisciano (V-VI secolo).

Nel Medioevo Fra tardo-antico e Medioevo si crea l’immagine di un Giovenale maestro di sapienza, le cui sententiae sono citate anche da autori che non dimostrano di conoscere le sue satire in maniera diretta. Nel IX secolo, dopo la Rinascenza carolingia, il poeta conosce un rinnovato interesse critico-filologico. Prosegue la sua fortuna in ambito ecclesiastico, sia presso gli ortodossi che presso gli eretici (come un certo Vilgardo di Ravenna, ossessionato da Virgilio, Orazio e Giovenale in aspetto di diavoli). Non trascurabile l’influenza di Giovenale sui Carmina Burana; Jean de Meung, autore della seconda parte del Roman de la Rose (fine XIII secolo), mostra di conoscere la VI satira. Dante non dovette invece sapere molto di Giovenale: lo ricorda nel Purgatorio; lo cita nel Convivio e nel De Monarchia (ma si tratta probabilmente di citazioni di seconda mano). Anche il Petrarca mostra di conoscerlo, ma un particolare tono

cio, in cui ritornano i motivi misogini della fortunatissima satira VI.

In età umanistico-rinascimentale Nel Rinascimento ebbe discreta fortuna in Italia: lo riecheggia l’Ariosto nelle Satire (la terza in particolare), pur nella dominante fedeltà al modello oraziano. Un grande ammiratore e imitatore di Giovenale fu il drammaturgo inglese Ben Jonson, e tracce del poeta si trovano anche in Shakespeare. Nel Seicento il gusto barocco presenta qualche consonanza con l’enfasi e la tensione retorica di Giovenale.

In età moderna Chiari imprestiti giovenaliani si trovano sia nel Giorno del Parini che nel Misogallo dell’Alfieri (1790-98). Nell’Ottocento si rifecero con entusiasmo a Giovenale George Byron e soprattutto Victor Hugo, che in un violento attacco contro Napoleone III invocò la «Musa Indignazione» di Giovenale e di Dante. Un romanziere raffinato come Gustave Flaubert dichiarò la propria ammirazione per lo stile del poeta latino. Influenze di Giovenale si trovano in diverse poesie del Carducci. Nel Novecento italiano pare di ritrovare la violenza espressionistica della satira giovenaliana in certe pagine di Carlo Emilio Gadda, ad esempio in Eros e Priapo (1967), in cui alla risentita denuncia del regime fascista si affianca un accentuato misoginismo: non a caso lo scrittore milanese definì «stupenda» la satira VI di Giovenale. 311

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

9. La satira di Giovenale

Materiali

essenziale

Bibliografia

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BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Fra le edizioni dell’intera opera di Giovenale: Satire, introd. di L. Canali, traduzione e note di E. Barelli, Rizzoli BUR, Milano 1989; Satire, a cura di M. Ramous, Garzanti, Milano

2008. Particolarmente significativo l’apparato critico compreso nell’edizione della satira VI di Giovenale: Contro le donne, a cura di F. Bellandi, Marsilio, Venezia 2003.

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La satira di Giovenale

Sintesi

PROFILO STORICO

ONLINE

Giovenale nasce durante il principato di Nerone fra il 50 e il 60 d.C., probabilmente ad Aquino; muore dopo il 127, all’epoca dell’imperatore Adriano. Vive in una situazione economica precaria, come un poeta cliens a caccia di sostentamento da un patronus all’altro. Compone in tutto sedici saturae, dominate da un sentimento di sdegno e di ira nei confronti della vita contemporanea, di cui denuncia la corruzione morale e i nuovi costumi: facit indignatio versum. Diversamente da Lucilio, il fondatore della satura, scaglia i suoi strali soltanto sui personaggi del passato, tacendo sul presente, che è tuttavia il vero obiettivo della sua rappresentazione poetica. Nelle saturae di Giovenale si individuano alcuni temi ricorrenti: la denuncia della difficile vita dei clientes; il lamento sulle misere condizioni degli intellettuali e dei letterati in un’epoca che non ap-

� Fra i numerosi saggi dedicati al poeta: A. La Penna, Il programma poetico di Giovenale, «Paideia», 45, 1990, pp. 239275.

prezza più le opere dell’ingegno; le accuse contro la nobiltà inetta e degenerata; il dilagare dei vizi (avaritia, ipocrisia, perversioni sessuali) di contro al tramonto delle antiche virtù. Non si rintraccia tuttavia nella sua opera, in assenza di un pensiero coerente, un punto di riferimento positivo, al di là di un generico passatismo nostalgico. Privo dell’affabilità e della bonomia della satira oraziana, è interessato esclusivamente agli aspetti negativi della realtà, che descrive con toni esasperati e iperbolici, degni dell’universo tragico. Nelle sue satire dà vita a un grandioso affresco, stravolto e deformato, della Roma contemporanea, popolata da personaggi viziosi e grotteschi. Ad essa oppone il mondo della provincia, dove ancora sopravvivono tracce del tradizionale mos maiorum. Tecnica accumulatoria, evidenza rappresentativa, forza sentenziosa sono i tratti stilistici dominanti della sua poesia.

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Percorso antologico Saturae T1

Facit indignatio versum (I, 63-80)

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T2

Una satira programmatica: facit indignatio versum (I, 1-87; 147-171)

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T3

La ridda infernale nelle strade di Roma (III, 232-267)

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T4

Ritratti di donne: la letterata saccente e la dama che si fa bella (VI, 434-473)

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Panem et circenses (X, 56-107)

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T5

T2

Una satira programmatica: facit indignatio versum

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ONLINE

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Saturae I, 1-87; 147-171

T 3 La ridda infernale nelle strade di Roma Saturae III, 232-267 LATINO ITALIANO

Umbricio ha deciso di abbandonare Roma per trasferirsi a Cuma. Prima di partire si ferma un momento «sotto gli antichi archi dell’umida porta Capena» (v. 11) e rivolge all’amico poeta un lungo discorso di saluto e di sfogo, denunciando la corruzione dei costumi e il degrado sociale che affliggono senza rimedio la città. Ormai gli antiqui mores sopravvivono soltanto in provincia; nella saeva urbs un abisso separa i ricchi dai pauperes, esposti a disagi, umiliazioni e pericoli di ogni genere. Nella sequenza che riportiamo Giovenale ritrae il povero cliente, suo alter ego, risucchiato entro un convulso ingorgo di folla per le vie di Roma. La rappresentazione, in un crescendo di icastica e visionaria potenza, trova il suo culmine nelle immagini grandiose dei massi che rovinano giù dai carri polverizzando anche i miseri resti delle vittime, e del malcapitato invano atteso nella sua casa, privo persino dell’obolo per pagare il «fosco nocchiero» d’oltretomba.

Nota metrica: esametri.

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Plurimus hic aeger moritur vigilando; set ipsum languorem peperit cibus imperfectus et haerens ardenti stomacho. Nam quae meritoria somnum admittunt? Magnis opibus dormitur in Urbe.

A Roma, la maggior parte degli ammalati muoiono per insonnia; lo stesso languore viene dal cibo mal digerito che fermenta nello stomaco. Ma c’è una casa d’affitto in Roma che permetta il sonno? Solo ai gran quattrini è permesso dormire. 313 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

9. La satira di Giovenale

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PERCORSO ANTOLOGICO

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Inde caput morbi. Raedarum transitus arto vicorum inflexu et stantis convicia mandrae eripient somnum Druso vitulisque marinis. Si vocat officium, turba cedente vehetur dives et ingenti curret super ora Liburna atque obiter leget aut scribet vel dormiet intus; namque facit somnum clausa lectica fenestra. Ante tamen veniet: nobis properantibus obstat unda prior, magno populus premit agmine lumbos qui sequitur; ferit hic cubito, ferit assere duro alter, at hic tignum capiti incutit, ille metretam. Pinguia crura luto, planta mox undique magna calcor, et in digito clavus mihi militis haeret. Nonne vides quanto celebretur sportula fumo? Centum convivae, sequitur sua quemque culina. Corbulo vix ferret tot vasa ingentia, tot res inpositas capiti, quas recto vertice portat servulus infelix et cursu ventilat ignem. Scinduntur tunicae sartae modo. Longa coruscat serraco veniente abies, atque altera pinum

La colpa di questo malanno ce l’hanno soprattutto i carri che vanno su e giù dentro i budelli dei vicoli, e le mandrie, che si fermano e fanno un fragore che toglierebbe il sonno a Druso o a una vacca marina. Il ricco, quando un affare lo chiama, si fa trasportare tra la folla che s’apre davanti a lui, e vola sopra le teste, chiuso dentro la grande lettiga liburna, dove può leggere o scrivere o magari dormirci; ché infatti le finestre chiuse, in lettiga, fan venir sonno. Comunque puoi star certo che arriverà per primo; a me, pieno di fretta, fa ostacolo l’onda della folla che mi precede; quella che mi segue mi preme, come una falange compatta, alle reni; uno mi pianta un gomito in un fianco, un altro mi colpisce rudemente con una stanga, quello mi sbatte in testa una trave, l’altro una botte. Le gambe s’ingrassano di fango, da ogni parte suole grosse così mi pestano i piedi, un militare mi trapassa l’alluce coi suoi chiodi. Non vedi che calca di gente e che fumo intorno alla sportula? Vengono in cento a mangiare e ognuno si porta dietro la cucina. A malapena Corbulone porterebbe i grandi vasi e i tanti arnesi messi in bilico sulla testa d’un infelice minuscolo schiavetto che li sostiene sul collo teso e intanto, correndo, mantien vivo il fornello. Così si spaccano di nuovo le tuniche appena rammendate. Ma ecco un lungo abete arrivare traballante su di un carro, e poi un altro carro con un pino; ondeggiano alti sulla gente e da un momento 238. Druso: l’imperatore Claudio, il quale, secondo la testimonianza di Svetonio (Claud. 8), aveva il sonno molto profondo, come le foche o vacche marine ricordate subito dopo.

240. Liburna: nave snella e veloce, cui viene assimilata la lettiga del ricco. 249. sportula: cestello di vimini nel quale il patronus dispensava ai suoi clienti la quotidiana provvista di cibarie.

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251. Corbulo: Domizio Corbulone, generale di Nerone, uomo di gigantesca corporatura. 253. ignem: per tenere in caldo i cibi ricevuti con la sportula.


PERCORSO ANTOLOGICO

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263. strigilibus: raschiatoi da passare sulla pelle dopo il bagno.

plaustra vehunt, nutant alte populoque minantur. Nam si procubuit qui saxa Ligustica portat axis et eversum fudit super agmina montem, quid superest de corporibus? Quis membra, quis ossa invenit? Obtritum vulgi perit omne cadaver more animae. Domus interea secura patellas iam lavat et bucca foculum excitat et sonat unctis strigilibus et pleno componit lintea guto. Haec inter pueros varie properantur; at ille iam sedet in ripa taetrumque novicius horret porthmea nec sperat caenosi gurgitis alnum infelix nec habet quem porrigat ore trientem.

all’altro minacciano di cadere. Se si rompe l’asse di uno di quei grandi carri che portano i macigni di Liguria e il carro rovesciandosi fa piovere tutto quel monte di granito sulla ressa, mi dici tu che cosa rimane dei corpi? Chi trova più le membra e le ossa? Stritolati, i cadaveri della povera gente si dissolvono come soffi di vento. In casa frattanto la famiglia lava i piatti tranquillamente, rianima il fuoco soffiandoci sopra, fa risuonare gli unti strìgili e, riempita la boccetta d’olio, mette in ordine i lini. Ma mentre gli schiavi s’affrettano a preparar queste cose, egli, la vittima, già siede sulla riva dello Stige, e novizio com’è, già sente rizzarsi i capelli davanti al fosco nocchiero, disperando di poter mai salire sulla nave del fiume fangoso, giacché gli manca l’obolo in bocca da offrire a Caronte. (trad. di E. Barelli)

Leggere un TESTO CRITICO Una poetica della deformazione Italo Lana, introducendo la I satira in una memorabile antologia curata insieme con Armando Fellin, affronta una delle questioni interpretative più dibattute dagli studiosi, quella del “realismo” di Giovenale. L’indignatio, correttamente intesa come termine tecnico, prevede una sistematica deformazione dei dati reali; è dunque sul piano retorico che va rintracciata la soluzione del dilemma («documento storico» o «costruzione del tutto fantastica »?). In questa

prospettiva critica, la satira di Giovenale rivela, per noi lettori moderni, decisive analogie con il mondo «mostruoso» di Jonathan Swift; ma anche, possiamo aggiungere, con quello di Carlo Emilio Gadda, che nello scritto programmatico Tendo al mio fine (1931), incluso nel Castello di Udine, aveva dichiarato: «Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge».

La conclusione della prima satira [ T2 ONLINE] ha forma dialogata. Un interlocutore consiglia prudenza al poeta: non sono più i tempi di Lucilio: oggi una parola troppo franca viene ripagata con atroci vendette. Giovenale si induce finalmente ad ascoltare questi ammonimenti ispirati a saggezza: la sua satira sarà retrospettiva, si limiterà ad attaccare i morti. I critici si sono divisi nel giudicare tale affermazione programmatica del poeta. È facile rivolgere a Giovenale l’accusa di scarso coraggio civile e di ipocrisia; ma, a ben guardare, la dichiarazione 315 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

9. La satira di Giovenale

PERCORSO ANTOLOGICO

Leggere un TESTO CRITICO

del poeta è trasparente, il nesso logico chiarissimo: «I miei contemporanei sono sprofondati nei vizi e nella corruzione non meno delle generazioni che li hanno preceduti, ma non mi concedono la libertà di parola: attaccherò i morti». Non era possibile ad alcuno dubitare che, attraverso i morti, Giovenale non attaccasse i vivi. Semplicemente egli non avrebbe fatto nomi di viventi, ma era la situazione storica e politica stessa a vietarlo. Che pensare del quadro della società romana, che Giovenale delinea con mano ferma e feroce? Fino a che punto possiamo pensare che la realtà corrispondesse alle sue descrizioni? È facile lasciarsi tentare, per un verso, a considerare la sua satira alla stregua di un documento storico, dall’altra a intenderla come una costruzione del tutto fantastica o, comunque, con pochi addentellati nella realtà. Se si parte dal famosissimo verso di questa satira: si natura negat, facit indignatio versum (e il poeta aggiunge modestamente: qualemcumque potest: vv. 7980), e se si tiene conto che l’indignatio è termine tecnico retorico (a cui in greco corrisponde déinosis), subito si comprende che il verso «fatto» dall’indignatio presuppone l’uso amplissimo dell’amplificatio (cfr. la Rhetorica ad Herennium III, 13, 24): in altre parole, la satira di Giovenale non è programmaticamente concepita come una riproduzione della realtà bensì come una deformazione della realtà, con lo scopo di suscitare l’ira e lo sdegno dei lettori per quel certo tipo di uomo e di vita ricreato nei versi del poeta. Perciò la satira di Giovenale va considerata come un’opera d’arte: e dobbiamo usare molta cautela, prima di servircene per ricavare un giudizio effettivo sulla realtà. [...] Riprendiamo le espressioni di cui si serve l’Enzensberger per definire la satira di J. Swift: «Ciò che rendeva incomparabilmente efficace il racconto di Swift era il carattere mostruoso del suo mondo, l’assurda tensione tra la realtà e la sua allucinante deformazione. Il procedimento di distorsione caricaturale delle cose era quello stesso della satira classica portata al massimo delle sue possibilità: la mimesis come estrema discrepanza». (I. Lana - A. Fellin, Civiltà letteraria di Roma antica, vol. III, D’Anna, Messina-Firenze 1970, pp. 294-295)

T 4 Ritratti di donne: la saccente e la dama Saturae VI, 434-473 LATINO ITALIANO

La sesta è forse la più potente, certo la più famosa (e la più lunga) delle Saturae: un’impietosa rassegna di vizi, di capricci, di vere e proprie mostruosità femminili, che si inserisce in un’antichissima tradizione di letteratura misogina e antiuxoria, per lo più di timbro popolaresco (da Esiodo alla poesia giambica, dalla commedia al mimo e alla satira); anche l’occasione-pretesto che dà l’avvio al discorso (il tentativo di dissuadere l’amico Postumo dal prender moglie) è ben rappresentata fra i temi dibattuti dai retori nelle suasoriae. Giovenale riprende con grande originalità l’argomento, ormai usurato e proverbiale, assumendo a bersaglio della sua polemica figure e comportamenti prospettati come caratteristici della società imperiale, sullo sfondo vivido e concreto della Roma contemporanea; in tal modo la requisitoria contro le donne va a confluire entro la generale denuncia della corruzione morale e sociale dell’epoca presente. Radice di ogni male sono le divitiae e lo spregio degli antiqui mores: infatti, pur senza risparmiare alcun esemplare del sesso femminile, Giovenale concentra i suoi strali specialmente sulla donna ricca e sulla donna emancipata (cioè la donna che usurpa le prerogative maschili). Quella che leggiamo, peraltro, non è una descrizione obiettiva, né realistica: nel rappresentare i vari tipi femminili l’autore mette in opera un procedimento di violenta, iperbolica deformazione dei dati desunti dall’esperienza del reale, dando vita a una galleria di figure maniacali, stravaganti, eccessive fino all’inverosimile e al grottesco [ T1; T2 ONLINE].

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PERCORSO ANTOLOGICO

Nota metrica: esametri.

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Illa tamen gravior, quae cum discumbere coepit, laudat Vergilium, periturae ignoscit Elissae, committit vates et comparat, inde Maronem atque alia parte in trutina suspendit Homerum. Cedunt grammatici, vincuntur rhetores, omnis turba tacet, nec causidicus nec praeco loquetur, altera nec mulier; verborum tanta cadit vis, tot pariter pelves ac tintinnabula dicas pulsari. Iam nemo tubas, nemo aera fatiget: una laboranti poterit succurrere Lunae. Inponit finem sapiens et rebus honestis; nam quae docta nimis cupit et facunda videri, crure tenus medio tunicas succingere debet, caedere Silvano porcum, quadrante lavari. Non habeat matrona, tibi quae iuncta recumbit, dicendi genus aut curvum sermone rotato torqueat enthymema, nec historias sciat omnes, sed quaedam ex libris et non intellegat. Odi hanc ego quae repetit voluitque Palaemonis artem servata semper lege et ratione loquendi

E ancora più insopportabile è colei che, appena a tavola, loda Virgilio, giustifica Didone desiderosa di morire, fa paralleli tra i poeti, li paragona tra loro, sospende alla bilancia Virgilio da una parte e Omero dall’altra. I grammatici debbono ritirarsi, i retori sono sconfitti, tutti debbono tacere; non oserebbe più dire una parola nemmeno un avvocato, nemmeno un banditore, nemmeno un’altra donna oserebbe parlare. Tanta è la forza delle sue chiacchiere, che diresti che ne vibrano anche tutti i catini e i campanelli della casa. Non c’è più bisogno che nessuno si sfiati a suonar trombe o bronzi: lei da sola basta a dare aiuto alla luna in eclissi. L’uomo savio sa porre fine anche alle cose oneste; la donna, che vuol apparire a tutti i costi dotta e faconda, deve per forza tirar su la tunica fino a mezza gamba, sacrificare un porco a Silvano e andare al bagno con un quadrante. Augurati che la matrona, che a mensa ti siede accanto, non parli secondo un suo stile o non ti folgori addosso, con espressioni involute, un tortuoso entimema; che non conosca tutta la storia, che non capisca tutto quello che legge. Odio la donna che si rifà di continuo al Metodo di Palemone, senza sbagliare mai una regola di lingua e, ostentando le sue anticherie, cita versi a me sconosciuti, e rimprovera 443. laboranti... Lunae: poiché si credeva che durante l’eclissi la luna fosse soggetta a un malefizio, si percuotevano strumenti di bronzo per venirle in aiuto e ridonare all’astro il suo splendore (cfr. Manilio, Astr. I, 227). 447. caedere... lavari: a Silvano, divini-

tà dei boschi, sacrificavano soltanto gli uomini; quasi esclusivamente da uomini erano frequentate le terme popolari, dove l’ingresso costava pochi soldi (il «quadrante» corrispondeva a un quarto di asse). 450. enthymema: forma di sillogismo

abbreviato, in cui è sottintesa una delle due premesse. 452. Palaemonis: Quinto Remmio Palemone, retore di età giulio-claudia, fu maestro di Quintiliano; scrisse un Metodo (Ars), cioè una grammatica della lingua latina [ cap. 6.3].

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ignotosque mihi tenet antiquaria versus nec curanda viris opicae castigat amicae verba; soloecismum liceat fecisse marito. Nil non permittit mulier sibi, turpe putat nil, cum virides gemmas collo circumdedit et cum auribus extentis magnos commisit elenchos; intolerabilius nihil est quam femina dives. Interea foeda aspectu ridendaque multo pane tumet facies aut pinguia Poppaeana spirat, et hinc miseri viscantur labra mariti: ad moechum lota veniunt cute. Quando videri vult formonsa domi? Moechis foliata parantur, his emitur quidquid graciles huc mittitis Indi. Tandem aperit vultum et tectoria prima reponit, incipit agnosci, atque illo lacte fovetur propter quod secum comites educit asellas exul Hyperboreum si dimittatur ad axem. Sed quae mutatis inducitur atque fovetur tot medicaminibus coctaeque siliginis offas accipit et madidae, facies dicetur an ulcus?

l’amica ignorante per parole cui nessun uomo farebbe caso; io penso che il marito abbia il diritto di far qualche solecismo! Non c’è nulla che una donna non creda di potersi permettere, nulla che ella reputi vergognoso, quando può cingere il collo di verdi gemme, quando può appendere alle orecchie gioielli così grossi da sforzarne il lobo; proprio non c’è nulla al mondo di più intollerabile di una donna ricca! Spesso la sua faccia, schifosa a vedersi e ridicola oltre modo, è rigonfia di mollica di pane o esala il lezzo delle pomate di Poppea; se l’infelice marito vuol baciarla, se ne invischia le labbra. Ma dall’amante andrà col viso ben lavato. Quale donna ci tiene ad esser bella in casa propria? Gli unguenti sono per l’amante, per lui soltanto si compra tutto ciò che ci manda il magro indiano. Alla fine la sua faccia torna alla luce, il belletto viene portato via: comincia ad essere riconoscibile. Allora si fa lavare con quel latte per il quale, se fosse mandata in esilio fino al polo iperboreo, porterebbe con sé una intera mandria d’asine. Ma quella faccia che vien mutata e ammorbidita da tanti impiastri, che riceve su di sé tante focacce di farina cotta e bagnata, si dirà ch’è una faccia o una piaga? (trad. di E. Barelli)

456. soloecismum: errore di grammatica. 462. Poppaeana: Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone, aveva somma cura della propria leggendaria bellezza;

le si attribuiva l’invenzione di creme e altri preparati per la cosmesi femminile. 469. asellas: il latte d’asina era considerato ottimo per la pelle.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Educazione CIVICA Dall’indignazione all’hate speech «Indignazione» è uno stato d’animo di violento risentimento contro ciò che è avvertito come ingiusto o inumano: una reazione spesso nobile e generosa di fronte a gravi iniquità, che siano fatti concreti e precisi o aspetti generali di un sistema politico, sociale o economico. Indignatevi! era il titolo di un pamphlet dell’anziano diplomatico francese Stéphane Hessel, pubblicato nel 2010 e fonte d’ispirazione per i diversi movimenti di contestazione che attraversarono il mondo all’inizio degli anni Dieci, a partire dagli indignados spagnoli e dal movimento Occupy Wall Street del 2011, fino a Black Lives Matter del 2013 e oltre. D’altra parte Stefano Benni, uno scrittore satirico dei nostri tempi, ha contrapposto il «bianco cavallo dell’indignazione» all’atteggiamento di chi «con pietà e vergogna cammina tra i feriti» (La compagnia dei celestini, Feltrinelli 1992): l’indignato “di professione” giudica dall’alto e sfoga la sua rabbia impotente contro i mali del mondo, scelta comoda e sterile se non è seguita da un’azione quotidiana, paziente e silenziosa, di cura di quegli stessi mali. L’indignazione è indice di reattività, di vitalità, ma, come tutte le reazioni critiche connotate da una forte

carica emotiva, rischia di spegnersi per mancanza di proposte alternative. Di qui il rischio che essa degeneri in frustrazione e diventi il brodo di coltura di un odio che dilaga nei discorsi (soprattutto, com’è noto, in quelli dei social network), fino a trasformarsi in azioni violente da parte di soggetti fragili e sprovveduti o di manipolatori senza scrupoli: così, paradossalmente, l’indignazione iniziale può trasformarsi in disprezzo della dignità altrui, in odio riversato contro capri espiatori di paure e delusioni. Non c’è una definizione univoca di “reato d’odio” o di “discorso d’odio”, ma si possono identificare alcuni indicatori che ci aiutano a riconoscerli: per esempio, il reato d’odio si distingue dagli altri perché colpisce chi si suppone appartenga a una categoria titolare di determinate “caratteristiche protette” (origine etnica, orientamento sessuale, identità di genere, credo religioso, disabilità); il discorso d’odio si riconosce perché incita o promuove atteggiamenti discriminatori e intolleranti nei confronti di determinate categorie. Un approfondimento interessante sul tema si può trovare in un documento online elaborato dal Ministero dell’Interno: www.interno.gov.it/sites/default/ files/inserto_reati_odio_-_oscad.pdf.

Letture PARALLELE Accenti misogini in Lucrezio e in Carlo Emilio Gadda Anche Lucrezio, nel finale del IV libro, propone una rassegna caricaturale e sarcastica dei difetti femminili (De rerum natura IV, 1160-1169; e si veda tutta la sequenza polemica sull’amore, vv. 1037 sgg.). Assai diversi gli obiettivi: nell’ambito della più ortodossa morale epicurea, Lucrezio intende fornire un rimedio contro i turbamenti e gli affanni provocati dal furor passionale, che acceca gli amanti rendendoli incapaci di scorgere lucidamente le pecche e le miserie dell’essere idolatrato. Il suo catalogo, che si sofferma prevalentemente sui difetti fisici (la donna dalla pelle

T5

Panem et circenses

troppo scura, quella che emana cattivo odore, la magra, la pingue, la nana...), rinvia alla tradizione comica e diatribica. Più acri, per certi aspetti più vicini a quelli di Giovenale, gli accenti misogini di Carlo Emilio Gadda, soprattutto in Eros e Priapo (1967), straordinario pamphlet in cui lo scrittore mira a ricostruire, facendo un uso personalissimo della psicoanalisi freudiana, gli oscuri moventi erotici che consentirono alla dittatura fascista di imporsi per vent’anni al nostro paese.

Saturae X, 56-107

ONLINE

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

MAPPA LA SATIRA DI GIOVENALE

Decimo Giunio Giovenale

L’opera

La poetica

Temi e aspetti della satira di Giovenale

Tecnica e stile

tra 50 e 60 - post 127 d.C.

16 Satire in esametri – suddivise in 5 libri – composte fra il 100 e il 127 d.C.

• • •

modelli: Lucilio, Persio, Marziale polemica contro la poesia mitologica poesia della realtà: quidquid agunt homines... nostri farrago libelli est facit indignatio versum – intento moralistico – parlerà soltanto dei morti

contrasto fra realtà e apparenza le divitiae radice di tutti i mali affreschi di vita romana – vizio e corruzione dilaganti – degrado della nobilitas – avvilente condizione dei clientes generico passatismo nostalgico

• • • • • • •

deformazione della realtà tonalità stravolte ed espressionistiche satira “tragica” evidenza rappresentativa enfasi declamatoria sententiae memorabili tecnica accumulatoria

• • •

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Vero / Falso

1 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Giovenale nasce probabilmente ad Aquino b. La data di nascita viene collocata fra il 60 e il 70 d.C. c. Un epigramma di Marziale lo descrive intento alle peregrinazioni del cliens d. Grazie alla liberalità dei patroni, la sua situazione economica è soddisfacente e. Scrive le Satire fra il 100 e il 127 d.C. f. Nei suoi versi si riferisce sempre a personaggi ed eventi contemporanei g. La sua opera è ricchissima di notizie autobiografiche h. Non è possibile identificare nelle Satire un pensiero coerente i. Giovenale individua nelle divitiae la radice di tutti i mali j. Tende a rappresentare soltanto gli aspetti negativi della realtà k. La data di morte è sicuramente posteriore al 135 d.C.

V | F V | F V | F

p._____/6

V | F V | F

Collegamento

V | F

3 Attribuisci a ciascuna delle Satire indicate l’argomento trattato.

V | F

1. 2. 3. 4.

V | F V | F V | F V | F

p._____/11

Quesiti a scelta multipla

2

5. Il poeta dichiara che la sua fonte di ispirazione ■ è l’italum acetum ■ sono i miti e le antiche leggende ■ è l’indignatio ■ è la riflessione filosofica 6. Sul piano espressivo Giovenale privilegia ■ le figure di suono e le metafore ■ la tecnica accumulatoria e le sententiae ■ i termini aulici e gli arcaismi ■ il sermo vulgaris e il catalogo

Indica il completamento corretto.

1. Nelle Satire di Giovenale si avverte soprattutto l’influsso ■ di Lucilio e di Orazio ■ di Marziale e del Satyricon ■ di Persio e di Marziale ■ di Orazio e delle Menippee di Varrone 2. Il corpus delle opere di Giovenale consta di ■ quattordici satire, oltre a vari frammenti ■ sedici satire, di cui l’ultima mutila ■ diciotto satire, pervenute integre ■ sedici satire, più alcuni testi proemiali in prosa 3. Fra i temi dominanti nelle Satire spicca ■ la degenerazione della nobilitas ■ la consolazione della filosofia ■ l’elogio del princeps ■ la cronaca della vita mondana 4. Dal punto di vista compositivo le Satire sono per lo più ■ compatte e organiche ■ articolate in due-tre sezioni ben distinte ■ costruite “ad anello” ■ carenti di coerenza strutturale

Satira I Satira II Satira III Satira IV

5. 6. 7. 8.

Satira VI Satira VII Satira IX Satira X

lamenta la misera condizione dei letterati componimento programmatico interminabile tirata misogina stoltezza delle preghiere rivolte agli dèi scadimento dell’istituto della clientela dialogo con Nevolo, che lamenta l’ingratitudine del patronus g. depravazione omoerotica della nobilitas h. il consilium principis deve decidere come cucinare un rombo a. b. c. d. e. f.

p._____/8

Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Funzione della poesia satirica secondo Giovenale. 2. La poetica dell’indignatio. 3. Critica del passato nella satira di Giovenale. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. La satira I: un esplicito programma di poetica. 2. Realismo e deformazione espressionistica nella satira di Giovenale. 3. Un tema ricorrente nell’opera di Giovenale: il contrasto fra realtà e apparenza. 321

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La satira di Giovenale

Verifica finale


10 Le epistole di Plinio il Giovane 1 La vita e le opere La vita Gaio Plinio Cecilio Secondo nacque a Como da una facoltosa famiglia locale nel 61 o nel 62 d.C. Dopo la morte del padre, fu adottato da Plinio il Vecchio [ cap. 3.7], suo zio materno, che lo portò con sé a Roma. Qui studiò retorica sotto la guida di Quintiliano. Iniziò la carriera politica all’epoca di Domiziano, rivestendo numerose cariche ufficiali: fu console nel 100 e governatore in Bitinia dal 111 alla morte, che va collocata nel 112 o nel 113 d.C. Parallelamente alle cariche ufficiali, egli esercitò assiduamente la professione di avvocato: insieme a Tacito (coetaneo e compagno di studi, al quale era legato da una profonda amicizia: cap. 11, Plinio scrive a Tacito: due lettere O N L I N E ), vinse il processo intentato dalla provincia d’Africa al proconsole Mario Prisco. Le opere Di queste sue varie attività è Plinio stesso a informarci, nelle 247 lettere raccolte nei libri I-IX delle Epistole, scritte a partire dal 96 e pubblicate tra il 105 e il 110. Carattere completamente diverso hanno le 121 lettere del libro X, 322 © Casa Editrice G. Principato


Autoritratto di un uomo felice Caro Macro, sei contento: lo sono anch’io. Hai con te la moglie, il figlio; ti godi il mare, le sorgenti, il verde, la campagna, una villa deliziosa. Che deliziosa sia non dubito, se ne aveva fatto il proprio buen retiro un uomo già felice, prima di diventare il più felice di tutti. Intanto, io, nella mia casa toscana, vado a caccia e studio, ora alternando l’una all’altro, ora insieme. Ma se sia più difficile scrivere o pigliar qualcosa, ancora non te lo so dire. Stammi bene. (Epistulae V, 18)

ut quaeque in manus venerat laudes locorum Clitumnus fons nubes atra et horrenda catenas gerebat quatiebatque superstitio prava, immodica

corrispondenza ufficiale tra Plinio e Traiano, con ogni probabilità pubblicata postuma. Solo pochi frammenti ci sono giunti della sua produzione poetica: versiculi e nugae improntati a un gusto leggero, a volte manierato e lezioso. Della sua vasta attività oratoria, ci è invece pervenuta una sola orazione, il Panegirico di Traiano, che Plinio pronunciò in senato, alla presenza dell’imperatore, il primo settembre del 100.

Guida allo studio

1.

A quali attività si dedicò Plinio nel corso della sua vita? Ripercorri in ordine cronologico le fasi del suo cursus honorum, specificando le date. 2. Elenca le opere pliniane di cui abbiamo notizia: quali ci sono pervenute?

3. Quale opera fu dedicata all’imperatore Traiano? 4. Di quanti libri è composto l’epistolario pliniano? Per quali caratteristiche l’ultimo libro del corpus si distingue dai precedenti?

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

10. Le epistole di Plinio il Giovane

2 Il Panegirico di Traiano PROFILO STORICO

Panegyricus e gratiarum actio Il panegyricus era il discorso di ringraziamento (gratiarum actio) pronunciato in senato dal console che entrava in carica: già in uso in età repubblicana, si trasformò in età imperiale in un atto d’omaggio all’imperatore [ cap. 18.5]. Il princeps e i senatori Il tema centrale è quello del rapporto tra principe e senatori: ogni aspetto della politica del princeps è ricondotto a questa prospettiva [ T5 ONLINE ]. Traiano, rispettando le tradizioni senatorie più di quanto avessero fatto i suoi predecessori, rende possibile nel suo principato la libertas come obsequium: «ci comandi di essere liberi: lo saremo» (Panegyricus 66, 4). Naturalmente questa libertà nasce dall’iniziativa unilaterale del princeps, e allora Plinio è costretto a muoversi tra la lode del presente e il blando ammonimento per il futuro: «persevera, Cesare, in questo tuo metodo di vita» (Panegyricus 62, 9). Il discorso è, sostanzialmente, e spesso anche formalmente, rivolto a Traiano, ma, nei luoghi strategici dell’esordio e dell’epilogo, il destinatario è il senato, come a mantenere una parvenza di libertas repubblicana. Nell’accordo tra imperatore e senatori, il progetto sembra quello di una monarchia costituzionale. Lo stile Quali fossero le difficoltà che si presentavano a Plinio nella stesura dell’orazione ce lo dice egli stesso nell’epistola III, 13. Si trattava di incatenare l’interesse del lettore attraverso gli artifici formali, poiché la materia era già conosciuta: a questo scopo Plinio si affida alla varietas come escursione stilistica tra passi più elevati (elata et excelsa) e momenti di allentamento della tensione espressiva. PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 Inviando a un amico il Panegirico di Traiano Epistulae III, 13 ITALIANO

La concentrazione esclusiva sugli elementi espressivi del Panegirico svela la situazione ambigua in cui si muovono gli scrittori nell’età del principato: nel discorso di Plinio «tutto è ben noto, divulgato, già detto» (e probabilmente già concordato con il princeps): la sola libertà che resta all’autore è quella di dare una veste formale ineccepibile a ciò che sta scrivendo.

Caio Plinio saluta il suo Voconio Romano Ti mando, come mi chiedesti, il discorso con cui testé ringraziai l’ottimo principe iniziando il mio consolato; te l’avrei mandato anche se tu non me l’avessi chiesto. Desidero che in esso tu consideri, con la bellezza dell’argomento, anche la sua difficoltà. Negli altri scritti, infatti, la novità stessa avvince il lettore; qui invece tutto è ben noto, divulgato, già detto, sì che il lettore, quasi ozioso e senza curiosità, bada unicamente allo stile; e in questo, se esso solo è oggetto del giudizio, è assai difficile riuscire soddisfacenti. E vogliano gli dèi che almeno si ponga mente anche alla disposizione, ai passaggi, alle figure! Perché un’invenzione splendida e un’elocuzione magnifica si trovano talora anche presso i barbari, ma l’abile disposizione e la varietà delle figure sono proprie soltanto degli intelletti colti. [...] Ti saluto. (trad. di G. Vitali)

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PROFILO STORICO

Guida allo studio

1.

A quale genere oratorio appartiene il Panegyricus? 2. Quali indicazioni fornisce riguardo ai rapporti che si erano instaurati, in età traianea, fra imperatore e senato?

3. Su quale aspetto del testo si concentra l’attenzione dell’autore?

3 L’Epistolario Tra autenticità e letterarietà Nell’epistola I, 1 a Setticio Claro (dedicatario delle Vite dei Cesari di Svetonio), Plinio ci illustra l’origine dell’Epistolario: Setticio l’ha esortato a raccogliere e pubblicare le sue lettere; egli lo ha fatto non servato temporis ordine [...] sed ut quaeque in manus venerat, senza cioè attenersi alla successione cronologica ma a seconda che ciascuna gli capitava in mano, giacché non si trattava di un’opera storica. C’è dunque, per ammissione dell’autore, uno stadio intermedio tra la scrittura originaria e la pubblicazione: accanto alla selezione e al riordino del materiale, si può immaginare anche una revisione stilistica. Una o più letture a un pubblico selezionato (recitationes) permettono un ulteriore perfezionamento, in base alla reazione del pubblico [ T3 ONLINE]. Le lettere: tre tipologie In queste 247 lettere si possono rintracciare tre tipologie fondamentali: – lettere legate a motivazioni pratiche: raccomandazioni di amici, lettere accompagnate a regali o a raccolte di versi, accettazione di incarichi come avvocato: senza dubbio nascono come reale corrispondenza; – lettere nate dalle relazioni sociali: dai messaggi di cortesia alle riflessioni morali e letterarie, più ampie ed elaborate; – lettere corrispondenti agli excursus codificati dalla retorica quintilianea: laudes hominum, laudes locorum, narrazioni di fatti storici o di eventi straordinari; è probabile che alcune di esse abbiano un’origine puramente letteraria. Epistole “narrative” Le più celebri epistole pliniane a carattere “narrativo” sono quelle indirizzate a Tacito sulla morte di Plinio il Vecchio (VI, 16 e VI, 20; cap. 3, Vita e morte di Plinio il Vecchio nelle lettere del nipote ONLINE ), in cui campeggiano immagini efficacemente giustapposte, senza commenti esplicativi o anticipazioni che spezzino la tensione del racconto. Altri esempi felici sono VII, 27, sulle apparizioni di fantasmi al filosofo ateniese Artemidoro; IV, 11, sulla cupa vicenda della morte della vestale Massima Cornelia, sepolta viva per volere di Domiziano; IX, 33, dal tono brioso contrastante col finale tragico, su un delfino particolarmente espansivo con gli uomini. Non manca di efficacia l’epistola II, 20, che vede come protagonista l’avvocato Marco Aquilio Regolo, cacciatore di testamenti (un motivo, questo, già presente nella satira oraziana e nel Satyricon di Petronio [ T6, cap. 5]). Epistole “descrittive” Lettere descrittive corrispondenti al tipo della laus locorum sono l’epistola IX, 36 sulla villa toscana di Plinio [ T2], l’epistola VIII, 8 sulle fonti del Clitumno [ T4], e la VIII, 20 sulle isole galleggianti del lago di Vadimone, in cui s’incrociano i topoi retorici del locus amoenus e del mirabile. Queste lettere, pur 325 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

10. Le epistole di Plinio il Giovane

PROFILO STORICO

all’interno degli schemi retorici, non mancano di freschezza e limpidezza descrittiva. Emerge da esse, soprattutto, il sogno di una vita idealizzata, colta e signorile, fondata sui valori del dialogo e dell’umanità, che saprà trasmettersi, intatta, ai posteri. Un aspetto della fortuna dell’epistolario pliniano, d’altro canto, è proprio la suggestione esercitata dalle descrizioni di ville e giardini, in cui natura e arte collaborano nella creazione del locus amoenus. PERCORSO ANTOLOGICO

T 2 Dalla villa in Tuscis: la mia giornata-tipo Epistulae IX, 36 ITALIANO

Rivolgendosi all’amico Fusco, Plinio delinea in questo brano una giornata-tipo nella bellissima villa in Tuscis, alle falde dell’Appennino, durante i mesi estivi. La vita trascorre con quieta regolarità tra studi, esercizi fisici, letture, passeggiate, il pranzo serale con la moglie e pochi amici, le piacevoli conversazioni domestiche. Ne emerge un quadro di vita sobria e raffinata, tutta chiusa nel cerchio delle vicende private ma non scevra di una sua aristocratica esemplarità.

Gaio Plinio invia i suoi saluti al caro Fusco Mi chiedi con quali criteri io ordini la giornata d’estate nella mia villa di Toscana. Mi sveglio quando mi torna comodo, generalmente verso la prima ora di sole, spesso prima, raramente più tardi. Le finestre rimangono chiuse; infatti il silenzio ed il buio hanno un’efficacia straordinaria per sottrarmi alle distrazioni ed allora io, libero e tutto per me, non vado con le idee dietro agli occhi, ma con gli occhi dietro alle idee, dato che essi vedono gli stessi oggetti della mente tutte le volte che non ne vedono altri. Elaboro i miei pensieri sul tema che sto eventualmente trattando; li elaboro parola per parola, come se stessi scrivendo e dando l’ultima mano: si tratta di passi talora più brevi e talora più lunghi, a seconda che sono difficili o facili da redigere e da ricordare. Chiamo poi il mio stenografo e, lasciata entrare la luce, gli detto ciò che ho approntato; poi se ne va, lo richiamo di nuovo e di nuovo lo lascio in libertà. Tra le nove e mezza e le undici (il mio orario non si svolge con una precisione priva di oscillazioni), in conformità con le indicazioni del tempo, me ne vado sulla terrazza o nella galleria vetrata e continuo il filo delle riflessioni e della dettatura. Poi salgo in carrozza, ed anche là proseguo la stessa occupazione a cui ero dedito sia quando stavo a letto che quando passeggiavo; la mia concentrazione permane integra, giacché il cambiamento stesso le rinnova le forze. Me ne ritorno ad un breve pisolino poi faccio una passeggiata e successivamente leggo con voce incisiva ed energica un’orazione greca o latina non tanto per tenere in esercizio le corde vocali quanto per rinvigorire i polmoni; tuttavia anche le prime ne traggono un rinsaldamento non inferiore. Nuova passeggiata, frizioni con unguenti, ginnastica, bagno. Durante la cena, se sono presenti solo mia moglie o pochi amici, si legge un libro; dopo cena ascoltiamo la declamazione di qualche scena comica o le esecuzioni di qualche suonatore di lira. Poi passeggio con i miei dipendenti, alcuni dei quali sono forniti di una buona cultura. Così, chiacchierando sui più diversi argomenti si tira in lungo la sera e, quantunque la giornata sia molto lunga, giunge rapidamente al termine. 326 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Talora in questa trama avvengono alcuni mutamenti. Infatti, se ho indugiato lungamente a letto od ho protratto la passeggiata, soltanto dopo il riposo e la lettura faccio un giro, però non in carrozza, ma a cavallo, per recuperare tempo andando più in fretta. Sopraggiungono amici dalle cittadine dei dintorni e mi sottraggono una parte della giornata, e talvolta, quando sono stanco, mi vengono in aiuto, imponendomi una sospensione davvero opportuna. Di tempo in tempo vado a caccia, ma senza mai dimenticare le tavolette da scrivere, per poter riportare qualche bottino anche se non avessi preso nulla. Consacro pure del tempo ai coltivatori delle mie terre, anche se essi lo trovano troppo scarso: le loro lamentele paesane mi fanno meglio apprezzare le nostre lettere ed i nostri impegni cittadini. Stammi bene.

fonti

visive

Guida allo studio

La villa in Tuscis È lo stesso Plinio a descrivere in modo ampio e accurato (Ep. V, 6) la celebre villa in Tuscis che doveva sorgere (secondo un’ipotesi per altro non da tutti gli studiosi accettata) in località Campo Santa Fiora, nei pressi di Città di Castello, su un’altura ancor oggi denominata Colle Plinio, fra i torrenti Lama e Valmontone. Tutta la proprietà era cinta da un muro e circondata da una tenuta agricola a prati e vigneti. 1 Portico (porticus); 2 Sala da pranzo (triclinium); 3 Atrio (atrium); 4 Cortiletto (areola); 5 Tinello (cotidiana cenatio); 6 Camera (dormitorium cubiculum); 7 Camera con fontana; 8 Camera (cubiculum); 9 Piscina; 10 Locale del riscaldamento (hypocauston); 11 Spogliatoio (apodyterium) e sopra palestra (sphaeristerium); 12 Bagno freddo (cella frigidaria); 13 Piscina; 14 Bagno tiepido (cella media o tepidarium); 15 Bagno caldo (cella calidaria); 16 Scala; 17 Galleria (cryptoporticus); 18 Camere; 19 Galleria estiva; 20 Sala da pranzo; 21 Scala; 22 Camera; 23 Portico; 24 Banco semicircolare (stibadium); 25 Camera; 26 Alcova (zothecula).

1.

Quali criteri ha seguito l’autore nel raccogliere le proprie epistole per la pubblicazione?

(trad. di F.Trisoglio)

Pianta della villa in Tuscis secondo Winnefeld e Gothein.

2. Le lettere private di Plinio presentano tre tipologie fondamentali: indica quali.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

10. Le epistole di Plinio il Giovane

4 Il carteggio Plinio-Traiano PROFILO STORICO

Il libro X delle Epistole Si è già detto del carattere particolare del libro X. Vi si raccolgono, probabilmente senza alcuna selezione, le 121 lettere che Plinio scrisse a Traiano dapprima come senatore (X, 1-14), poi come governatore della Bitinia (X, 15-121), insieme alle risposte dell’imperatore. La questione cristiana Tra le lettere dalla Bitinia, particolare interesse storico hanno quelle sul problema politico-giudiziario rappresentato dai cristiani: Plinio, pur biasimando il Cristianesimo come superstitionem pravam, immodicam (X, 96, 8 [ T6]), è esitante sull’opportunità di condannare a morte persone d’ogni sesso ed età. Traiano lo invita a proseguire nella condotta intrapresa: non dare la caccia ai cristiani, interrogare le persone denunciate, condannare solo chi non rinnega la propria fede.

Cristo, affresco dalle Catacombe di San Callisto, Roma.

Guida allo studio

Un giudizio sprezzante Il giudizio sprezzante di Plinio (superstitio prava, immodica) coincide perfettamente con i giudizi espressi, in quegli stessi anni (e nei medesimi ambienti culturali) da Tacito, che parla di exitiabilis superstitio (Annales XV, 44, 3) e da Svetonio, che bolla il cristianesimo come una superstitio nova ac malefica (Nero 16, 2).

1.

Quale ruolo ufficiale riveste Plinio nel momento in cui scrive a Traiano sulla questione cristiana?

2. Qual è la posizione assunta da Plinio? 3. E quali le istruzioni impartite dal princeps?

5 Lo stile e i modelli delle Epistole Lo stile L’operazione letteraria di Plinio fa dell’epistolografia un genere aperto, disponibile alle più diverse modalità espressive. In primo luogo occorre separare i primi nove libri dal decimo: le lettere di quest’ultimo sono ufficiali, e in esse domina uno stile cancelleresco, ordinatamente ipotattico, mentre in Plinio generalmente prevale il gusto per la paratassi. Tra le epistole dei libri I-IX possiamo distinguere quelle narrative e descrittive, caratterizzate da un notevole nitore espressivo, e quelle più brevi e legate alle relazioni sociali, in cui l’espressione dei sentimenti e dei concetti è spesso complicata (a volte con esiti felici) da giochi verbali e dal caratteristico dire sentenzioso. 328 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

I modelli L’epistola pliniana nasce da un’ibridazione di più modelli: in primo luogo l’epistolario di Cicerone, per il legame con la vita pratica e affettiva, anche se in Plinio è molto più forte la patina letteraria, e molto più ristretto l’orizzonte tematico. Occorre tuttavia tener presenti anche i Sermones oraziani e le epistole filosofiche di Seneca (per la tendenza a concentrarsi su un unico tema, oltre che per l’insistenza su motivi morali cari allo scrittore: la brevità della vita, il desiderio di immortalità attraverso la letteratura), così come la poesia epigrammatica di Marziale (per l’attenzione alla società contemporanea e la frequenza delle sententiae finali, che riassumono in una battuta un carattere o una situazione).

Guida allo studio

1.

Vari sono i modelli letterari ai quali si possono ricondurre le epistole di Plinio: ricordi i più significativi?

2. Esistono differenze di ordine stilistico fra i primi nove libri di Plino e le lettere contenute nel carteggio fra Plinio e Traiano?

Plinio il Giovane

nel TEMPO

Nell’antichità Sulla scia dell’epistolario di resse gli epistolari di Cicerone e di Plinio. Nel Plinio, pur tenendo sempre presente il modello ciceroniano, molti altri scrittori pubblicarono raccolte di lettere più o meno fittizie ed elaborate, da Frontone (II sec.) a Simmaco (fine IV sec.), da Sidonio Apollinare (V sec.) a Cassiodoro (V-VI sec.). Ma nell’antichità fu molto più noto il Panegirico: tra i secoli III e IV si collocano i Panegyrici latini [ cap. 18.5], scritti da retori d’ambiente gallico sotto l’influsso del modello pliniano. Si ispirarono a Plinio per i loro panegirici anche Ausonio (IV sec.) e Claudiano (IV-V sec.).

Dal Medioevo al Rinascimento Nel Medioevo l’Epistolario ebbe una tradizione complessa: diversi manoscritti riportavano soltanto alcuni dei dieci libri, altri l’intero corpus. Questa confusione nella trasmissione del testo è comprensibile se si pensa che fino all’inizio del sec. XIV non si fece distinzione tra le figure e le opere di Plinio il Vecchio e di Plinio il Giovane. Proprio nel Trecento si ritornò a leggere con inte-

secolo successivo il Poliziano, nell’introduzione al suo epistolario, riecheggiò l’incipit della lettera dedicatoria di Plinio; Erasmo da Rotterdam, che pubblicò anch’egli una raccolta di epistole private, elogiò la neglegentia diligens delle lettere pliniane. In età umanistica, non mancano tracce della lettura di Plinio anche al di fuori della letteratura epistolografica, ad esempio nel proemio al trattato Della pittura di Leon Battista Alberti. Nel frattempo, il Panegirico rimase a lungo in ombra: scoperto da Giovanni Aurispa nel 1433, fu stampato meno frequentemente dell’Epistolario e non venne tradotto prima del Seicento.

Descrizione di ville e giardini: il locus amoenus Un aspetto particolare della fortuna dell’Epistolario è la suggestione esercitata dalle descrizioni di ville e giardini, in cui natura e ars collaborano nella creazione del locus amoenus: il ricordo delle ville pliniane sembra presente nel Decameron del Boccaccio, nel De re aedificatoria dell’Alberti, negli Asolani di Pietro Bembo.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

10. Le epistole di Plinio il Giovane

XVIII, l’Alfieri apprezzò «la bella e amabile indole» mostrata da Plinio nell’Epistolario; passato alla lettura del Panegirico, ne rimase così disgustato da scrivere lui stesso un “panegirico” di tono libertario: «Plinio mio, se tu eri davvero e l’amico, e l’emulo, e l’ammiratore di Tacito, ecco come avresti dovuto parlare a Traiano» (Vita, epoca IV, cap. XV).

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

rono l’indignazione del Manzoni per l’indifferenza con cui affrontava il problema «un magistrato, celebre per coltura d’ingegno e per dolcezza di carattere». Da ricordare infine l’«ode barbara» di Giosue Carducci Alle fonti del Clitum­no, in cui è evidente il ricordo dell’epistola VIII, 8 di Plinio [ T4].

BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Plinio Il Giovane, Epistolario – Panegirico a Traiano, introd. e commento a cura di L. Lenar, trad. di L. Rusca, Rizzoli BUR, Milano 1994. Una scelta significativa del corpus

epistolare si trova in: Plinio Il Giovane, 50 Lettere, a cura di G. Vannini, Mondadori, Milano 2019. Nelle stesse edizioni anche il Panegirico a Traiano, sempre a cura di G.

S

Le epistole di Plinio il Giovane

Sintesi

PROFILO STORICO

Tra Sette e Ottocento Alla fine del sec. Le epistole sui cristiani (X, 96-97 [ T6]) suscita-

Nativo di Como come lo zio Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio per distinguerlo dal nipote, Plinio il Giovane inizia la carriera politica nell’età di Domiziano, giungendo alle massime cariche pubbliche in quella di Traiano. Proprio a Traiano dedica un Panegirico intessuto di lodi e di virtuosismi stilistici, nel quale auspica un’intesa politica fra princeps e senato. Quando è libero da impegni, si dedica agli ozi letterari, componendo poesie di gusto leggero e manierato, e scrivendo epistole di splendida fattura formale. Fra i suoi interlocutori privilegiati è

Vannini, Milano 2019. � Un testo di riferimento, fra gli studi pliniani, resta P.V. Cova, La critica letteraria di Plinio il Giovane, La Scuola, Brescia 1966.

Tacito, al quale resta legato fino alla morte da una lunga amicizia. Dalle epistole trapela la vita signorile e raffinata di un uomo che si divide fra le ville di campagna e i palazzi di città, ma che sa anche svolgere con scrupolo e lealtà le funzioni pubbliche che gli sono affidate. Durante il governatorato in Bitinia, ha modo di scambiare con l’imperatore Traiano numerose lettere sulla questione cristiana, dalle quali si evince l’atteggiamento di tolleranza assunto dal mondo romano nei confronti delle nuove religioni.

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Percorso antologico T1

Inviando a un amico il Panegirico di Traiano (Epistulae III, 13)

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T2

Dalla villa in Tuscis: la mia giornata-tipo (Epistulae IX, 36)

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T3

Un rito mondano: le recitationes (Epistulae I, 13)

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T4

Le fonti del Clitumno (Epistulae VIII, 8)

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T5

Elogio di Traiano, il migliore degli imperatori possibili (Panegyricus Traiano imperatori 64)

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T6

Carteggio Plinio-Traiano: due lettere sui cristiani d’Asia (Epistulae X, 96-97)

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Un rito mondano: le recitationes

Epistulae I, 13

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T 4 Le fonti del Clitumno Epistulae VIII, 8 LATINO ITALIANO

Poste nella dolce pianura che si stende tra Foligno e Spoleto, le sorgenti del Clitumno furono celebrate per la loro bucolica bellezza fin dall’antichità, tanto da costituire una sorta di vivente locus amoenus. La retorica antica prescriveva, per i brani di carattere descrittivo, l’evidentia, cioè la capacità di rappresentare al vivo una cosa o una persona, in modo che al lettore paresse di averla dinanzi agli occhi. Fedele a tale canone stilistico, Plinio descrive il luogo con puntualità ed esattezza, presentando una serie di istantanee ricche di freschezza e di nitore. Prevale, sull’insieme, lo sguardo signorile ed elegante del viaggiatore, che incornicia il paesaggio tra le inevitabili formule richieste dal codice epistolare.

C. Plinius Romano1 suo s. [1] Vidistine aliquando Clitumnum fontem? Si nondum (et puto nondum: alioqui narrasses mihi), vide, quem ego (paenitet tarditatis) proxime vidi! [2] Modicus collis adsurgit antiqua cupresso nemorosus et opacus. Hunc subter exit fons et exprimitur pluribus venis, sed imparibus, eluctatusque, quem facit 1. Romano: Voconio Romano, insigne oratore del tempo, di origine ispanica: a lui sono indirizzate ben n ove l e t t e r e dell’epistolario pliniano.

Caio Plinio invia i suoi saluti al caro Romano1 [1] Non hai visto la fonte del Clitumno? In caso negativo (e credo che il caso sia negativo, altrimenti me l’avresti descritta), eccotela come l’ho vista io recentemente (e mi spiace di aver tardato tanto!). [2] S’innalza una collinetta coperta di un fitto ed ombroso bosco di antichi cipressi. Dalle sue falde scaturisce una fonte che fuoriesce per diverse vene disuguali e che, dopo di aver superato l’ondeggiamento ribollente che essa stessa produce, 331 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

10. Le epistole di Plinio il Giovane

PERCORSO ANTOLOGICO

gurgitem, lato gremio patescit purus et vitreus, ut numerare iactas stipes et relucentis calculos possis. [3] Inde non loci devexitate, sed ipsa sui copia et quasi pondere impellitur. Fons adhuc et iam amplissimum flumen atque etiam navium patiens, quas obvias quoque et contrario nisu in diversa tendentis transmittit et perfert, adeo validus, ut illa, qua properat ipse, quamquam per solum planum, remis non adiuvetur, idem aegerrime remis contisque superetur adversus. [4] Iucundum utrumque per iocum ludumque fluitantibus, ut flexerint cursum, laborem otio, otium labore variare. Ripae fraxino multa, multa populo vestiuntur, quas perspicuus amnis velut mersas viridi imagine adnumerat. Rigor aquae certaverit nivibus, nec color cedit. [5] Adiacet templum priscum et religiosum: stat Clitumnus ipse amictus ornatusque praetexta; praesens numen atque etiam fatidicum indicant sortes.2 Sparsa sunt circa sacella complura totidemque di. Sua cuique veneratio, suum nomen, quibusdam vero etiam fontes. Nam praeter illum quasi parentem ceterorum sunt minores capite discreti; sed flumini miscentur, quod ponte transmittitur.

2. sortes: tessere contenenti i responsi dell’oracolo consultato, e che venivano estratte a sorte.

si espande in un ampio seno, così tersa e cristallina che vi si possono contare le monete gettate e le pietruzze luccicanti. [3] Di lì le acque procedono non perché il terreno sia declive, ma in forza della loro stessa quantità e, si potrebbe quasi dire, del loro peso. È ancora una fontana ed è già un vasto fiume, capace perfino di imbarcazioni, alle quali offre lo spazio per il transito e che accompagna per tutto il loro tragitto, anche quando si vengono incontro e mirano a mete opposte viaggiando in direzione inversa; la sua corrente è così gagliarda che, se una barca avanza nel senso del flusso, non richiede l’ausilio dei remi, anche se la superficie del terreno è pianeggiante, mentre, per vincerne la spinta contraria, deve fare gravissimi sforzi con remi e stanghe. [4] È una doppia soddisfazione, per coloro che amano il divertimento e lo svago del canottaggio, alternare la fatica al riposo ed il riposo alla fatica a seconda dell’inversione di rotta. Le sponde sono rivestite di molti frassini e di molti pioppi che il fiume, nella sua trasparenza, lascia contare nei loro verdi riflessi come se fossero sommerse. L’acqua è così fredda che potrebbe gareggiare con la neve, alla quale non è inferiore neppure nel suo luminoso barbaglio. [5] Accanto si eleva un tempio antico e venerabile: vi si erge in piedi il Clitumno in persona, rivestito ed ornato della pretesta; che il nume vi dimori e che riveli gli arcani del destino è testimoniato dalla presenza delle sorti.2 All’intorno sono sparpagliati parecchi santuarietti, ciascuno con la sua divinità. Ognuno di essi riscuote una sua particolare devozione, ognuno ha una sua fama, alcuni posseggono anche una loro fonte. Infatti oltre a quella che si potrebbe chiamare la madre di tutte le altre, ce ne sono di quelle più piccole, che sgorgano in luoghi separati: tutte però confluiscono nel fiume, che è transitabile mediante un ponte.

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PERCORSO ANTOLOGICO

[6] Is terminus sacri profanique. In superiore parte navigare tantum, infra etiam natare concessum. Balineum Hispellates, quibus illum locum divus Augustus dono dedit, publice praebent, praebent et hospitium. Nec desunt villae, quae secutae fluminis amoenitatem margini insistunt. [7] In summa nihil erit, ex quo non capias voluptatem. Nam studebis quoque et leges multa multorum omnibus columnis, omnibus parietibus inscripta,3 quibus fons ille deusque celebratur. Plura laudabis, non nulla ridebis; quamquam tu vero, quae tua humanitas, nulla ridebis. Vale.

[6]

Questo costituisce la linea di separazione tra la zona sacra e quella profana. Nella parte superiore è permesso solo andare in barca, in quella inferiore si è autorizzati anche a nuotare. Gli abitanti di Spello, ai quali il divino Augusto diede in dono quel luogo, mettono a disposizione un bagno a spese del comune e mettono a disposizione anche un alloggio. Non mancano poi delle ville le quali, allettate dall’incanto del fiume, si innalzano sulle sue sponde. [7] Per concludere, non ci sarà nulla che non ti sia causa di compiacimento. Infatti avrai anche modo di accrescere le tue conoscenze letterarie e leggerai molte composizioni di svariati autori, incise su tutte le colonne e su tutte le pareti,3 nell’intento di esaltare quella fonte ed il suo dio. Molte cose ti parranno eccellenti, talune ti faranno ridere; sebbene la tua generosa comprensione sia tale che non ti lascerà ridere di nulla. Stammi bene. (trad. di F. Trisoglio) 3. multa... inscripta: probabili ex-voto, alcuni dei quali ingenui e perciò tali da

T5

muovere al riso il colto destinatario di Plinio.

Elogio di Traiano, il migliore degli imperatori possibili

ONLINE

Panegyricus Traiano imperatori 64

Giovanni Battista Piranesi, Tempio di Clitumno, tra Foligno e Spoletti, 1748. Washington DC, National Gallery of Art.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

10. Le epistole di Plinio il Giovane

T 6 Carteggio Plinio-Traiano: due lettere sui cristiani d’Asia

Epistulae X, 96-97 ITALIANO

Le due lettere di Plinio e di Traiano sulla questione cristiana costituiscono, anche per l’eccezionalità degli scriventi, un documento storico e culturale di straordinaria importanza. La lettera di Plinio, intanto, ci dà notizia della vasta diffusione delle comunità cristiane orientali (par. 9, dove si parla di una pericolosa «epidemia»), fino a pochi anni prima ancora confuse con quelle giudaiche; ci consente inoltre di documentare, da un osservatorio equilibrato ed imparziale, i modi di vita e i culti praticati dai cristiani dell’epoca (par. 7). Entrambe le lettere testimoniano infine la posizione che il paganesimo colto aveva assunto nei confronti del cristianesimo, sia sul piano giuridico (si vedano le formule, improntate a prudenza e tolleranza, di Traiano) sia su quello politico (il problema, nella prospettiva romana, è di ordine pubblico, non religioso).

PERCORSO ANTOLOGICO

Gaio Plinio all’imperatore Traiano [1] È mia abitudine, o signore, deferire al tuo giudizio tutti i casi sui quali rimango incerto. Chi infatti sarebbe più indicato per dirigere la mia titubanza o per ammaestrare la mia incompetenza? Non ho mai preso parte a nessun’istruttoria sul conto dei Cristiani: pertanto non so quali siano abitualmente gli oggetti ed i limiti sia della punizione che dell’inchiesta. [2] Sono stato fortemente in dubbio se si debba considerare qualche differenza di età, oppure se i bambini nei più teneri anni vadano trattati alla stessa stregua degli adulti che hanno raggiunto il fiore della forza; se sia d’uopo dimostrarsi indulgenti davanti al pentimento, oppure se a chi sia stato effettivamente cristiano non serva a nulla l’avervi rinunciato; se si debba punire il nome in sé stesso, anche quando sia immune da turpitudini, oppure le turpitudini connesse con il nome. Provvisoriamente, a carico di coloro che mi venivano denunciati come cristiani, ho seguito questa procedura. [3] Li interrogavo direttamente se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda volta ed una terza volta, minacciando loro la pena capitale: se perseveravano, ordinavo che fossero messi a morte. Ero infatti ben convinto che, qualunque fosse l’argomento della loro confessione, almeno la loro caparbietà e la loro inflessibile cocciutaggine dovevano essere punite. [4] Ci sono stati degli altri affetti dallo stesso genere di frenesia, che, nella loro qualità di cittadini romani, ho condannati ad essere trasferiti a Roma. Ben presto, siccome il rimestare tali questioni produsse automaticamente, come ovvia conseguenza, un accrescersi delle imputazioni, mi sono trovato dinanzi ad un certo numero di situazioni particolari. [5] Si pubblicò un manifesto anonimo che conteneva un elenco di molti individui. Mi parve conveniente rimandare in libertà quelli che negavano di essere cristiani o di esserlo stati, quando invocavano gli dèi ripetendo le frasi che io formulavo per primo e veneravano, con un sacrificio d’incenso e di vino, la tua immagine che a questo fine avevo fatta portare insieme alle statue degli dèi, ed inoltre quando lanciavano imprecazioni contro Cristo: sono tutti atteggiamenti ai quali è opinione comune che non si possano indurre quanti sono effettivamente cristiani. [6] Altri, che erano stati denunziati da un delatore, dapprima proclamarono di essere cristiani, ma poco dopo lo negarono: lo erano bensì stati, ma avevano 334 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

smesso di esserlo, alcuni da tre anni, altri da un numero d’anni ancora maggiore, qualcuno addirittura da venti. Anche tutti costoro espressero la loro venerazione alla tua immagine ed alle statue degli dèi e lanciarono imprecazioni contro Cristo. [7] Attestavano poi che tutta la loro colpa, o tutto il loro errore, consisteva unicamente in queste pratiche: riunirsi abitualmente in un giorno stabilito prima del sorgere del sole, recitare tra di loro a due cori un’invocazione a Cristo considerandolo dio ed obbligarsi con giuramento, non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né aggressioni a scopo di rapina, né adultèri, a non eludere i proprii impegni, a non rifiutare la restituzione di un deposito, quando ne fossero richiesti. Dopo aver terminato questi atti di culto, avevano la consuetudine di ritirarsi e poi di riunirsi di nuovo per prendere un cibo, che era, ad ogni modo, quello consueto ed innocente; avevano però sospeso anche quest’uso dopo il mio editto con il quale, a norma delle tue disposizioni, avevo vietato l’esistenza di sodalizi. [8] Ciò tanto più mi convinse della necessità di indagare che cosa ci fosse effettivamente di vero, attraverso due schiave, che venivano chiamate diaconesse, ricorrendo anche alla tortura. Non ho trovato nulla, all’infuori di una superstizione balorda e squilibrata. [9] Pertanto ho aggiornato l’istruttoria e mi sono affrettato a chiedere il tuo parere. Mi è parsa infatti una questione in cui valesse la pena di domandare il tuo punto di vista, soprattutto in considerazione del gran numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo: molti di ogni età, di ogni ceto sociale, perfino di entrambi i sessi vengono trascinati, e lo verranno ancora, in una situazione rischiosa. L’epidemia di questa deleteria superstizione è andata diffondendosi non solo negli agglomerati urbani, ma anche nei villaggi e nelle campagne; però sono d’avviso che si possa ancora bloccare e riportare sulla giusta via. [10] Almeno risulta assodato che i templi, i quali erano ormai quasi ridotti all’abbandono, hanno ricominciato ad essere frequentati, che le cerimonie sacre, da lungo tempo sospese, vengono di nuovo celebrate e che, un po’ dovunque, si vende la carne delle vittime, per la quale finora capitava assai raramente di trovare un compratore. Da questi fatti risulta facile pensare quale massa di gente possa essere ricuperata dall’errore, qualora le si lasci la possibilità di ravvedersi. Traiano a Plinio [1] Caro Plinio, la pista che hai seguita nell’istruire i processi contro quelli che ti sono stati deferiti come cristiani è proprio quella alla quale dovevi attenerti. Non si può infatti stabilire una norma generale che assuma quello che si potrebbe chiamare un carattere rigido. Non si deve prendere l’iniziativa di ricercarli; qualora vengano denunciati e convinti, bisogna punirli, con quest’avvertenza però, che, chi neghi di essere cristiano e lo faccia vedere con i fatti, cioè tributando atti di culto ai nostri dèi, quantunque per il passato abbia suscitato sospetti, ottenga indulgenza in grazia del suo ravvedimento. [2] Riguardo poi alle denunce anonime, non debbono essere prese in considerazione in nessun procedimento giudiziario: testimoniano una prassi abominevole che non s’addice per nulla ai nostri tempi. (trad. di F. Trisoglio)

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

MAPPA LE EPISTOLE DI PLINIO IL GIOVANE

Gaio Plinio Cecilio Secondo (Plinio il Giovane) 61 o 62 – 112 o 113 d.C.

• •

nasce a Novum Comum (Como) viene adottato dallo zio Plinio il Vecchio che lo conduce a Roma – studia retorica con Quintiliano – esercita la professione di avvocato – riveste cariche ufficiali – stringe amicizia con Tacito

10 libri di Epistole – libri I-IX: 247 lettere private scritte dal 96, pubblicate fra 105 e 110 – libro X: 121 lettere di corrispondenza PlinioTraiano, pubblicate postume versiculi e nugae (solo pochi frammenti) Panegirico di Traiano (100 d.C.)

Le opere

• •

• • Tipologie e caratteri delle Epistole

• • •

• Modelli e stile

lettere legate a occasioni pratiche o alle relazioni sociali epistole narrative – racconto di eventi straordinari: l’eruzione del Vesuvio, apparizioni di fantasmi epistole descrittive – descrizioni di ville e giardini – laudes locorum, loci amoeni vita idealizzata e signorile letterarietà

ibridazione di più modelli – epistolario ciceroniano – epistole filosofiche di Seneca – Sermones oraziani – epigrammi di Marziale libri I-IX: nitore espressivo, giochi verbali, sententiae, paratassi; nel libro X stile cancelleresco, ipotassi

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Completamento

Quesiti a scelta multipla

1 Inserisci i dati mancanti della biografia pliniana. Plinio il Giovane nacque a da una facoltosa famiglia locale nel 61 o nel 62 d.C. Dopo la morte del padre, fu adottato da Plinio il Vecchio, suo zio materno, che lo portò con sé a Roma. Qui studiò retorica sotto la guida di . Iniziò la carriera politica all’epoca di , rivestendo numerose cariche ufficiali: fu nel 100 e governatore in dal 111; la morte va collocata nel . Esercitò assiduamente la professione di : insieme a , al quale era legato da una profonda amicizia, vinse il processo intentato dalla provincia al proconsole Mario Prisco. Scrisse libri di Epistole, l’ultimo dei quali comprendente la corrispondenza con . Della sua attività oratoria, ci è pervenuta una sola orazione, il , che Plinio pronunciò in senato nel settembre del 100. p._____/12

Vero / Falso

3

Indica il completamento corretto.

1. Della vasta produzione oratoria di Plinio possediamo ■ quattro orazioni civili ■ una gratiarum actio ■ una gratiarum actio e un’orazione politica ■ l’orazione in Marium Priscum 2. Plinio compose un Panegirico dell’imperatore ■ Traiano ■ Domiziano ■ Nerva ■ Adriano 3. In una lettera a Traiano, Plinio definisce il cristianesimo ■ superstitio prava, immodica ■ exitiabilis superstitio ■ superstitio immodica, malefica ■ superstitio nova ac malefica 4. Il X libro dell’epistolario pliniano contiene ■ le lettere scritte all’imperatore Traiano ■ la corrispondenza fra Plinio e Traiano ■ le lettere scritte agli imperatori Traiano e Adriano ■ la corrispondenza fra Plinio e Domiziano p._____/4

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Plinio fu compagno di studi del futuro storico Tacito b. Fu console durante il principato di Nerva c. Scrisse versiculi e nugae alla maniera dei neoteroi d. Le epistole pliniane sono disposte in ordine cronologico e. Numerose lettere di Plinio corrispondono al modello delle laudes locorum f. Scrisse due lettere indirizzate a Quintiliano sull’eruzione del Vesuvio g. L’epistolario pliniano si fonda su un unico modello, le Epistole di Cicerone h. Scrisse numerose lettere sul tema delle ville e dei giardini i. Molte delle lettere di Plinio sono biglietti di raccomandazione

V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F

p._____/9

Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Il cursus honorum di Plinio il Giovane. 2. Il rapporto fra princeps e senato nel Panegirico di Plinio. 3. Le tipologie delle epistole private di Plinio. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. La questione cristiana nella corrispondenza con Traiano. 2. Struttura e caratteri dell’epistolario pliniano. 3. Esempi di lettere narrative e di lettere descrittive nei primi nove libri delle Epistulae.

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Le epistole di Plinio il Giovane

Verifica finale


11 La storiografia di Tacito 1 La vita e le opere La vita Le notizie che possediamo sulla vita di Cornelio Tacito sono assai scarse, per lo più ricavate da qualche raro passo della sua stessa opera, o dagli accenni contenuti nelle lettere dell’amico Plinio il Giovane. Non esistono biografie antiche: il praenomen (Publio, Gaio?) è incerto, come pure i luoghi e le date di nascita e di morte. Si è propensi a ritenere che fosse originario delle Gallie, regione dove appaiono diffusi sia il nomen dello scrittore, Cornelius, sia il cognomen Tacitus. Sulla base di una lettera di Plinio il Giovane, la data di nascita è stata collocata intorno agli anni 55-57: Plinio, nato nel 61 o 62, sostiene infatti che egli e Tacito erano aetate, dignitate propemodo aequales, non esattamente coetanei; aggiunge inoltre che l’amico era già celebre quando egli era ancora adulescentulus e desiderava ardentemente seguirne le orme (Ep. VII, 20, 3 [ Plinio scrive a Tacito: due lettere ONLINE]). Tacito compì il tradizionale corso degli studi che in Roma veniva seguito dai giovani destinati ai pubblici honores, cioè alla carriera politica. La famiglia era certo agiata e ben introdotta nella vita della capitale, come documentano l’amicizia con 338 © Casa Editrice G. Principato


Principatus ac libertas Ora finalmente ci ritorna il coraggio; ma benché sùbito, all’inizio del suo felicissimo regno, Nerva Cesare abbia conciliato insieme due cose un tempo incompatibili, il principato e la libertà, e benché Nerva Traiano accresca di giorno in giorno la felicità presente, e la sicurezza dei cittadini non sia soltanto speranza e desiderio, ma valida fiducia nel realizzarsi di questo, tuttavia per la naturale debolezza umana i rimedi operano meno prontamente dei mali; e come i nostri corpi crescono con lentezza, si estinguono a un tratto, così riesce più facile soffocare l’attività degli ingegni e l’emulazione che richiamarle in vita: subentra infatti la dolcezza dell’ignavia stessa, e l’inerzia, dapprima odiosa, alla fine si ama. (Agricola, prooem. 3, 1, trad. di A. Arici)

sine ira et studio Nunc demum redit animus

acrior est Germanorum libertas

libido adsentandi

optimum quemque adoptio inveniet

Plinio il Giovane e soprattutto le nozze, nel 78, con la figlia di Giulio Agricola, uno degli uomini più in vista del tempo. Probabilmente anche grazie all’appoggio del suocero, Tacito poté iniziare dopo il 78 il cursus honorum ed entrare a far parte del senato romano. Questore forse già sotto Vespasiano, edile o tribuno della plebe durante il regno di Domiziano, nell’88 raggiunse la pretura (Ann. XI, 1) e fu membro dell’antichissimo collegio sacerdotale dei quindecemviri (Ann. XI, 11). Dall’89 al 93 lasciò Roma con la moglie (Agr. 45), forse con l’incarico di propretore in Gallia Belgica, o di legato legionario in Germania. Durante gli ultimi anni di Domiziano si ritirò dall’attività pubblica, che riprese solo nel 97 (o 98), quando fu consul suffectus sotto Nerva. Nel 100 sostenne insieme a Plinio l’accusa dei provinciali d’Africa contro il governatore Mario Prisco, reo di concussione. Forse dopo il 111 ebbe da Traiano il proconsolato d’Asia, come attesterebbe un’iscrizione ritrovata a Mylasa, nella Caria. Dei suoi ultimi anni non abbiamo notizie: ma un passo degli Annales (II, 61, 2), in cui si dice che ora 339 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

l’impero si estende fino al Golfo Persico (nunc Rubrum ad mare patescit), allude molto probabilmente alle nuove conquiste di Traiano in Mesopotamia (115 d.C.): si pensa dunque che Tacito sia morto dopo il 117, all’inizio del regno di Adriano. PROFILO STORICO

Le opere Considerato da sempre, insieme a Livio, il massimo storico della letteratura latina, Tacito è autore di due brevi monografie (Agricola e Germania) pubblicate entrambe nel 98, e di due vaste opere annalistiche (Historiae; Annales), giunte gravemente mutile, nelle quali si narravano gli eventi del principato dalla morte di Augusto a quella di Domiziano (14-96 d.C.). Non pervenute sono invece le orazioni: Tacito si dedicò sia al genere giudiziario sia a quello epidittico. Dalle testimonianze pliniane (Ep. II, 11) apprendiamo che l’eloquenza di Tacito si imponeva per la sua nobile, maestosa solennità (semnótes). Sul tema dell’oratoria e della sua decadenza è centrato il Dialogus de oratoribus, da secoli oggetto di discussione per quel che riguarda sia l’attribuzione a Tacito (da alcuni studiosi tuttora negata) sia la data di composizione (taluni la considerano un’opera giovanile, altri di poco posteriore alle due monografie). Problematici, come si vedrà, sono del resto anche il numero dei libri e le date di composizione delle due opere maggiori, le Historiae e gli Annales.

Le opere di Tacito Opera

Data di composizione e/o di pubblicazione

Genere

Dialogus de oratoribus (discussa attribuzione)

Incerte le date di composizione e di pubblicazione, collocate intorno all’80 o nel 102 d.C.

Trattato di argomento 1 retorico in forma di dialogo

Pervenuto in buona parte, con una vasta lacuna centrale

Agricola

Composta nel 97 e pubblicata nel 98 d.C.

Monografia storicobiografica

1

Integralmente pervenuta

Germania

Composta e pubblicata nel 98 d.C.

Monografia di argomento geoetnografico

1

Integralmente pervenuta

Historiae

Composta fra il 100 e il 110 d.C.

Storiografia annalistica

14 (secondo altri 12)

Libri I-IV, V (capp. 1-26)

Annales

Composta a partire dal 111 d.C.

Storiografia annalistica

16 (secondo altri 18)

Libri I-IV, V (capp. 1-5), VI (con lacuna iniziale), XI (capp. 1-38), XII-XV, XVI (capp. 1-35)

Guida allo studio

Numero dei libri

1.

Esponi le principali notizie che possediamo sulla vita di Tacito. 2. Elenca in ordine cronologico, ove possibile

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Trasmissione del testo

con la data di pubblicazione, le opere tacitiane integralmente o parzialmente pervenute. Quali opere sono invece perdute?


PROFILO STORICO

2 Il Dialogus de oratoribus Problemi di attribuzione e di datazione L’attribuzione a Tacito del Dialogus è stata messa in dubbio fin dal XVI secolo: lo stile, palesemente improntato al modello neociceroniano propugnato da Quintiliano e dalla sua scuola, appariva troppo distante da quello aspro, irregolare e asimmetrico delle opere storiche tacitiane. Oggi l’attribuzione viene generalmente accettata: le perplessità sorte in merito allo stile vengono superate inquadrando l’opera entro i confini del genere (il trattato di argomento retorico in forma dialogica), vincolato a un ben preciso codice espressivo e a un modello fondamentale (Cicerone). Continua invece a costituire un problema, come già si è accennato, la data di composizione: alcuni studiosi la collocano intorno all’80, cioè nel periodo in cui il dialogo viene espressamente ambientato (addebitando in tal caso all’età giovanile le scelte stilistiche classicheggianti); altri la spostano al primo decennio del nuovo secolo, basandosi sulla dedica a Fabio Giusto, console nel 102 (ma la dedica potrebbe essere stata aggiunta al momento della pubblicazione). Argomento del Dialogus L’opera, strutturata in forma dialogica, riferisce una conversazione tra diversi interlocutori; inizialmente il dibattito verte su una prima questione: se sia cioè da considerarsi più nobile e vantaggioso l’esercizio dell’eloquenza o quello della poesia; ma poi si sposta sull’indagine delle cause dell’attuale decadenza dell’oratoria, per concludersi con l’intervento di Curiazio Materno, presumibilmente il portavoce dell’autore, che addita nella perdita della libertà politica la vera causa del fenomeno.

Dialogus de oratoribus Struttura e contenuti dell’opera ▰ Una conversazione riferita L’autore, seguendo

la tradizione dei dialoghi ciceroniani d’argomento filosofico e retorico (si pensi in particolare al De oratore), afferma di riferire una conversazione cui egli, ancor molto giovane, aveva assistito nella casa di Curiazio Materno, oratore e poeta tragico, correndo il sesto anno del principato di Vespasiano (74-75 d.C.). Interlocutori del dialogo sono, oltre allo stesso Materno, i maggiori oratori dell’epoca: Marco Apro, Giulio Secondo e Vipstano Messalla.

▰ Eloquenza e poesia Dapprima Apro rimprovera Materno di tralasciare l’attività più nobile, piacevole e proficua, cioè l’eloquenza, di cui tesse un altissimo elogio, per dedicarsi alla poesia, che fra gli altri svantaggi (non ultimo il pericolo di «offendere le orecchie dei potenti») presenta quello di costringere i suoi cultori ad una vita solitaria e appartata. Materno replica con un elogio della poesia: essa sola favorisce la vera libertà dello spirito e concede di trascorrere un’esistenza serena, «lontano dalle inquietudini e dagli affanni» che l’attività forense inevitabilmente comporta.

▰ Dibattito sulla decadenza dell’oratoria Sopraggiunge Messalla, che sposta la questione sulle cause dell’attuale decadenza dell’oratoria. Apro nega che l’eloquenza moderna, più raffinata e brillante, sia inferiore a quella degli antichi. Messalla afferma invece la superiorità degli oratori del passato, additando le cause dell’involuzione nell’abbandono dei sistemi educativi di un tempo e nell’incompetenza dei maestri. I giovani, che allora facevano pratica nei tribunali e nel foro, ormai si esercitano soltanto in dibattimenti fittizi, nel chiuso delle scuole di retorica.

▰ La grande eloquenza fiorisce nella libertà

A questo punto si apre una lacuna che vari studiosi suppongono piuttosto estesa. Segue l’intervento conclusivo di Curiazio Materno, il quale individua le vere cause, a suo dire politiche, non già morali o tecniche, della scomparsa della grande eloquenza: quest’ultima non può fiorire se non in tempi di libertà politica, libertà che d’altronde porta con sé, inevitabilmente, la licenza e il disordine e anche il sangue delle discordie civili. In uno stato, viceversa, tranquillo e bene ordinato, quale può garantire soltanto l’istituzione del principato, i cittadini godono i vantaggi della pace: ma la fiamma dell’eloquenza non può far altro che spegnersi, per mancanza di alimento [ T1]

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

PROFILO STORICO

Il Dialogus e l’ideologia tacitiana Le tesi di Curiazio Materno coincidono con quelle esposte da Tacito nelle opere storiche, e rappresentano con ogni evidenza il centro ideologico del dialogo. L’autore accetta la realtà del principato, riconoscendone l’inevitabilità di fronte alla degenerazione dell’antica libertas in licentia (40, 2); d’altra parte non nasconde la sua profonda ammirazione per gli uomini, le tradizioni e i valori spirituali della libera repubblica, pur consapevole di guardare a un passato che non potrà mai più ritornare. Di questo complesso stato d’animo testimoniano le grandiose immagini di vitalità e di splendore associate alla rievocazione della lotta politica in età repubblicana [ T1]. Tuttavia, come Tacito nell’Agricola, l’autore del Dialogus non rinuncia a delineare (per bocca dello stesso Curiazio Materno) un ideale di vita che consenta di salvaguardare la propria dignità e libertà spirituale anche in tempi di servilismo e di adulazione. Viva e attuale, in ogni caso, appare l’esigenza di trovare un equilibrio fra gli antichi mores, patrimonio ideale del ceto senatorio, e le nuove forme del potere: tema privilegiato e costante della riflessione storiografica tacitiana.

Guida allo studio

1.

Quali sono le ragioni che inducono ad accreditare o, viceversa, a negare l’attribuzione a Tacito del Dialogus de oratoribus? 2. Discussa è anche la data di composizione dell’opera: quali sono le proposte avanzate dagli studiosi?

3. Riassumi le tesi esposte dagli interlocutori del Dialogus sulla decadenza dell’oratoria contemporanea. Con quale di essi si identifica Tacito, ammesso che sia l’autore dell’opera?

3 Le monografie: Agricola e Germania Agricola Datazione e argomento dell’opera I dati in nostro possesso autorizzano a credere che l’Agricola (indicato nei manoscritti con il titolo De vita et moribus Iulii Agricolae o De vita Iulii Agricolae) fosse concluso entro il 97, negli ultimi mesi dell’impero di Nerva, e pubblicato l’anno successivo. In questa sua prima monografia Tacito ripercorre la vita, i costumi, le imprese e la morte del suocero Giulio Agricola; ma l’opera non si esaurisce in un mero resoconto biografico. Il genere letterario Opera ambiziosa e complessa, l’Agricola non si lascia facilmente inquadrare entro gli schemi di un unico genere letterario: alcuni la considerano una biografia encomiastica, altri una laudatio funebris; altri ancora un libello politico. Non mancano inoltre elementi tipici della monografia storica. a) laudatio funebris Tratti caratteristici dell’orazione funebre sono presenti nell’esordio e nella parte conclusiva dell’opera: l’epilogo, in particolare, è strutturato come una vera e propria commemorazione del defunto, al quale l’autore non manca di rivolgere un’apostrofe dai toni fervidi e commossi. 342 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

b) biografia Non meno evidente è l’appartenenza dell’Agricola al genere biografico: del protagonista si danno infatti, secondo le consuetudini del genere, il luogo di nascita, le origini familiari, il ritratto fisico e morale, la formazione, le gesta, la morte e le esequie. c) exitus inlustrium virorum C’è tuttavia un’ulteriore indicazione che può meglio illustrare il carattere specifico del libro: nell’accingersi a narrare la vita del defunto, l’autore fa riferimento alle biografie di Trasea Peto e di Elvidio Prisco composte da Aruleno Rustico e da Erennio Senecione pochi anni prima. Tali biografie, oggi perdute, si richiamavano alla tradizione degli exitus inlustrium virorum (le morti degli uomini illustri), il cui modello fondamentale erano gli scritti di Platone sulla morte di Socrate. Anche Tacito, nell’incipit dell’Agricola, annuncia di voler imitare quanti hanno tramandato alla memoria dei posteri clarorum virorum facta moresque (Agr. 1, 1 [ T2]). d) pamphlet politico La laudatio funebris di Giulio Agricola esce allora dall’ambito privato e familiare per acquisire un carattere pubblico ed esemplare: Agricola è uno di quegli uomini che operarono durante il principato di Domiziano e che seppero meritare, in un’epoca oscura, di essere ricordati per la loro intatta virtù. Che Tacito si serva di una biografia per riflettere sul presente di Roma risulta d’altronde evidente fin dal proemio [ T2], modulato nei toni di un aspro e incisivo pamphlet politico: prima la denuncia dei crimini di Domiziano; poi l’elogio del principato di Nerva e del suo successore, M. Ulpio Traiano. e) monografia storica Tipici del genere storiografico (si pensi in particolare alle due monografie sallustiane) sono infine alcuni elementi di notevole rilievo sul piano strutturale: il proemio, nel quale si dichiarano le ragioni dell’opera [ T2]; l’excursus geo-etnografico sui Britanni; la descrizione della feroce battaglia che oppone i Caledoni di Calgaco ai Romani; i due discorsi simmetricamente contrapposti dello stesso Calgaco e di Agricola.

Agricola Struttura e contenuti dell’opera ▰ Proemio; origini e carriera di Agricola; nomina a governatore in Britannia Dopo un

proemio di capitale importanza (capp. 1-3 [ T2]), l’autore rievoca brevemente le origini, la formazione e la carriera del protagonista (capp. 4-9) fino al momento in cui, trascorso l’anno del consolato, egli assume la carica di governatore della Britannia (78 d.C.).

▰ Excursus geo-etnografico sull’isola Si apre a

questo punto un excursus a carattere geografico ed etnografico sull’isola, i suoi abitanti, il clima, i prodotti del suolo (capp. 10-12), cui segue una ricostruzione per sommi capi della conquista e della dominazione romana in quella regione (capp. 13-17).

▰ Attività di Agricola in Britannia

La parte centrale e più cospicua dell’opera è dedicata all’attività di Agricola durante i sette anni della sua permanenza in Britannia (capp. 18-38). Saggi provvedimenti di riforma sul piano amministrativo e civile si accompagnano a

fortunate operazioni militari, che portano alla conquista di nuovi territori nella parte settentrionale dell’isola.

▰ Lo scontro con i Caledoni; i discorsi di Calgaco e di Agricola; la battaglia vittoriosa Particolare rilievo viene dato allo scontro con la fiera e valorosa popolazione dei Calèdoni. Nel discorso di Càlgaco (capp. 30-32), il loro capo, vengono proclamate le ragioni di quell’eroica resistenza al dominio di Roma. Simmetricamente, un discorso di Agricola (capp. 33-34) accende l’animo dei legionari, spronandoli alla gloria militare. La battaglia infuria aspra, e si conclude con la vittoria romana.

▰ Il richiamo di Domiziano; ritiro a vita privata; morte prematura e sospetta; epilogo encomiastico Ad interrompere l’opera di Agricola viene il richiamo del princeps Domiziano, invidioso dei successi del suo generale. Di ritorno nella capitale, il protagonista si ritira a vita privata e rinunzia al proconsolato d’Asia cui pure aveva diritto [ T3]; la morte, prematura quanto sospetta, lo coglie infine, nell’agosto del 93, a cinquantatré anni (capp. 39-43). L’epilogo esalta le virtù esemplari dell’estinto (capp. 44-46).

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

PROFILO STORICO

Incrocio di generi letterari L’opera si sviluppa dunque in una zona di intersezione fra generi letterari diversi. La materia è di volta in volta commemorativa, encomiastica, biografica, storica, etnografica, libellistica. Interessi privati e familiari si mescolano con la riflessione sulla storia contemporanea e sui destini di Roma. Nella pluralità dei modelli e degli obiettivi, l’unità del libretto è assicurata dallo sguardo teso e appassionato dell’autore, dalla complessità del suo pensiero politico, dalla forza sentenziosa e drammatica della narrazione.

Statua di Agricola, eretta nel 1894 a Bath.

Realismo politico Elogiando la figura di Agricola, Tacito si propone di indicare un modello di comportamento politico. Pur vivendo in un’epoca difficile, che aveva visto nuovamente degenerare il regime monarchico in aperta tirannide, Agricola non si era sottratto ai suoi doveri, continuando a servire lo Stato romano finché gli era stato possibile. La polemica è rivolta contro quanti avevano scelto una forma di protesta sterile e plateale, preferendo un’ambitiosa mors (il suicidio degli stoici) all’onesto lealismo di funzionari come Agricola [ T3]. Il criterio di giudizio è ispirato ai princìpi della più antica tradizione romana: i valori della civitas restano il fine più alto dell’attività umana; il singolo individuo deve subordinare i propri interessi a quelli della res publica. L’elogio di Agricola è anche l’elogio della medietas, virtù basilare nel sistema etico classico. All’uomo giusto che vive in un’epoca di tirannide Tacito addita una via di mezzo tra il deforme obsequium di quanti si avvilirono fino al servilismo più abietto e l’abrupta contumacia di quanti si irrigidirono in una sterile opposizione: «Onde sono costretto a chiedermi se forse anche la propensione dei prìncipi verso gli uni, la loro avversione verso altri non dipendano, come tutto il resto, dal volere del fato e dalla sorte del nascere; oppure se una parte sia lasciata alla nostra accortezza, e se tra la spavalderia che conduce alla rovina e il servilismo che disonora (inter abruptam contumaciam et deforme obsequium), si possa seguire una strada che non sia né abietta né pericolosa» (Ann. IV, 20, 3).

Guida allo studio

1.

Perché Tacito, al di là dei legami familiari, sceglie di narrare la vita di Giulio Agricola? Quale messaggio intende trasmettere ai suoi lettori? 2. Discuti il problema del genere letterario nel quale va inquadrato l’Agricola.

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PROFILO STORICO

Germania Le fonti Una breve monografia di argomento geo-etnografico è la Germania (De origine et situ Germanorum), verosimilmente composta e pubblicata nel 98. Excursus di interesse etnografico sui Germani si trovavano già nel De bello Gallico (IV, 1-3; VI, 21-28) di Cesare, forse anche nelle opere perdute di Sallustio (Hist. III) e di Livio (Epit. CIV). Sull’argomento scrissero poi, in età imperiale, Cremuzio Cordo [ cap. 1.2], Fenestella, Aufidio Basso e numerosi altri autori, fra i quali Plinio il Vecchio [ cap. 3.7], che aveva narrato in venti libri tutte le guerre combattute da Roma contro i Germani. Notizie geografiche si potevano ricavare dalle opere di Pomponio Mela [ cap. 3.5], Posidonio e Strabone [ vol. II, cap. 6.1]. Di tutte le sue fonti, Tacito nomina soltanto Cesare, definito summus auctorum, «storico di somma autorità» (28, 1). Virtù dei Germani Tacito non si sottrae alla suggestione di un popolo che gli appare vigoroso, fiero e integro, sia fisicamente che moralmente: incontaminati da mescolanze con altre genti [ T6], i Germani sono descritti come guerrieri forti e intrepidi che disdegnano il lusso, vivono sobriamente, non temono alcun pericolo, sono pronti a morire per i loro capi, ambiscono unicamente a segnalarsi per il loro valore in battaglia [ T9 ONLINE]. Anche le donne non sono da meno per coraggio, fierezza ed energia [ T10]: in dote non ricevono monili e vesti lussuose ma coppie di buoi, cavalli bardati e armi; in battaglia spronano i loro uomini al sacrificio; restano fino alla morte fedeli al marito. Confronto polemico con i costumi romani L’elogio dei Germani sottintende un continuo confronto con Roma, svolto per lo più in modo indiretto e allusivo: tanto i Germani sono moralmente integri quanto i Romani corrotti; tanto i Germani amano la libertà, quanto i Romani hanno abdicato alla loro dignità civile e politica. Non c’è dunque da stupirsi che essi possano costituire una pericolosa

Germania Struttura e contenuti dell’opera Il testo, privo di un’introduzione proemiale, è diviso in due parti.

▰ Prima parte: aspetti comuni a tutte le tribù germaniche Nella prima (capp. 1-27), dopo un rapido cenno alla posizione geografica e ai confini della regione [ T4], vengono trattati gli aspetti comuni a tutte le tribù germaniche: origini e aspetto fisico della stirpe [ T5-6]; configurazione del territorio, clima, prodotti del suolo [ T7]; usi, credenze, istituzioni e costumi dei Germani nella vita pubblica e nella vita privata [ T8-10].

▰ Seconda parte: caratteristiche delle singole popolazioni Nella seconda parte (capp. 28-46) vengono analizzate le caratteristiche particolari delle singole popolazioni germaniche, come preannunciato

in 27, 2: Haec in commune de omnium Germanorum origine ac moribus accepimus; nunc singularum gentium instituta ritusque, quatenus differant, quaeque nationes e Germania in Gallias commigraverint, expediam («Questo abbiamo appreso circa l’origine e i costumi dei Germani in generale: ora dirò quali siano le istituzioni e i riti dei singoli popoli, in che cosa differiscano tra loro e quali tribù siano passate dalla Germania nelle Gallie»).

▰ Dalle sponde del Reno, verso nord e verso oriente Partendo dalle sponde del Reno, l’autore s’inoltra via via nell’interno del paese, verso nord e verso oriente, fino al mar Baltico e alle regioni finniche e sarmatiche [ T11-12], passando in rassegna una settantina di popoli. L’opera si conclude con un suggestivo accenno a misteriose genti ancor più remote, forse semiferine [ T13]; materia favolosa di cui Tacito rinuncia a parlare, come non accertata: quod ego ut incompertum in medium relinquam (46, 4 [ T13]).

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

PROFILO STORICO

minaccia per il futuro dell’impero, al punto che nel cap. 37 l’autore si abbandona a una desolata riflessione sulle lunghe guerre che oppongono da troppo tempo Roma alla Germania: «La nostra città compiva seicentoquaranta anni quando per la prima volta si udirono suonare le armi dei Cimbri, sotto il consolato di Cecilio Metello e Papirio Carbone [113 a.C.]. Se da allora calcoliamo fino al secondo consolato dell’imperatore Traiano [98 d.C.], si sommano quasi duecentodieci anni: tanto si dura a vincere la Germania» (37, 2). Nel paragrafo successivo, l’autore si interroga sulle ragioni che hanno reso così ardua la sottomissione dei Germani, e le rinviene nell’orgoglioso amore per la libertas che da sempre contraddistingue le tribù germaniche. Tacito tocca qui uno dei concetti fondamentali del suo pensiero politico: la virtus di un popolo è indivisibile dalla sua libertà. Se i Germani sono indomabili, è perché essi sono liberi: il concetto assume un evidente significato polemico nei confronti della recente storia dell’impero, caratterizzata dalla perdita della libertas e dal degrado dei valori morali e civili del popolo romano. Vizi e debolezze dei Germani L’autore non si astiene peraltro dall’evidenziare i caratteri negativi dei Germani, la loro sudicia indolenza, la crudeltà, la rissosità, l’ubriachezza, l’inettitudine alle attività che non siano guerresche: «Quando non fanno guerra, trascorrono molto tempo a cacciare e ancora di più ad oziare, dediti al sonno e al cibi; i più forti e bellicosi non fanno nulla, ché la cura della casa, dei penati e dei campi è lasciata alle donne e ai vecchi e ai meno validi della fami-

Le FIGURE e gli EVENTI della STORIA I Germani e Roma ▰ Un paese favoloso e remoto Per le genti

dell’Europa meridionale la Germania era rimasta a lungo un paese favoloso e remoto, che solo un viaggiatore, il greco Pytheas di Marsiglia, aveva visitato nel 345 a.C., narrando di fitte foreste, di mostruosi animali, di uomini giganteschi e fortissimi.

▰ Il primo contatto: Mario ferma l’avanzata di Cimbri e Teutoni Il primo contatto di Roma con le popolazioni germaniche era avvenuto alla fine del II secolo a.C., quando i Cimbri e i Teutoni si erano avventurati in territorio gallico: era stato Mario a fermare la loro avanzata in due sanguinose battaglie presso le odierne Aix-en-Provence (102 a.C.) e Vercelli (101 a.C.).

▰ Cesare costringe Ariovisto a ritirarsi Meno

di cinquant’anni dopo lo svevo Ariovisto, «un uomo barbaro, iracondo, temerario» (De bello Gallico I, 31), aveva attraversato il Reno in forze e occupato il territorio dei Sequani, minacciando di assoggettare l’intera Gallia. Era stato in quell’occasione che Cesare aveva marciato contro Ariovisto, sconfiggendo i Germani e costringendoli a ritirarsi.

▰ Tentativi di espansione romana oltre il Reno, confine tra civiltà e barbarie Già all’epoca il Reno appariva come il confine naturale tra mondo civile e

barbarie, anche se per oltre mezzo secolo Roma aveva tentato di varcarlo e di stabilire il proprio dominio sopra i territori germanici. Druso, dal 12 al 9 a.C., aveva soggiogato i popoli stanziati fra Reno ed Elba; Tiberio, negli anni successivi, aveva poi consolidato la conquista con numerose campagne.

▰ Dopo Teutoburgo, una politica difensiva L’espansionismo romano subì un traumatico arresto a Teutoburgo (9 d.C.), dove le legioni di Varo furono sterminate dai Germani guidati da Arminio. Da quel momento la politica antigermanica di Roma si era assestata su posizioni difensive, con l’obiettivo precipuo di consolidare i presidii militari lungo il confine.

▰ Il pericolo germanico all’epoca di Traiano Sul pericolo rappresentato dai Germani nessuno si faceva illusioni: le operazioni nella zona del Reno si erano durante il corso del secolo moltiplicate; mentre Tacito si accingeva a comporre la sua monografia, Traiano si trovava da cinque anni sui confini, in qualità di legato della Germania superiore. Eletto imperatore, attese a lungo prima di far ritorno a Roma, spostandosi fra il 98 e il 99 nelle province danubiane, allo scopo di rafforzare le comunicazioni con le frontiere renane. La Germania costituiva insomma, all’epoca, quel che si dice un problema di scottante attualità.

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glia. Essi intanto poltriscono: strana contraddizione della natura, che i medesimi uomini abbiano caro l’ozio e detestino la pace» (15, 1; ma si vedano anche 14, 3 [ T9 ONLINE]; 20, 1-2; 22, 1-3; 31, 3; 45, 6 [ T12 ONLINE]). Ed è forse con un misto di sarcasmo e di angoscia che Tacito annota le debolezze dei Germani sperando che proprio da esse possa derivare la salvezza per Roma, altrimenti destinata a perire sotto l’impeto delle acerrime e fiere tribù germaniche: «Io prego che duri a lungo nei popoli, se non l’amore per noi, almeno l’odio fra loro, perché, nella fatale minaccia incombente sull’impero, ormai la fortuna non può darci nulla di meglio che la discordia tra i nemici» (33, 2).

Guida allo studio

1.

Indica l’argomento della Germania e il genere storiografico cui appartiene; esponi i contenuti essenziali dell’opera, evidenziandone la struttura. 2. A quali fonti greche e latine Tacito potrebbe aver attinto per la composizione della Germania? L’autore ne indica esplicitamente qualcuna?

3. Che cosa spinge l’autore ad occuparsi delle popolazioni germaniche? È corretto affermare che Tacito intervenga su un problema di attualità? 4. La descrizione dei costumi germanici implica un continuo confronto polemico con il mondo romano: quali aspetti mira ad evidenziare l’autore? A quali conclusioni perviene?

4 Le Historiae e gli Annales

Stele funeraria di Gaio Romanio Capitone, cavaliere dell’ala norica, I secolo d.C. Magonza, RömischGermanisches Zentralmuseum.

Un programma storiografico in evoluzione Nel proemio dell’Agricola [ T2], Tacito aveva annunciato un chiaro e articolato programma storiografico: narrare gli eventi infausti del principato di Domiziano («il ricordo della servitù passata») e quelli più felici dell’età di Nerva e di Traiano («la testimonianza del bene presente»). Il progetto era destinato in breve a modificarsi: nelle Historiae, cui Tacito lavora nel decennio successivo, l’autore concentra infatti lo sguardo esclusivamente sul passato, ampliando l’arco cronologico della narrazione fino a comprendere l’intera età flavia e la guerra civile seguita alla morte di Nerone (69-96 d.C.). Lo storico si premura tuttavia di avvertire i lettori, nel proemio dell’opera [ T14], che il compito di trattare del principato di Nerva e di Traiano è stato solo rinviato a un’età più matura. Concluse intorno al 110 le Historiae, Tacito rinuncia tuttavia, per la seconda volta, a narrare dell’età presente, volgendosi a ricostruire dalle origini la storia del principato: dagli ultimi giorni di Augusto, attraverso gli imperatori della dinastia giulio-claudia, fino alla morte di Nerone (14-68 d.C.). Il racconto degli Annales veniva così a ricongiungersi all’inizio delle Historiae, saldandosi, fra l’altro, con gli ultimi libri delle Storie di Livio. 347 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

PROFILO STORICO

Per quel che sappiamo, Tacito non si accinse mai a narrare di quell’età che più volte aveva definita «felice». Un passo degli Annales (III, 24, 3) documenta anzi il proposito, peraltro non attuato, di narrare gli eventi del periodo augusteo. Forse, dopo le prime speranze, registrate nell’Agricola e nelle Historiae, l’autore si era reso conto di come fosse puramente formale il ripristino della libertas assicurato da Traiano: il senato continuava di fatto a restare emarginato dal governo dello Stato; gli antichi mores appartenevano a un tempo remoto e ormai irrecuperabile. Di certo, le pagine degli Annales sono più cupe di quelle delle Historiae, e l’approfondirsi del pessimismo tacitiano potrebbe essere un segnale del disagio che l’autore provava nei riguardi del presente. I libri pervenuti Sia le Historiae sia gli Annales ci sono giunti ampiamente incompleti: delle Historiae, oltre a un ridotto numero di frammenti, sono pervenuti soltanto i libri I-IV e i primi 26 capitoli del V, che comprendono gli avvenimenti dell’anno 69 e del principio del 70, dal secondo consolato di Galba all’assedio di Gerusalemme e alla rivolta germanica di Giulio Civile; degli Annales possediamo per intero i libri I-IV e XII-XV, soltanto in parte i libri V, VI, XI e XVI; completamente perduti sono i libri dal VII al X, che trattavano il principato di Caligola e la prima parte di quello di Claudio; i fatti relativi al principato di Nerone si fermano al 66.

Historiae Struttura e contenuti dell’opera ▰ Proemio; situazione al 1 gennaio del 69; principato di Galba; la “scelta del migliore” (libro I) Le Historiae si aprono con un ampio

proemio [ T14]: dopo aver esposto l’argomento dell’opera e le ragioni che lo hanno indotto a scrivere, l’autore illustra la situazione di Roma, dell’esercito e delle province al 1 gennaio 69. La trattazione ha inizio con il breve regno di Galba, che era stato proclamato imperatore dalle legioni di Spagna subito dopo la morte di Nerone, nel giugno del 68. Un episodio di rilievo è quello dell’adozione di Pisone Liciniano da parte dell’anziano principe, che in tale occasione enuncia il criterio della “scelta del migliore” per regolare la successione imperiale [ T15].

▰ Otone, Vitellio, Vespasiano; scontri sanguinosi; morte di Vitellio (libri II-III) Ben

presto Galba viene assassinato e Otone eletto al suo posto dai pretoriani; contemporaneamente, in Germania le legioni proclamano imperatore Vitellio. Il II e il III libro sono occupati dalle lotte dapprima fra Otone e Vitellio, poi, dopo la sconfitta e il suicidio di Otone, fra Vitellio e Vespasiano, acclamato a sua volta imperatore dalle legioni d’Oriente. Dopo i sanguinosi scontri tra flaviani e vitelliani, cui il popolo di Roma assiste indifferente [ T16 ONLINE ], Vitellio viene infine snidato dal palazzo imperiale e trucidato [ T17].

▰ Saccheggio di Roma; rivolte contro Vespasiano (libro IV) Nel IV libro campeggiano le concitate e terribili scene del saccheggio di Roma ad opera dei flaviani; intanto in Gallia e in Germania si accendono focolai di rivolta contro Vespasiano.

▰ Assedio di Gerusalemme; excursus sulla Giudea; operazioni in Germania (libro V, incompleto) Quanto resta del libro V è dedicato all’assedio posto da Tito a Gerusalemme, e contiene un excursus sulla Giudea e sulle origini, la storia e i costumi del popolo ebraico. La scena si sposta quindi in Germania, dove sono in corso le operazioni contro i ribelli, che cominciano a mostrare segni di cedimento. A questo punto il testo si interrompe.

Busto dell’imperatore Galba. Roma, Musei Capitolini.

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PROFILO STORICO

Il numero dei libri Di quanti libri constavano le due opere? Una notizia di Gerolamo (Commentarius in Zachariam III, 14) ci avverte che Historiae e Annales, al tempo dello scrittore cristiano, circolavano in un unico blocco di trenta libri, disposti secondo l’ordine cronologico degli avvenimenti narrati (prima gli Annales, poi le Historiae), non secondo l’ordine di composizione. Alcuni studiosi vogliono credere che le Historiae fossero composte di quattordici libri e che gli Annales, conseguentemente, si fermassero a sedici: gli avvenimenti degli ultimi due anni di Nerone sarebbero stati dunque interamente concentrati nella parte non pervenuta del libro XVI. Altri, obiettando che difficilmente un periodo storico così importante, sul quale si dovevano certo contare numerose testimonianze dirette, potesse essere condensato in pochi capitoli, assegnano invece dodici libri alle Historiae e diciotto agli Annales: una distribuzione peraltro assai soddisfacente, perché consente di immaginare una divisione complessiva della materia per esadi (gruppi di sei libri), due nelle Historiae, tre negli Annales (la prima dedicata interamente a Tiberio; la seconda a Caligola e Claudio; la terza a Nerone). Titoli e cronologia La composizione delle Historiae va collocata fra il 100 e il 110; quella degli Annales nel periodo successivo, probabilmente a partire dal 111, appena dopo la pubblicazione delle Historiae. La mancanza di informazioni sugli ultimi anni della vita di Tacito impedisce di stabilire una datazione certa in ordi-

Annales Struttura e contenuti dell’opera ▰ Esordio: breve riepilogo della storia di Roma dalle origini ad Augusto Gli Annales hanno inizio con un breve riepilogo della storia di Roma dalle origini fino alla conclusione delle guerre civili e all’ascesa al potere di Augusto, ad opera del quale mutano gli antichi ordinamenti politici, così che «tutti, rinunciando all’uguaglianza, aspettavano gli ordini del principe» (I, 4, 1).

▰ Il principato di Tiberio Nei primi sei libri domina la cupa e ambigua figura di Tiberio, celata dietro la maschera impenetrabile della dissimulazione [ T19]. Inizialmente conservatore dell’ordine augusteo, egli si trasforma via via, fra intrighi, congiure e delitti, in un despota crudele e tirannico. Tacito in un primo momento gli oppone la nobile figura di Germanico, impegnato in importanti operazioni militari in Germania e in Oriente, dove morirà assassinato; poi gli affianca Seiano, consigliere subdolo e spietato. Sullo sfondo, il servilismo dei senatori e l’indifferenza politica della plebe anonima. Non mancano pagine eroiche, come quelle dedicate a Cremuzio Cordo, che si lascia morire dopo aver pronunciato un fiero e coraggioso discorso in senato [ cap. 1, Il processo e la morte di Cremuzio Cordo ONLINE ].

▰ Il principato di Claudio Il racconto riprende, dopo la vasta lacuna, nell’anno 47, settimo del

principato di Claudio. L’imperatore è raffigurato come un debole, succube delle mogli, di Messalina prima, di Agrippina poi: quest’ultima, dopo averlo indotto a designare come successore Nerone, si sbarazza di lui col veleno. Le vicende esterne riguardano le imprese del generale Corbulone in Germania e una spedizione contro i Parti (libri XI-XII).

▰ Il principato di Nerone Con il libro XIII inizia la

parte conclusiva degli Annales, dedicata al principato di Nerone. Egocentrico, istrionico, vanitoso, dispotico, insensibile ai più elementari valori etici, preda di pulsioni incontrollabili e di sentimenti disonorevoli (odio, paura, rancore), il giovane principe si macchia di orrendi delitti [ T21 ONLINE ]. Appartengono a tale sezione alcune fra le pagine più celebri dell’intera opera tacitiana: l’incendio di Roma, il matricidio [ T22 ONLINE ]; la morte di Seneca ( cap. 4, La morte di Seneca nel racconto di Tacito ONLINE ), il ritratto di Petronio ( cap. 5, Ritratto di Petronio ONLINE ). Come già per Tiberio, Tacito distingue tuttavia un periodo iniziale, durante il quale l’indole malvagia del giovane principe sembra tenuta a freno dai consiglieri-istitutori Seneca e Burro. L’uccisione di Agrippina (59 d.C.), la morte di Burro e il ritiro dalla vita pubblica di Seneca (62 d.C.) introducono il periodo più triste del principato: la congiura guidata da Pisone, malamente organizzata, consente all’imperatore di eliminare gran parte dell’opposizione intellettuale e senatoria. Il racconto pervenuto si interrompe proprio sull’episodio della morte eroica di Trasea Peto (XVI, 34-35, 1-2).

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11. La storiografia di Tacito

PROFILO STORICO

ne ai tempi di composizione e di pubblicazione dell’ultimo lavoro. Il titolo delle Historiae viene ricavato da Tertulliano (Apologeticum 16, 2); quello degli Annales risale invece agli autori del Rinascimento: i codici pervenuti riportano il titolo Ab excessu divi Augusti («Dalla morte del divo Augusto»), con una certa probabilità il titolo originale. Le fonti Le fonti di Tacito furono assai varie: comprendevano la letteratura storica precedente (Aufidio Basso, Servilio Noniano, Plinio il Vecchio), i documenti ufficiali (acta senatus, cioè i resoconti delle sedute del senato; acta diurna populi Romani, cronache assai varie della vita dell’impero; lettere ed orazioni imperiali), le memorie private, i libelli composti negli ambienti dell’opposizione senatoria, le testimonianze orali. Lo scrupolo di Tacito è dimostrato dal fatto che spesso, per il medesimo avvenimento, sono date più versioni, senza che l’autore prenda posizione per l’una ovvero per l’altra in caso di incertezza. Sovente vengono riportati anche i rumores (le dicerie), ai quali tuttavia viene concesso scarso credito. Del rigore storiografico di Tacito fanno fede alcune lettere di Plinio il Giovane: quella notissima sull’eruzione del Vesuvio [ cap. 3, Vita e morte di Plinio il Vecchio ONLINE ] fu scritta su richiesta dello storico, che voleva essere informato da una fonte attendibile; lo stesso Plinio (Ep. VI, 16) accenna alla diligentia con la quale l’amico era solito lavorare. Come il genere imponeva, Tacito ubbidisce naturalmente anche a precisi criteri di ordine estetico e letterario, selezionando gli avvenimenti, omettendo o condensando i fatti che avrebbero indebolito la compagine narrativa. Da Svetonio, ad esempio, sappiamo che l’imperatore Vitellio cercò in tre diverse occasioni di abdicare; Tacito unifica i tre tentativi in uno, al fine di conferire all’episodio maggiore forza drammatica.

5 Principato e libertà: realismo politico e giudizio morale Un tema politico: libertà e principato Un tema dominante attraversa tutte le opere di Tacito, ed è il rapporto fra la nobilitas senatoria, sistematicamente umiliata nel corso dell’ultimo secolo, e il principato, istituzione che aveva saputo metter fine alle guerre civili, ma che aveva imposto in cambio il sacrificio della libertas. Malgrado le evidenti nostalgie repubblicane, Tacito pone il problema in termini di severo realismo politico, collocandosi pragmaticamente in un punto equidistante da ogni estremo. Sa che il principato è una realtà inevitabile, e che sarebbe anacronistico sperare in un ritorno alle antiche istituzioni politiche, definitivamente tramontate all’epoca di Augusto; la scelta non è dunque fra repubblica e principato, ma fra un regime tirannico e intollerante e una monarchia che governi coadiuvata dal senato. Il discorso che Tacito fa pronunciare a Galba pochi giorni prima che il vecchio imperatore cada assassinato [ T15], rivela con assoluta chiarezza i sentimenti politici dello storico: Galba dichiara infatti che, se potesse, restituirebbe la città alla sua tradizionale forma di governo; ma poiché tale operazione risulta impraticabile, si tratta di valorizzare l’istituto imperiale, trovando il modo di designare l’uomo più degno a reggere le sorti dell’impero. 350 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Obiettività e passione Nel proemio delle Historiae [ T14], Tacito dichiara di voler narrare «senza amore né odio»: proprio ciò che gli storici del principato, aggiunge, non avevano saputo fare, abbandonandosi ora all’adulazione ora alla malevolenza. Molto si è detto, in età moderna, sulla tendenziosità di Tacito, sulla sua propensione a distorcere in senso negativo i comportamenti dei prìncipi e dei loro consiglieri. Certo, per mentalità e temperamento, egli è orientato a leggere nella storia recente di Roma i segni di un’irreversibile decadenza; e il suo punto di vista resta quello di un aristocratico, vir senatorii ordinis, un conservatore che guarda con diffidenza talvolta sprezzante ad ogni forma di cambiamento. Nondimeno, ed è questo il sigillo della vera imparzialità e di ogni autentica moralità di scrittura, lo sguardo risulta sempre affilato e lucidamente obiettivo: Tacito denuncia la corruzione del popolo romano, ridotto a plebaglia priva di ogni identità civile [ T16 ONLINE], ma denuncia anche l’involuzione del senato, dominato (con rare eccezioni) dal servilismo e dall’ipocrisia [ T19]. Il proemio delle Historiae [ T14], così come altri passi delle due opere annalistiche [ T20], testimoniano semmai il disagio dello storico, costretto a farsi non più, come nella tradizione, cantore delle gesta del popolo romano, ma infelice narratore di azioni ignobili e scellerate. Ciò che Tacito non può tollerare è l’incoerenza, la dissimulazione, la codardia dei nuovi protagonisti della storia, la loro abilità nello stare sempre e comunque dalla parte dei vincitori. Su di essi, implacabile, cade il giudizio, morale e insieme politico, dello storico. Moralismo e sentenziosità L’indagine storiografica viene esplicitamente subordinata ai valori morali: Tacito non scrive solo per comprendere, giungendo alle radici del principato, la realtà presente di Roma, ma anche per sollecitare la memoria delle grandi virtù e delle grandi infamie; seleziona insomma gli avvenimenti sulla base della forza esemplare, in positivo o in negativo, che essi sanno esprimere. Certo tutta la storiografia latina era stata improntata a questo criterio: ma in Tacito l’esercizio della riflessione morale si palesa in maniera ancora più accentuata che nei predecessori, o mediante vere e proprie sentenze che concludono la narrazione di un episodio, o con brevi e rapide osservazioni incise all’interno della frase, le quali gettano su un fatto, un episodio, un pensiero la luce folgorante della riprovazione.

6 Una visione problematica della storia e della storiografia Fato, divinità, fortuna: disordine e casualità della storia Eppure Tacito appare totalmente disarmato di fronte agli eventi della storia: certo crede nei valori della tradizione, denuncia l’onda ripugnante del servilismo, delle malefatte, dei soprusi, esalta l’eroismo di chi va incontro alla morte per non doversi arrendere al peggio, ma non per questo è in grado di elaborare una filosofia della storia, di inquadrare i fatti entro uno schema interpretativo chiaro e coerente. Livio credeva in Roma, nella sua forza perenne; Tacito appare smarrito dinanzi al mosaico confuso e irrazionale degli eventi: «per conto mio, quanto più medito sui fatti così antichi come recenti, tanto più mi appare evidente la beffa del caso in ogni vicenda 351 © Casa Editrice G. Principato


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PROFILO STORICO

umana. Poiché invero la fama, la speranza, il rispetto pubblico designavano all’impero chiunque altro, piuttosto di colui che la sorte teneva in serbo per farne un imperatore» (Ann. III, 18, 4). Talora può sembrare incerto, e chiedersi se mai «gli eventi umani siano governati dal destino (fatum) e da una immutabile necessità, oppure se si svolgano a caso» (Ann. VI, 22, 1). Ma in altri passi giunge ad affermare recisamente che la storia procede sine cura deum (Ann. XIV, 12, 2) e che le divinità sono «indifferenti così al bene come al male» (Ann. VI, 33, 1). Termini come fato, divinità, fortuna, in Tacito appaiono dunque intercambiabili, e denunciano una visione scettica e pessimistica della storia e dell’uomo. Il fluttuare dei giudizi, l’incertezza sul senso della storia e della stessa storiografia, l’andamento perennemente interrogativo della narrazione costituiscono peraltro il fascino maggiore della prosa tacitiana. Centralità del personaggio: storia e biografia Le Storie liviane si presentavano come il racconto delle grandi gesta del popolo romano, di cui i singoli personaggi incarnavano volta per volta le virtù esemplari. Tacito si trova di fronte a una fase storica del tutto diversa: lo spirito della grande Roma è spento; il popolo romano si è trasformato in una massa amorfa, priva di ogni identità politica; gli avvenimenti non si decidono più negli antichi spazi pubblici (il senato, il foro, i comizi) ma nelle stanze del palazzo imperiale; la storia della città ruota intorno alle figure degli imperatori e di coloro che vivono all’interno della corte, asserviti all’adulazione, spinti all’intrigo, piegati alla logica dell’ipocrisia e dell’ambiguità. Per narrare e interpretare il nuovo secolo, occorre innanzitutto affondare lo sguardo nelle singole personalità, concentrare l’attenzione sugli individui piuttosto che sulle istituzioni; e poiché la nuova storia è storia di prìncipi e di cortigiani, indagare nelle psicologie tortuose e deliranti inevitabilmente prodotte dai sistemi autoritari e dinastici. Lo schema annalistico entra in crisi È soprattutto il tradizionale schema narrativo, quello annalistico fondato sul rinnovo annuale delle cariche pubbliche, a entrare apertamente in crisi. Le storie di Tacito presentano sotto questo aspetto indiscutibili affinità con il genere biografico, dal quale divergono tuttavia per una maggiore solennità della narrazione e per una più rigorosa selezione dei materiali: in Tacito, certo, non troveremo mai l’aneddotica pettegola di Svetonio, l’accumulo di particolari dispiegati per intrattenere un pubblico curioso di mirabilia [ T17]. A causa della grave lacuna delle Historiae, di cui sono andati perduti proprio i libri relativi ai tre imperatori flavi, sono gli Annales a rivelare questo nuovo ordinarsi degli avvenimenti in più vasti nuclei narrativi, coincidenti con il regno dei singoli imperatori. La dilatazione dei confini dell’impero, l’emergere di nuovi ceti sociali (funzionari della burocrazia imperiale, élites provinciali) accanto a quelli tradizionali, l’importanza assunta dalle legioni stanziate in ogni angolo del mondo obbligano inoltre lo storico a creare nuovi blocchi narrativi che fuoriescono continuamente dallo schema fissato. Interesse psicologico: gli individui Come sono descritti i singoli personaggi? Non mancano i tradizionali ritratti, nei quali, secondo la lezione sallustiana, vengono messi in evidenza i vizi e le virtù del protagonista; talvolta il ritratto del 352 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

personaggio, seguito da un giudizio complessivo sul suo operato pubblico, viene introdotto in forma di epitafio, dopo il racconto della morte. Ma l’interesse psicologico di Tacito risalta si può dire ad ogni pagina, così che i protagonisti delle storie vengono costantemente illuminati nelle loro private ambizioni, seguiti nei loro pensieri più reconditi, nelle passioni che li tormentano, nel corso di un processo che li vede evolversi, ondeggiare inquietamente fra contrastanti pulsioni, cedere infine ai desideri più torbidi, magari a lungo covati. Se l’ambizione massima è quella del potere, i sentimenti più diffusi sono la paura, l’invidia, la dissimulazione, l’ipocrisia e il servilismo [ T19]: vizi tipici delle monarchie dispotiche. Complessità dei personaggi e radicale pessimismo Quel che ne risulta, in ogni caso, non è mai un personaggio unilaterale, exemplum di vizio o di virtù, ma una figura assai complessa, impasto di buone qualità e di vizi ignobili: anche in questo caso il modello è Sallustio, ma Tacito ha modo di esprimere il suo radicale pessimismo sulla natura umana insistendo sugli aspetti negativi e gettando fosche ombre anche sui personaggi apparentemente più nobili. Il senso di cupo pessimismo che sovrasta le pagine annalistiche di Tacito deriva anche dal fatto che l’autore non sminuisce i personaggi virtuosi in modo esplicito, ma utilizza una tecnica più raffinata e insidiosa, introducendoli sulla scena quasi inavvertitamente mentre danno sfogo a rancori personali, o si dispongono a compiere azioni che essi stessi si affrettano in seguito a stigmatizzare. Viceversa, personaggi logorati dal vizio si dimostrano talvolta superiori alla loro fama. La storia sembra insomma impegnata a sconvolgere beffardamente la nostra opinione sui protagonisti: Petronio, noto per le sue immoralità, in Bitinia si dimostra governatore energico e avveduto; Seneca, coinvolto nelle infamie di Nerone e circondato dalla fama di rapacità, muore tuttavia nobilmente come un filosofo; Elvidio Prisco, uno dei pochi personaggi che sembrerebbero incarnare la perduta virtus degli antichi, viene presentato all’inizio mentre tratta gli affari pubblici mosso esclusivamente da rancori privati. Tacito sembra affascinato proprio dalla torbida ambiguità dell’animo umano: le pagine più grandi delle sue storie non sono tanto quelle su Nerone, segnato da una patologia che lo rende infine monocromo, ma quelle su Tiberio, maestro di simulazioni e di tortuosità, ora energico e sprezzante, ora vittima delle proprie stesse paure, impenetrabile, ombroso, crudele, vendicativo, eppure capace di moderazione, di severa dignità, insensibile alla brama di ricchezze. Interesse psicologico: le folle Non meno penetrante si rivela Tacito nel descrivere le folle tumultuanti [ T16 ONLINE], le grandi masse umane lanciate irrazionalmente verso il disastro, le sedute del senato dominate dal servilismo e dall’ipocrisia [ T19], le furenti e sanguinose battaglie, le rivolte dei legionari, lo sgomento dei soldati costretti a misurarsi con le spaventose orde germaniche o con i flagelli naturali in terre lontane. Sallustio modello di Tacito: una storiografia drammatica Sallustio è certo il modello fondamentale di Tacito: nella tecnica narrativa scorciata, ricca di chiaroscuri e di brusche accelerazioni; nell’approfondimento psicologico dei personaggi, colti nei loro moventi più segreti; nel dinamismo tragico degli episodi, dove ampio spazio viene dato alle scene di forte carica patetica; nell’asimmetria e nell’irregola353 © Casa Editrice G. Principato


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rità dello stile, che mira a restituire il movimento contraddittorio e confuso degli avvenimenti umani. Anche Tacito, come Sallustio, vuole coinvolgere il lettore fino in fondo, provocare il brivido del disastro imminente, lo sgomento per la rovina delle istituzioni. Basterebbero le celebri pagine sull’assassinio di Agrippina [ T22 ONLINE ] per dare la misura delle capacità descrittive e narrative di Tacito. Potenza rappresentativa, energia espressiva, ambiguità tragica degli avvenimenti, inflessibilità dello sguardo creano pagine memorabili, forse insuperate nella storiografia di ogni tempo e paese.

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 Statua di Agrippina,

moglie di Claudio e madre di Nerone, I secolo d.C.

Ritmo narrativo non uniforme, varietà di sfumature Data la complessità e vastità del quadro storico affrontato, il ritmo narrativo e l’attenzione ai fatti non è uniforme: i fatti del 69 occupano tre libri contro i sei dedicati agli oltre vent’anni del regno di Tiberio. A episodi di severa sobrietà narrativa seguono sontuosi affreschi drammatici, scene dotate della veemenza retorica di una tragedia. Tacito sa essere vario e ricco di sfumature, in nessun modo ripetitivo. Personaggi memorabili: le donne Dalle sue storie emerge una portentosa galleria di personaggi, tutti memorabili; si pensi solo alle donne che circondano Nerone: la madre Agrippina, intrigante, perfida, spregiudicata; Ottavia, innocente e disarmata vittima delle passioni di Nerone; Poppea, bellissima, licenziosa, priva di ogni scrupolo; Epicari, la schiava che resiste eroicamente alla tortura e muore senza fare i nomi dei congiurati. Certo non a caso Racine definì Tacito «il più grande pittore dell’antichità».

Guida allo studio

1.

Esponi l’argomento delle Historiae e degli Annales, indicando gli estremi cronologici della narrazione per entrambe le opere. Di quanti libri si componevano? quali ci sono pervenuti? 2. Individua il tema politico fondamentale che attraversa l’intera opera di Tacito. Qual è la posizione dell’autore? Si registrano mutamenti significativi nel passaggio dalle Historiae agli Annales? 3. Esponi la visione del mondo e della storia che emerge dalle opere annalistiche di Tacito.

4. Nella seconda fase della sua attività storiografica Tacito adotta lo schema annalistico. In che cosa consiste? Quali sono le sue remote origini? Entro tale schema l’autore inserisce delle variazioni? 5. Centralità e complessità dei personaggi tacitiani: sapresti fare qualche esempio significativo, eventualmente attingendo alle tue letture dei testi antologici? 6. Qual è il modello fondamentale di Tacito nella composizione delle opere annalistiche?

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7 Lingua e stile Varietà e complessità dello stile tacitiano Fintanto che il Dialogus de oratoribus fu creduto un’opera giovanile, il discorso sullo stile di Tacito si trovò ad essere impostato secondo un preciso schema evolutivo: dalle iniziali posizioni neociceroniane (influenzate dai contatti con la scuola di Quintiliano) allo stile denso, arduo e a volte oscuro delle mature opere annalistiche (ispirate al modello sallustiano). Oggi che la datazione del Dialogus viene quasi unanimemente spostata dopo Germania ed Agricola, e fatta coincidere addirittura con quella delle Historiae, si preferisce mettere l’accento sulla varietà e sulla complessità delle scelte tacitiane, motivate in parte dall’aderenza ai codici espressivi dei singoli generi, in parte dalla drammaticità e dall’urgenza (anche emotiva) della materia di volta in volta affrontata. Uno stile innovativo e in continuo assestamento che è lo specchio delle inquietudini, umane e civili, del grande scrittore. Benché Sallustio appaia il modello storiografico fondamentale, sulla prosa di Tacito esercitano una notevole influenza anche scrittori come Cicerone, Livio e Seneca, senza contare gli autori epici (Virgilio e Lucano in particolare), ai quali lo storico si ispira per dare una coloritura poetica alla sua lingua. Agricola e Germania Una prova della varietà dello stile di Tacito si trova già nelle due monografie, scritte a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, eppure notevolmente diverse nelle scelte espressive. Lo stile dell’Agricola è composito: i discorsi e la perorazione finale, ispirati ai modelli di Livio e di Cicerone, presentano un periodare ampio e simmetrico; nelle parti propriamente narrative, che si richiamano invece a Sallustio, l’andamento è mosso e incalzante, la sintassi ellittica e dissimmetrica, il lessico arcaizzante. Più artificioso e retoricamente costruito, ma anche più uniforme, è lo stile della Germania, caratterizzato da una ricercata alternanza di strutture simmetriche e di variationes. L’influsso di Seneca è avvertibile nei periodi brevi e spezzati, nell’uso di sententiae atte a sorprendere il lettore, nella copiosa ornamentazione retorica (anafore, chiasmi, poliptòti, allitterazioni). Le opere annalistiche Con le opere annalistiche, Tacito tocca il vertice della prosa latina di ogni tempo. Brevitas, inconcinnitas e gravitas riescono solo in parte a dar ragione di uno stile potente e originalissimo, che si esprime attraverso una sintassi disarticolata, concisa, ricca di bruschi passaggi, di improvvise accelerazioni, di forti contrasti, mediante i quali l’autore cerca di far luce su una materia oscura e controversa. L’austera solennità della scrittura, assicurata dall’uso di un lessico raro, scelto, arcaizzante, ricco di poetismi, è sempre ravvivata dall’energica tensione dei legami sintattici e dalla ricchezza delle soluzioni stilistiche. Infiniti descrittivi, frasi nominali, costrutti participiali, asindeti, ellissi, asimmetrie sintattiche, antitesi, sentenziosità pregnanti, audaci metafore non sono mai puri espedienti tecnici, ma sono posti al servizio del pensiero e dell’immagine. Di qui lo scultoreo rilievo che presentano le frasi tacitiane. Disarmonia dello stile e dramma della storia Lo stile è sempre, nei grandi scrittori, lo specchio di una visione del mondo. Il periodo proporzionato e architettonico di Cicerone esprimeva una visione razionale e fondamentalmente ottimistica della realtà; in Tacito, al contrario, il periodo si sviluppa in modo tale 355 © Casa Editrice G. Principato


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11. La storiografia di Tacito

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da smentire inesorabilmente ogni certezza. Come ha osservato uno studioso, la struttura sintattica tacitiana «assume il più rapidamente possibile una forma, che si potrebbe ritenere compiuta; aggiunte portano l’inaspettato, che colpisce con violenza drammatica il lettore» (Klingner). Le aggiunte, o appendici, introducono nel movimento della narrazione qualcosa che rimette in discussione la nostra precedente interpretazione, spostandola in un’altra direzione. Se Cesare dava la sensazione di governare con signorile distacco le sue frasi così come disponeva strategicamente le sue invincibili legioni, Tacito dà la sensazione di muoversi dentro il labirinto della storia come se fosse al buio, alla ricerca di un senso che pare mostrarsi e immediatamente si dissolve o si complica. Il prolungarsi impreveduto della frase, che si ramifica in nuove avvolgenti trame sintattiche, immerge il lettore nel flusso mutevole e caotico degli avvenimenti e dei pensieri umani: di qui il fascino shakespeariano delle storie di Tacito, dove sia i personaggi sia il narratore sembrano costretti a muoversi in un angoscioso vuoto di senso.

Guida allo studio

1.

Lo stile di Tacito si mantiene sempre uniforme nel passaggio da un’opera all’altra? Quali scrittori latini hanno esercitato una sensibile influenza sulle scelte stilistiche dell’autore? 2. Traduci e commenta i seguenti termini,

tradizionalmente usati per descrivere la prosa tacitiana, in particolare nelle opere annalistiche: brevitas, inconcinnitas, gravitas. 3. Si può affermare che lo stile tacitiano sia specchio di una visione del mondo e della storia?

Tacito

nel TEMPO

In età imperiale L’amico Plinio il Giovane sero presenti in tutte le biblioteche: Historia Auassocia il suo nome a quello di Tacito nel prestigioso successo che si erano conquistati (Ep. IX, 23, 2), lo elogia per la solenne eloquenza e predice gloria immortale alle sue opere (Ep. II, 11, 17; VI, 16, 1-2; VII, 33, 1). Per il resto, il nome di Tacito sembra rapidamente eclissarsi nel panorama letterario latino, forse per il suo atteggiamento critico nei confronti del regime monarchico. Uniche eccezioni: a fine II secolo la menzione polemica di Tertulliano (che in Apologeticum 16, 1-3 lo accusa di aver diffuso menzogne sul culto giudaico), nella seconda metà del III secolo la discendenza vantata dall’imperatore Tacito (che ordinò che le opere dell’omonimo antenato fos-

gusta, Tacitus 10, 3), nel IV secolo la ripresa da parte dello storico Ammiano Marcellino [ cap. 18.7], che scrisse le sue Res gestae prendendo le mosse dal principato di Nerva, dove si arrestavano le Historiae di Tacito.

Nel Medioevo Il Medioevo praticamente lo ignora: mancava a Tacito la volontà di rendere esemplare la storia di Roma. Soltanto il monaco Rodolfo di Fulda (IX secolo) mostra di conoscerne sicuramente le opere. L’eccezione si spiega ricordando che Rodolfo era stato allievo di Rabano Mauro, proveniente a sua volta dalla scuola di Alcuino, figura centrale e maestro

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PROFILO STORICO

della schola Palatina di Carlo Magno. All’ambiente della Rinascenza carolingia e al monastero di Fulda risale probabilmente l’intera tradizione manoscritta di Tacito.

La riscoperta umanistica L’opera tacitiana torna di nuovo in circolazione grazie agli umanisti italiani: gli ultimi libri degli Annales e quanto è rimasto delle Historiae vennero scoperti a Montecassino alla metà del XIV secolo; nel 1426 a Hersfeld, in Germania, si trovarono le opere minori, compreso il Dialogus; ai primi del Cinquecento furono rinvenuti i primi sei libri degli Annales. L’editio princeps dell’intero Tacito sopravvissuto fu stampata a Roma nel 1515.

Nel Seicento Dopo le fortune umanistiche di Livio celebratore della Roma repubblicana, nell’età dell’assolutismo si sviluppò il fenomeno del “tacitismo”: molti lessero lo storico latino come il teorico del cesarismo e della ragion di Stato (interpretazione già anticipata da Guicciardini: si veda Ricordi 18), dissimulando sotto il suo nome l’attrattiva inconfessata verso i precetti di Machiavelli. Regnanti e pontefici «mettevano in pace la propria coscienza mascherando il Machiavelli col volto di Tacito ed il suo Principe con quello di Tiberio» (Arici), anche se non mancarono interpretazioni opposte dell’opera tacitiana come atto d’accusa contro la tirannide. Sempre nel Seicento gli aspetti più tragici e patetici della storiografia tacitiana influenzarono i maggiori scrittori di teatro: tra questi Ben Jonson (Seianus), Corneille (Othon) e Racine (Britannicus). A Tacito si ispira anche uno dei capolavori del nascente melodramma, L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi (1643).

La Germania testo-base del pangermanesimo Fin dai primi decenni del Cinquecento il testo della Germania (in particolare il capitolo secondo [ T5] e il capitolo 4 [ T6]) fu usato per sostenere la tesi dell’autoctonia del popolo germanico; parallelamente si continuerà a evocare il capitolo conclusivo del II libro degli Annales, che celebra in Arminio, il vincitore di Teutoburgo, il «liberatore della Germania». Con un processo sostanzialmente lineare, che porta dalla fine del Settecento al nazismo, gli scritti tacitiani, nati in una civiltà come quella romana, a cui era del tutto estraneo il culto dell’individualità etnica, vennero piegati a fondare il mito del «popolo originario» (Urvolk). Fondamentale fu la pubblicazione dei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte nel 1808 e della Battaglia di Arminio di Von Kleist nel 1809: di qui l’autoesaltazione del popolo tedesco si avvia a uno sviluppo «in senso scopertamente razzistico, che avrà, verso la fine del secolo, nell’Alldeutscher Verband [Associazione Pantedesca] il suo simbolo più sinistro» (Canfora). Il Verband, costituito nel 1891, confluirà nel movimento nazista nel 1939, e nella Germania nazista l’opuscolo tacitiano fu uno dei testi antichi più tradotti e commentati.

voluzione francese Tacito venne interpretato in modo opposto: non più teorico dell’assolutismo, ora è colui che, nel proemio dell’Agricola, ha celebrato la morte esemplare degli oppositori del regime, lo storico antitirannico che ha svelato gli orrori del dispotismo. Perciò lo amarono in Italia Foscolo, Cattaneo e Mazzini mentre lo detestò Napoleone.

Nell’età del Romanticismo Dopo la ri-

Karl Sterrer, Tacito, 1900. Vienna, Parlamento.

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PROFILO STORICO

COMPITO di REALTÀ • L’immagine del nemico e dello straniero 1. La consegna Alla classe viene assegnato il compito di elaborare un documento ipertestuale multimediale rivolto all’intera scuola sul tema del nemico e dello straniero, sviluppato attraverso un’indagine di natura linguistica ed etimologica, in cui siano coinvolte la lingua latina e la lingua italiana, con eventuali incursioni, se possibile, nella lingua greca e nella lingua inglese. L’ipertesto prodotto dovrà esaltare gli aspetti interattivi: favorire diversi percorsi di lettura partendo da un termine o da un testo, ma anche consentire un suo costante aggiornamento in itinere sulla base degli spunti interattivi dei fruitori. 2. Gli strumenti • La ricerca linguistica ed etimologica dovrà ruotare intorno ai seguenti termini latini (cui se ne potranno naturalmente aggiungere altri in sede di ricerca): – i sostantivi advena, adversarius, barbarus, hostis, inimicus, perduellis, peregrinus; – gli aggettivi adversarius, alienus, aversus, barbaricus, contrarius, extraneus, extrarius, hosticus, hostilis, infensus, inimicus. • Sarà particolarmente indicato procedere anche per coppie oppositive, ad esempio civis/hostis, adversarius/hostis, domesticus/extraneus, advena/ indigenus, ecc. L’obiettivo dell’indagine etimologica è quello di restituire una visione del mondo ad essa sottesa, o meglio sottesa al sistema linguistico di una comunità. Si ripeta la ricerca sulla lingua italiana, spostando l’attenzione sul mondo contemporaneo, e non mancando si riflettere sull’uso di termini come

nemico, avversario, forestiero, straniero, alieno, ecc. negli ambienti a voi noti (la famiglia, la scuola...). Potrete aiutarvi, nella ricerca, con un Dizionario dei sinonimi. • Per le definizioni di termini come hostis, inimicus o perduellis, si tengano presenti i seguenti passi: – Cicerone, Philippica IV, 1 – Cicerone, De officiis I, 37 (che richiama anche un antico uso linguistico presente nelle XII Tavole). Tra le opere letterarie in lingua latina, si proceda alla lettura di passi significativi (presenti nella sezione antologica del I e del III volume) dei due commentarii di Cesare e della Germania di Tacito. Tra i saggi contemporanei sul tema, sono particolarmente indicati i seguenti volumi: – U. Curi, Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010 – T. Todorov, La paura dei barbari, Garzanti, Milano 2016 3. Le fasi operative • Raccogliere il materiale linguistico-etimologico, creando una rete di corrispondenze e di intersezioni tra i vari termini presi in esame. • Decidere le strutture di base dell’ipertesto, delineando un indice degli argomenti chiaro e di facile consultazione. • Definire uno stile per titoli, sottotitoli e testi, che abbia una sua coerenza interna e una sua gradevolezza estetica. • Posizionare i collegamenti tra i vari contenuti creando griglie di associazioni per immagini o concetti.

AUTOVALUTAZIONE Conoscenza dell’argomento

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di narrazione e di esposizione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di aggregazione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Competenze digitali

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Giudizio complessivo sul progetto

 coerente

 esaustivo

 originale

 adeguato

 non adeguato

358 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Plinio scrive a Tacito: due lettere LETTURE PARALLELE • Due testi di G. Leopardi: Del sole, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi IX, passim; Canzone Ad Angelo Mai, vv. 76-105. BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Edizioni L’intero corpus, con traduzione, si trova in Opere, a cura di A. Arici, 2 voll., UTET, Torino 1969-1970, più volte ristampato. Per le opere singole: Annali, introd. e commento di C. Questa, trad. di B. Ceva, 2 voll., Rizzoli (BUR), Milano 1981; La Germania, a cura di L. Canali, Editori Riuniti, Roma 1983; La vita di Agricola. La Germania, introd. e commento di L. Lenaz, trad. di B. Ceva, Rizzoli (BUR), Milano 1990; Agricola. Germania. Dialogo sull’oratoria, a cura di M. Stefanoni, con un saggio di M. Pani, Grandi Libri Garzanti, Milano 1991; Germania, a cura di E. Risari, Oscar Mondadori, Milano 1991; Storie, introd. e com-

mento di L. Lenaz, trad. di F. Dessì, 2 voll., Rizzoli (BUR), Milano 1992; Dialogo sull’oratoria, introd. e commento di L. Lenaz, trad. di F. Dessì, Rizzoli (BUR), Milano 1993; Annali, a cura di L. Pighetti, prefazione di L. Canali, 2 voll., Oscar Mondador i, Milano 1994. � Studi Per un’introduzione complessiva: R. Syme, Tacito, 2 voll., Paideia, Brescia 1967-1971 (Oxford 1951); P. Grimal, Tacito, Garzanti, Milano 1991. Per una riflessione sul pensiero storiografico di Tacito: A. Michel, Tacito e il destino dell’impero, Einaudi, Torino 1973; E. Mastellone Jovane, Paura e angoscia in Tacito, Loffredo, Napoli 1989.

Sulla struttura delle opere monografiche: F. Giancotti, Struttura delle monografie di Sallustio e di Tacito, D’Anna, Messina-Firenze 1971. Sulle singole figure: G. Liguori, Personaggi tacitiani, Pàtron, Bologna 1983. Sulle fonti: C. Questa, Studi sulle fonti degli «Annales» di Tacito, Roma 1963. Su lingua e stile: A. Salvatore, S t i l e e r i t m o i n T a c i t o, Loffredo, Napoli 1950; M. Lauletta, L’intreccio degli stili in Tacito: intertestualità prosa-poesia nella letteratura storiografica, Arte tipografica, Napoli 1998. Sulla fortuna di Tacito: L. Canfora, La «Germania» di Tacito da Engels al nazismo, Liguori, Napoli 1979.

L’esercito romano attraversa il Danubio. Roma, Colonna Traiana.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

Sintesi

PROFILO STORICO

S

La storiografia di Tacito I luoghi, così come le date, di nascita e di morte di Gaio Cornelio Tacito sono incerti; presumibilmente originario delle Gallie, nasce forse intorno al 55-57 d.C. A Roma stringe amicizia con Plinio il Giovane; nel 78 sposa la figlia di Giulio Agricola. Dopo questa data inizia il cursus honorum ed entra a far parte del senato. Durante gli ultimi anni di Domiziano si ritira dall’attività pubblica per riprenderla sotto Nerva e Traiano. Forse dopo il 111 fu proconsole d’Asia; si ritiene che la sua morte sia avvenuta dopo il 117, all’inizio del principato di Adriano. Tacito è autore di due brevi monografie (Agricola e Germania) pubblicate entrambe nel 98, e di due vaste opere annalistiche (Historiae; Annales) di problematica datazione, giunte gravemente mutile, nelle quali si narravano gli eventi del principato dalla morte di Augusto a quella di Domiziano (1496 d.C.). Non pervenute sono invece le orazioni. Discussa è l’attribuzione del Dialogus de oratoribus, centrato sul tema della decadenza dell’oratoria. Il Dialogus de oratoribus riferisce una conversazione svoltasi nella villa di Curiazio Materno, poe­ta tragico. Dapprima si discute se sia più nobile e vantaggioso l’esercizio dell’eloquenza o quello della poesia; poi il dibattito si sposta sulle cause dell’attuale decadenza dell’eloquenza, attribuita nel discorso conclusivo di Curiazio Materno alla perdita della libertà politica. Nell’Agricola Tacito narra la vita e le imprese del suocero Giulio Agricola, che fu governatore della Britannia e venne a morte in circostanze sospette negli anni di Domiziano, proponendosi di elogiarlo quale modello di comportamento politico nei tempi oscuri della tirannide. L’opera si situa all’intersezione di diversi generi letterari, dalla biografia encomiastica alla laudatio funebris, dal libello politico alla monografia storica e al trattato geo-etnografico. La Germania è una monografia di argomento geo-etnografico divisa in due parti. Nella prima

lo storico tratta gli aspetti comuni a tutte le tribù germaniche (caratteristiche del territorio, origini e aspetto fisico degli abitanti, loro riti, usi e costumi); nella seconda descrive gli aspetti particolari delle singole popolazioni. Nell’evidenziare vizi e virtù dei Germani Tacito sviluppa un continuo, allusivo confronto con i costumi romani. I Germani sono indomabili a causa del loro amore per la libertà; rappresentano dunque un grave pericolo per Roma, che ha conosciuto in età imperiale, con la perdita della libertas, il degrado dei suoi valori morali e civili. La narrazione delle Historiae abbraccia l’intera età flavia e la guerra civile seguita alla morte di Nerone (69-96 d.C.). Negli Annales si volge a ricostrui­ re dalle origini la storia del principato: dagli ultimi giorni di Augusto, attraverso gli imperatori della dinastia giulio-claudia, fino alla morte di Nerone (14-68 d.C.). Il racconto degli Annales veniva così a ricongiungersi all’inizio delle Historiae. Tacito subordina l’indagine storiografica all’esercizio della riflessione morale, selezionando gli avvenimenti in base alla forza esemplare, in positivo o in negativo, che essi sanno esprimere. Si chiede se «gli eventi umani siano governati dal destino (fatum) e da una immutabile necessità, oppure se si svolgano a caso»: una visione oscillante, fondamentalmente scettica e pessimistica, della storia, dell’uomo, della stessa storiografia. Concentra lo sguardo sulle singole personalità, ne indaga la complessa, contraddittoria psicologia, costruendo una galleria di personaggi memorabili. Non meno acuta è la sua drammatica rappresentazione dei tumultuosi, irrazionali movimenti delle folle. Lo stile tacitiano è vario e complesso, in continua evoluzione. Ma è nelle Historiae e soprattutto negli Annales che tocca i vertici della prosa latina di ogni tempo: potente e originalissimo, nel suo andamento disarmonico, nelle continue svolte e ramificazioni imprevedute, si fa specchio del flusso mutevole, labirintico, degli avvenimenti e dei pensieri umani.

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Percorso antologico Dialogus de oratoribus T1

L’antica fiamma dell’eloquenza (36)

LAT

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Agricola T2

Il proemio (1-3)

LAT

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T3

L’anti-eroismo esemplare di Agricola (42)

LAT

IT

Germania T4

I confini della Germania (1)

LAT

T5

Autoctonia, origine e divisione del popolo germanico (2)

LAT

T6

Purezza della stirpe germanica (4)

LAT

T7

Natura e risorse del territorio germanico (5)

LAT

T8

La consegna delle armi e il comitatus (13)

LAT

T9

Passione dei Germani per la guerra (14)

LAT

T10

Fierezza e integrità delle donne germaniche (18-19)

LAT

IT

T11

Un popolo di navigatori: i Suioni (44)

LAT

IT

T12

Il mare immoto e l’ambra (45)

LAT

T13

Notizie dai confini del mondo (46)

LAT

IT

LAT

IT

ONLINE

ONLINE

ONLINE ONLINE

Historiae T14

Il proemio (I, 1-3)

T15

Discorso di Galba a Pisone (I, 16)

T16

Il degrado morale del popolo romano (III, 83)

T17

Morte ingloriosa di Vitellio (III, 84, 4-85)

IT LAT

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ONLINE

IT

Annales T18

Dal proemio: sine ira et studio (I, 2-3)

T19

Doppiezza di Tiberio e servilismo dei senatori (I, 7-12 passim)

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T20

Infelicità dello storico moderno (IV, 32-33)

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T21

La morte di Britannico (XIII, 14-16)

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T22

Il matricidio (XIV, 3-10)

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

T 1 L’antica fiamma dell’eloquenza Dialogus de oratoribus 36 LATINO ITALIANO

Ci troviamo nella parte conclusiva del dialogo (gli asterischi segnalano una lacuna del testo). Chi parla è Curiazio Materno, oratore e tragediografo dell’età flavia, qui portavoce delle idee tacitiane. Materno individua con acutezza il nesso che lega eloquenza e vita politica: la grande oratoria della tarda repubblica era il prodotto di un’epoca tumultuosa e fervida, quando, «essendo ogni cosa sconvolta e mancando un unico capo» (par. 2), era in corso un’aspra battaglia per il potere. Nel capitolo successivo, variando la splendida similitudine iniziale, lo stesso Materno osserverà come «creano maggior numero di buoni combattenti le guerre che la pace» (37, 7); e ancora, più avanti, che «le corse su spazi aperti fanno riconoscere i cavalli di razza» (39, 2). Se l’eloquenza è in crisi, le cause non andranno dunque addebitate a ragioni di ordine tecnico o morale, ma di ordine strettamente politico: una compagine statale composita et quieta et beata (par. 2) non può per sua natura alimentare la grande «fiamma» dell’eloquenza. [1] *** rem cogitare, nihil abiectum, nihil humile eloqui poterat. Magna eloquentia,

PERCORSO ANTOLOGICO

sicut flamma, materia alitur et motibus excitatur et urendo clarescit. Eadem ratio in nostra quoque civitate antiquorum eloquentiam provexit. [2] Nam etsi horum quoque temporum oratores ea consecuti sunt, quae composita et quieta et beata re publica tribui fas erat, tamen illa perturbatione ac licentia1 plura sibi assequi videbantur, cum mixtis omnibus et moderatore uno carentibus tantum quisque orator saperet, quantum erranti populo persuaderi poterat. [3] Hinc leges assiduae et populare nomen, hinc contiones magistratuum paene pernoctantium in rostris, hinc accusationes potentium reorum et assignatae etiam domibus inimicitiae, hinc procerum factiones et assidua senatus adversus plebem certamina.

[1]

... meditare la questione, nulla di basso o di meschino poteva dire. La grande eloquenza, come la fiamma, ha bisogno di materia che la alimenti e di movimento che la ravvivi; e nell’ardere acquista splendore. Le medesime cause favorirono anche nella nostra città l’eloquenza degli antichi. [2] Benché infatti certi oratori dei nostri tempi abbiano ottenuto tutti i successi che potevano ripromettersi in uno Stato ben regolato, tranquillo e felice, tuttavia sembra che maggiori speranze si aprissero agli antichi in mezzo a quei grandiosi rivolgimenti e tumulti,1 allorché, essendo ogni cosa sconvolta e mancando un unico capo, ciascun oratore tanto più valeva, quanto più riusciva ad influire sulla moltitudine disorientata. [3] Di qui le frequentissime proposte di leggi e la gran popolarità; di qui gli sproloqui dei magistrati, che quasi pernottavano sulla tribuna: di qui le accuse lanciate contro alti personaggi e le inimicizie condivise anche dalle famiglie; di qui le fazioni dei patrizi, di qui le lotte continue tra il senato e la plebe.

1. Evidente il riferimento all’età della tarda repubblica, e in particolare ai nomi di Pompeo, Crasso e Cicerone.

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PERCORSO ANTOLOGICO

[4]

Quae singula etsi distrahebant rem publicam, exercebant tamen illorum temporum eloquentiam et magnis cumulare praemiis videbantur, quia quanto quisque plus dicendo poterat, tanto facilius honores assequebatur, tanto magis in ipsis honoribus collegas suos anteibat, tanto plus apud principes gratiae, plus auctoritatis apud patres, plus notitiae ac nominis apud plebem parabat. [5] Hi clientelis etiam exterarum nationum redundabant, hos ituri in provincias magistratus reverebantur, hos reversi colebant, hos et praeturae et consulatus vocare ultro videbantur, hi ne privati quidem sine potestate erant, cum et populum et senatum consilio et auctoritate regerent. [6] Quin immo sibi ipsi persuaserant neminem sine eloquentia aut assequi posse in civitate aut tueri conspicuum et eminentem locum. [7] Nec mirum, cum etiam inviti ad populum producerentur, cum parum esset in senatu breviter censere, nisi quis ingenio et eloquentia sententiam suam tueretur, cum in aliquam invidiam aut crimen vocati sua voce respondendum haberent, cum testimonia quoque in <iudiciis> publicis non absentes nec per tabellam dare, sed coram et praesentes dicere cogerentur. [8] Ita ad summa eloquentiae praemia magna etiam necessitas accedebat, et quo modo disertum haberi pul­chrum et gloriosum, sic contra mutum et elinguem videri deforme habebatur.

[4] Tutti

questi mali dilaniavano sì lo Stato, ma stimolavano l’eloquenza di quei tempi e le offrivano brillanti compensi; perché quanto più un cittadino s’imponeva con la parola, tanto più facilmente giungeva alle cariche pubbliche e nelle cariche stesse oltrepassava i proprii colleghi; e tanto maggior favore si procurava da parte dei potenti, tanto maggiore autorità da parte del senato, tanto maggiore notorietà e fama presso la plebe. [5] Affluivano ad essi clientele anche di nazioni straniere; i magistrati che partivano per le province li ossequiavano, ritornati li onoravano; sembrava che preture e consolati spontaneamente li chiamassero, e neppure da privati erano senza potere, poiché con l’autorità e col consiglio guidavano il popolo e il senato. [6] Anzi, gli antichi si erano convinti che senza l’eloquenza nessuno potesse ottenere o mantenere un posto cospicuo ed eminente nello Stato. [7] Né fa meraviglia: perché si poteva allora essere portati alla tribuna anche senza volerlo; e motivare il proprio parere in senato con una breve dichiarazione era poco, se uno non lo sosteneva con l’ingegno e l’eloquenza, perché chi era chiamato a difendersi contro qualche malevola accusa doveva rispondere personalmente, e anche le testimonianze nei processi esigevano una voce esercitata, dato che esse non si potevano rendere di lontano o per iscritto, ma bisognava deporre in persona e di presenza. [8] Così agli altissimi compensi dell’eloquenza si aggiungeva anche il fatto che essa era necessaria: e come era ritenuto bello e glorioso essere stimati eloquenti, così era ritenuto vergognoso sembrar muti e senza lingua. (trad. di A. Arici)

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

T 2 Il proemio Agricola 1-3 LATINO ITALIANO

Sono, queste, le memorabili pagine con le quali Tacito esordisce nella storia letteraria di Roma. Già compaiono i temi sui quali si eserciterà di qui in avanti la riflessione dello storico: la celebrazione della virtus; il confronto fra un passato glorioso e un indegno presente (1, 2-4: Sed apud priores... At nunc); i prevalenti interessi politici, che spingono l’autore ad esprimere un duro giudizio di condanna sul recente principato di Domiziano (responsabile di aver espulso i filosofi dalla città, di aver represso e censurato i grandi ingegni, di aver soffocato la libertà e la cultura) e a guardare invece con speranza al governo attuale di Nerva (colui che ha «conciliato insieme due cose un tempo incompatibili, il principato e la libertà»); una visione pessimistica dell’uomo e della storia (3, 1: natura tamen...). [1, 1]

PERCORSO ANTOLOGICO

Clarorum virorum facta moresque posteris tradere, antiquitus usitatum, ne nostris quidem temporibus quamquam incuriosa suorum aetas omisit, quotiens magna aliqua ac nobilis virtus vicit ac supergressa est vitium parvis magnisque civitatibus commune, ignorantiam recti et invidiam. [2] Sed apud priores ut agere digna memoratu pronum magisque in aperto erat, ita celeberrimus quisque ingenio ad prodendam virtutis memoriam sine gratia aut ambitione bonae tantum conscientiae pretio ducebatur. [3] Ac plerique suam ipsi vitam narrare fiduciam potius morum quam arrogantiam arbitrati sunt, nec id Rutilio et Scauro1 citra fidem aut obtrectationi fuit: adeo virtutes iisdem temporibus optime aestimantur, quibus facillime gignuntur. [4] At nunc narraturo mihi vitam defuncti hominis venia opus fuit, quam non petissem incusaturus: tam saeva et infesta virtutibus tempora. [1, 1]

Sebbene l’età nostra poco s’interessi dei suoi, tuttavia neppure essa ha tralasciato l’usanza, praticata spesso in antico, di tramandare ai posteri le azioni e la vita degli uomini illustri, ogni volta che qualche grande e nobile virtù ha vinto e superato il vizio comune ai piccoli e ai grandi Stati: l’ignoranza del bene e l’invidia. [2] Ma presso gli antichi, come era più frequente l’inclinazione a compiere atti degni di memoria e a tutti ne era aperta la via, così i maggiori ingegni erano indotti non da spirito di parte o da ambizione personale a celebrare la virtù, ma solo dal compenso della buona coscienza. [3] Anzi, moltissimi hanno giudicato non vanità, ma fiducia in sé il narrare la vita propria, e questo non tolse fede né procurò biasimo a Rutilio e a Scauro:1 così bene si sanno apprezzare le azioni meritevoli in quei tempi medesimi, in cui fioriscono più facilmente. [4] Ora invece io, nell’accingermi a narrare la vita di un defunto, provo il bisogno di chiedere indulgenza, il che non mi occorrerebbe ove mi accingessi ad un’accusa: tanto duri e ostili alle virtù sono i tempi attuali.

1. Rutilio et Scauro: P. Rutilio Rufo fu console nel 105 a.C.; M. Emilio Scauro nel 115 e nel 107; entrambi scrissero

un’autobiografia e furono lodati da Cicerone.

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PERCORSO ANTOLOGICO

[2, 1]

Legimus, cum Aruleno Rustico Paetus Thrasea, Herennio Senecioni Priscus Helvidius2 laudati essent, capitale fuisse, neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque eorum saevitum, delegato triumviris ministerio ut monumenta clarissimorum ingeniorum in comitio ac foro urerentur. [2] Scilicet illo igne vocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabantur, expulsis insuper sapientiae professoribus3 atque omni bona arte in exilium acta, ne quid usquam honestum occurreret. [3] Dedimus profecto grande patientiae documentum; et sicut vetus aetas4 vidit quid ultimum in libertate esset, ita nos quid in servitute, adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio. Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere. [3, 1] Nunc demum redit animus; et quamquam primo statim beatissimi saeculi ortu Nerva Caesar res olim dissociabiles miscuerit, principatum ac libertatem, augeatque cotidie felicitatem temporum Nerva Traianus,5 nec spem modo ac votum securitas publica, sed ipsius voti fiduciam ac robur assumpserit, natura tamen infirmitatis humanae tardiora sunt remedia quam mala; et ut corpora nostra lente augescunt, cito exstinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris [2, 1] Abbiamo letto che Aruleno Rustico ed Erennio Senecione furono incriminati

di colpa capitale, il primo per aver lodato Peto Trasea, il secondo Prisco Elvidio2; e che s’infierì non solo contro le loro persone, ma anche contro i loro scritti, sino ad affidare ai triumviri la cura di far bruciare pubblicamente nel foro le opere di quei chiarissimi ingegni. [2] Davvero essi credevano che la voce del popolo romano e la libertà del senato e la coscienza di tutti gli uomini si potessero spegnere con quelle fiamme! E per di più cacciarono in bando i maestri di sapienza3 ed esiliarono ogni nobile arte, perché più nulla di onorevole si potesse in alcun luogo incontrare. [3] Certo abbiamo dato una grande prova di pazienza; e come l’età antica4 giunse all’estremo limite della libertà, così noi a quello della servitù, quando ci era tolta mediante lo spionaggio persino la facoltà di parlarci e di ascoltarci a vicenda. Anche la memoria stessa avremmo perduto, insieme con la voce, se, come il tacere, così fosse in poter nostro il dimenticare. [3, 1] Ora finalmente ci ritorna il coraggio; ma benché sùbito, all’inizio del suo felicissimo regno, Nerva Cesare abbia conciliato insieme due cose un tempo incompatibili, il principato e la libertà, e benché Nerva Traiano5 accresca di giorno in giorno la felicità presente, e la sicurezza dei cittadini non sia soltanto speranza e desiderio, ma valida fiducia nel realizzarsi di questo, tuttavia per la naturale debolezza umana i rimedi operano meno prontamente dei mali; e come i nostri corpi crescono con lentezza, si estinguono a un tratto, così riesce più facile 2. Aruleno Rustico... Priscus Helvidius: personaggi esemplari della resistenza al principato: Trasea Peto, di fede stoica, fu tra le più illustri vittime di Nerone; Elvidio Prisco, genero del precedente ed anch’egli stoico, venne condannato a morte

da Vespasiano; Aruleno Rustico ed Erennio Senecione, per i motivi esposti, incontrarono la morte verso la fine del principato di Domiziano [ cap. 1.2 e cap. 6.1]. 3. expulsis... professoribus: come già aveva fatto in precedenza Vespasiano, fra

il 93 e il 95 Domiziano decretò un bando contro i filosofi. 4. vetus aetas: l’età repubblicana. 5. Nerva Traianus: adottato da Nerva nell’ottobre del 97, Traiano ne aveva assunto il cognomen.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

PERCORSO ANTOLOGICO

facilius quam revocaveris; subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur. [2] Quid, si per quindecim annos,6 grande mortalis aevi spatium, multi fortuitis casibus, promptissimus quisque saevitia principis interciderunt? Pauci et, ut ita dixerim, non modo aliorum sed etiam nostri superstites sumus, exemptis e media vita tot annis, quibus iuvenes ad senectutem, senes prope ad ipsos exactae aetatis terminos per silentium venimus. [3] Non tamen pigebit vel incondita ac rudi voce memoriam prioris servitutis ac testimonium praesentium bonorum composuisse. Hic interim liber honori Agricolae soceri mei destinatus, professione pietatis aut laudatus erit aut excusatus.

6. quindecim annos: la durata del principato domizianeo (81-96 d.C.).

soffocare l’attività degli ingegni e l’emulazione che richiamarle in vita: subentra infatti la dolcezza dell’ignavia stessa, e l’inerzia, dapprima odiosa, alla fine si ama. [2] In verità, se per quindici anni,6 grande spazio della vita mortale, molti sono scomparsi per casi fortuiti, e i più animosi per la ferocia dell’imperatore, pochi siamo sopravvissuti – per così dire – non solo ad altri, ma a noi stessi, essendoci stati tolti proprio nel mezzo della vita tanti anni, per cui i giovani sono passati alla vecchiezza, i vecchi quasi ai confini stessi dell’esistenza, gli uni e gli altri in silenzio. [3] Tuttavia non mi rincrescerà di aver messo a paragone tra loro, sia pure con parola disadorna e rozza, il ricordo della servitù passata e la testimonianza del bene presente. Per ora questo libro, destinato a onorare il mio suocero Agricola, per la devozione dell’intento o incontrerà lode o almeno indulgenza. (trad. di A. Arici)

T 3 L’anti-eroismo esemplare di Agricola Agricola 42 LATINO ITALIANO

Il successo militare di Agricola in Britannia suscita le gelosie di Domiziano, che finge di essere lieto, pur segretamente covando sentimenti di odio e di timore. Conoscendo l’animo dell’imperatore, Agricola evita di dar troppo rilievo alla sua vittoria: ritorna in Roma di notte, si confonde nella turba dei cortigiani, conduce una vita appartata e tranquilla, priva di ostentazione, «modesto nel tenor di vita, affabile nel conversare» (40, 4). Non può tuttavia sottrarsi alle lodi maligne dei cortigiani, che tanto più aizzano il principe, quanto più vantano il vigore, la fermezza e il coraggio militare del generale vittorioso. Inizia a questo punto il brano antologizzato. Posti l’uno di fronte all’altro, il tiranno che non tollera l’altrui gloria e il funzionario onesto disposto a rinunciare al proconsolato che pure, formalmente, gli spetta, sembrano per un attimo sostare sulla soglia di una fosca tragedia del potere (si noti la sentenza drammatica all’inizio del par. 3). Ma Agricola, come il suo autore, si sottrae alla tentazione di un eroismo plateale e compiaciuto: l’esemplarità dell’episodio è tutta di natura civile e politica, e dà luogo a una vigorosa polemica con quanti, nel clima di epurazione seguito all’assassinio di Domiziano, ritenevano degni di lode esclusivamente coloro che si erano rifiutati di collaborare con il regime. Al contrario, Agricola appare allo storico come un esempio di moderazione, di prudenza e di disciplina: si pone al servizio dell’impero, non del tiranno; conserva la propria dignità senza sottrarsi ai doveri civici. Poiché un cittadino di Roma, secondo gli antichi mores (ed è questo il messaggio che Tacito consegna ai suoi lettori), doveva servire lo Stato e non le proprie ambizioni, sia pur nobili, di gloria personale.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Aderat iam annus, quo proconsulatum Africae et Asiae sortiretur,1 et occiso Civica 2 nuper nec Agricolae consilium deerat nec Domitiano exemplum. Accessere quidam cogitationum principis periti, qui iturusne esset in provinciam ultro Agricolam interrogarent. Ac primo occultius quietem et otium laudare, mox operam suam in approbanda excusatione offerre, postremo non iam obscuri suadentes simul terrentesque pertraxere ad Domitianum. [2] Qui paratus simulatione, in arrogantiam compositus, et audiit preces excusantis et, cum annuisset, agi sibi gratias passus est, nec erubuit beneficii invidia. Salarium tamen proconsulare3 solitum offerri et quibusdam a se ipso concessum Agricolae non dedit, sive offensus non petitum, sive ex conscientia, ne quod vetuerat videretur emisse. [3] Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris: Domitiani vero natura praeceps in iram, et quo obscurior, eo inrevocabilior, moderatione tamen prudentiaque Agricolae leniebatur, quia non contumacia neque inani iactatione libertatis famam fatumque provocabat. [4] Sciant, quibus moris est illicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta, sed in nullum rei publicae usum ambitiosa morte inclaruerunt. [1]

[1] Era ormai l’anno in cui si dovevano sorteggiare i proconsolati d’Africa e d’Asia,1

e, data la recente uccisione di Civica,2 non mancava ad Agricola un avvertimento né a Domiziano un precedente. Alcuni, che erano addentro nei pensieri dell’imperatore, vennero da Agricola a chiedergli di loro iniziativa se sarebbe andato in una provincia. E dapprima, alquanto copertamente, elogiavano la quiete e il riposo; poi gli offrirono di aiutarlo a far accettare il suo rifiuto; e da ultimo, ormai apertamente, tra persuasivi e minacciosi lo trassero alla presenza di Domiziano. [2] Questi, esperto nel fingere, con volto atteggiato a superbia ascoltò preghiere e giustificazioni, e dopo aver dato il consenso si lasciò ringraziare: né l’odiosità del benefizio lo fece arrossire. Non diede tuttavia ad Agricola l’onorario che di solito veniva offerto ai proconsolari3 e che egli stesso aveva concesso ad alcuni: o perché offeso che non gli fosse stato richiesto, o rendendosi conto che avrebbe avuto l’aria di comprare il rifiuto da lui stesso imposto. [3] È proprio della natura umana odiare colui che tu hai offeso: però il temperamento di Domiziano, proclive all’ira e tanto più implacabile quanto più impenetrabile, veniva mitigato dalla moderazione e dalla prudenza di Agricola, perché questi non provocava la fama e il destino con l’ostinata arroganza né con la vana ostentazione di libertà. [4] Coloro che hanno per uso di ammirare gli atti di ribellione sappiano che anche sotto cattivi imperatori possono esservi uomini grandi; e che l’obbiedienza e il riserbo, ove non manchino operosità ed energia, possono salire a tanta gloria, quanta ne raggiunsero molti divenuti illustri con una morte ambiziosa, per vie difficili, ma senza alcun vantaggio dello Stato. (trad. di A. Arici) 1. Aderat iam annus... sortiretur: il sorteggio delle province d’Asia e d’Africa era ristretto ai consolari più anziani; l’anno potrebbe essere il 90 d.C. 2. occiso Civica: console aggiunto nel

77 e proconsole d’Asia nell’88 (o 89), G. Vetuleno Civica Ceriale era stato messo a morte da Domiziano sotto l’accusa di cospirazione mentre ancora rivestiva la carica proconsolare (cfr. Svetonio, Domit. 10).

3. Salarium... proconsulare: in età imperiale ammontava a circa un milione di sesterzi, e veniva solitamente corrisposto anche a chi avesse rinunciato alla carica.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

T 4 I confini della Germania Germania 1 LATINO

L’esordio dell’opera, sulle orme del De bello Gallico di Cesare, ha la funzione di delineare i confini di una regione vasta e impervia, dominata dalla presenza di due grandi fiumi – il Reno e il Danubio – sui quali si concentra immaginosamente l’attenzione dell’autore. Il dato geografico non è mai arido, ma viene anzi espressivamente arricchito mediante complessi procedimenti retorici e stilistici: parallelismi sintattici (a Gallis Raetisque et Pannoniis... a Sarmatis Dacisque; Rheno et Danuvio fluminibus... mutuo metu aut montibus), antitesi (il Reno discende inaccesso ac praecipiti vertice; il Danubio molli et clementer edito... iugo), sequenze allitteranti (mutuo metu aut montibus), e inoltre variationes, vocaboli poetici, espressioni ricercate. L’effetto complessivo è quello di trovarsi dinanzi a un vasto, remoto territorio di indeterminata suggestione.

PERCORSO ANTOLOGICO

[1] Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus separatur: cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum inmensa spatia complectens, nuper cognitis quibusdam gentibus ac regibus, quos bellum aperuit. [1, 1] La Germania nel suo complesso è separata dai Galli, dai Reti e dai Pannonii dai fiumi Reno e Danubio, dai Sarmati e dai Daci dal reciproco timore e dai monti; l’Oceano circonda le altre sue parti, abbracciando vaste penisole e grandi estensioni di isole, essendo stati conosciuti solo di recente certi popoli e re, che la guerra [ci] ha rivelato. Germania omnis: nominativo singolare, soggetto di separatur; l’aggettivo omnis indica «nel suo complesso» un insieme articolato in parti, a differenza di totus, che designa un oggetto «tutto intero», concepito come non diviso. In realtà l’autore prende in considerazione esclusivamente quella parte della Germania che si estendeva al di là del Reno, dunque la Germania Transrhenana, detta Barbara o Magna (la Germanía megále dei Greci), delimitata a ovest dal Reno, a sud dal Danubio, a est dai territori dei Sarmati e dei Daci, un’area geografica vastissima, in pratica coincidente con l’intera Europa centrale. L’espressione di apertura, costituita dal nome geografico seguito da omnis, ricorre di frequente, con il carattere di formula tipica, nella letteratura geo-etnografica greca e latina; ma certo il riferimento più diretto e preciso è al celebre esordio Gallia est omnis divisa in partes tres del De bello Gallico (I, 1) di Cesare. – a Gallis Raetisque et Pannoniis... a Sarmatis Dacisque: ablativi di separazione. I nomi dei popoli confinanti con i Germani sostituiscono per metonimia i rispettivi toponimi; di questi, i

primi tre indicano territori all’epoca già inclusi tra le province dell’impero romano. Tacito rinuncia alla minuziosa precisione descrittiva, in vista di un effetto di sintesi espressiva: con Raetis (= Raetia, «Rezia») designa infatti un’ampia regione comprensiva della Vindilicia (odierna Baviera), della vera e propria Raetia (oggi il cantone elvetico dei Grigioni) e del Noricum (Austria settentrionale). La Pannonia corrisponde al territorio delle odierne Croazia e Bosnia; la Sarmazia era una vasta pianura a nord del Mar Nero, racchiusa tra la Vistola e il Volga; la Dacia infine, che sarà conquistata da Traiano fra il 101 e il 105, corrisponde all’odierna Romania. – Rheno et Danuvio fluminibus... mutuo metu aut montibus: ablativi di causa efficiente retti dal predicato separatur. Rheno si riferisce a Gallis; Danuvio a Raetis... et Pannoniis; analogamente, mutuo metu va riferito a Sarmatis, mentre montibus (la catena dei Carpazi) a Dacis. Anche qui Tacito persegue soprattutto effetti stilistico-espressivi, con l’obiettivo di innalzare il tono dell’esordio: effettivamente non esiste una barriera naturale che segni il confine tra i Germani e le tribù nomadi dei Sarmati, ma l’improvvisa inserzione del mutuus metus introduce una nota patetica e drammatica, intensificata dalla triplice allitterazione e dall’evocativa indeterminatezza di quel montibus in luogo della precisa indicazione orografica. – cetera: «il resto» del territorio, ossia la parte più settentrionale; oggetto di ambit. – Oceanus: soggetto di ambit. Ancora un’e-

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spressione evocativa e indeterminata a designare insieme il Mare del Nord (Oceanus Germanicus) e il Mar Baltico (detto Suebicum mare in 45, 2 [ T12 ONLINE]). – ambit: presente indicativo di ambio, ˉıre («girare intorno», «cingere»); poetismo, invece del più prosaico circumdat. – latos sinus: accusativo plurale oggetto di complectens come il seguente inmensa spatia; il sostantivo maschile sinus della IV declinazione vale sia «golfo», «baia», sia «terra sporgente sul mare», come conferma complectens. Verosimilmente sinus è plurale poetico al posto del singolare, ad indicare la sola penisola dello Jütland (Chersonesus Cimbrica). – insularum... spatia = insulas inmensas, lett. «immensi spazi di isole», ipallage per insulas inmensi spatii; espressione ricercata e suggestivamente indefinita, con raffinata variazione rispetto a latos sinus. Si riferisce alle isole dell’arcipelago danese, ma certamente anche alla penisola scandinava, allora ritenuta un’isola. – cognitis... regibus: ablativo assoluto, per lo più considerato di valore causale dai commentatori del testo. Si osservi che lo storico romano usa il termine reges per indicare quelli che sono in realtà dei «capi» di comunità e tribù germaniche, non assimilabili a vere e proprie strutture istituzionali di governo monarchico. – quos... aperuit: espressione di forte impronta poetica. Il pronome in accusativo maschile plurale quos, che introduce una proposizione relativa, si riferisce a gentibus ac regibus, ed è oggetto di aperuit, perfetto indicativo di aperio, ˉıre, qui nel senso metaforico


PERCORSO ANTOLOGICO

[2]

Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac praecipiti vertice ortus, modico flexu in occidentem versus septentrionali Oceano miscetur. Danuvius molli et clementer edito montis Abnobae iugo effusus, pluris populos adit donec in Ponticum mare sex meatibus erumpat; septimum os paludibus hauritur.

di «far conoscere», «rendere noto». Il soggetto bellum, insieme all’avverbio nuper, allude alle spedizioni di Druso, Tiberio e Germanico, che ebbero luogo fra il 12 a.C. e il 16 d.C. [1, 2] Il Reno, nato da una cima inaccessibile e dirupata delle Alpi Retiche, dopo aver piegato con curva leggera verso occidente, sfocia nell’Oceano settentrionale. Il Danubio, che scaturisce da una giogaia di dolce e agevole pendio della catena dell’Abnoba, tocca molti popoli, fino ad irrompere nel mare del Ponto per sei bocche; la settima foce è inghiottita da paludi. Raeticarum Alpium: l’indicazione non è esatta, perché il Reno scaturisce da due sorgenti site entrambe nelle Alpi Lepontine. – vertice: ablativo di origine. – modico flexu: ablativo di valore modale o strumentale da collegare a

versus. – versus: participio perfetto di verto, ĕre («volgersi», mediale); congiunto, come il precedente ortus, a Rhenus, regge in + accusativo di moto a luogo. – septentrionali... miscetur: lett. «si mescola», misceˉ tur (da misceo, eˉ re, con valore mediale) regge l’ablativo di unione septentrionali Oceano; il verbo di colorito poetico e l’espressione nel suo insieme evocano la suggestione di indefinite lontananze. – molli et clementer edito... iugo: lett. «da un giogo dolce e moderatamente elevato»; ablativi di origine retti da effusus. – effusus: participio perfetto di effundo, ĕre (ex + fundo, «versar fuori»), congiunto a Danuvius. – montis Abnobae: genitivo che specifica iugo. Il mons Abnoba, oggi Abernauer Gebirge, ovvero Selva Nera; il singolare mons è qui usato, come non di rado accade nella lingua latina, nel sen-

Analizzare il testo 1.

2. 3.

4.

5.

A quale realtà geografica e geopolitica intende riferirsi Tacito con il nome di Germania? Quali sono i confini del territorio germanico secondo la descrizione tacitiana? A quali stati dell’Europa moderna corrispondono: a) il vasto territorio allora denominato Germania; b) i paesi abitati dai popoli confinanti? Il rapido elenco di questi ultimi fornito da Tacito è completo? Ricerca nel testo i termini e le espressioni che mirano a tratteggiare quella che si usa definire “geografia del lontano”, evocando uno scenario paesistico di remota, indefinita suggestione. Analizza la struttura sintattica dei due periodi che compongono il par. 2: prevale la ricerca di simmetria o la variazione dei costrutti?

Confrontare i testi

6. Ti riportiamo di seguito il passo d’esordio del De bello Gallico di Cesare, che eventualmente puoi trovare analizzato e tradotto nel vol. 2 [ T1, cap. 13]: dopo aver rivisto la traduzione, opera un puntuale confronto con il primo capitolo della Germania.

so di «catena montuosa». – pluris = plures, accusativo plurale da unire a populos con il significato di «molti», «numerosi»; qui, come di consueto in Tacito, non ha valore comparativo. – populos: oggetto di adit; le popolazioni che li abitano per metonimia indicano i «territori», i «paesi» percorsi dal Danubio. – in Ponticum mare: il «mare Pontico» è il Pontus Euxinus (odierno Mar Nero), così chiamato dalla regione asiatica del Ponto. – sex meatibus: ablativo strumentale. Prima di sfociare in mare il Danubio si dirama in un vasto delta. – os: «bocca», la «foce» del fiume; soggetto di hauritur. Si noti la vistosa variatio: al poetico meatus succede il più consueto e prosastico os. –paludibus: ablativo di causa efficiente, retto da hauritur. La settima foce del Danubio non trova accesso al mare; le sue acque si perdono e ristagnano fra le paludi costiere.

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua institutis legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garunna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important proximique sunt Germanis qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garunna flumine Oceano finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiit flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem solem. Aquitania a Garunna flumine ad Pyrenaeos montes et eam parte Oceani quae est ad Hispaniam pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones. 369

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

T 5 Autoctonia, origine e divisione del popolo germanico

Germania 2 LATINO

Dopo aver delineato rapidamente i confini del territorio germanico [ T4], Tacito si concentra sui suoi abitanti, mettendo subito in evidenza il carattere autoctono della stirpe, dichiarata inoltre del tutto immune da successive mescolanze con altre genti. Il tema dell’incontaminata purezza etnica dei Germani sarà ripreso più ampiamente nel capitolo 4 [ T6]. Sono questi i passi tacitiani sui quali per secoli (dall’epoca di Lutero alla Germania nazista) si è arbitrariamente fondata la pretesa di legittimare le mitologie autoesaltatorie e le teorie di superiorità razziale della nazione tedesca [ T6 Leggere un testo critico]. L’autore passa poi a delineare le mitiche origini e la genealogia del popolo germanico, secondo una remota e controversa teogonia desunta dalle testimonianze di «antichi canti», per soffermarsi infine sulla derivazione del nome etnico Germania. [1] Ipsos Germanos indigenas crediderim minimeque aliarum gentium adventibus

PERCORSO ANTOLOGICO

et hospitiis mixtos, quia nec terra olim, sed classibus advehebantur qui mutare sedes quaerebant, et inmensus ultra, utque sic dixerim, adversus Oceanus raris ab

[2, 1] Quanto ai Germani, sarei portato a credere che siano nativi del luogo e nient’affatto mescolati in conseguenza del sopraggiungere di altre genti o dell’ospitalità [offerta ad altre genti], poiché anticamente quelli che cercavano di mutar sede si spostavano non per terra ma per mare, e l’Oceano sconfinato [che si estende] al di là [della Germania], e, per così dire, [posto] agli antipodi, è solcato da rare navi [provenienti] dai nostri paesi. Chi d’altra parte, senza contare il pericolo d’un mare tempestoso e ignoto, lasciando l’Asia, l’Africa o l’Italia, avrebbe potuto dirigersi verso la Germania, desolata nel suolo, rigida nel clima, squallida ad abitarsi e a vedersi, a meno che [quella] non fosse la sua patria? Ipsos: il pronome svolge una funzione di trapasso, spostando l’attenzione dal territorio al popolo germanico. – crediderim: congiuntivo perfetto, di valore potenziale nel presente; esprime un’opinione personale («io per me crederei»; «tendo a credere»), lasciando intendere che non è condivisa da tutti. – indigenas: accusativo plurale del sostantivo comune indigena, ae (indu, forma arcaica di in + gigno); designa coloro che sono originari del territorio («nati sul posto», «indigeni»); Il vocabolo di significato opposto è advena (ad + venio), ad indicare un popolo che da altro sito «giunge» nella regione che storicamente

occuperà; si veda infatti, subito dopo, adventibus. In realtà, come sappiamo, i Germani non sono indigeni ma provengono, al pari di tutti i popoli del ceppo indoeuropeo, dalle zone centrali dell’Asia. – adventibus et hospitiis: ablativi di causa (rispettivamente dei sostantivi adventŭs, uˉs e hospitium, ii) dipendenti da mixtos. Con hospitia si devono intendere stanziamenti pacifici di altre genti con le quali si stabiliscono mutui rappor-

ti di ospitalità. – minime... mixtos: si pone ora l’attenzione sulla purezza della stirpe germanica, argomento che verrà ripreso nel cap. 4. – quia... advehebantur... et... aditur: la congiunzione quia introduce due proposizioni causali coordinate, che motivano le precedenti affermazioni; i soggetti sono rispettivamente il pronome dimostrativo sottinteso ii, ripreso dalla proposizione relativa qui... quaerebant, e Oceanus. – nec =

NOMI e PAROLE degli ANTICHI GERMANIA, GERMANI

Ceterum Germaniae vocabulum recens et nuper additum («Invece [ritengono che] il nome di Germania sia recente e attribuito da poco tempo»; Germania 2, 3): in effetti, le denominazioni Germania e Germani vennero introdotte nel mondo romano soltanto all’epoca di Silla. Tacito aggiunge tuttavia che il nome di Germani era stato assegnato un tempo (tunc), verosimilmente dai Galli, a una sola tribù (natio), quella ora (nunc) denominata dei Tungri, per estendersi in seguito, a poco a poco, all’intero popolo (gens) di stirpe germanica.

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Incerta l’etimologia di questo nome etnico, di probabile origine celtica: forse da gair, «vicino», come vogliono alcuni (e in questo caso Germani designerebbe «i popoli confinanti»); oppure da garm, «clamore» (perciò «i gridatori», con riferimento alle grida di guerra che i Germani solevano levare accingendosi all’assalto). Nel capitolo successivo (3, 1) lo stesso Tacito dà notizia di un loro canto guerresco (bardītus) che veniva intonato nell’imminenza della battaglia per accendere gli animi.


PERCORSO ANTOLOGICO

orbe nostro navibus aditur. Quis porro, praeter periculum horridi et ignoti maris, Asia aut Africa aut Italia relicta Germaniam peteret, informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque nisi si patria sit? [2] Celebrant carminibus antiquis, quod unum apud illos memoriae et annalium genus est, Tuistonem deum terra editum. Ei filium Mannum, originem gentis conditoremque; Manno tris filios adsignant, e quorum nominibus proximi Oceano Ingaevones, medii Herminones, ceteri Istaevones vocentur. Quidam, ut in licentia vetustatis, plures deo ortos plurisque gentis appellationes, Marsos Gambrivios Suebos Vandilios, adfirmant,

et non, dove et si trova in correlazione con et immensus, e la negazione non si riferisce soltanto a terraˉ , non al verbo advehebantur. – classibus: lett. «con le flotte»; poetismo per navibus. – advehebantur: per zeugma, va riferito anche a terra. – quaerebant: un altro poetismo è la costruzione di quaero con l’infinito (sul modello di cupio). – inmensus: con il valore di «sconfinato». – ultra: con valore avverbiale: «oltre», «al di là (della Germania)». – ut sic dixerim: espressione attenuativa. – adversus: participio con valore aggettivale: «agli antipodi», «diametralmente opposto» (al mondo romano); altri intendono «ostile», nel senso che ostacola, rende difficili esplorazioni e insediamenti. In ogni caso, con queste espressioni (inmensus... ultra... adversus) l’autore sottolinea con forza l’estraneità e l’isolamento di un mondo remoto dal «nostro». – ab orbe nostro: ab + ablativo, moto da luogo; «dal nostro mondo», «dalle nostre regioni». Il riferimento è ai porti del Mediterraneo. – Asia... relicta: ablativi assoluti; il participio perfetto singolare relicta («lasciata», da relinquo, ĕre) si riferisce a tutti e tre i nomi delle regioni citate, con i quali Tacito vuole indicare in generale i paesi, ben noti e civilizzati, che si affacciano alle rive del Mediterraneo. Per gli antichi le denominazioni Asia e Africa avevano ovviamente un significato più ristretto di quello odierno. – peteret: congiuntivo potenziale del passato; il soggetto è Quis, pronome interrogativo; oggetto l’accusativo Germaniam. – informem... aspectuque: asindeto trimembre. I tre aggettivi, riferiti a Germaniam e accompagnati da quattro sostantivi in caso ablativo di limitazione (che si possono rendere concettualmente con le espressioni «per quanto riguarda...», «quanto a...»), forniscono una descrizione per ogni aspetto negativa

del territorio germanico. Qui informem è da intendersi nel significato letterale di «senza forma», e perciò privo di bellezza; cultu e aspectu, ablativi dei sostantivi cultus e aspectus della IV declinazione, possono essere anche intesi per variatio quali supini passivi, rispettivamente del verbo colĕre («ad abitarsi», oppure «a coltivarsi») e aspicĕre («a vedersi»), da cui del resto derivano pure i suddetti sostantivi, senza modificazioni di qualche rilievo nel significato, né nella traduzione italiana. – nisi... sit?: nisi si = nisi. Espressione brachilogica, da integrare sottintendendo il pronome dimostrativo ei (che riprende quis), dativo di possesso da unire a sit. La proposizione condizionale negativa in clausola s’intende riferita, con valore limitativo, all’ultimo aggettivo, tristem (soltanto a chi è nativo del luogo quella terra non appare squallida e inospitale); non si esclude peraltro la possibilità che si colleghi direttamente a peteret (liberamente: «chi mai potrebbe lasciare l’Asia, l’Africa o l’Italia per recarsi in Germania [...] a meno che non fosse la sua patria?»). [2, 2] [I Germani] celebrano con antichi canti, che presso di loro sono l’unica forma di tradizione storica, il dio Tuistone, generato dalla terra. Gli [attribuiscono] come figlio Manno, progenitore e fondatore della stirpe [germanica]; a Manno attribuiscono tre figli, dai nomi dei quali sono chiamati Ingevoni [i Germani] più vicini all’Oceano, Erminoni quelli di mezzo, Istevoni tutti gli altri. Alcuni, come [suole avvenire] nella libertà concessa alle cose antiche, affermano che dal dio siano stati generati più figli, e che più numerose siano le denominazioni della stirpe, Marsi, Gambrivi, Svevi, Vandili, e che questi siano i veri e antichi nomi. carminibus: «canti», «poemi»; probabilmente saghe di materia epico-mitica,

ovvero canti religiosi, tramandati oralmente. Lo storico romano usa un termine che rinvia agli arcaici carmina della tradizione latina. – quod: singolare per attrazione del successivo genus. – memoriae et annalium: lett. «di tradizione e di storia». L’espressione è dai più considerata un’endiadi per memoria annalium («tradizione storica»); non necessariamente, tuttavia, poiché memoria designa prima di tutto il «ricordo», tramandato oralmente nei tempi più remoti, annales il documento scritto. Anche qui il secondo vocabolo (annales) evidenzia un richiamo alla terminologia e alle usanze romane. – Tuistonem: divinità nominata solo in questo passo. In altri codici, troviamo le forme Tuisconem, Tristonem, Bistonem. [ Le figure del mito ] – Ei filium... conditoremque: costruisci (Germani adsignant) ei (= Tuistoni, dativo) filium Mannum, originem conditoremque gentis. Soggetto e predicato sono sottintesi; il primo (Germani) si ricava logicamente dal contesto, come più sopra per Celebrant; il secondo (adsignant) dalla frase successiva; filium concorda con l’oggetto (Mannum) in funzione predicativa («quale figlio», «come figlio»); originem conditoremque sono apposizioni di Mannum. – Mannum: nome nel quale si riconosce il vocabolo tedesco Mann («uomo»). – originem... conditoremque: dittologia sinonimica, ovvero accostamento di termini (pressoché) sinonimi, stilema ricorrente nella prosa tacitiana. Nel primo (originem) si ravvisa una metonimia (l’astratto origo al posto di progenitor) frequente nel linguaggio poetico. –– tris = tres. – e... nominibus: ablativo di origine. – vocentur: congiuntivo cosiddetto “obliquo”, mediante il quale chi scrive segnala che sta riportando un’opinione altrui. – Quidam: «certuni», «taluni»; nominativo plurale maschile del pronome indefinito

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

eaque vera et antiqua nomina. [3] Ceterum Germaniae vocabulum recens et nuper additum, quoniam qui primi Rhenum transgressi Gallos expulerint ac nunc Tungri, tunc Germani vocati sint: ita nationis nomen, non gentis, evaluisse paulatim, ut omnes primum a victore ob metum, mox et a se ipsis invento nomine Germani vocarentur.

PERCORSO ANTOLOGICO

quidam, quaedam, quoddam; soggetto di adfirmant. Tacito passa qui ad esporre la diversa tesi proposta da altre, non precisate, fonti storico-antiquarie. – ut in licentia vetustatis: sottinteso fieri solet (ellissi del verbo); lett. «come [suole accadere] nella libertà dell’antichità». – plures deo... appellationes: costruisci [Quidam... adfirmant] deo plures (filios) ortos (esse) et pluris (= plures) appellationes gentis (esse o fuisse); deo (= Tuistone) è ablativo di origine da riferire a ortos (esse), infinito perfetto di orior,

Busto bronzeo raffigurante un uomo con la caratteristica acconciatura germanica.

orıˉri, deponente (lett. «siano nati»; «abbiano avuto origine»). Si osservi ancora una volta la frequenza delle espressioni ellittiche. – adfirmant: predicato della principale, regge l’intero periodo; da esso dipendono le tre infinitive oggettive tra loro coordinate mediante l’enclitica -que e l’incidentale introdotta da ut. – Suebos Vandilios: agli Svevi sarà dedicato il cap. 38 della monografia; i Vandilii furono poi chiamati, nei secoli successivi, Vandali. – eaque... nomina: la proposizione, ellittica del verbo esse, dipende anch’essa da Quidam... adfirmant. [2, 3] Invece [ritengono che] il termine Germania [sia] recente e attribuito da poco tempo, poiché quelli che per primi, dopo aver varcato il Reno, scacciarono i Galli, e che ora [sono detti] Tungri, allora si chiamavano Germani: e che pertanto il nome di una sola tribù, non dell’intero popolo, sia prevalso a poco a poco, così che tutti furono chiamati Germani, dapprima dal [nome del] vincitore per la paura [che incuteva ai Galli], poi, trovato il nome, anche da loro stessi. Ceterum: avverbio; formula di passaggio con valore avversativo (rispetto a vera et antiqua nomina). – Germaniae vocabulum: lett. «il nome di Germania». Secondo Varrone (De lingua Latina VIII, 80), vocabulum designava un «nome comune», mentre nomen il «nome proprio»; la distinzione tuttavia non era più in uso già in Sallustio. [ Nomi e parole degli antichi, p. 370] – recens... additum: sottinteso esse; espressione ridondante, analoga a molli et clementer edito dell’esordio. Additum (da addo, ĕre, lett. «aggiungere»), equivale a inditum (da indo, ĕre, «introdurre», e per traslato «attribuire», «assegnare»). – nunc Tungri: sott. vocentur, da coordinare con expulerint; soggetto di entrambi è qui, pronome relativo. Tungri è predicativo, come il successivo Germani. Secondo Tacito dunque i Tungri, che abitavano i

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territori sulla riva sinistra della Mosella, inizialmente (tunc, «un tempo») erano i soli ad essere chiamati Germani, con il nome probabilmente attribuito loro dai Galli. È discutibile, tuttavia, che questi Germani Cisrhenani fossero effettivamente di stirpe germanica. – vocati sint: proposizione causale introdotta da quoniam; nel modo congiuntivo, come i precedenti vocentur (sottinteso) ed expulerint, perché l’autore sta riportando un’opinione altrui (Quidam... adfirmant, 2, 2). – ita = itaque, secondo un uso frequente in Tacito. – nationis... gentis: natio indica la singola tribù; gens la stirpe nel suo complesso, cioè l’insieme di tutti i popoli appartenenti al medesimo ceppo etnico. Occorre tuttavia avvertire che tale distinzione terminologica non è costante, né rigorosa: Tacito usa infatti molto liberamente i due vocaboli. – nomen... evaluisse: infinitiva dipendente da adfirmant del paragrafo precedente; evaluisse è infinito perfetto dell’incoativo evalesco, poetismo non in uso nella prosa classica, molto frequente, invece, in età imperiale. – ut omnes... vocarentur: proposizione consecutiva dipendente da ita... evaluisse. – a victore: complemento di origine. – ob metum: con valore causale. – mox = deinde, come spesso in Tacito. – a se ipsis: complemento d’agente. Da notare la diversa funzione logico-sintattica della preposizione a + ablativo nelle espressioni a victore e a se ipsis, da collegare entrambe a vocarentur. Si deve evidentemente sottintendere, nel primo segmento della correlazione primum... mox, un complemento d’agente (a Gallis) diverso e simmetrico rispetto al successivo a se ipsis: «dapprima» furono chiamati tutti Germani, con il nome della tribù che li aveva vinti (a victore), «dai Galli», terrorizzati (ob metum) dagli invasori; «poi anche da loro stessi», in quanto assunsero il nome coniato per loro. – invento nomine: ablativo assoluto; invento da invenio, ˉıre, lett. «trovare».


PERCORSO ANTOLOGICO

LETTURA e INTERPRETAZIONE Tacito inclina a credere autoctoni (indigenae) i Germani in quanto la remota lontananza delle loro sedi, la difficoltà e i pericoli della navigazione sull’ignoto e tempestoso Oceano che le circonda, nonché il desolato squallore e il rigido clima di quella terra inospitale indurrebbero ad escludere che genti provenienti da altri luoghi (egli pensa naturalmente alle felici rive del Mediterraneo) si siano trasferite nella regione poi denominata Germania (par. 1). L’affermazione di Tacito si fonda peraltro sull’errata convinzione che i flussi migratori e i movimenti di colonizzazione si fossero verificati soltanto via mare: oggi sappiamo che le migrazioni nell’Europa centro-settentrionale sono al contrario avvenute via terra, e che i Germani provengono dalle zone centrali dell’Asia al pari di tutti i popoli della grande famiglia indoeuropea. Si osservi che le medesime ragioni sono chiamate a sostenere insieme anche la tesi dell’incontaminata purezza della stirpe germanica (indigenas... minimeque aliarum gentium adventibus et hospitiis mixtos, quia...), su cui Tacito ritorna più recisamente all’inizio del cap. 4 [ T6], dove non è più traccia della cautela insita nella scelta attenuativa del congiuntivo perfetto crediderim («io per me crederei», «sarei propenso a credere»).

Un “motivo itinerante”

Nel par. 2 lo storico insiste ancora sul motivo dell’autoctonia, distanziandolo peraltro nella sfera del mito: qui si limita infatti a rinvenirne le tracce nelle leggende fiorite in tempi remoti presso gli stessi Germani e ancora vive in certi «antichi canti», secondo le quali le origini del popolo germanico risalirebbero al «dio Tuistone, generato dalla terra» (Celebrant carminibus antiquis... Tuistonem deum terra editum). Si tratta, in realtà, di un “motivo itinerante” (Norden), reperibile nei miti genealogici e nelle arcaiche teogonie di diversi popoli [ T6 Leggere un testo critico]: basti pensare a Cecrope, mitico progenitore e re del popolo dell’Attica, nato dal suolo stesso e per questo rappresentato come un essere di duplice natura, metà uomo e metà serpente, a significare che era figlio della Terra.

Un campione significativo della prosa tacitiana: lo stile e le scelte formali

Il brano è già indicativo delle peculiari caratteristiche della prosa tacitiana: la concisione e la densità dello stile; l’uso di parallelismi sintattici e di variationes; il frequente ricorso a strutture brachilogiche ed ellittiche; l’uso di poetismi lessicali. Si osservi, nel primo paragrafo, la frase quia nec terra olim sed classibus advehebantur: a terra (ablativo di moto per luogo) non corrisponde mari (come ci saremmo aspettati nella prosa classica) ma classibus (ablativo di mezzo). Significative anche le opzioni lessicali: di colore poe­tico è sia la scelta di classis per navis, sia l’impiego dell’avverbio di tempo olim, spesso usato in poesia per alludere ad epoche remote e indeterminate. Al termine dello stesso paragrafo, nella concisa descrizione del territorio germanico (informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque), ci troviamo dinanzi a un caratteristico esempio di asindeto trimembre, figura stilistica frequentissima nella prosa tacitiana, ove spicca la scelta di un rigoroso parallelismo di costruzione: l’aggettivo precede sempre il sostantivo declinato in caso ablativo di limitazione, così da sottolineare con insistenza gli aspetti negativi di quella regione; ma il terzo colon, secondo una tendenza assai diffusa presso gli scrittori latini, si espande ad abbracciare non uno ma due sostantivi legati dall’enclitica, alle soglie dell’improvvisa e perentoria conclusione brachilogica (nisi si patria sit?) dell’interrogativa retorica dalle ampie volute aperta da Quis porro.

Bracciale germanico in argento, III-II secolo a.C. Trichtingen, Baden-Württemberg.

Il mito dell’autoctonia

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

Analizzare il testo 1.

2. 3. 4.

5. 6.

Per quali ragioni Tacito ritiene di poter affermare che i Germani sono autoctoni? La notizia corrisponde alla realtà storica? Analizza la forma verbale crediderim, individuandone la funzione espressiva nel testo. Nec terra... sed classibus: di quale artificio retoricostilistico si tratta? Ricostruisci a) la genealogia mitica della stirpe germanica proposta da Tacito; b) la versione alternativa di seguito riportata. Qual è il significato dell’espressione ut in licentia vetustatis? Qual è l’etimologia dei nomi Tuisto e Mannus? Originem conditoremque: da quali verbi derivano i

due sostantivi? Dopo aver ricercato sul dizionario, analizzato e confrontato i rispettivi significati (dei sostantivi così come dei verbi), cerca di stabilire se sia lecito considerarli in ogni caso una coppia di sinonimi, o se sia possibile individuare significativi elementi (o sfumature comunque percepibili) di differenza sul piano semantico ed etimologico. 7. Quale valore logico-sintattico ha la proposizione ut... vocarentur? Nelle espressioni a victore e a se ipsis la stessa preposizione regge due diversi complementi: quali? 8. Qual è l’origine dei nomi Germani e Germania? Quali etimologie sono state proposte di tale denominazione etnica?

PERCORSO ANTOLOGICO

Le FIGURE del MITO Genealogia mitica dei Germani secondo Tacito (Germania 2, 2) ▰ Celebrant carminibus antiquis... Tuistonem deum terra editum Etimologicamente il nome Tuisto rinvia al numero «due» (in gotico tivai, in tedesco moderno zwei, in inglese two), che allude a una duplice natura: dunque un dio androgino (lo confermerebbe la generazione di figli, di cui si parla subito dopo senza menzionare l’intervento di una figura femminile), oppure un deus geminus, quale il bifronte Giano (Ianus), uno degli dèi più antichi del Latium vetus e di Roma. Come il dio greco Cronos, figlio di Gea, e come Cecrope, Tuistone è generato dalla terra. Da Tuistone sarebbe stato generato Manno (Mannus), «progenitore e fondatore della stirpe [germanica]», nome nel quale riconosciamo il vocabolo tedesco Mann («uomo»). «La teogonia che ne risulta è la seguente: un dio dalla doppia natura (maschile/femminile), perciò appunto Tuisto [...], generato dalla terra, a sua volta genera un figlio, il cui nome significa “uomo” [...]: da Manno discendono le stirpi degli umani» (Canfora). Manno è dunque “il [primo] uomo” della stirpe germanica, oppure il divino progenitore degli uomini (= dei Germani). Secondo una delle versioni tramandate intorno alla mitica genealogia dei Germani che Tacito qui accoglie, astenendosi peraltro dall’indicarne la fonte (o le fonti), a sua volta Manno avrebbe generato tre figli: «a Manno attribuiscono tre figli, dai nomi dei quali sono chiamati Ingevoni [i Germani] più vicini all’Oceano, Erminoni quelli di mezzo, Istevoni tutti gli altri». Dai nomi dei tre figli di Manno, figure di eroi eponimi, derivano

dunque le denominazioni dei tre principali gruppi etnici germanici. ▰ Una genealogia tripartita Il fenomeno della genealogia tripartita è un “motivo itinerante”, che ricorre cioè presso altri popoli: com’è noto, nella tradizione greca dagli eroi eponimi Doro, Eolo e Ione discendono le tre stirpi elleniche dei Dori, degli Eoli e degli Ioni; ma lo stesso schema si ritrova, secondo quanto narra Erodoto nelle Storie (IV, 5), presso gli Sciti, ed è attestato, ancora in area germanica, nelle saghe della Scandinavia. Peraltro Tacito procede poi ad esporre una diversa tesi, ancora una volta senza precisarne la fonte: «Alcuni, come [suole avvenire] nella libertà concessa alle cose antiche, affermano che dal dio siano stati generati più figli, e che più numerose siano le denominazioni della stirpe, Marsi, Gambrivi, Svevi, Vandili, e che questi siano i veri e antichi nomi». ▰ Ut in licentia vetustatis Con l’espressione, estremamente concentrata, ut in licentia vetustatis (letteralmente «come nella libertà dell’antichità»), che significa «come suole accadere nella libertà di opinione concessa dalla remota antichità», «nella libertà d’opinione che si suole avere parlando dei tempi più antichi», lo storico intende evidentemente prendere le distanze dalle leggende che qui riferisce (come farà in diverse altre occasioni: ad es. in Germania 45, 1 [ T12 ONLINE ]), trattandosi di eventi remoti sui quali non esistono testimonianze e documenti certi. Si può aggiungere che l’inciso accentua i contorni favolosi di questi «remoti frammenti di religione germanica» (Canfora), in ogni caso da ritenersi preziosa fonte di informazioni per gli studi etnologici e antropologici.

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 6 Purezza della stirpe germanica Germania 4 LATINO

Nel capitolo precedente (Germania 3) Tacito riferisce che, secondo fonti non precisate (memorant) Ercole ed Ulisse, i due viaggiatori per eccellenza del mito greco, si sarebbero spinti nelle loro peregrinazioni fino alla remota Germania, e che sussisterebbero tracce del loro passaggio; inoltre, iscrizioni sepolcrali attesterebbero la presenza di remoti insediamenti greci. Su tali notizie non intende pronunciarsi (neque refellere... neque confirmare in animo est); ma il suo scetticismo traspare dalla significativa ripresa, quasi letterale, delle parole di Livio, il quale a proposito dell’archeologia mitica del popolo romano aveva detto nec adfirmare nec refellere in animo est (Ab urbe condita, praefatio 6 [ vol. II, T1, cap. 6]). In apertura del capitolo quarto, con uno stacco improvviso, l’autore riprende il pensiero espresso con maggiore cautela in 2, 1 [ T5], dichiarando recisamente di escludere che i Germani siano stati «contaminati» da mescolanze con altre genti; a riprova, passa a descriverne l’aspetto, sottolineando l’eccezionale uniformità fisica della stirpe che poco prima aveva definito «simile soltanto a se stessa» (tantum sui similem gentem). [1]

Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem extitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum

[4] Personalmente, mi accosto all’opinione di coloro i quali ritengono che i popoli della Germania, non contaminati da nessun’altra mescolanza con altre genti, siano rimasti una stirpe a se stante, pura e simile soltanto a se stessa. Perciò anche l’aspetto fisico, per quanto [è possibile] in un così gran numero di uomini, è in tutti lo stesso: occhi truci e di colore azzurro, capelli fulvi, corpi grandi ma validi solamente nel primo assalto. Non hanno la stessa capacità di resistere alla fatica e al lavoro, e non sono per nulla abituati a sopportare la sete e il caldo, mentre lo sono, a causa del clima e della natura del suolo, a sopportare il freddo e la fame. Ipse: il pronome dimostrativo dà rilievo al carattere personale e soggettivo dell’affermazione («Io, per parte mia», «per mio conto»), con uno stacco netto rispetto al capitolo precedente (Germania 3), dove Tacito riporta l’opinione di «certuni» i quali per contro «ritengono» (quidam opinantur) che in territorio germanico si fossero insediate popolazioni non autoctone. – qui Germaniae populos... arbitrantur: costruisci qui arbitrantur populos Germaniae extitisse gentem propriam et sinceram et tantum similem sui, nullis aliis conubiis aliarum nationum infectos. Il pronome qui, che

riprende il dimostrativo eorum, introduce una proposizione relativa nel modo indicativo (arbitrantur), dalla quale dipende l’infinitiva oggettiva populos... extitisse, cui si collega immediatamente il sostantivo gentem in funzione predicativa del soggetto in accusativo (populos) dell’infinitiva; infectos è participio congiunto a populos, con valore causale. – nullis... conubiis: a conubiis, ablativo plurale di conubium (propriamente «connubio», «matrimonio»; da cum + nubo) con valore causale, si riferiscono gli aggettivi nullis e aliis. Quest’ultimo è stato espunto da alcuni editori, in quanto pleonastico; per contro, è sembrata evidente ad altri l’intenzione di sottolineare mediante il poliptòto aliis aliarum l’«alterità», e quindi la purezza razziale, dei Germani rispetto a tutti gli «altri» popoli. – nationum: genitivo plurale di natio, termine altrove usato da Tacito per indicare la singola «tribù» [ T5], qui invece nel significato di gens, ossia un intero «popolo» (cfr. aliarum gentium in 2, 1). – infectos: participio perfetto di inficio, ĕre («contaminare», «macchiare»); potrebbe tuttavia essere impiegato qui semplicemente quale sinonimo di mixtos (cfr. 2, 1), comunque in antitesi con il successivo sinceram. – propriam et sinceram et tantum sui similem: il polisindeto, insieme a una fitta serie di

assonanze, omoteleuti e allitterazioni, scandisce con perentoria forza asseverativa l’enunciato. – corporum: lett. «dei corpi», genitivo plurale che specifica habitus. – tamquam: «tanto quanto», «per quanto», «nella misura in cui [è possibile]»; l’avverbio ha qui valore limitativo. – idem omnibus: sottinteso est; soggetto è habitus, nominativo singolare; omnibus è dativo di possesso. – truces et caerulei oculi: occhi «torvi», «fieri», e di colore azzurro chiaro. Già Cesare (De bello Gallico I, 39, 1) riportava dicerie diffuse dai Galli e dai mercanti, secondo le quali era impossibile sostenere lo sguardo penetrante (acies oculorum) dei Germani. – rutı̆lae comae: rutilus designa un colore «rossiccio», «fulvo»; presso altri autori le chiome dei Germani sono dette «bionde». Peraltro, secondo quanto riferisce Plinio il Vecchio, era loro usanza tingersi i capelli di un rosso più vivo e cupo con una mistura di sostanze vegetali e animali (sapo, da cui «sapone») per apparire più temibili in combattimento. – magna corpora: lo stesso Cesare, nel passo sopra citato, non mancava di far cenno all’imponente corporatura dei Germani (ingenti magnitudine corporum). – et tantum... valida: la congiunzione et riveste qui valore avversativo; valida, neutro plurale riferito a corpora, nel senso di «adatti», regge il

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida. Laboris atque operum non eadem patientia, minimeque sitim aestumque tolerare, frigora atque inediam caelo solove adsueverunt. complemento di fine ad impetum, lett. «all’impeto», «all’assalto». La frase ha valore limitativo rispetto a magna corpora: il fisico possente dei guerrieri germanici si rivela efficace soltanto (tantum) nel primo impeto di un assalto, come pura forza d’urto. – Laboris atque... patientia: sottinteso est illis, dativo di possesso. Laboris atque operum può essere intesa come una coppia sinonimica, dove labor indica genericamente la «fatica» in sé, lo sforzo assiduo necessario per compiere qualsiasi lavoro, mentre opera, plurale

neutro, si riferisce in particolare a specifiche «opere» da realizzare; d’altra parte si potrebbe trattare di un’endiadi: «ai lavori faticosi». I due genitivi sono retti dal nominativo singolare soggetto patientia, lett. «[capacità di] sopportazione»; non eădem presuppone un termine di paragone sottinteso, che si ricava dall’espressione limitativa tantum ad impetum valida. – minimeque... adsueverunt: costruisci et minime (adsueverunt) tolerare sitim aestumque, caelo solove adsueverunt (tolerare) frigora atque inediam.

– caelo solove: ablativi di causa, che si riferiscono rispettivamente a frigora e ad inediam. In questo caso il -ve enclitico equivale a et. – adsueverunt: perfetto indicativo di adsuesco, ĕre, verbo incoa­ tivo atto ad esprimere la gradualità, il verificarsi progressivo di un’azione o di una condizione; gli abitanti della Germania «si sono assuefatti» a resistere al freddo a causa della rigidità del clima e a sopportare la fame a causa della natura del suolo, povero e sterile.

PERCORSO ANTOLOGICO

LETTURA e INTERPRETAZIONE Tamquam o quamquam?

Il mito della razza è estraneo alla mentalità romana

Occorre in realtà, per leggere e interpretare il testo con il debito rispetto esegetico, tener conto almeno di due elementi: in primo luogo, che alla mentalità romana è completamente e costitutivamente estraneo il mito della razza; in secondo luogo, che i caratteri di autoctonia (Germania 2, 1), purezza di sangue e autosomiglianza attribuiti da Tacito alla stirpe germanica sono “motivi itineranti” (Norden), ricorrenti nelle tradizioni di molti e diversi popoli, nonché stereotipi etnografici, veri e propri tópoi letterari presenti in numerose fonti antiche, ad alcune delle quali potrebbe – più che verosimilmente – aver attinto lo stesso autore della Germania.

Determinismo ambientale

Tra l’altro, il capitolo 4 si conclude su considerazioni esplicitamente improntate a un criterio di determinismo ambientale (caelo solove), elaborato nell’ambito della scuola ionica e ampiamente diffuso nel mondo antico, secondo il quale è dato riscontrare una stretta affinità tra il carattere di un popolo e la natura della terra in cui abita: fattori esterni, dunque (il clima, il suolo), assai più che interni (la supposta purezza del sangue), incidono in modo determinante sulle peculiari caratteristiche di una popolazione (per l’approfondimento, la documentazione e la discussione di questi temi, il testo di riferimento è il fondamentale studio di L. Canfora [ T6 Leggere un testo critico]).

Nell’inciso tamquam in tanto hominum numero l’avverbio ha valore limitativo («tanto quanto», «per quanto», «nella misura in cui [è possibile]»), ad attenuare e ridimensionare quella che sarebbe altrimenti l’affermazione di un’assoluta uniformità (habitus... corporum... idem omnibus). Peraltro, taluni codici riportano quamquam, congiunzione concessiva con valore avverbiale («benché in un così grande numero di uomini»), che comporta una differenza di rilievo sul piano del significato e dell’interpretazione (= hanno tratti somatici perfettamente identici nonostante siano così numerosi). Non stupisce pertanto che la lezione quamquam sia stata privilegiata dagli editori inclini a condividere le mitologie autoesaltatorie del popolo tedesco: infatti accentua enfaticamente, anziché attenuare, la straordinaria uniformità nell’aspetto fisico dei Germani, considerata prova concreta e certa della loro incontaminata purezza razziale.

Rilievi stilistici: ricercata costruzione del periodo tacitiano

Si osservi, in particolare, la ricca elaborazione stilistico-retorica del periodo che chiude il capitolo: la disposizione chiastica delle coppie sitim aestumque... frigora atque inediam, con variatio delle congiunzioni coordinanti; l’ulteriore variatio nei soggetti, dall’astratto patientia al concreto Germani sottinteso; la coordinazione per asindeto avversativo delle due coppie di accusativi rette dall’infinito tolerare.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Analizzare il testo 1.

Analizza la struttura sintattica del complesso periodo (Ipse... arbitrantur) che apre il capitolo. Qual è la funzione del participio infectos? 2. Quali sono le espressioni che vengono impiegate per affermare la purezza razziale dei Germani? 3. Come descrive Tacito i caratteri fisici dei Germani?

Quali tratti ne rivelano la forza e l’indole bellicosa? Quali costituiscono invece dei fattori di debolezza? Qual è il significato dell’espressione et tantum ad impetum valida? Qual è la funzione logica della congiunzione et in questo caso? 4. Laboris atque operum non eadem patientia: qual è il termine di confronto sottinteso a non eadem?

Leggere un TESTO CRITICO Arbitrarie interpretazioni del testo tacitiano Nelle pagine che qui riportiamo Luciano Canfora, autore di un fondamentale saggio sull’argomento (La «Germania» di Tacito da Engels al nazismo, Liguori, Napoli 1979), fornisce un’esauriente documentazione atta a dimostrare l’oggettiva inconsistenza sul piano esegetico e storico-culturale, nonché la pregiudiziale forzatura ideologica, delle letture cui è stato sottoposto nell’arco di oltre quattrocento anni in area tedesca

il testo tacitiano, onde sollecitarlo arbitrariamente a legittimare dapprima il mito della purezza e superiorità razziale del «popolo originario» (Urvolk), poi le dottrine scopertamente razzistiche elaborate fra Otto e Novecento e confluite nel «bagaglio ideale» del movimento nazista a giustificare le sinistre pratiche di «pulizia etnica» della Germania hitleriana.

Il mito dell’autoctonia ha solitamente un valore autoesaltatorio. È un’idea radicata ad esempio nella coscienza degli Ateniesi, ripetuta ogni volta nell’oratoria pubblica destinata alla educazione di massa (ad esempio gli epitafi per i caduti in guerra, pronunciati nel quadro di una cerimonia pubblica di grande presa). La spiegazione ‘scientifica’ del fenomeno la abbozza Tucidide quando sostiene, all’inizio del primo libro, che l’Attica ebbe sempre la stessa popolazione perché il suo suolo aspro non attrasse altri gruppi. È una spiegazione che in realtà dà conto più della ‘purezza’ che dell’autoctonia: quest’ultima è pretesa legata soprattutto alla tradizione mitica, anche se la si trova affermata in testi ‘seri’, come ad esempio il Panatenaico di Isocrate (§ 124). È una pretesa che si ritrova anche in altre culture: nel mondo slavo, in quello georgiano e in quello scandinavo. Basti pensare alla formula adoperata da Jordanes [VI sec. d.C.] secondo cui la Scandinavia (Scandza) sarebbe la «fabbrica del genere umano» (officina gentium vel quasi vagina nationum; De origine actibusque Getarum IV, 25). Nel caso dei Germani, il testo capitale è la Germania di Tacito (il cap. 2 sulla «autoctonia», il cap. 4 sulla «purezza»). A rigore l’argomento con cui Tacito spiega perché sia incline a ritenere indigenae i Germani è poco lusinghiero: nessuno – egli dice – mette piede in questo paese non appetibile, e quindi chi lo abita non vi dev’essere giunto apposta per via migratoria; e tanto meno altri hanno mai tentato di scalzare la popolazione preesistente. Poco importa comunque che le ragioni addotte siano queste: quel capitolo resta il fondamento di una lunga tradizione e di un sentimento nazional-razziale divenuto col tempo sempre più inquietante. [...] L’autore ripercorre quindi le tappe attraverso le quali il testo della Germania di Tacito, strumentalizzato e distorto, si avvia a diventare il pilastro di un delirante mito della purezza e superiorità della razza ariana, la cui moderna collocazione sarebbe appunto nell’area germanica. Fin dai primi decenni del Cinquecento, ai tempi della Riforma luterana, si susseguono orgogliose 377 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

Leggere un TESTO CRITICO

riprese della tesi dell’autoctonia [ Tacito nel tempo]; ma è fra Sette e Ottocento, in particolare nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte (1808), che si ravvisano i primi inquietanti sviluppi del mito del «popolo originario» (Urvolk) in direzione scopertamente razzistica, destinati a culminare, verso la fine del secolo, nella fondazione dell’Associazione Pantedesca (Alldeutscher Verband, 1891), potente gruppo di pressione che nel 1939 confluirà nel movimento nazista. Si ricorda fra l’altro l’indiscussa preferenza degli editori vicini alle posizioni razziste fra Otto e Novecento per la variante quamquam (anziché tamquam [ T6, Lettura e interpretazione]); nel cap. 4, tutt’altro che irrilevante ai fini dell’interpretazione ideologica del passo tacitiano; variante cui si attiene anche l’inglese ‘tedeschizzato’ Chamberlain, il quale nella sua opera del 1899 (Fondamenti del XIX secolo; ma la seconda edizione è del 1932) deplora che i tedeschi, entrati nella storia, secondo quanto attesterebbe Tacito, come «razza pura», non si tutelino, causa una politica «poco vigile», da un’allarmante «mescolanza di sangue» (Blutvermischung), esprimendosi a favore della «benemerita» azione del Verband.

PERCORSO ANTOLOGICO

C’è da dire che l’immediato contesto poteva spingere in direzione di interpretazioni “sovreccitate” in senso razzistico (chi si esalta dinanzi a una così perfetta identità fisica ha in fondo un ideale da allevamento di animali). Parole come «nullis aliarum gentium conubiis infectos» sono inequivocabili: l’aggettivo infecti, posto in opposizione al successivo sinceram, non può che intendersi nel senso che i Germani non sono «macchiati» da contatti o mescolanze con altre stirpi. Del resto, sul tema dei conubia in relazione alla «purezza» razziale, Tacito ritorna alla fine dell’opuscolo (46, 1) per osservare che i Bastarni «conubiis mixtis nonnihil foedantur» [ T13]. [...] Il modo in cui Tacito si esprime non deve trarre in inganno. Il mondo romano è, in quanto mondo della «mescolanza» (come ben dice l’imperatore Claudio nel discorso valorizzato da Tacito nel libro XI degli Annali), il più lontano dal culto di questi miti razziali. La stessa, mitica, origine «troiana» spingeva in tal senso. Claudio vanta il «sangue mescolato» della comunità romana sin dal tempo di Romolo (temeratum sanguinem). E Tacito scrive quando uno spagnolo [Traiano] è divenuto princeps, mentre qualche decennio più tardi sarà sul trono un africano, Settimio Severo. Il meccanismo di cooptazione delle élite provinciali e di allargamento progressivo della cittadinanza opera in direzione diametralmente opposta a quella della difesa di una propria presunta sinceritas etnica (e infatti l’improvvisazione, durante il fascismo, di una «difesa della razza» italica, proclamata seduta stante «ariana» e insignita del blasone di una “arianità” di diretta derivazione romana, fu risibile – tra l’altro – proprio per l’inesistenza di una omogenea «stirpe romana» di partenza). [...] In ogni caso è necessario distinguere tra mentalità razzistica e interesse etnografico. L’attenzione che Tacito rivolge ai Britanni (Agricola), ai Germani (in questo opuscolo), agli Ebrei (Storie V, 2-10) è stata sostanzialmente fraintesa quando, com’è accaduto alla Germania, se n’è voluto fare un remoto pilastro del moderno pangermanesimo. Una analisi non inficiata da pregiudizi porta agevolmente a constatare che le stesse caratteristiche (presunte) di autoctonia, purezza e autosomiglianza, che Tacito riferiva ai Germani, ricorrono, in riferimento ad altri popoli, in fonti di molto precedenti: fonti che – è stato osservato – potrebbero essere alla base della etnografia tacitiana ben più che la diretta esperienza dell’autore. Capitoli dell’opuscolo tacitiano, quali il 2 e il 4, assunti tradizionalmente come «tavole della legge» del razzismo germanico, perdevano molto del loro presunto carattere profetico se analizzati dal punto di vista della loro derivazione antiquaria e letteraria. Analisi in base alla quale essi risultavano come il frutto di una stratificazione complessa, nel corso della quale elementi etnico-culturali originariamente riguardanti altri popoli avevano finito per essere attribuiti ai Germani. È merito di Eduard Norden di aver proceduto a siffatta 378 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

analisi, nel volume sulla protostoria germanica in Tacito (Die germanische Urgeschichte in Tacitus Germania, Berlin 1920, ma elaborato nel quinquennio precedente). Almeno in due punti – nota Norden – il cap. 4 trova rispondenza letterale in una fonte greca, nell’opuscolo ippocratico Sulle arie, le acque, i luoghi: a) «Propriam et tantum sui similem gentem» trova rispondenza nel cap. 19 dell’opuscolo: «Parliamo ora del clima e dell’aspetto degli Sciti. Questa stirpe è molto diversa dagli altri uomini, e, come gli Egizi, è simile unicamente a se stessa», b) «Laboris atque operum non eadem patientia» corrisponde alla formula con cui, nel cap. 15, Ippocrate descrive la non grande patientia laboris degli abitanti la regione attraversata dal fiume Fasi (il fiume del Caucaso presso cui Senofonte ambiva fondare una colonia). Norden rifugge dall’indicare una diretta filiazione che conduca direttamente dallo scienziato del V secolo a Tacito. Nota invece, opportunamente, che già nell’opuscolo ippocrateo l’etnografia degli Sciti è costruita con elementi ripresi dalla descrizione di altri popoli (gli Egizi, per esempio). Si tratta dunque – è questa la sua ipotesi – di «motivi itineranti», che attraverso il gran fiume della tradizione erudito-etnografica (Norden parla opportunamente di «correnti tradizionali») hanno fissato gli stereotipi antropologici delle principali nationes. (L. Canfora, Germania. Autoctonia e «purezza razziale» dei Germani, in Autori e testi della letteratura latina, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 751-756 passim)

T7

Natura e risorse del territorio germanico

Germania 5

ONLINE

T 8 La consegna delle armi e il comitatus Germania 13 LATINO

Fin qui Tacito ha illustrato sotto vari aspetti le costumanze dei Germani: armamento, impiego dei cavalli, tecniche di combattimento; organizzazione delle comunità, cui sono preposti capi militari e sacerdoti; alta considerazione in cui sono tenute le donne, animatrici delle battaglie e dotate di spirito profetico; divinità, sacrifici e luoghi di culto; auspici e pratiche divinatorie; pubbliche assemblee e deliberazioni; amministrazione della giustizia (capp. 6-12). L’esordio di questo capitolo si riallaccia a un passo precedente (11, 2), dove è detto che i Germani in assemblea considunt armati, immagine che si ritrova più avanti (22, 1: ad negotia nec minus saepe ad convivia procedunt armati, «alle loro occupazioni, e non meno spesso ai banchetti, si recano armati»). Non è meraviglia dunque se, presso un popolo che conferisce tale importanza alle armi, considerate il massimo, irrinunciabile segno di distinzione e d’onore, il rito di iniziazione dei giovani al mondo degli adulti, ossia il loro ingresso a pieno titolo nella comunità, consista nella solenne cerimonia di consegna delle armi stesse, che l’autore presenta come l’equivalente dell’assunzione della toga virile per i Romani. Tacito passa poi ad introdurre direttamente (13, 2: inter comites adspici), senza alcuna preliminare definizione, il tema del comitatus, cioè la schiera di guerrieri scelti e fedeli che forma il seguito personale del capo o princeps, che verrà sviluppato e approfondito nel capitolo successivo [ T9 ONLINE]. L’istituto del comitatus, analogo all’etairéia («etería») dei Greci, non manca di paralleli presso altri popoli, ad esempio i Celti delle Gallie, come attestano Polibio (Storie II, 17, 12) e Cesare (De bello Gallico VI, 15). 379 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

PERCORSO ANTOLOGICO

[1] Nihil autem neque publicae neque privatae rei nisi armati agunt. Sed arma sumere non ante cuiquam moris, quam civitas suffecturum probaverit. Tum in ipso concilio vel principum aliquis vel pater vel propinqui scuto frameaque iuvenem ornant: haec apud illos toga, hic primus iuventae honos; ante hoc domus pars videntur, mox rei publicae. [2] Insignis nobilitas aut magna patrum merita principis dignationem etiam adulescentulis adsignant; ceterum robustioribus ac iam pridem probatis adgregantur, nec rubor inter comites adspici. Gradus quin etiam ipse comitatus habet, iudicio eius quem sectantur; magnaque et comitum aemulatio, quibus primus apud principem suum locus, et principum, cui plurimi [13, 1] Nessun atto dunque essi compiono, né pubblico né privato, se non armati. Ma è consuetudine che nessuno rivesta le armi prima che la comunità lo abbia giudicato idoneo [a portarle]. Allora nell’assemblea stessa uno dei capi, oppure il padre o i parenti ornano il giovane dello scudo e della framea: questa fra loro la toga, questo il primo onore della gioventù; prima di questo [evento, i giovani] sono considerati parte della famiglia; dopo, della collettività. Nihil... rei: lett. «Niente di cosa pubblica né privata»; da Nihil, oggetto di agunt, dipendono i genitivi partitivi publicae... privatae rei. – autem: la congiunzione non ha qui valore avversativo, ma connettivo. L’inizio di questo capitolo si riallaccia infatti a 11, 2, dove è detto che i Germani in assemblea considunt armati, immagine che si ritrova in un capitolo successivo (22, 1: ad negotia nec minus saepe ad convivia procedunt armati, «alle loro occupazioni, e non meno spesso ai banchetti, si recano armati» ). – Sed arma... probaverit: costruisci Sed cuiquam moris (est) arma sumere non ante quam civitas probaverit (eum) suffecturum esse (gerendis armis). – arma sumere: l’infinito sumĕre ha per oggetto l’accusativo neutro plurale arma ed è soggetto di moris (est). L’espressione riecheggia allusivamente la frase sumere togam virilem, che in Roma indicava l’analogo rito di iniziazione al mondo degli adulti, quando, generalmente a 17 anni, in una solenne cerimonia pubblica il giovane deponeva la toga praetexta orlata di porpora e vestiva per la prima volta la toga virilis o pura, tutta bianca, a segnare simbolicamente l’ingresso nella maggiore età.– cuiquam moris: sottinteso est; lett. «ad alcuno è di costume», costruzione con il genitivo partitivo in luogo di mos est, che regge cuiquam, da-

tivo del pronome indefinito quisquam («alcuno», «qualcuno»), usato di preferenza in frase negativa, dove sta a significare «nessuno». –– civitas: non già la «cittadinanza», l’insieme organizzato dei cittadini iure sociati, ma semplicemente la «comunità», la «collettività» tribale, un’aggregazione di individui fondata su legami personali, di sangue e di consuetudini. Qui come altrove (si vedano, alla fine di questo paragrafo, rei publicae; e inoltre regibus in 1, 1 [ T4]) ci troviamo di fronte alla interpretatio Romana di costumi, oggetti, nomi, divinità e riti germanici; in particolare civitas viene il più delle volte impiegato, in alternativa con natio, a designare la «tribù» (cfr. nota a nationis... gentis in 2, 3), come già nei Commentarii di Cesare. – suffecturum: sottinteso eum esse, infinito futuro di sufficio, ĕre («essere sufficiente», «essere capace», «idoneo»); suffecturum può essere inteso come participio futuro usato assolutamente. In ogni caso il concetto si completa mediante un’ulteriore espressione sottintesa, ad es. gerendis armis («a portare le armi», costruzione perifrastica passiva con il gerundivo in caso dativo, equivalente a una proposizione finale), o semplicemente armis, dativo di fine. – probaverit: perfetto congiuntivo di probo, aˉre, il cui soggetto è il nominativo civitas. Si tratta di un termine tecnico del linguaggio militare romano, che designa la procedura (probatio) secondo la quale le reclute venivano esaminate e dichiarate abili alle armi (e si veda poco più avanti probatis). – Tum in ipso concilio: la consegna delle armi avviene dunque durante la medesima assemblea in cui il giovane è stato riconosciuto idoneo; la collocazione enfatica dell’espressione, all’inizio del periodo, conferisce particolare rilievo al carattere pubblico della cerimonia, che presenta indubbie affinità con la medievale investitura del

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cavaliere. – vel principum... ornant: vengono elencate, secondo una gradatio decrescente d’importanza e di autorità, le figure cui spettava il compito di consegnare le armi; l’enumerazione è scandita dalla triplice anafora di vel e dalle insistite allitterazioni. Per consuetudine, in verità, l’incarico toccava al padre, oppure a un parente stretto; ad officiare l’investitura era uno dei capi (principum aliquis) soltanto in certi casi, in segno di particolare distinzione. – scuto frameaque: ablativi strumentali retti da ornant. Framea, come spiega l’autore nel cap. 6, è termine germanico (di etimologia incerta: forse da fram, «avanti») che designa una lancia o meglio un’asta di legno, più corta e sottile, precisa Tacito, rispetto alla lancea, con una breve e stretta punta di ferro. – haec... hic: poliptòto enfatico. I pronomi dimostrativi, soggetti di un sottinteso verbo est, sono concordati per attrazione con i predicati (toga... honos), sebbene logicamente si riferiscano a scutum e framea. – iuventae: genitivo di iuventa, forma poetica per iuventus; l’astratto al posto del concreto iuvenes. – domus: genitivo di domus («casa») secondo la IV declinazione, metonimia per familia. L’antitesi con il successivo rei publicae, pure genitivo da collegare a pars, è sottolineata dalle contrapposte determinazioni temporali ante hoc... mox, con quest’ultimo, secco monosillabo a segnare una cesura netta, una svolta decisiva. – pars videntur: soggetto sottinteso iuvenes. [13, 2] Un’insigne nobiltà o i grandi meriti dei padri conferiscono anche a giovinetti il rango di capi; peraltro essi vengono aggregati a [guerrieri] più maturi e già da tempo investiti delle armi, né si vergognano di farsi vedere tra i compagni del seguito. E anzi, il seguito stesso ha [al suo interno] una gerarchia, a discrezione del capo; e


PERCORSO ANTOLOGICO

et acerrimi comites. [3] Haec dignitas, hae vires, magno semper et electorum iuvenum globo circumdari, in pace decus, in bello praesidium. Nec solum in sua gente cuique, sed apud finitimas quoque civitates id nomen, ea gloria est, si numero ac virtute comitatus emineat; expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsa plerumque fama bella profligant. grande è l’emulazione sia fra i gregari, [per stabilire] a chi [tocchi] il primo posto accanto al loro capo, sia fra i capi, [per accertare] chi abbia i compagni più numerosi e più valorosi. Insignis... adsignant: per nobiltà d’origine o speciali benemerenze degli antenati accade che venga nominalmente conferito anche a ragazzi molto giovani (adulescentuli) il rango di capi (principes), ma non per questo, come viene precisato subito dopo, sono dispensati dal periodo di apprendistato in qualità di gregari (comites) al seguito di guerrieri più adulti e più esperti. – dignationem: Tacito usa dignatio quale sinonimo di dignitas. – ceterum: avverbio di valore avversativo («peraltro», «tuttavia»). – robustioribus: sott. aetate, ablativo di limitazione (lett. «più vigorosi per età»; «più adulti»). – probatis: cfr. nota a probaverit (13, 1). – nec rubor: sott. iis est, costruzione con il nominativo, più raro rispetto al doppio dativo (nec rubori iis est); rubor, «rossore», è metonimia per dedecus («vergogna»). – aspici: lett. «essere visti», infinito presente passivo di aspicio, ĕre. – Gradus... sectantur: costruisci quin etiam ipse comitatus habet gradus, iudicio eius quem (comites) sectantur. Posto in forte rilievo all’inizio del periodo, l’accusativo plurale Gradus, oggetto di habet, indica la gerarchia di «gradi» militari che vige all’interno del comitatus. – iudicio eius quem sectantur: lett. «secondo il giudizio di colui che seguono»; il pronome relativo quem, oggetto di sectantur (da sector, aˉri, intensivo e frequentativo di sequor, sequi), riprendendo il dimostrativo eius, introduce una relativa perifrastica nel modo indicativo. Tacito si avvale qui della perifrasi (eius quem sectantur = principis) probabilmente in funzione di variatio stilistica rispetto ai successivi princi-

Analizzare il testo 1.

pem... principum. – magnaque... comites: costruisci magnaque aemulatio (est) et comitum (ut statuant) quibus (sit) primus locus apud suum principem, et principum (ut statuant) cui sint comites plurimi et acerrimi. Il periodo è alquanto complesso: con un elaborato parallelismo strutturale aemulatio si riferisce sia a comitum che a principum, genitivi plurali, su ognuno dei quali si appoggia una interrogativa indiretta ellittica del verbo (rispettivamente quibus... locus e cui... comites); dall’espressione iniziale magna... aemulatio, mediante una sottintesa proposizione finale (tipo ut statuant, «per stabilire») dipendono le due interrogative indirette costruite con il dativo di possesso e il verbo esse sottinteso. [13, 3] Questo è il prestigio, questa la potenza, aver sempre intorno a sé una folta schiera di giovani eletti, in pace un onore, in guerra un presidio. E non solo fra la sua gente, ma anche presso le comunità vicine per ciascuno [dei capi] questa è la fama, questa la gloria, che il seguito si distingua per numero e per valore; [questi capi] sono infatti richiesti per mezzo di ambascerie, sono colmati di doni e il più delle volte con la sola fama [del loro nome] determinano l’esito delle guerre. Haec dignitas, hae vires: sott. principis sunt. I dimostrativi in poliptòto e in posizione enfatica (cfr. 13, 1: haec... toga, hic... honos) sono prolettici dell’infinitiva che segue; dignitas e vires si riferiscono rispettivamente al prestigio che il capo acquisisce all’interno della comunità e alle forze su cui può contare in guerra. – magno... globo circumdari: infinitiva di valore dichiarativo, lett. «essere circondati da...». Il sostantivo globus, lett. «corpo sferico», indica un «gruppo compatto» di persone, e nel linguaggio militare una «schiera di armati». – in pa-

Secondo quale procedura si svolge presso i Germani la consegna delle armi? Quale significato

ce... praesidium: decus e praesidium, apposizioni dell’infinito circumdari, corrispondono simmetricamente a dignitas e vires; nelle espressioni in pace... in bello l’antitesi è sottolineata dall’anafora e dall’asindeto. – in sua gente: sta per apud suos, con variatio sintattica rispetto al successivo apud finitimas... civitates. – cuique: dativo, sott. principi. – id... ea: dimostrativi in anafora e poliptòto, in posizione enfatica come Haec... hae all’inizio del capitolo, prolettici rispetto a si numero... emineat, con asimmetria dei costrutti. – si numero... emineat: lett. «se il seguito si distingue...», protasi di un periodo ipotetico della realtà la cui apodosi è cuique... id nomen... ea gloria est. Tuttavia alcuni commentatori ritengono che comitatus sia genitivo singolare, nel qual caso soggetto sottinteso di emineat sarebbe princeps, ricavato dal precedente cuique: «se [il capo] si distingue per il numero e il valore del [suo] seguito». – expetuntur... ornantur: sott. principes, s’intende quei capi il cui seguito si distingue per numero e per valore; expetuntur è presente indicativo passivo di expĕto, ĕre (ex + peto, «chiedere con insistenza»). Questi principes «vengono richiesti», «sollecitati» per mezzo di ambascerie (legationibus, ablativo strumentale come muneribus) inviate dai capi di tribù finitime che intendono assicurarsene l’alleanza e l’appoggio in caso di guerra. Si osservi il chiasmo (expetuntur... legationibus... muneribus ornantur). – ipsaˉ... famaˉ: un altro ablativo strumentale. – plerumque: «il più delle volte», «di solito»; avverbio. – bella profligant: s’intende prima ancora di intervenire nel conflitto, tanto grande è il terrore che il loro solo nome incute nei nemici. Profligare bellum (o proelium) significa «condurre a compimento la guerra», (o «la battaglia»), decidendone l’esito vittorioso.

riveste nell’ambito della comunità? Sono contemplate eccezioni, e con quali correttivi? 381

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

2. Haec apud illos toga (13, 1): nel descrivere la consegna delle armi ai giovani Germani, Tacito la presenta come equivalente all’assunzione della toga virilis a Roma. Commenta in breve l’evidente contrasto che si stabilisce fra questi due simboli di iniziazione alla vita degli adulti (arma / toga), cercando di spiegarne il significato secondo le intenzioni dell’autore. In particolare, è lecito concludere che rappresentino due diverse concezioni della vita e della società?

T9

3. In che cosa consiste l’istituto del comitatus presso i Germani? Qual è l’etimologia del termine? 4. Quale vocabolo proprio è indicato tramite la perifrasi eius quem sectantur? Dopo averlo individuato, precisane l’esatto significato nell’ambito del mondo germanico. 5. Analizza dal punto di vista strutturale e sintattico l’ampio periodo Gradus quin etiam... acerrimi comites (13, 2), non mancando di evidenziare le ellissi verbali ed altre espressioni sottintese.

Passione dei Germani per la guerra

Germania 14

ONLINE

T 10 Fierezza e integrità delle donne germaniche Germania 18-19

PERCORSO ANTOLOGICO

LATINO ITALIANO

1. Quamquam: la congiunzione ha qui valore avverbiale, e serve a creare continuità con il capitolo precedente, dove si diceva che l’abbigliamento femminile era alquanto succinto. 2. prope soli: la monogamia era diffusa, in Occidente, anche tra le popolazioni galliche e iberiche.

Trattando del valore militare dei Germani, Tacito si era già soffermato ad esaminare il ruolo delle donne in battaglia: «e gli esseri amati stanno lì presso, onde si odano i lamenti delle donne e il vagito dei bambini. La loro testimonianza è per ognuno la più sacra, la loro lode è la più ambita; dalle madri e dalle mogli si fanno curar le ferite, né esse temono di contarle o di esaminarle, e portano ai combattenti cibo ed esortazioni. È tradizione che degli eserciti già vacillanti e quasi in rotta siano stati ricondotti all’assalto dalle donne, con l’insistenza delle suppliche, con l’opporre il petto ai fuggiaschi e col mostrar la minaccia incombente della prigionia, che essi temono per le loro donne più che per sé» (7, 2-8, 1). Venendo ora a parlare dei costumi germanici relativi al matrimonio e alla famiglia, l’autore torna sull’argomento in un brano denso di implicazioni ideologiche e costantemente teso a creare un raffronto moralistico con le donne romane. Come in un mondo capovolto, le donne germaniche appaiono dunque monogame, caste, frugali, fedeli, coraggiose; soprattutto, non fanno ciò che invece è divenuto consuetudine presso le donne romane: partecipare a spettacoli e conviti, scrivere lettere d’amore, sposarsi più volte, avere amanti, limitare il numero dei figli, abbigliarsi in modo sfarzoso e raffinato. La carica ideologica del brano e il pathos della narrazione sono convenientemente espressi da soluzioni stilistiche di forte tensione emotiva e di severa sentenziosità morale. A colpire è soprattutto la densità retorica della scrittura, nella quale, per restare al cap. 18, si trovano espressioni poetiche (plurimis nuptiis ambiuntur; arcana sacra), antitesi chiastiche (non uxor marito sed uxori maritus), epanalessi (ac munera probant, munera...), poliptoti (hoc maximum vinculum, haec arcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur). Sul piano sintattico, parallelismi di costruzione (idem in pace, idem in proelio... hoc iuncti boves, hoc paratus equus, hoc data arma denuntiant... Sic vivendum, sic pereundum) si alternano con strutture artificiosamente variate (non libidine sed ob nobilitatem... non ad delicias muliebres quaesita nec quibus nova nupta comatur).

Quamquam1 severa illic matrimonia, nec ullam morum partem magis laudaveris. Nam prope soli2 barbarorum singulis uxoribus contenti sunt, exceptis admodum paucis, qui non libidine, sed ob nobilitatem plurimis nuptiis ambiuntur. [18, 1]

[18, 1] I matrimoni però sono severamente regolati, e non vi è nei loro costumi nulla che meriti maggior lode. Infatti, quasi soli2 tra i barbari, si accontentano d’una moglie per ciascuno, eccettuati pochissimi, non per avidità sensuale, ma perché la nobiltà del loro sangue fa sì che molte famiglie ne ambiscano il connubio.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Dotem3 non uxor marito, sed uxori maritus offert. Intersunt parentes et propinqui ac munera probant, munera non ad delicias muliebres quaesita nec quibus nova nupta comatur, sed boves et frenatum equum et scutum cum framea gladioque. In haec munera uxor accipitur, atque in vicem ipsa armorum aliquid viro affert: hoc maximum vinculum, haec arcana sacra, hos coniugales deos4 arbitrantur. [3] Ne se mulier extra virtutum cogitationes extraque bellorum casus putet, ipsis incipientis matrimonii auspiciis admonetur venire se laborum periculorumque sociam, idem in pace, idem in proelio passuram ausuramque: hoc iuncti boves, hoc paratus equus, hoc data arma denuntiant. Sic vivendum, sic pereundum: accipere se quae liberis inviolata ac digna reddat, quae nurus accipiant rursusque ad nepotes referantur. [19, 1] Ergo saepta pudicitia agunt, nullis spectaculorum illecebris, nullis conviviorum irritationibus corruptae. Litterarum secreta viri pariter ac feminae ignorant. Paucissima in tam numerosa gente adulteria, quorum poena praesens et maritis permissa: abscisis crinibus nudatam coram propinquis expellit domo maritus ac per omnem vicum verbere agit; publicatae enim pudicitiae nulla venia: non forma, non aetate, non opibus maritum invenerit. Nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur. [2] Melius quidem adhuc [2]

Non la moglie al marito, ma il marito alla moglie porta la dote.3 Assistono alla cerimonia i genitori e i parenti e valutano i doni, scelti non per appagare il gusto femminile né per fornire ornamenti alla sposa: sono buoi, e un cavallo imbrigliato e uno scudo con framea e spada. In cambio di tali doni si riceve la moglie, ed essa per parte sua porta qualche arma al marito: essi considerano questo il vincolo più forte, questo l’arcano rito, queste le divinità coniugali.4 [3] Perché la donna non si creda estranea ai nobili pensieri e alle vicende della guerra, dagli auspici stessi, all’inizio del matrimonio, è avvertita ch’essa viene associata alle fatiche ed ai pericoli, che in pace come in guerra soffrirà e oserà tanto quanto il marito. Questo è il significato dei buoi aggiogati, del cavallo bardato, delle armi donate. Così deve vivere e morire: quanto essa riceve, dovrà consegnarlo inviolato e sacro ai figli, dai quali lo riceveranno le nuore e a loro volta lo trasmetteranno ai nipoti. [19, 1] Vivono dunque ben difese nel loro pudore, non corrotte da attrattive di spettacoli né da eccitamento di conviti. Uomini e donne ignorano ugualmente i segreti della scrittura. Rarissimi, tra gente così numerosa, gli adulterii, dei quali il castigo è immediato. Ne è esecutore il marito, che scaccia di casa la donna, dopo averla denudata e averle reciso le chiome, e sotto gli occhi dei parenti la insegue a sferzate per tutto il villaggio. Non c’è infatti perdono per colei che si è prostituita: né bellezza, né gioventù, né ricchezza le farebbero trovare uno sposo. Perché là i vizi non destano riso, e non si dà il nome di moda al corrompere e all’essere corrotti. [2]

3. Dotem: «poiché la donna, presso i Germani, rimaneva sempre sotto la potestà paterna, il diritto di esercitare tale potestà (cioè il mundio), poteva essere venduto

dal padre di lei a colui che la prendeva in isposa. L’espressione adoperata da Tacito manca perciò di esattezza: egli ha confuso l’acquisto del mundio da parte dello sposo

coll’apporto della dote, nel senso romano, da parte della sposa» (Arici). 4. coniugales deos: cioè le divinità che proteggevano il matrimonio.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

eae civitates, in quibus tantum virgines nubunt et cum spe votoque uxoris semel transigitur. Sic unum accipiunt maritum quo modo unum corpus unamque vitam, ne ulla cogitatio ultra, ne longior cupiditas, ne tamquam maritum, sed tamquam matrimonium ament. Numerum liberorum finire aut quemquam ex agnatis necare flagitium habetur, plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges.5

PERCORSO ANTOLOGICO

5. plusque ibi... leges: evidente allusione alle leggi augustee sul matr imonio, già disattese nel momento in cui vennero promulgate.

[2]

Più sagge ancora sono quelle tribù, dove vanno a nozze soltanto le vergini, e la speranza e i voti della sposa non si appagano che una volta; esse prendono un solo marito, così come hanno un solo corpo e una sola vita, perché il loro pensiero e il loro desiderio non vadano oltre e perché non il marito, ma il matrimonio sia da loro amato. Limitare il numero dei figli o uccidere qualcuno di quelli nati in soprannumero è ritenuto colpa infamante, e là i buoni costumi valgono più che le buone leggi in altri paesi.5 (trad. di A. Arici)

Leggere un TESTO CRITICO La Germania di Tacito: una meditazione sulle perdute virtù di Roma Che cosa spinge Tacito a comporre, dopo l’Agricola, un trattato etnologico sulle popolazioni germaniche? L’aver ritrovato in questi popoli, benché rozzi, benché primitivi, l’orma delle grandi virtù che un tempo furono di Roma. Lo studio dei costumi germanici si traduce dunque, secondo la riflessione di Alain Michel, in una

severa meditazione sui perduti mores nazionali: lungi dall’arrestarsi sulla soglia di una nostalgica rievocazione del passato, l’opera di Tacito cerca tuttavia una soluzione istituzionale che consenta di conciliare l’inevitabilità del principato con l’energia morale dell’antica repubblica.

Questo trattato di etnologia [la Germania] sembra per molti aspetti convenzionale. Tuttavia il piano della prima parte è notevole. Prima di passare allo studio analitico delle varie popolazioni germaniche, Tacito descrive in generale le virtù degli uomini di questa regione, e dà una descrizione globale dei loro costumi. Come classifica le sue idee? Studia successivamente la guerra, la religione, la giustizia presso i Germani; considera dunque successivamente l’uno dopo l’altro tre tipi di virtù: religio, fortitudo, fides – religione, coraggio, lealtà. Ciò facendo, si mostra fedele a un’antichissima tradizione del pensiero romano; nell’organizzazione politica da lui studiata distingue le tre funzioni che corrispondono a queste virtù: sacerdoti, soldati, uomini di legge. Il Dumézil ha dimostrato con i suoi diversi lavori come questa tripartizione sia esistita molto anticamente nella società romana, dov’era posta sotto la salvaguardia di ben determinate divinità, Giove, Marte e Quirino, e dove aveva senza dubbio delle origini indoeuropee. Quando sceglie e descrive le virtù d’un popolo, Tacito è dunque attento alla più pura tradizione della patria. È in questo senso e non astrattamente che definisce i suoi valori, che elabora la sua morale. Bisogna ammirare la nobiltà di questo pensiero che vuol tradurre quanto di meglio ha lasciato una tradizione secolare. Meditando sul passato di Roma, Tacito ha saputo individuare le tre grandi virtù che a loro volta ammirano gli storici moderni. Esalta lo spirito religioso, senso del sacro, senso della purezza, da cui deriva tanto l’ispirazione 384 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

dei poeti quanto la dignità morale della donna romana; loda anche la lealtà nei rapporti umani – quella dei mercanti, naturalmente, che non devono mentire su quel che vendono, ma soprattutto quella degli uomini liberi che si rispettano reciprocamente e che su questo rispetto fondano l’amicizia; tutte queste virtù sarebbero vane se non si accompagnassero al coraggio, che le preserva e ne assicura la libertà nella guerra, questa grande prova degli animi e delle civiltà. Tale è la nobile concezione delle virtù che Tacito attinge, come si vede, dalla tradizione collettiva della sua città: è in questo senso che è innanzi tutto un moralista: la sua opera sembra partire da una meditazione sui costumi, vale a dire sulle virtù specifiche proprie delle nazioni e dei gruppi umani dei quali esse sole assicurano e fondano ai suoi occhi la felicità, la forza e la gloria. Ora avviene che queste grandi virtù storiche di Roma, non a Roma Tacito le osservi e le descriva, bensì in quella Germania ancora così rozza, così vicina allo stato di natura e dalla quale doveva venire il pericolo principale per un impero infiacchito. I Germani sono coraggiosi (anche troppo, perché ciò li porta a discordie intestine); i Romani non pensano ad altro che a un vile riposo, chiamano soldati stranieri a servirli, e questi si battono tra loro per ragioni etniche o perché vogliono fare imperatori i loro generali: il senso tradizionale del coraggio è dunque falsato. I Germani vivono da uomini leali e liberi, e lo provano in particolare col loro disprezzo delle ricchezze: a Roma il gusto del lusso favorisce l’ipocrisia e la leggerezza. Chi potrebbe contare sui suoi amici in tempi d’adulazione, chi potrebbe contare sul principe in tempi d’intrighi e di diffidenza? E quale principe potrebbe contare sul popolo se non fosse egli stesso abbastanza forte per far regnare il terrore o la corruzione? La stessa antica religione sembra compromessa: i prìncipi che dovevano essere i suoi garanti non l’hanno forse contaminata? È forse un caso se le guerre civili si sono concluse nel 69 con la distruzione di quel che Roma aveva di più sacro: i templi del Campidoglio? Come scrive l’autore della Germania [33, 2], destini minacciosi pesano sull’impero romano. Tale è la profonda tragedia che Tacito scopre nella recente evoluzione della sua patria: questa sembra potente e prospera; ma ha perso le garanzie morali, le virtù collettive che ne avevano fatto la grandezza e assicurato la sopravvivenza. I filosofi greci, Platone, Aristotele, avevano affermato che una città senz’anima non avrebbe potuto sopravvivere. Nella cultura tradizionale, Tacito ha saputo trovare il meglio dell’anima romana; ma nella storia ha visto questa virtù tradirsi e dislocarsi: assisteva con terrore al conflitto tra la morale d’un popolo, il suo onore, la sua cultura da una parte e dall’altra la sua felicità. Che cosa sacrificare? Questo passato? Questo presente? Sicuramente né l’uno né l’altro: bisognava ravvicinarli, riconciliarli il più possibile, fosse pure con un certo pessimismo. Questa esigenza spiegava nel Dialogo l’atteggiamento di Materno, ansioso di accettare, di comprendere il suo tempo; svolse certamente un ruolo di primo piano nel pensiero di Tacito: fare opera di storico per lui significava compiere di fronte all’evoluzione dei costumi un certo numero di scelte, che implicavano uno sforzo personale e tutta una filosofia dell’azione. (A. Michel, Tacito e il destino dell’impero, Einaudi, Torino 1973, pp. 118-120)

T 11

Un popolo di navigatori: i Suioni

T 12

Il mare immoto e l’ambra

Germania 44

Germania 45

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

T 13 Notizie dai confini del mondo Germania 46 LATINO ITALIANO

Dopo la lunga trattazione riservata alle tribù dei Suebi (capp. 38-45), il capitolo conclusivo della Germania è dedicato alle popolazioni che occupano la parte più orientale della regione germanica. Avventurandosi ai confini degli spazi abitati, in terre misteriose e remote, fra genti di cui resta incerta anche l’identità etnica (Sarmati o Germani?), l’autore deve infine arrestarsi dinanzi alle notizie favolose riguardanti Ellusii e Ossioni, popoli semiferini che hanno volto umano e corpo di belva.

Hic Suebiae 1 finis. Peucinorum Venethorumque et Fennorum nationes Germanis an Sarmatis2 ascribam dubito. Quamquam Peucini, quos quidam Bastarnas3 vocant, sermone cultu sede ac domiciliis ut Germani agunt. Sordes omnium ac torpor procerum. Conubiis mixtis nonnihil in Sarmatarum habitum foedantur. [2] Venethi multum ex moribus traxerunt; nam quicquid inter Peucinos Fennosque silvarum ac montium erigitur latrociniis pererrant. Hi tamen inter Germanos potius referuntur, quia et domos figunt et scuta gestant et pedum usu ac pernicitate gaudent: quae omnia diversa Sarmatis sunt in plaustro equoque viventibus. [3] Fennis mira feritas, foeda paupertas: non arma, non equi, non penates; victui herba, vestitui pelles, cubile humus; solae in sagittis spes, quas inopia ferri ossibus asperant. Idemque venatus viros pariter ac feminas alit; passim enim comitantur partemque praedae petunt. Nec aliud infantibus

PERCORSO ANTOLOGICO

[1]

[1] Qui finisce la Svevia.1 I Peucini, i Veneti e i Fenni non so se ascriverli ai Germani

o ai Sarmati,2 benché i Peucini, che taluni chiamano Bastarni,3 abbiano lingua e modo di vita e sedi e dimore simili a quelle dei Germani. Tutti sono sordidi, i capi indolenti. A causa dei matrimoni misti, i lineamenti dei Peucini si alterano alquanto, così da rassomigliare ai Sarmati. [2] I Veneti hanno preso molte usanze di questi; percorrono infatti da predoni tutte le selve e le montagne che si levano tra i Peucini e i Fenni. Tuttavia sono annoverati di preferenza tra i Germani, perché hanno sedi fisse, portano scudi e camminano a piedi volentieri e con rapidità: cose tutte che li differenziano dai Sarmati, i quali vivono sui carri e sui cavalli. [3] I Fenni sono straordinariamente selvaggi e di una miseria spaventosa; non posseggono armi, non cavalli, non focolari; hanno erba per nutrimento, pelli per vestito e per letto il terreno; unica ricchezza le frecce, che – in mancanza di ferro – rendono aguzze con punte di osso. La stessa caccia nutre uomini e donne; queste li accompagnano ovunque e reclamano la loro parte della preda. 1. Suebiae: i Suebi abitavano la parte orientale della regione germanica. 2. Peucinorum Venethorumque et Fennorum... Sarmatis: i Peucini, stanziati nei territori a nord-est dei Carpazi, derivavano il nome dall’isola di Peuke, sul delta danubiano, donde provenivano; i Veneti abitavano oltre la riva destra della Vistola,

in un territorio più o meno coincidente con l’odierna Polonia; i Fenni (o Finni, secondo la testimonianza di Tolomeo) erano originari delle steppe sarmatiche, da dove avevano raggiunto le coste della Finlandia. La regione sarmatica si estendeva a nord del mar Nero, tra i fiumi Vistola e Volga, e corrispondeva all’incirca

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all’odierna Russia meridionale: si trattava di popolazioni nomadi dedite principalmente alla razzia; Tacito ne parlerà più diffusamente fra poco (parr. 2-3). 3. Bastarnas: tradizionali nemici di Roma: furono alleati, tra II e I secolo a.C., di Filippo V di Macedonia, di Perseo e di Mitridate re del Ponto.


PERCORSO ANTOLOGICO

ferarum imbriumque suffugium quam ut in aliquo ramorum nexu contegantur: huc redeunt iuvenes, hoc senum receptaculum. Sed beatius arbitrantur quam ingemere agris, illaborare domibus, suas alienasque fortunas spe metuque versare: securi adversus homines, securi adversus deos rem difficillimam assecuti sunt, ut illis ne voto quidem opus esset. [4] Cetera iam fabulosa: Hellusios et Oxionas ora hominum vultusque, corpora atque artus ferarum gerere: quod ego ut incompertum in medium relinquam.

I bambini non hanno altra difesa contro le belve e le intemperie fuorché certi ripari di rami intrecciati; vi ritornano da giovani, questo è il ricovero per i vecchi. Ma preferiscono questa condizione al penare sui campi, alla fatica di costruire delle case, al trafficare i beni proprii e gli altrui, fra speranze e timori; al sicuro contro gli uomini, al sicuro contro gli dèi, hanno ottenuto la cosa più difficile: non aver nemmeno da formulare desideri. [4] Tutto il resto è favoloso: per esempio, che gli Ellusii e gli Ossioni abbiano aspetto e viso di uomini, corpo e membra di fiere. Questa materia io lascerò da trattare, come non accertata. (trad. di A. Arici)

LETTURA e INTERPRETAZIONE Un mondo intatto e primigenio

La descrizione delle condizioni di vita dei Fenni immerge il lettore nell’atmosfera di un mondo intatto e primigenio che per certi aspetti presenta caratteri edenici: non possiedono armi, non conoscono il ferro (cui tradizionalmente gli antichi addebitavano il passaggio da un’aurea età di pace a un’età di discordie e di guerra), vivono securi (cioè sine cura) nei confronti di uomini e dèi, immuni dall’avaritia, dall’ambizione e dagli affanni che tormentano le raffinate civiltà del benessere. Nella loro «miseria spaventosa» i Fenni sembrano aver inconsapevolmente realizzato il sommo ideale filosofico perseguito dagli stoici e dagli epicurei così come dai cinici: la vita secondo natura, la libertà elementare e assoluta che deriva dall’assenza di bisogni.

Una condanna della civiltà?

Non si tratta, come pure è stato scritto, di una condanna della civiltà: Tacito è un romano, e la sua cultura continua a fondarsi sui valori della ratio, della civitas e dell’humanitas. Che la selvaggia libertà dei Fenni sia assai vicina (troppo vicina) a una condizione non-umana viene sottolineato mediante un implacabile accumulo di negazioni (penates è il termine che esprime il valore affettivo e giuridico più intenso). Nondimeno, è significativo che l’autore, nel contrapporre la decadenza di Roma alla primitiva integrità barbarica, si soffermi infine a constatare – pessimisticamente – come la libertà e la felicità siano immaginabili soltanto oltre le frontiere del mondo civile, forse dello stesso mondo umano.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

T 14 Il proemio Historiae I, 1-3 LATINO ITALIANO

Com’era tradizione della storiografia antica, prima di accingersi a narrare gli eventi l’autore espone il proprio metodo di lavoro (cap. 1) e illustra l’argomento (capp. 2-3). Il proposito di trattare la materia in modo oggettivo e imparziale è preceduto da un’interessante riflessione sugli storici dell’età del principato, messi a confronto con quelli di età repubblicana; lo spartiacque, si noti, è la battaglia di Azio. Diversamente dai tempi felici che precedettero l’avvento di Augusto, quando ancora era possibile coniugare la libertà di parola con l’energia e l’eleganza dello stile (pari eloquentia ac libertate), nell’età del principato gli storici si sono rivelati incapaci di narrare i fatti secondo verità: per inesperienza politica (inscitia rei publicae); per cortigianeria (libido adsentandi); per malevolenza (odium adversum dominantes). Segue l’argumentum, strutturato rigorosamente in due parti: dapprima il quadro delle atrocità (cap. 2), poi quello delle virtù (cap. 3). L’impressionante enumerazione della prima parte, nella sua nuda e apparentemente disordinata serie accumulativa, immerge di colpo il lettore nel dramma della storia recente di Roma, sulla quale gravano cumuli di orrori e di violenze. Ma anche i bona exempla della seconda parte appaiono irrimediabilmente segnati dal lutto e dalla rovina (fughe, esilii, torture, morti); le forze della natura e le divinità si sono rese ostili, né più sembrano avere a cuore la securitas dello Stato romano.

Initium mihi operis Servius Galba iterum Titus Vinius consules erunt.1 Nam post conditam urbem octingentos et viginti prioris aevi annos2 multi auctores rettulerunt, dum res populi Romani memorabantur, pari eloquentia ac libertate: post­quam bellatum apud Actium3 atque omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit, magna illa ingenia cessere; simul veritas pluribus modis infracta, primum inscitia rei publicae ut alienae, mox libidine adsentandi aut rursus odio adversus dominantes: ita neutris cura posteritatis inter infensos vel obnoxios. [2] Sed ambitionem scriptoris facile averseris, obtrectatio et livor pronis auribus

PERCORSO ANTOLOGICO

[1,1]

[1,1] La mia opera avrà inizio dal secondo consolato di Servio Galba, primo di Tito

Vinio.1 I fatti degli ottocentoventi anni2 precedenti, a partire dalla fondazione di Roma, già molti scrittori li hanno narrati, nel tempo in cui la storia del popolo romano veniva trattata con eloquenza pari alla franchezza: dopo la battaglia di Azio,3 e da quando nell’interesse della pace si dovette affidare il potere ad uno solo, quei grandi ingegni vennero meno; e la verità fu in più modi offesa, prima per ignoranza della politica come di cosa spettante ormai ad altri, in séguito per adulatoria condiscendenza o, al contrario, per odio contro i dominatori: così, tra ostili e servili, nessuno si è dato pensiero della posterità. [2] Ma la cortigianeria di uno scrittore è facile che sia condannata, mentre il denigratore e il maligno si

1. Servius... erunt: l’anno è il 69 d.C. 2. octingentos et viginti... annos: a dire il vero ottocentoventuno, partendo dalla tradizionale data varroniana del 753 a.C.

3. postquam... Actium: nel 31 a.C., quando la flotta di Ottaviano sconfisse le forze congiunte di Antonio e Cleopatra.

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PERCORSO ANTOLOGICO

accipiuntur; quippe adulationi foedum crimen servitutis, malignitati falsa species libertatis inest. [3] Mihi Galba Otho Vitellius4 nec beneficio nec iniuria cogniti. Dignitatem nostram a Vespasiano inchoatam, a Tito auctam, a Domitiano longius provectam non abnuerim: sed incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est. [4] Quod si vita suppeditet, principatum divi Nervae et imperium Traiani, uberiorem securioremque materiam, senectuti seposui, rara temporum felicitate, ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet. [2,1] Opus adgredior opimum casibus, atrox proeliis, discors seditionibus, ipsa etiam pace saevom. Quattuor principes5 ferro interempti, trina bella civilia,6 plura externa ac plerumque permixta, prosperae in Oriente,7 adversae in Occidente8 res: turbatum Illyricum, 9 Galliae nutantes, perdomita Britannia et statim missa,10 coortae in nos Sarmatarum ac Sueborum gentes,11 nobilitatus cladibus mutuis Dacus,12 mota prope etiam Parthorum arma falsi Neronis ludibrio. 13 [2] Iam vero ascoltano con avido orecchio: l’adulazione infatti fa nascere l’ignobile sospetto del servilismo, mentre la malevolenza ha un ingannevole sembiante d’indipendenza. [3] A me Galba, Otone e Vitellio4 non sono noti né per benefici né per offese. Non potrei negare che la mia carriera politica abbia avuto inizio ad opera di Vespasiano, si sia svolta con Tito e abbia progredito ancora sotto Domiziano: ma chi ha fatto professione di veracità incorrotta deve dire di ciascuno senza amore né odio. [4] Ché, se mi basterà la vita, io mi son riservato di narrare l’impero di Nerva e di Traiano; materia più ricca e meno pericolosa, grazie alla rara felicità di un tempo in cui si può pensare quello che si vuole e dire quello che si pensa. [2,1] Affronto un’epoca densa di eventi, atroce per guerre, discordie e sedizioni, crudele anche nella pace. Quattro prìncipi5 troncati dal ferro, tre guerre civili,6 più numerose le esterne e quasi sempre confuse insieme, prospere le condizioni in Oriente,7 avverse in Occidente;8 sconvolto l’Illirico,9 malsicure le Gallie, domata e sùbito abbandonata la Britannia;10 insorte contro di noi le popolazioni dei Sarmati11 e degli Svevi, salita in fama la Dacia12 per le sconfitte loro e le nostre, arrivati quasi ad armarsi anche i Parti, causa la beffa del falso Nerone.13 [2] Fu 4. Galba Otho Vitellius: Galba, primo successore di Nerone (giugno 68), fu assassinato il 15 gennaio del 69: in quel frangente i pretoriani elessero imperatore Otone, che morì a sua volta il 15 aprile seguente. Vitellio fu nominato imperatore dalle legioni germaniche il 1 gennaio 69 e morì il 20 dicembre di quello stesso anno [ T17]. 5. Quattuor principes: oltre a Galba, Otone e Vitellio (morti nel 69), anche Domiziano (assassinato nel 96). 6. trina bella civilia: fra Otone e Vitellio, fra Vitellio e Vespasiano (69 d.C.), fra Domiziano e L. Antonio Saturnino (8889 d.C.). 7. in Oriente: allusione alla guerra giu-

daica, che si concluse ad opera di Tito nel 70, con la conquista e la distruzione di Gerusalemme. 8. in Occidente: il fatto più grave fu la rivolta dei Batavi (69-70 d.C.) guidati da Giulio Civile, appoggiati da popolazioni germaniche d’oltre Reno e da tribù galliche (per questo definite, poco dopo, «malsicure»). 9. turbatum Illyricum: le legioni stanziate nell’Illirico (provincia comprendente la Dalmazia, la Rezia, il Norico, la Pannonia e la Mesia) furono direttamente coinvolte nella guerra civile del 68-69. 10. perdomita Britannia... missa: Agricola fu improvvisamente richiamato in Roma nell’84, e si dovette abbandonare

ogni piano di espansione verso il nord. 11. Sarmatarum... gentes: incursioni sarmate in Mesia (l’odierna Bulgaria) si ebbero nel 69. 12. nobilitatus... Dacus: i Daci, una popolazione stanziata nell’odierna Romania, varcarono la linea del Danubio prima sotto Vespasiano (nel 69), poi durante il principato di Domiziano (fra l’85 e l’89). Le alterne fortune della guerra obbligarono Domiziano a negoziare una pace onerosa per Roma. I Daci furono sottomessi da Traiano nel 107. 13. mota... ludibrio: l’episodio del falso Nerone, inizialmente sfruttato dai Parti in funzione antiromana, si trova in Svetonio (Nero 57).

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

PERCORSO ANTOLOGICO

Italia novis cladibus vel post longam saeculorum seriem repetitis adflicta; haustae aut obrutae urbes, fecundissima Campaniae ora;14 et urbs incendiis vastata, consumptis antiquissimis delubris, ipso Capitolio civium manibus incenso.15 Pollutae caerimoniae, magna adulteria; plenum exiliis mare, infecti caedibus scopuli. [3] Atrocius in urbe saevitum: nobilitas, opes, omissi gestique honores pro crimine, et ob virtutes certissimum exitium. Nec minus praemia delatorum invisa quam scelera, cum alii sacerdotia et consulatus ut spolia adepti, procurationes alii et interiorem potentiam, agerent vorterent cuncta odio et terrore. Corrupti in dominos servi, in patronos liberti; et quibus deerat inimicus, per amicos oppressi. [3,1] Non tamen adeo virtutum sterile saeculum, ut non et bona exempla prodiderit. Comitatae profugos liberos matres, secutae maritos in exilia coniuges; propinqui audentes, constantes generi, contumax etiam adversus tormenta servorum fides; supremae clarorum virorum necessitates, ipsa necessitas fortiter tolerata et laudatis antiquorum mortibus pares exitus. [2] Praeter multiplices rerum humanarum casus caelo terraque prodigia et fulminum monitus et futurorum praesagia, laeta tristia, ambigua manifesta; nec enim umquam atrocioribus populi Romani cladibus magisve iustis indiciis adprobatum est non esse curae deis securitatem nostram, esse ultionem. inoltre colpita l’Italia da catastrofi non mai viste, o non più accadute da secoli. Inghiottite o sepolte le feconde rive della Campania,14 devastata Roma da incendi, onde antichissimi templi furono divorati; arso il Campidoglio stesso, per mano di cittadini.15 Profanati i riti sacri, clamorosi gli scandali; pieno di esilii il mare, macchiati di sangue gli scogli. [3] Più atrocemente s’infierì in Roma; la nobiltà, le ricchezze, e così il rifiuto come l’esercizio di cariche onorevoli erano imputati a delitto; alle virtù era premio certissimo la morte. E non meno delle scelleratezze erano odiose a vedersi le ricompense dei delatori: ché, impadronitisi alcuni di cariche sacerdotali e consolari come di un bottino, altri di amministrazioni provinciali e di influenza alla corte, agitavano e travolgevano ogni cosa nell’odio e nel terrore. Corrotti i servi contro i loro signori, i liberti contro i loro patroni; rovinato dagli amici chi non aveva nemici. [3,1] Non fu tuttavia così sterile di virtù questo periodo, da non aver dato anche nobili esempi. Vi furono madri che accompagnarono i figli profughi, mogli che seguirono in esilio i mariti; parenti coraggiosi, generi di fermo carattere, servi di fede incrollabile persino contro le torture; miserie estreme imposte a uomini illustri, e la prova stessa tollerata con fortezza, e morti degne di quelle gloriose degli antichi. [2] A parte le molteplici sciagure umane, vi furono prodigi in cielo e in terra e fulmini ammonitori e presagi di casi futuri, lieti e tristi, ambigui e manifesti; non mai infatti da più atroci calamità del popolo romano o da più certi indizi fu provato che non della nostra sicurezza, ma del nostro castigo si dànno pensiero gli dèi. (trad. di A. Arici) 14. haustae... ora: si allude alla celebre eruzione del Vesuvio, che seppellì Ercolano, Stabia e Pompei nel 79.

15. ipso Capitolio... incenso: l’incendio avvenne nel dicembre 69, durante gli ultimi scontri tra flaviani e vitelliani.

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 15 Discorso di Galba a Pisone Historiae I, 16 ITALIANO

Nei primi giorni di gennaio del 69 giunse notizia che le legioni della Germania superiore si erano ribellate: il fatto convinse Galba, di età assai avanzata e preoccupato del corso degli eventi, che era giunto il momento di designare un successore. La scelta cadde su Pisone Liciniano, un giovane appartenente a una famiglia perseguitata da Claudio e da Nerone. La novità consisteva nel fatto che Pisone non era legato da vincoli di parentela con Galba: al principio dinastico (rigorosamente osservato in età giulio-claudia) si sostituiva il principio dell’adozione. Nell’occasione, Galba tenne al successore designato un discorso, nel quale si è soliti riconoscere le convinzioni dello stesso Tacito. La questione doveva apparire allo storico e ai suoi contemporanei non solo di rilevante attualità (anche Nerva aveva adottato Traiano) ma soprattutto decisiva per le sorti dello Stato romano: il principio dell’adozione (che presupponeva naturalmente la scelta di un uomo integro e capace, e garantiva in ogni caso la stabilità istituzionale) doveva sembrare agli uomini del ceto senatorio una sorta di dignitoso compromesso fra un impossibile ritorno alle idealità repubblicane e gli atteggiamenti assolutistici dei regimi dinastici, un compromesso dunque fra libertas e principatus. [1] «Se

l’immenso corpo dell’impero potesse reggersi senza un capo, io sarei stato degno che da me rinascesse la repubblica: ma ora da gran tempo siamo arrivati a tal punto, che la mia vecchiezza non può offrire al popolo romano nulla di più che un buon successore, e la tua giovinezza niente di più che un buon imperatore. Sotto Tiberio e Gaio e Claudio siamo stati, per così dire, il patrimonio ereditario di una sola famiglia;1 terrà luogo di libertà il fatto che noi abbiamo incominciato a venir eletti, e, finita la casa Giulio Claudia, l’adozione troverà volta per volta il migliore. [2] Poiché essere generati e nascere da prìncipi è cosa fortuita, né più di tanto si considera; ma il giudizio per l’adozione è libero e, se tu vuoi scegliere, ti fa da indice la pubblica opinione. Ti stia dinanzi agli occhi Nerone, che era gonfio d’orgoglio per il lungo succedersi dei Cesari: a scrollarne il giogo dalle spalle di tutti non fu Vindice con una provincia inerme,2 né io con una sola legione: furono la sua ferocia e la sua lussuria stessa: e prima di lui non v’era ancora stato esempio di un principe pubblicamente condannato.3 [3] Noi, chiamati al potere dalla guerra e dalla pubblica opinione, saremo oggetto d’invidia, anche governando bene. Tuttavia non spaventarti, se in questo sconvolgimento del mondo intero due legioni4 tardano ad acquietarsi; neppure io sono arrivato al potere senza travagli, e una volta conosciuta la tua adozione si smetterà di considerarmi vecchio, unica colpa che ora mi si rinfaccia. Nerone sarà sempre rimpianto da tutti i cattivi; ora tocca a me e a te provvedere a che non sia rimpianto anche dai buoni. [4] Non è questo il momento di trattenerti più a lungo in consigli; e ogni mia intenzione si realizza, se scegliendo te ho avuto ragione. Utilissimo e prontissimo criterio di 1. una sola famiglia: quella giulio-claudia. Gaio è naturalmente Caligola. 2. Vindice... inerme: Giulio Vindice, legato della Gallia Lugdunense (provincia inermis perché senza esercito), aveva per

primo promosso la rivolta contro Nerone. 3. e prima di lui... condannato: Nerone era stato dichiarato hostis publicus dal senato.

4. due legioni: in realtà erano molte di più quelle che si erano pronunziate a favore di Vitellio. Galba sembra voler sminuire, agli occhi di Pisone, le forze nemiche.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

scelta tra il bene e il male è pensare che cosa tu avresti voluto, o non voluto, sotto un altro imperatore; qui infatti non è come presso i popoli retti a monarchia, ove una determinata famiglia ha il potere e tutti gli altri sono servi, ma tu comanderai a uomini che non possono tollerare né servitù intera né intera libertà». Queste ed altre simili cose diceva Galba a Pisone, da uomo che creava un imperatore; tutti gli altri parlavano a lui come se fosse già tale. (trad. di A. Arici)

T 16

Il degrado morale del popolo romano

Historiae III, 83

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T 17 Morte ingloriosa di Vitellio Historiae III, 84, 4-85

PERCORSO ANTOLOGICO

ITALIANO

Le milizie di Vespasiano travolgono l’ultima resistenza dei vitelliani, che cadono «tutti colpiti nel petto, colla faccia rivolta al nemico» (84, 3), segno di eroismo e di fedeltà. Non la stessa forza d’animo dimostra Vitellio: incerto sul da farsi, terrorizzato dagli eventi, paralizzato dall’angoscia, non sa fare altro che rintanarsi in un turpe nascondiglio, dopo di che viene catturato dai soldati di Vespasiano. La narrazione è articolata in rapide e memorabili sequenze: lo smarrimento di Vitellio, che vaga inquieto per la città; l’improvviso sgomento dinanzi alla vasta solitudine del palazzo imperiale; la plebaglia strepitante; il gesto repentino e indecifrabile del soldato germanico; l’imperatore costretto a contemplare, mentre si avvia ad essere giustiziato, le sue statue crollanti; le ultime parole, che sembrano gettare un’improvvisa luce di grandezza su un uomo che pure era vissuto ignobilmente (cfr. nota 1). Domina sull’intero quadro un sentimento di dissoluzione e di rovina, enfatizzato dalla successione asimmetrica dei periodi e dal tono patetico della narrazione.

Caduta la città, Vitellio1 si fa portare in lettiga dalla parte retrostante del Palazzo verso l’Aventino, a casa della moglie, coll’intenzione di rifugiarsi poi a Terracina presso le coorti e il fratello, se fosse riuscito a passar la giornata in qualche nascondiglio. Quindi, per naturale volubilità e perché, come avviene nella paura, pur temendo ogni cosa egli si allarmava soprattutto del presente immediato, ritorna indietro al Palazzo, deserto e in abbandono, perché anche gli ultimi servi erano fuggiti o evitavano d’incontrarlo. La solitudine e il silenzio lo atterriscono; prova ad aprire le porte, il vuoto lo fa inorridire; infine, stanco di andar miseramente vagando, si caccia in un ignobile ridotto, ma lo strappa di là Giulio Placido, tribuno di una coorte. [5] Gli legano le mani dietro la schiena; con le vesti a brandelli – spettacolo miserabile – veniva trascinato tra le imprecazioni di [84,4]

1. Vitellio: Tacito, nel corso dei primi tre libri delle Historiae, ha già diffusamente ritratto l’indole di Vitellio: un uomo «capace di bramosia più che di speranza» (I, 52, 2), torpido e neghittoso («poltriva e si godeva in anticipo la fortuna dell’impero fra il torpore della crapula e gli eccessi del banchettare, già ubriaco a metà

del giorno e grave di cibo, mentre l’ardore e l’energia dei soldati supplivano volonterosamente all’inazione del capo»; I, 62, 2), volubile nei comportamenti (II, 57, 2), incapace di preoccupazioni serie («alle notizie più importanti egli non dava ascolto se non di sfuggita»; II, 59, 1), insaziabile nelle libidini (II, 95, 3). E

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tuttavia Tacito annota che l’uomo «non mancava di talento, sia pure infamato, e se non attingeva forza dalle sue virtù, come gli onesti, la trovava, come i malvagi, nei propri vizi» (III, 77, 4). Negli Annali, gli atteggiamenti di Vitellio verranno bollati di arrogante servilismo e di spregevole codardia (XIV, 49, 1)


PERCORSO ANTOLOGICO

molti, non compianto da nessuno; la sconcezza della fine aveva sopraffatto la pietà. Un soldato Germanico gli si fece contro a colpirlo con violenza, o mosso dall’ira, o per sottrarlo più rapidamente allo strazio, o forse avendo mirato al tribuno; la cosa non fu ben chiara. Certo al tribuno mozzò un orecchio, e sùbito fu trucidato. [85,1] Con le punte delle spade Vitellio era costretto ora ad alzare il viso e ad offrirlo agli oltraggi, ora a guardare le proprie statue mentre venivano abbattute, e specialmente i rostri2 o il luogo dell’assassinio di Galba;3 da ultimo fu spinto alle Gemonie,4 dove era stato buttato il corpo di Flavio Sabino. Una sola parola, degna di un animo non volgare, fu udita dalla sua bocca: al tribuno che lo insultava rispose che era pur stato il suo generale; quindi cadde sotto una grandine di colpi. E il volgo lo oltraggiava da morto con la stessa viltà con cui l’aveva adulato da vivo. (trad. di A. Arici)

2. rostri: la tribuna dalla quale Vitellio, pochi giorni prima, nel precipitare degli avvenimenti, aveva annunciato di voler abdicare; era stato tuttavia costretto a recedere dal suo proposito (Hist. III, 68).

3. Il luogo ... Galba: nei pressi del lago Curzio (Hist. I, 41). 4. Gemonie: Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, venne trucidato su istigazione della plebaglia dinanzi a Vitellio, che si preparava a intercedere: «ma otten-

nero che vi rinunziasse» (Hist. III, 74); un altro esempio della codardia e della torpida indolenza di Vitellio. Le Gemonie erano le scale scavate nella roccia del colle Capitolino, dove venivano esposti i corpi dei giustiziati.

Gli SCRITTORI e la STORIA La morte di Vitellio nella Vita di Svetonio La morte di Vitellio si trova narrata anche nelle biografie di Svetonio. Pur nella coincidenza dei fatti, si noti il diverso atteggiamento dei due scrittori: in Svetonio, come richiedeva il genere biografico, abbondano i particolari curiosi, truci e ripugnanti; in Tacito, più essenziale, si avverte una maggiore ampiezza e profondità dello sguardo, come se dalla morte di Vitellio trasparisse qualcosa di ben più tragico: il tramonto di una civiltà e dei suoi mores. Subito in lettiga, si recò di nascosto sull’Aventino, nella casa paterna, accompagnato da due sole persone, un cuoco e un pasticcere, per fuggire quindi in Campania. Ma poi, dando retta a delle voci vaghe e di scarsa attendibilità, accettò di tornarsene a palazzo, come se avesse ottenuto la pace. E quivi, trovando ogni cosa deserta ed essendo scomparsi anche coloro che lo avevano accompagnato, dopo essersi passato attorno alla vita una cintura piena di monete d’oro, si nascose nello sgabuzzino del portiere, legando il cane davanti alla porta che aveva barricato con una branda e un materasso. Le avanguardie dell’esercito avevano già fatto irruzione e, come succede, non avendo incontrato nessuna resistenza, stavano frugando dappertutto. Scovato dal

suo nascondiglio, quando gli chiesero chi fosse e se sapesse dov’era Vitellio, poiché non lo conoscevano li ingannò con una bugia. Ma poi, riconosciuto, non smise di pregare, dicendo di dover fare a Vespasiano delle rivelazioni importanti per la sua salvezza, e chiedendo che nel frattempo lo tenessero agli arresti, magari in carcere. Alla fine, con le mani legate dietro la schiena, un laccio al collo e la veste strappata, fu trascinato seminudo nel Foro e poi lungo la via Sacra, fatto oggetto di ogni ludibrio di gesti e di parole, con la testa tenuta indietro per i capelli, come si fa coi criminali, e un pugnale sotto il mento, perché presentasse il viso agli sguardi e non potesse abbassare il capo. Mentre qualcuno gli gettava addosso dello sterco e del fango, e altri lo insultavano, chiamandolo «porco» e «incendiario», una parte del popolo ne scherniva persino i difetti fisici. Era infatti di una grossezza enorme, rubizzo in volto per il troppo vino, con una gran pancia e gambe malferme da quando era stato investito da una quadriga mentre si esibiva come guidatore di carri al tempo in cui faceva il servo di Caio. Finalmente, presso le Gemonie, scarnificato con minutissimi colpi e ucciso, fu trascinato con l’uncino nel Tevere. (Svetonio, I dodici Cesari (Vitellio 16-17), introduzione di S. Lanciotti, traduzione di F. Dessì, 2 voll., Rizzoli, Milano 1982)

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

T 18 Sine ira et studio: dal proemio degli Annales Annales I, 2-3 LATINO ITALIANO

La professione di imparzialità e di obiettività storiografica che leggiamo nel proemio delle Historiae [ T14] viene ribadita nel proemio degli Annales, accompagnata da un’analoga denuncia delle distorsioni che la verità dei fatti ha subito ad opera degli storici vissuti dopo Augusto.

PERCORSO ANTOLOGICO

Sed veteris populi Romani prospera vel adversa claris scriptoribus memorata sunt, temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec gliscente adulatione deterrerentur: Tiberii Gaique1 et Claudii ac Neronis res florentibus ipsis ob metum falsae, postquam occiderant recentibus odiis compositae sunt. Inde consilium mihi pauca de Augusto et extrema tradere, mox Tiberii principatum et cetera, sine ira et studio, quorum causas procul habeo.

1. Gai: Caligola.

Ma le vicende, liete o tristi, del popolo romano antico sono state tramandate alla memoria da chiari scrittori: e non sono mancati alti ingegni per narrare gli avvenimenti del tempo di Augusto, finché da ciò non li distolse il crescere dell’adulazione. I fatti di Tiberio e di Gaio,1 di Claudio e di Nerone furono alterati per paura, quando essi erano vivi e forti; dopo la loro scomparsa, furono scritti sotto l’influenza degli odii recenti. Di qui il mio proposito, di riferire nei riguardi di Augusto poche vicende soltanto, le ultime della sua vita; per trattare poi l’impero di Tiberio e di quelli che seguirono, senza animosità come senza appassionato favore: ché i motivi dell’uno e dell’altra sono lontani dal mio spirito. (trad. di A. Arici)

T 19 Doppiezza di Tiberio e servilismo dei senatori Annales I, 7-12 passim ITALIANO

Dopo il proemio, nel quale viene riassunta la storia istituzionale di Roma dalle origini monarchiche fino al principato, Tacito inizia a narrare gli eventi dell’età giulio-claudia: la morte del vecchio princeps; le sue esequie; l’assunzione del potere da parte di Tiberio. Tacito rivela immediatamente le proprie qualità narrative, fondendo potenza di rappresentazione ed acutezza nell’indagine storiografica. Il tema politico è quello dei rapporti fra principe e senato; ma il centro dell’ispirazione narrativa è la rovina di un’intera classe che aveva retto per secoli, orgogliosamente, la vita civile e istituzionale della città. Lo storico campisce il suo drammatico affresco in due zone: da una parte Tiberio, sigillato per sempre nei suoi tortuosi e ambigui atteggiamenti, degni di un personaggio tragico; dall’altra, compatti, i rappresentanti dell’antico potere politico che si precipitano a lusingare e servire. In un passo successivo, a proposito dello spirito servile e adulatorio dei magistrati e dei senatori romani, Tacito riferisce un aneddoto riguardante lo stesso Tiberio, il quale, ogni qual volta usciva dalla curia, pare fosse solito esclamare: «O uomini fatti per servire!». «Evidentemente», annota con sarcasmo lo storico, «anche colui, che pur non avrebbe voluto la libertà pubblica, sentiva il disgusto di quell’abietta soggezione da schiavi» (Ann. III, 65, 4).

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[7,1] A Roma frattanto consoli, senatori e cavalieri si precipitavano a farsi servi. Ciascuno, quanto più alto in grado, tanto più era sollecito alla finzione: e con volto studiatamente composto a non dimostrare né letizia per la morte del vecchio principe1 né soverchia tristezza per l’avvento del nuovo, mescolava le lagrime coi rallegramenti, il compianto con l’adulazione. [2] I consoli Sesto Pompeo e Sesto Apuleio prestarono primi il giuramento di fedeltà a Tiberio Cesare; dopo di loro, Seio Strabone e Gaio Turranio, quello prefetto delle coorti pretoriane e questo dell’annona; poi, in ordine, il senato, l’esercito ed il popolo.2 [3] Ché Tiberio prendeva tutte le iniziative per mezzo dei consoli, come se fosse incerto sull’esercizio del potere e ancora durasse l’antico ordinamento repubblicano; l’editto stesso, col quale convocava i senatori nella curia, egli promulgò senz’altra intestazione che quella dell’autorità tribunizia, ricevuta sotto Augusto. [4] Il contenuto dell’editto fu breve e molto moderato: egli intendeva consultare i senatori circa le esequie del padre, e non voleva allontanarsi dal corpo di lui; questo solo, di tutti i pubblici uffici, assumeva liberamente per sé. [5] Ma, spentosi Augusto, egli aveva dato la parola d’ordine ai pretoriani come comandante supremo; sentinelle, armati, tutto quanto si addice ad una vera e propria corte; e sia ch’egli si recasse in piazza, sia che andasse alla curia, sempre un soldato lo accompagnava. Mandò un messaggio all’esercito, come d’un principe già nel pieno esercizio della sovranità, né si mostrò mai esitante, se non quando parlava in senato. [6] Motivo principale di paura era per lui che Germanico, il quale aveva nelle mani tante legioni e immense forze ausiliarie, e che godeva straordinario favore presso il popolo, non preferisse assumere sùbito il potere, anziché aspettare di riceverlo dopo la morte di lui. [7] Per accrescersi popolarità, si adoperava anche a fare in modo da sembrare chiamato ed eletto dalla repubblica piuttosto che giunto all’impero per vie tortuose, attraverso i raggiri di una moglie e l’adozione di un vecchio. Si scoperse poi che egli aveva finto incertezza anche per scrutare le intenzioni segrete dei maggiorenti: infatti tutto egli si imprimeva nella memoria, le loro parole e l’espressione stessa dei volti, per farsene dei capi d’accusa contro di essi. [8,1] La prima adunanza del senato fu esclusivamente dedicata, per volontà di Tiberio, alle supreme onoranze di Augusto, il cui testamento, recato dalle vergini vestali, istituiva eredi principali Tiberio e Livia.3 [...] [3] Si deliberò quindi sulle onoranze funebri; tra esse le più insigni apparvero quelle proposte rispettivamente da Asinio Gallo4 e da L. Arrunzio,5 cioè che il corteo passasse per la porta trionfale e che in testa fossero portati i titoli delle leggi proposte da Augusto e i nomi dei popoli vinti da lui. [4] Valerio Messalla6 aggiunse la proposta

1. principe: Ottaviano Augusto. 2. il senato, l’esercito ed il popolo: la formula tradizionale (senatus populus­ que) viene trasformata e arricchita con l’inserzione di quelle forze militari (miles) che erano ormai diventate arbitre

del potere. 3. Livia: moglie di Augusto e madre di Tiberio. 4. Asinio Gallo: G. Asinio Gallo Salonino, figlio di Asinio Pollione. Era stato console nell’8 a.C. e proconsole in Asia

nel 10 d.C. 5. L. Arrunzio: console nel 6 d.C. 6. Valerio Messalla: figlio del noto Valerio Messalla Corvino. Era stato console nel 3 a.C.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

11. La storiografia di Tacito

PERCORSO ANTOLOGICO

che si rinnovasse ogni anno il giuramento di fedeltà a Tiberio; e interrogato da Tiberio stesso, se avesse fatto ciò per incarico suo, dichiarò che aveva parlato spontaneamente, e che in tutti gli affari riguardanti lo Stato non avrebbe mai seguìto altro consiglio all’infuori del proprio, fosse pur con pericolo di offendere. Era questa l’unica forma di adulazione non ancora sfruttata. [5] I senatori poi, ad una voce, gridarono che il corpo doveva essere portato al rogo sulle loro spalle. [...] [11,1] Le preghiere furono quindi volte a Tiberio. Ed egli variamente dissertava sulla grandezza dell’impero e sulla propria modestia. Soltanto il genio del divo Augusto era stato sufficiente a così gran peso; egli stesso, da lui chiamato a parte degli affari, aveva imparato per esperienza che difficile e rischioso carico fosse reggere tutta la mole del governo. Per conseguenza, in uno Stato che poteva contare su tanti ottimi sostegni, non si dovevano conferire tutti i poteri ad uno solo: più uomini, coi loro sforzi riuniti, avrebbero assolto più facilmente il compito di governare lo Stato. [2] In questo suo parlare v’era più ostentazione che sincerità. Anche quando non simulava, sia per indole, sia per abitudine, Tiberio adoperava termini sempre ambigui e poco chiari; quando poi si adoperava per nascondere il suo pensiero, si avvolgeva in maggiori dubbiezze ed oscurità. [3] Dal canto loro i senatori, che avevano un solo timore, quello d’aver l’aria di capire, si sfogavano in lamentele, in lagrime, in suppliche: tendevano le braccia agli dèi, all’effigie di Augusto, alle ginocchia di Tiberio; quando questi ordinò che si portasse l’inventario7 e che lo si leggesse ad alta voce. [4] Vi erano indicate le forze dell’impero, il numero dei cittadini e degli alleati in armi, quante erano le flotte, i regni tributari, le province, le imposte dirette o indirette, le spese necessarie e le largizioni. Tutto ciò aveva scritto Augusto di sua mano, ed aveva aggiunto il consiglio di non estendere i confini attuali dell’impero; non si sa se per timore o per gelosia. [12,1] Frattanto, mentre il senato si abbassava alle suppliche più umilianti, Tiberio disse, come a caso, che, se egli si sentiva impari a reggere da solo tutta l’amministrazione dello Stato, tuttavia, qualunque parte di essa fosse per venirgli affidata, egli era pronto ad assumersene la cura. [2] Allora Asinio Gallo: – Io domando, o Cesare, – disse, – quale parte del governo tu voglia che ti sia affidata. Sconcertato dalla domanda imprevista, tacque un momento; poi, ripresa la padronanza di sé, rispose che alla sua discrezione non si conveniva scegliere o escludere una parte di quell’onere che egli avrebbe preferito ricusare per intero. [3] Di rimando, Gallo (poiché gli aveva letto in viso il dispetto) disse che non lo aveva interrogato affinché egli dividesse ciò che era indivisibile, ma affinché si convincesse, riconoscendolo da sé, che il corpo dello Stato è uno solo e deve essere guidato da una mente sola. (trad. di A. Arici)

7. l’inventario: una relazione sullo stato economico, politico, militare e sociale dell’impero.

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 20 Infelicità dello storico moderno Annales IV, 32-33 LATINO ITALIANO

Nel corso del libro IV degli Annales, poco prima che vengano introdotti i fatti riguardanti il processo e la morte di Cremuzio Cordo [ cap. 1.2], si apre una digressione che getta luce sul complesso stato d’animo dell’autore dinanzi alla propria materia. Il rapporto con gli storici dell’età repubblicana è improntato a un contenuto, ma non per questo meno profondo, sentimento di nostalgia: dove l’epoca è gloriosa, glorioso sarà anche il suo epico cronista; ben diverso il destino degli storiografi del principato, condannati ad occuparsi solo di calunnie, crudeltà, infamie, orrendi delitti, con il rischio per giunta di suscitare i rancori di quanti vogliono difendere l’onore familiare o coprire la propria sciagurata condotta. Non c’è dunque da meravigliarsi se Tacito denunzia i mutamenti che i fatti contemporanei hanno prodotto nel genere storiografico: serbare memoria dei fatti realmente accaduti potrà ancora essere utile, ma «certo non riuscirà dilettevole» (per chi legge come per chi scrive). La rovina della classe senatoria e la concentrazione del potere nelle mani di un solo uomo hanno decretato inevitabilmente la fine di un modo di fare storia: Svetonio, di lì a pochi anni, deciderà di narrare gli stessi eventi non secondo il metodo annalistico (legato nella forma come nella sostanza alla storia repubblicana) ma secondo lo schema delle biografie imperiali. [32, 1]

Pleraque eorum quae rettuli quaeque referam parva forsitan et levia memoratu videri non nescius sum: set nemo annales nostros cum scriptura eorum contenderit, qui veteres populi Romani res composuere. Ingentia illi bella, expugnationes urbium, fusos captosque reges aut, si quando ad interna praeverterent, discordias consulum adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis et optimatium certamina libero egressu memorabant: [2] nobis in arto et inglorius labor; immota quippe aut modice lacessita pax, maestae urbis res, et princeps proferendi imperi incuriosus erat.1 Non tamen sine usu fuerit introspicere illa primo aspectu levia, ex quis magnarum saepe rerum motus oriuntur. [33, 1] Nam cunctas nationes et urbes populus aut primores aut singuli regunt: delecta ex iis et consociata rei publicae forma laudari facilius quam evenire, [32, 1]

Non ignoro che la maggior parte degli avvenimenti da me narrati e di quelli che mi accingo a narrare sembreranno forse poco importanti e indegni di memoria: ma nessuno vorrà paragonare i miei annali colle opere degli scrittori che hanno raccolto gli antichi fasti del popolo romano. Quelli, spaziando liberamente, ricordavano guerre grandiose, conquiste di città, uccisioni e catture di re, oppure, all’interno, discussioni tra consoli e tribuni, leggi agrarie e frumentarie, lotte della plebe contro il patriziato. [2] Il mio è un campo limitato, faticoso e senza gloria: una pace immutabile o appena turbata, fatti dolorosi in Roma e un principe noncurante di estendere i confini dell’impero.1 Tuttavia non sarà stato inutile indagare quei casi, a prima vista insignificanti, dai quali spesso hanno origine grandi avvenimenti. [33, 1] Tutte le nazioni e le città sono rette o dal popolo o dagli ottimati o da un solo: una forma di governo composta di elementi scelti tra quelli ed insieme contemperati è più facile lodarla che attuarla: o, se pure si realizza, non può essere 1. princeps... incuriosus erat: nella decisione di attestarsi sui confini raggiunti,

Tiberio non faceva altro che seguire la politica augustea (cfr. Ann. I, 11, 4 [ T19]).

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11. La storiografia di Tacito

PERCORSO ANTOLOGICO

vel, si evenit, haud diuturna esse potest.2 [2] Igitur ut olim, plebe valida vel cum patres pollerent, noscenda vulgi natura et quibus modis temperanter haberetur, senatusque et optimatium ingenia qui maxime perdidicerant, callidi temporum et sapientes credebantur, sic converso statu neque alia re Romana quam si unus imperitet, haec conquiri tradique in rem fuerit, quia pauci prudentia honesta ab deterioribus, utilia ab noxiis discernunt, plures aliorum eventis docentur. [3] Ceterum ut profutura, ita minimum oblectationis adferunt. Nam situs gentium, varietates proeliorum, clari ducum exitus retinent ac redintegrant legentium animum: nos saeva iussa, continuas accusationes, fallaces amicitias, perniciem innocentium et easdem exitii causas coniungimus, obvia rerum similitudine et satietate. [4] Tum quod antiquis scriptoribus rarus obtrectator, neque refert cuiusquam Punicas Romanasve acies laetius extuleris: at multorum, qui Tiberio regente poenam vel infamias subiere, posteri manent, utque familiae ipsae iam exstinctae sint, reperies qui ob similitudinem morum aliena malefacta sibi obiectari putent. Etiam gloria ac virtus infensos habet, ut nimis ex propinquo diversa arguens. Sed <ad> inceptum redeo.

2. Nam cunctas nationes... potest: affermazione di severo realismo politico; si confrontino le tesi di Polibio [ vol. I , cap. 1.3], poi riprese da Cicerone [ vol. I , cap. 12.4].

durevole.2 [2] In passato allorché la forza era nelle mani del popolo, o quando predominava il senato, era necessario conoscere bene l’indole della moltitudine e i modi per tenerla a freno; e coloro che meglio avevano studiato l’indole dei senatori e dei grandi erano stimati abili politici e uomini pieni di saggezza. Ora che le condizioni sono mutate e il governo di Roma non è molto diverso da una monarchia, vale la pena di raccogliere e di tramandare questi fatti particolari, perché pochi distinguono colla propria intelligenza l’onesto dal disonesto, l’utile dal dannoso; molti invece vengono ammaestrati dai casi altrui. [3] D’altra parte, se questa narrazione porterà giovamento, certo non riuscirà dilettevole. Infatti le descrizioni di paesi, le varie vicende delle battaglie, le morti gloriose dei capi avvincono gli animi dei lettori e li ravvivano; mentre questo succedersi di ordini crudeli, di denunzie continue, di amicizie menzognere, di innocenti tratti alla rovina sempre dalle medesime cause, non offre a me altra possibilità che quella di un’esposizione monotona e tediosa. [4] Inoltre, gli scrittori dei fatti antichi trovano raramente detrattori, e non importa ad alcuno se tu abbia celebrato con più ardore l’esercito cartaginese oppure il romano. Di molti invece, che sotto il governo di Tiberio patirono supplizi o disonore, vivono ancora i discendenti: e, ammesso pure che le famiglie siano estinte, vi sarà sempre qualcuno che, similmente corrotto, crederà si sia voluto colpire lui colla narrazione degli altrui misfatti. Anche la gloria e la virtù hanno dei nemici, come se, quando sono vicine nel tempo, facessero risaltare troppo i loro contrari. Ma ritorno al mio argomento. (trad. di A. Arici)

T 21

La morte di Britannico

T 22

Il matricidio

Annales XIII, 14-16

Annales XIV, 3-10

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PERCORSO ANTOLOGICO

Educazione CIVICA La strumentalizzazione nazionalista della Germania è un caso eclatante di uso politico dei testi classici, che è l’opposto dell’analisi critica del presente che intendiamo qui stimolare, evidenziando alcuni spunti di discussione rintracciabili nei testi dello storico latino.

▰ Antieroismo L’antieroismo di Agricola non è

debolezza o codardia, anzi, valorizza le qualità della moderazione e di quello che oggi chiameremmo lo “spirito di servizio”: le istituzioni sono superiori a coloro che le incarnano, e la fedeltà a esse dovuta può consistere in una paziente opera di resilienza, piuttosto che in un’aperta ribellione, spesso tanto suggestiva nell’immediato quanto improduttiva a lungo termine. Se il criterio è il rei publicae usus («il vantaggio dello stato», Agricola 42, 4 T3), occorrerà soppesare volta per volta quale sia il comportamento migliore, che bilancia principi morali e realismo, affermazione individuale e bene comune. Potremmo leggere il messaggio tacitiano come un monito contro l’estremismo e a favore della moderazione, o, per usare i termini dello psicoanalista Luigi Zoja, contro le utopie «massimaliste» e a favore di quelle «minimaliste»: in tempi complessi come il nostro (e come quello di Tacito) posizioni troppo nette e unilaterali, nella loro “purezza” ideale, possono rivelarsi sterili e inutilmente pericolose.

▰ Meritocrazia Il celebre discorso di Galba a Pisone (Historiae I, 16 T15) esalta la scelta rispetto all’ereditarietà, quindi l’adozione del “migliore” rispetto alla successione dinastica. Idea che in qualche misura evoca l’auspicio che per i più alti livelli – della politica, dell’economia, della cultura – siano selezionati i più qualificati, i più capaci, i più “meritevoli”. Quando si perde la fiducia nell’efficienza dei sistemi democratici, affidarsi alla scelta dei “migliori” da parte dei “competenti” sembra la via d’uscita più raccomandabile. Ma restano alcuni interrogativi importanti: chi, e in base a quali criteri, stabilisce che cos’è il “merito”, e come lo si riconosce? Se da un lato la “meritocrazia” (termine reso noto dal romanzo distopico The Raise of Meritocracy, pubblicato nel 1958 dallo scrittore britannico Michael Young) affascina perché contrasta gli eccessi di egualitarismo e, soprattutto, il nepotismo e il clientelismo, dall’altro il rischio è l’esaltazione della competizione e del successo come gli unici indicatori della qualità e del valore delle persone. ▰ Antisemitismo Nel V libro delle Historiae Tacito inserisce una digressione geo-etnografica piuttosto dettagliata sugli Ebrei. Gli storici hanno concordemente rilevato la scarsa attendibilità delle informazioni di Tacito, che comprendono notizie più o meno deformate, con ogni probabilità di seconda mano, sulla religione e

sui costumi ebraici: secondo lo storico, a parte le usanze derivate dai tempi biblici (peraltro spiegate in maniera scorretta), cetera instituta, sinistra foeda, pravitate valuere («le altre usanze, sinistre e laide, s’imposero con la depravazione», Hist. V, 5). Ricordiamo peraltro che Tacito mostra una ripugnanza simile nei confronti del Cristianesimo, che definisce exitiabilis superstitio («rovinosa superstizione», Annales XV, 44). Possiamo definire “antisemita” l’atteggiamento di Tacito? O è meglio parlare di “antigiudaismo”, o di “giudeofobia”? Il suo punto di vista riflette un pregiudizio culturale diffuso? Quanto pesa la tenace resistenza del popolo ebraico a qualunque integrazione, aggravata, agli occhi dei Romani, da una religione radicalmente diversa dalla loro, alla quale in una prima fase venne sostanzialmente assimilato il Cristianesimo? Certo la considerazione mostrata dallo storico nei confronti dei Germani è molto più articolata. L’argomento è estremamente complesso, ma occorre comunque ricordare che la parola “antisemitismo” ha un’origine recente (fine del XIX secolo), e che ha una connotazione razziale del tutto ignota alla cultura antica: è vero d’altronde che nel suo serbatoio ideologico e pseudo-scientifico finiscono per raccogliersi e amplificarsi tutti i motivi di un’ostilità anti-ebraica ben più antica del termine con cui oggi comunemente la designiamo. Per approfondire ti suggeriamo la lettura di P. Schäfer, Giudeofobia. L’antisemitismo nel mondo antico, Carocci, 2004.

Lastra tombale con cavaliere germanico proveniente da Hornhausen, VII secolo. Halle, Landesmuseum für Vorgeschichte.

Spunti tacitiani per temi moderni

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LABORATORIO

Nell’officina di Tacito

Discorso di Galba alle truppe Historiae I, 18

PROPOSIZIONE FINALE CON IL DATIVO DEL GERUNDIVO PROPOSIZIONE INFINITIVA OGGETTIVA RETTA DAL VERBO PRONUNTIAT

= ERRAVISSE

SOGGETTI DI UNA FRASE CON IL VERBO ESSE SOTTINTESO

Quartum idus Ianuarias, foedum imbribus diem, tonitrua et fulgura et caelestes minae ultra solitum turbaverunt. Observatum id antiquitus comitiis dirimendis non terruit Galbam quo minus in castra pergeret, contemptorem talium ut fortuitorum; seu quae fato manent, quamvis significata, non vitantur. Apud frequentem militum contionem imperatoria brevitate adoptari a se Pisonem exemplo divi Augusti et more militari, quo vir virum legeret, pronuntiat. Ac ne dissimulata seditio in maius crederetur, ultro adseverat quartam et duoetvicensimam legiones, paucis seditionis auctoribus, non ultra verba ac voces errasse et brevi in officio fore. Nec ullum orationi aut lenocinium addit aut pretium. Tribuni tamen centurionesque et proximi militum grata auditu respondent: per ceteros maestitia ac silentium, tamquam usurpatam etiam in pace donativi necessitatem bello perdidissent. Constat potuisse conciliari animos quantulacumque parci senis liberalitate: nocuit antiquus rigor et nimia severitas, cui iam pares non sumus.

I dati

PREDICATIVO DI GALBAM

ABLATIVO ASSOLUTO = FUTURAS ESSE SUPINO PASSIVO DI AUDIO (ABLATIVO DI LIMITAZIONE)

Dentro il testo

Alla morte di Nerone (9 giugno 68), provocata dalle insurrezioni delle truppe stanziate in Gallia (agli ordini di Giulio Vindice), in Africa (agli ordini di Claudio Macro), in Lusitania (agli ordini di Otone) e in Spagna Tarragonese (agli ordini di Galba), seguì l’elezione di Servio Sulpicio Galba, un uomo già in età avanzata, appartenente all’antico patriziato romano, di orientamento tradizionalista. Galba fece il suo ingresso in Roma nell’ottobre 68: pochi giorni dopo le calende di gennaio dell’anno successivo, ebbe notizia che le legioni della Germania superiore reclamavano un nuovo imperatore, e si appellavano per la scelta al senato e al popolo romano. Questo fatto spinse Galba ad affrettare la decisione, già da tempo meditata, di adottare un successore, e lo fece nella persona di Pisone, cui si rivolse con un lungo discorso [ T15], nel quale il vecchio imperatore teorizzava, mediante il principio dell’adozione, il superamento della trasmissione dinastica del potere attuata da Augusto. È a questo punto che Galba decide di recarsi nel campo dei pretoriani (in castra), per dare l’annunzio dell’avvenuta adozione. Il 15 gennaio verrà trucidato da quegli stessi pretoriani che lo avevano ascoltato, cupi e silenziosi, solo pochi giorni prima.

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Traduci il brano. Quartum idus Ianuarias: che giorni indicavano, le Idi, nel calendario romano? Come si contavano? tonitrua et fulgura et caelestes minae: le notazioni atmosferiche si trasformano, all’improvviso, in minae caelestes, come se si trattasse di segni celesti, prodigi. Ricorda l’importante ruolo che rivestirono, nel mondo religioso romano (e prima ancora etrusco), i sacerdoti preposti alla loro interpretazione. A quali collegi appartenevano? Galba, in quel momento, era pontefice massimo: il dato, qui sottinteso, conferisce particolare rilievo alla decisione dell’imperatore di trascurare i segni del cielo? antiquitus: la parola assume un rilievo speciale nel racconto dell’episodio, e rientra nell’orizzonte ideo­logico di tutti i grandi storici latini: pensa al proemio dell’opera di Livio, o a un celebre passo delle sue Storie (XLIII, 13, 2), nel quale l’autore rivela come il suo animo si faccia «antico» nello scrivere la storia delle epoche più remote (Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus). E Tacito? contemptorem talium ut fortuitorum, seu quae fato manent: un esempio di variatio sintattica, che

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bene esprime le oscillazioni della visione storica di Tacito, il quale, in Hist. I, 4, 1, si era proposto di «far conoscere non solo i fatti e il loro svolgimento, che per lo più sono fortuiti, ma anche la connessione e le cause dei fatti» (ut non modo casus eventusque rerum, qui plerumque fortuiti sunt, sed ratio etiam causaeque noscantur). Poni la tua attenzione, in particolare, sul sostantivo contemptor: quale giudizio sembra sottintendere sull’operato di Galba? comitiis: che cos’erano i comitia? Spiega le espressioni comitia centuriata, comitia tributa, comitia curiata. Ricordi quando erano stati istituiti, secondo la tradizione? Quale visione della storia e dell’uomo si evince dall’episodio delle caelestes minae? Conosci altri passi in cui Tacito riflette sul significato delle vicende umane, e sul rapporto tra uomini e dèi? imperatoria brevitate: si può estendere l’annotazione allo stile stesso di Tacito? adoptari a se Pisonem: sull’episodio, cfr. T15. exempli divi Augusti et more militari: due argomenti assai probanti e convincenti: Augusto aveva adottato Tiberio; i tribuni militari, secondo un’antica usanza forse vigente già presso gli Etruschi, sceglievano ad uno ad uno i cittadini chiamati alla leva. pronuntiat: collocato alla fine del periodo, il verbo enfatizza la brevità lapidaria del discorso di Galba. seditio: le rivolte militari che si erano verificate fra le truppe stanziate sui confini germanici. Galba era stato un generale coraggioso e valente: in I, 49, Tacito annota che egli, dum vigebat aetas, militari laude apud Germanias floruit. pretium: i tradizionali donativi in denaro che da Tiberio a Nerone tutti gli imperatori avevano concesso ai soldati, e in particolare ai pretoriani, salendo al trono. Galba fu il solo a negarli. Lo stesso Tacito, in Hist. I, 5, 2, riporta un detto di Galba, che si vantava di essere abituato a sceglierli, i soldati, non a comprarli (legi a se militem, non emi). grata auditu respondent: la frase rivela che la reazione degli ufficiali è di pura circostanza. Al contrario, tra i soldati, prevale soltanto maestitia ac silentium. in pace... bello: ancora una variatio sintattica, in presenza di una consuetudine che lo storico non giudica positiva. Qual è l’errore politico compiuto da Galba? Come sembra giudicarlo Tacito?

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cui iam pares non sumus: l’improvviso passaggio al presente di chi sta scrivendo, carica di un senso ben più vasto il singolo episodio qui descritto. Conosci altri passi di Tacito in cui si danno giudizi analoghi sull’epoca del principato?

Confronti intertestuali 18

La vicenda di Galba si conclude, in Tacito, con il seguente ritratto (Hist. I, 49, 2-4): Questa fine ebbe Servio Galba, che nei suoi settantatré anni aveva assistito in buona fortuna al succedersi di cinque prìncipi, più felice sotto la signoria altrui che durante la propria. Antica la nobiltà della famiglia, grandissime le ricchezze; quanto a lui, ebbe un carattere senza rilievo, alieno da vizi piuttosto che ricco di virtù. Non fu indifferente alla gloria, ma non millantatore; del denaro altrui non sentì cupidigia, fu parco del proprio e avaro di quello pubblico; con amici e liberti di un’indulgenza non biasimevole, se erano uomini dabbene, cieco sino alla colpa se erano malvagi. Ma lo splendore dei natali e la paura dominante in quei tempi lo scusarono e fecero sì che per lui l’indolenza avesse nome di saggezza. Finché gli durò il vigore giovanile, fu grande in Germania per gloria militare. Proconsole, resse l’Africa con moderazione; già vecchio, la Spagna citeriore con pari giustizia; finché rimase cittadino privato, parve degno di essere qualche cosa di più, e l’universale consenso l’avrebbe detto capace di regnare, se non avesse regnato. (trad. di A. Arici)

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Commenta questo brano, mettendolo in relazione con quello che hai tradotto. Cosa intende comunicare l’autore, con l’espressione paradossale sulla quale il ritratto si va chiudendo? Nella prefazione alle Historiae, Tacito aveva affermato di voler narrare la storia di Roma neque amore... et sine odio; espressione poi riecheggiata nel proemio degli Annales: sine ira et studio. La lettura dei passi relativi a Galba, così come di altri che hai potuto conoscere nella sezione antologica del capitolo, ti pare confermi la dichiarazione di oggettività e di imparzialità dello storico? Rispondi motivando la tua affermazione con precisi riferimenti testuali. 401

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

MAPPA LA STORIOGRAFIA DI TACITO Cornelio Tacito (tra 55 e 57 – post 117 d.C.) Dialogus de oratoribus (intorno all’80 o 102 d.C.)

• • •

trattato retorico in forma di dialogo ciceroniano discussione de causis corruptae eloquentiae la vera causa è la perdita della libertà politica

Agricola (97 d.C.)

• • • •

monografia storico-biografica vita del suocero Giulio Agricola modello di comportamento civile e politico excursus geo-etnografico sui Britanni

Germania (98 d.C.)

• • • •

monografia geo-etnografica costumi dei Germani: vizi e virtù confronto allusivo con i costumi romani minaccia per il futuro dell’impero

• • •

avvenimenti dal 69 al 96 d.C.; pervenuta incompleta storiografia annalistica irreversibile decadenza – degrado morale del popolo romano – disagio dello storico, narratore di scelleratezze

• • • •

avvenimenti dal 14 al 68 d.C.; pervenuta incompleta storiografia annalistica la visione pessimistica si incupisce libido adsentandi: involuzione del senato

• • •

nostalgia della libertas repubblicana realismo politico: inevitabilità del principato visione problematica e oscillante – disordine e casualità della storia interesse psicologico, complessità e ambiguità dei personaggi

Historiae (100-110 d.C.)

Annales (post 111 d.C.)

Ideologia e visione della storia

• •

Lingua e stile

varietà e complessità – stile denso e arduo nelle opere annalistiche – brevitas, inconcinnitas, gravitas – lessico arcaizzante, poetismi

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Vero / Falso

1 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Sulla vita di Tacito possediamo notizie sicure ed esaurienti V|F b. Nel 78 Tacito sposa la figlia di Giulio Agricola V|F c. Dopo il 78 inizia il cursus honorum V|F d. Nell’88 assume la carica di edile V|F e. Forse dopo il 111, fu proconsole d’Asia f. Nel 115 d.C. era probabilmente ancora in vita V|F g. Il Dialogus de oratoribus è con certezza attribuito a Tacito V|F p._____/7

Quesiti a scelta multipla

2

b) Genere c) Argomento Agricola a) Cronologia b) Genere c) Argomento Germania a) Cronologia b) Genere c) Argomento p._____/9

Vero / Falso

4 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F).

Indica il completamento corretto.

1. Lo stile di Tacito nelle opere annalistiche è caratterizzato ■ da brevitas, gravitas e inconcinnitas ■ dalla ciceroniana concinnitas ■ dall’adesione ai moduli dell’asianesimo ■ da linearità, semplicità e chiarezza 2. Tacito dichiara di voler narrare «senza amore né odio» ■ nel proemio degli Annales ■ nel proemio dell’Agricola ■ nel proemio delle Historiae ■ nel I libro degli Annales, narrando del principato di Tiberio 3. Il testo della Germania consta di ■ due libri, preceduti da un proemio ■ 46 capitoli divisi in due parti, senza introduzione proemiale ■ 48 capitoli divisi in due libri, con un breve proemio ■ tre libri, che presentano ampie lacune 4. Nel Dialogus Curiazio Materno attribuisce la decadenza dell’oratoria ■ all’incompetenza dei maestri ■ ai dibattimenti fittizi in uso nelle scuole ■ alla perdita della libertà politica ■ alla superiorità degli oratori di un tempo p._____/4

Completamento

3 Attribuisci a ciascuna delle opere tacitiane indicate la cronologia, il genere e l’argomento. Dialogus de oratoribus a) Cronologia

Negli Annales Tacito…

a. rinuncia all’introduzione proemiale b. narra gli avvenimenti dal 14 d.C. alla morte di Domiziano c. dedica sei libri al principato di Tiberio d. ritrae i personaggi come exempla di vizi o di virtù e. si ispira a Sallustio, modello di storiografia drammatica

V|F V|F V|F V|F V|F

p._____/5 Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

5 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Indica l’arco cronologico della narrazione nelle Historiae, specificando quali parti dell’opera ci sono pervenute. 2. Il personaggio di Tiberio negli Annales. 3. Schema annalistico e biografie imperiali negli Annales. Trattazione sintetica

6 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Principatus e libertas nelle opere di Tacito. 2. Agricola: un’opera complessa, all’intersezione di generi letterari diversi. 3. La rappresentazione dei Germani nella monografia tacitiana. 403

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La storiografia di Tacito

Verifica finale


12 Le biografie di Svetonio 1 La vita e le opere Le fonti Scarse sono le notizie in nostro possesso riguardanti la vita di Gaio Svetonio Tranquillo (Gaius Suetonius Tranquillus). Le fonti più importanti restano l’epistolario di Plinio il Giovane (che di Svetonio fu amico e protettore) e un passo della Historia Augusta (Hadr. 11, 3). Particolare interesse riveste inoltre l’epigrafe, purtroppo mutila, di Hippo Regius (l’antica Ippona, in Numidia), dalla quale è stato possibile ricostruire almeno in parte la carriera pubblica dello scrittore. Significative, in qualche caso, sono le indicazioni autobiografiche presenti nelle Vite dei Cesari. Le origini Proprio da esse apprendiamo che Svetonio era ancora adulescentulus durante il principato di Domiziano (Dom. 12, 3) e in particolare negli anni 88-89 (Nero 57, 4). Doveva perciò essere nato poco dopo il 70. Più difficile stabilire in quale città: forse a Ippona, sulla scorta dell’epigrafe colà ritrovata nel 1952; secondo altri a Ostia. La famiglia, di modeste condizioni, apparteneva all’ordine equestre. L’amicizia di Plinio il Giovane Da una lettera di Plinio il Giovane (I, 18) veniamo a sapere che Svetonio svolse attività di avvocato. Grazie a Plinio viene introdotto negli ambienti letterari della capitale: le sue raccomandazioni gli valgono, intorno al 112, la concessione da parte dell’imperatore Traiano del ius trium liberorum. 404 © Casa Editrice G. Principato


La morte di Cesare nel racconto di Svetonio Quando si accorse che da ogni parte gli venivano addosso coi pugnali levati, si avvolse il capo nella toga, e con la sinistra ne tirò giù il lembo fino ai piedi per cadere più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. In questo atteggiamento venne trafitto da ventitré ferite, avendo emesso un solo gemito, senza articolare parola, dopo che gli era stato inferto il primo colpo. Qualcuno però ha tramandato che, rivolto a Marco Bruto mentre questi gli si avventava addosso, abbia esclamato: «Anche tu, figlio?» (Svetonio, Divus Iulius 82, trad. di Felice Dessì)

Iulius

Augustus

Claudius

Vitellius

Tiberius

Nero

Vespasianus

Galba

Titus

Caligula

Otho

Domitianus

Le cariche pubbliche Nel decennio successivo a tale data vanno collocate le fortune pubbliche di Svetonio, dovute, dopo la morte di Plinio (circa 113 d.C.), alla protezione di un altro illustre personaggio dell’epoca, quel Setticio Claro a cui Plinio aveva dedicato le proprie lettere. L’iscrizione di Hippo Regius ci informa che lo scrittore giunse a sostenere, non sappiamo se già all’epoca di Traiano o solo successivamente, un ruolo di primo piano all’interno dell’apparato burocratico imperiale: fu infatti procuratore a studiis (cioè archivista imperiale), a bibliothecis (direttore delle pubbliche biblioteche romane) e ab epistulis (sovrintendente alla corrispondenza imperiale). Di particolare rilievo quest’ultima carica, che gli consentiva automaticamente di far parte del consilium principis. La destituzione e la morte Tra il 121 e il 122 Setticio Claro, da alcuni anni prefetto del pretorio, cadde in disgrazia presso Adriano, trascinando nella rovina anche il suo protetto, che fu rimosso da ogni incarico. Svetonio morì in una data imprecisata che si è soliti collocare, sulla scorta di indizi peraltro labili, successivamente al 126 o al 132 d.C. Le opere pervenute: due raccolte di biografie Svetonio scrisse numerose opere erudite di vario argomento, che non ci sono state trasmesse. [ Le perdute opere erudite di Svetonio] Si sono invece conservate, anche se parzialmente, due raccolte di 405 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

12. Le biografie di Svetonio

PROFILO STORICO

biografie, De viris illustribus e De vita Caesarum, imperniata la prima sui letterati, la seconda sugli imperatori romani. Difficile stabilire la data di pubblicazione delle due opere: si è tuttavia soliti assegnare il De viris illustribus al periodo appena precedente le cariche pubbliche ricoperte da Svetonio, il De vita Caesarum a quello contemporaneo o successivo.

Guida allo studio

1.

Traccia un breve riepilogo delle notizie riguardanti la vita di Svetonio, precisando le fonti dei dati in nostro possesso.

2. Quali opere di Svetonio sono giunte fino a noi? È possibile stabilirne la data di pubblicazione?

2 De viris illustribus L’argomento De viris illustribus («Gli uomini illustri») è una raccolta di biografie dedicata agli uomini di lettere e suddivisa in cinque libri: de poetis, de oratoribus, de historicis, de philosophis, de grammaticis et rhetoribus. Dell’intera opera sopravvive unicamente l’ultimo libro, anch’esso mutilo: ci sono infatti pervenute tutte e venti le biografie della sezione grammatici, solo cinque delle sedici biografie della sezione rhetores. Si sono anche salvate alcune biografie appartenenti agli altri quattro libri: di Passieno Crispo (oratore), di Plinio il Vecchio (considerato esclusivamente come storico; incompleta), dei poeti Orazio, Lucano (incompleta), Terenzio e Virgilio (quest’ultima nella versione rielaborata, nel IV secolo, dal grammatico Elio Donato). I modelli e lo schema compositivo Con il De viris illustribus Svetonio continua la tradizione delle biografie di letterati iniziata in età alessandrina e sviluppata in Roma sia da Varrone (Imagines; De poetis) sia da Cornelio Nepote (dal quale Svetonio trae il titolo: tuttavia Cornelio, come si ricorderà, non trattava esclusivamente di scrittori ma anche di altre categorie, fra cui re, statisti e generali). Ogni libro comprendeva l’indice degli autori trattati, un’introduzione storica al genere letterario, le singole vite, per lo più brevi e sintetiche. Più estese erano le biografie dedicate ai poeti, evidentemente in ragione del loro prestigio.

Le perdute opere erudite di Svetonio La figura di Svetonio è sostanzialmente quella di uno studioso e di un erudito. Lo confermano diversi indizi: una lettera di Plinio [ Plinio, in una lettera, parla di Svetonio ONLINE ]; le cariche di bibliotecario e di archivista ricoperte forse già durante il principato di Traiano; e soprattutto un elenco di opere in greco e in latino, purtroppo perdute, di cui siamo a conoscenza grazie al Lessico Suda, una raccolta a carattere enciclopedico compilata in epoca molto tarda (X

secolo). La Suda attribuisce a Svetonio ben quattordici titoli: svariati gli argomenti, che riguardavano le antichità greche e romane (calendario, usanze, giochi, spettacoli), le scienze naturali (La natura; Gli animali), questioni linguistico-grammaticali (fra cui un trattatello sulle espressioni ingiuriose della lingua greca), biografie (I re; Le cortigiane famose). Secondo altre testimonianze, Svetonio scrisse anche dei Prata, una raccolta miscellanea di carattere enciclopedico che forse comprendeva gli stessi trattati ricordati nella Suda.

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PROFILO STORICO

3 De vita Caesarum L’argomento De vita Caesarum («Vite dei Cesari», tradizionalmente intitolato «Vite dei dodici Cesari» o anche «I dodici Cesari») è una raccolta di dodici biografie dei primi imperatori di Roma, da Giulio Cesare (ormai da tempo considerato il primo imperatore di Roma, come testimonia il passaggio a titolo dinastico del nome proprio Caesar) a Domiziano. L’opera è divisa in otto libri: i primi sei dedicati uno ciascuno agli imperatori della famiglia giulio-claudia (Cesare, Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone); il libro VII agli imperatori del 68-69 (Galba, Otone, Vitellio), l’ultimo ai tre imperatori di casa Flavia (Vespasiano, Tito, Domiziano). L’opera ci è giunta sostanzialmente integra: mancano soltanto la dedica a Setticio Claro (di cui siamo a conoscenza indirettamente grazie a Giovanni Lido, uno scrittore bizantino del VI secolo) e i primi capitoli della Vita di Cesare. Problemi di datazione La notizia della dedica dovrebbe consentire, in teoria, di datare la pubblicazione dell’opera (o almeno del primo libro) agli anni 119122, quando Setticio era prefetto del pretorio sotto Adriano. L’autore si avvale di un’ampia documentazione di prima mano, tratta dagli acta ufficiali e dal carteggio imperiale (in particolare dalle lettere di Augusto, di cui riporta interi brani), il che presuppone una sistematica frequentazione degli archivi di Stato, e suggerisce che il lavoro di composizione si sia svolto negli anni in cui Svetonio era procuratore a studiis. Si è peraltro osservato che, dalla Vita di Tiberio in poi, le citazioni dirette degli atti ufficiali si diradano alquanto; ciò potrebbe significare che le vite successive furono scritte dopo il 122. Lo schema della narrazione Due erano le tipologie narrative ricorrenti nel racconto biografico: la prima si basava su un ordinamento cronologico delle notizie (per tempora); la seconda su un ordinamento per rubriche (per species). Svetonio fa uso di entrambe secondo uno schema che si ripete quasi identico: l’ordine cronologico prevale nella prima parte della vita (genealogia, anno e luogo di nascita, educazione, fatti anteriori all’assunzione del principato) e nell’ultima (morte, esequie, testamento, eventuale apoteosi); l’ordinamento per species prevale invece nella parte centrale, dove i fatti vengono registrati sotto rubriche fisse, indipendenti dalla cronologia: ritratto fisico, imprese militari, attività legislativa, giochi e spettacoli, studia, vitia, virtutes, mores. [ T1].

 Ritratto dell’imperatore Tito, Carlsberg Glyptotek. 407 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

12. Le biografie di Svetonio

PERCORSO ANTOLOGICO

PROFILO STORICO

T 1 Per tempora / per species: Svetonio parla del suo Vita Augusti ITALIANO

metodo di lavoro

L’autore si sofferma a sottolineare in diverse occasioni il suo metodo di lavoro. Citiamo due esempi tratti dalla Vita di Augusto.

Ciò che ho premesso è quasi un sommario della sua vita. Adesso ne esporrò i fatti uno per uno, senza seguire un ordine cronologico, ma secondo la loro natura (neque per tempora sed per species exsequar), perché si possano conoscere meglio e in modo più chiaro. (Aug. 9, 1) Dopo avere esposto quale fu nei comandi militari, nelle magistrature e nel governo dello Stato, in pace e in guerra, in tutto il mondo, ricorderò adesso la sua vita privata, come si comportò e quali vicende ebbe, nella sua casa e tra i suoi, dalla gioventù fino all’ultimo giorno della sua vita (Aug. 61, 1). (trad. di F. Dessì)

L’uso delle fonti Svetonio attinge a fonti assai varie: documenti d’archivio, carteggi imperiali, testi biografici e storiografici, pamphlet diffamatorii e propagandistici, dicerie tramandate oralmente. Spesso riferisce con la massima disinvoltura notizie di scarso fondamento, cadendo in palesi contraddizioni. Nondimeno, quando vuole, sa discutere con rigore argomentativo un dato o una notizia facendo ricorso a documenti ufficiali, nonché alla sua perizia di grammatico. Non è un caso, tuttavia, che tale diligenza si concentri sovente su dettagli storiograficamente irrilevanti: anche di fronte ai cataclismi della storia, Svetonio si comporta con la mentalità dell’erudito curioso, dell’investigatore di dotte rarità. Caratteri della narrazione Il genere biografico era in certo modo più affine, secondo la mentalità antica, a una narrazione romanzesca che a un’indagine storiografica vera e propria. Nel tratteggiare la personalità dei singoli imperatori, l’attenzione di Svetonio si concentra su particolari piccanti, aneddoti scandalosi, curiosità e stranezze; la divisione per rubriche e l’andamento analitico della narrazione polverizzano il personaggio in una miriade di fotogrammi, a scapito sia della coerenza psicologica sia dell’intelligenza storica. Nondimeno, anzi forse proprio per questo, il racconto risulta sempre accattivante: in assenza di uno sguardo che giudica o che ammaestra, il lettore si sente libero di spaziare nei coloriti cataloghi di episodi, notizie, indiscrezioni e dicerie che affollano le vaste e misteriose stanze della storia. Gusto elencatorio e fascinazione del mirabolante sembrano apparentare queste pagine ai libri di storia naturale di Plinio il Vecchio. 408 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Lingua e stile La prosa di Svetonio è asciutta e disadorna, priva di enfasi e di ricercatezze retoriche. In genere i periodi non sono ampi, né arricchiti da incisi: l’autore mira all’essenzialità, mostrando di prediligere i costrutti participiali e in particolare gli ablativi assoluti; gli mancano tuttavia la forza e la pregnanza del grande scrittore. Tra l’altro, la ricorsività delle rubriche induce sovente alla ripetizione dei medesimi stilemi e giri di frase, non senza generare una certa impressione di uniformità, se non di monotonia, aggravata dal fatto che il soggetto della narrazione in terza persona è invariabilmente, espresso o sottinteso, «l’imperatore». Svetonio allinea dati e notizie con minuzia di particolari e scrupolo di collezionista erudito, in uno stile decoroso ma per lo più impersonale e freddamente “cancelleresco”, senza preoccuparsi troppo di rielaborare artisticamente i materiali in suo possesso. Non di rado i documenti originali sono riportati direttamente, così come si trovano nelle fonti. L’impasto linguistico risulta scarsamente omogeneo: locuzioni gergali e colloquiali convivono a fianco di arcaismi e di numerosi grecismi, nonché di termini tecnici e vocaboli del linguaggio ufficiale. Forse proprio per questo, tuttavia, la sua pagina non di rado sortisce effetti di vivida, realistica concretezza che, insieme alla spedita agilità della narrazione, compensano almeno in parte l’inconsistenza dei profili psicologici e la mancanza di profondità storica (d’altronde non richiesta dal genere biografico).

Guida allo studio

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

1.

Descrivi la struttura delle Vite dei Cesari, indicando le fonti cui fa ricorso l’autore. 2. Illustra le caratteristiche salienti del racconto biografico svetoniano. 3. Esponi i caratteri tradizionali del genere biografico nell’antichità, illustrando in

particolare le due tipologie adottate nell’organizzare i materiali narrativi. Quali scelte opera Svetonio al riguardo? 4. A quali criteri si attiene Svetonio nell’utilizzare i documenti originali?

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Plinio, in una lettera, parla di Svetonio DIALOGO CON I MODELLI Il Caligola di Camus BIBLIOGRAFIA ESTESA

L’edizione più facilmente reperibile è Vite dei Cesari, introd. di S. Lanciotti, trad. di F. Dessì, 2 voll., Rizzoli (BUR), Milano 1982.

Fra gli studi si consigliano: G. Brugnoli, Studi svetoniani, Milella, Lecce 1968; P. Venini, Sulla tecnica compositiva svetoniana, Tipografia del libro, Pavia

1975; A. Pennacini, Strutture retoriche nelle biografie di Plutarco e di Svetonio, «Sigma», 17, 1984, pp. 103-111.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

12. Le biografie di Svetonio

Sintesi

PROFILO STORICO

S

Le biografie di Svetonio Della vita di Svetonio possediamo scarse notizie: nacque probabilmente dopo il 70, forse a Ippona in Numidia, forse a Ostia; incerta anche la data della morte, collocata dopo il 126 o il 132 d.C. Grazie all’amicizia di Plinio il Giovane viene introdotto negli ambienti letterari della capitale. Forse già all’epoca di Traiano, giunge a sostenere un ruolo di primo piano nell’apparato burocratico imperiale; ma quando Setticio Claro, il suo illustre protettore, cade in disgrazia presso Adriano (nel 121 o 122), viene rimosso da ogni incarico. Di Svetonio si conservano parzialmente due raccolte di biografie, De viris illustribus e De vita Caesarum, che godettero di notevole fortuna; di altre numerose sue opere erudite in greco e in latino conosciamo solo i titoli. De viris illustribus era una raccolta di biografie dedicate agli uomini di lettere, suddivisa per categorie in 5 libri (de poetis, de oratoribus, de historicis, de philosophis, de grammaticis et rhetoribus), di cui sopravvive solo l’ultimo, anch’esso mutilo, oltre ad alcune sparse biografie appartenenti alle altre sezioni. Con quest’opera Svetonio continua la tradizione iniziata in età alessandrina e sviluppata in Roma da Cornelio Nepote e da Varrone.

De vita Caesarum comprende in 8 libri le 12 biografie dei primi imperatori di Roma, da Giulio Cesare a Domiziano. L’autore attinge dati e notizie sia da documenti ufficiali (gli archivi di Stato), sia da altre fonti, assai varie e talora prive di fondamento. Lo schema della narrazione alterna all’ordine cronologico (per tempora) la scansione per rubriche (per species). L’attenzione di Svetonio si concentra soprattutto su dettagli, aneddoti, curiosità: in assenza di uno sguardo e di un giudizio unificanti, l’andamento analitico della narrazione finisce per polverizzare il personaggio in una miriade di fotogrammi staccati. Nondimeno, il risultato è sempre di piacevole lettura. La prosa di Svetonio è asciutta e disadorna, lo stile decoroso, ma freddo e impersonale, il linguaggio scarsamente omogeneo; tuttavia la sua pagina offre momenti di vivida concretezza, che insieme all’agilità della narrazione compensano in parte l’inconsistenza dei profili psicologici e l’assenza di profondità storica.

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Percorso antologico T1

Per tempora / per species: Svetonio parla del suo metodo di lavoro (Vita Augusti 9,1; 61,1)

IT

T2

Regalità e divinità in Caligola (De vita Caesarum IV, 22)

IT

T3

Ritratto di Caligola (De vita Caesarum IV, 50)

LAT

IT

T4

Morte e sepoltura di Caligola (De vita Caesarum IV, 58-59

LAT

IT

T 2 Regalità e divinità in Caligola De vita Caesarum IV, 22 ITALIANO

Con il cap. 22 Svetonio inizia a narrare le «mostruose» bizzarrie di Caligola. Lo stacco rispetto alle parti precedenti, dedicate alla nascita e giovinezza dell’imperatore (capp. 1-12) nonché alla sua attività pubblica (capp. 13-21), viene fortemente segnato dallo stesso autore: «Fin qui l’imperatore; il resto del racconto dovrà trattare di una sorta di mostro». [22, 1]

Fin qui l’imperatore; il resto del racconto dovrà trattare di una sorta di mostro. Pur avendo assunto molti soprannomi – lo si chiamava infatti «pio» e «figlio dell’accampamento» e «padre degli eserciti» e «Cesare ottimo massimo» – quando una volta gli capitò di sentire dei sovrani, venuti a Roma per omaggiarlo, che a cena disputavano di nobiltà di stirpe, si mise a gridare: «uno sia il capo, uno sia il re».1 E poco mancò che lì stesso prendesse la corona e trasformasse quell’apparenza di principato in una forma regale.2 [2] Ma quando gli fecero 1. «uno sia il capo, uno sia il re»: verso omerico (Iliade II, 204). 2. regale: termine detestato e intolerabile (come ebbe a scrivere Livio in XXVII, 19, 4) per un Romano.

Cammeo raffigurante Caligola e una personificazione di Roma, Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

12. Le biografie di Svetonio

PERCORSO ANTOLOGICO

notare che aveva oltrepassato le altezze degli imperatori e dei re, da allora cominciò ad attribuirsi una maestà divina; e dato ordine di far venire dalla Grecia statue di divinità, rinomate per il loro culto e per la loro bellezza – e fra esse quella di Giove Olimpio3 – per togliere ad esse la testa, sostituendola con la propria, fece prolungare fino al foro un’ala del Palazzo, trasformando il tempio di Castore e Polluce in un’entrata; e standosene spesso in mezzo ai due fratelli divini, si offriva all’adorazione dei visitatori; ci fu anche chi lo salutò «Giove Laziare».4 [3] Fondò anche un tempio in onore della sua stessa divinità, con sacerdoti e vittime ricercatissime. Nel tempio c’era una statua d’oro, a grandezza naturale,5 cui ogni giorno veniva messa indosso una veste uguale a quella che metteva lui. Tutti i più ricchi cercavano di procurarsi a turno la massima carica del sacerdozio, brigando e offrendo grosse somme di denaro. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, galli di montagna, faraone, fagiani, e ne veniva immolata una specie diversa ogni giorno. [4] La notte, poi, invitava sempre la Luna, quand’era piena e splendente, a venire ad abbracciarlo e a dormire con lui; di giorno, invece, parlava in segreto con Giove Capitolino, ora sussurrando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora ad alta voce, e senza risparmiargli rimproveri. Infatti si sentirono le sue parole di minaccia: «o tu elimini me o io te»,6 finché non si lasciò persuadere – a sentir lui – dall’invito a condividere la sede, e collegò il Palazzo al Campidoglio con un ponte che passava sopra il tempio del Divino Augusto. Poi, per essere ancora più vicino, gettò le fondamenta di una nuova sede nella zona del Campidoglio. (trad. di G. Guastella)

3. quella di Giove Olimpio: celebre opera di Fidia. 4. «Giove Laziare»: divinità protettrice dell’antica lega latina, venerata in un celebre santuario sui monti Albani. 5. statua... a grandezza naturale: nell’originale simulacrum... iconicum; secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio (Nat. hist. XXXIV, 16) erano quelle che ad Olimpia venivano concesse a chi aveva riportato almeno tre vittorie nei giochi. 6. «o tu elimini me o io te»: ancora una citazione omerica (da Iliade XXIII, 724). Si legga anche Seneca: «[Caligola] irato col cielo che disturbava coi tuoni i pantomimi (che egli imitava più che guardare) e disturbava coi fulmini le sue orgie (ed erano presagi sicuri) sfidò a battaglia Giove, a oltranza, urlando il famoso verso di Omero: O tu elimini me o io te» (De ira I, 20, 8).

NOMI e PAROLE degli ANTICHI I SOPRANNOMI DI CALIGOLA (22, 1)

Fin dall’esordio del capitolo Svetonio dà prova del suo scrupolo elencatorio dando conto dei vari soprannomi assunti dall’imperatore. Si tratta di espressioni, tranne la seconda, tradizionali: la pietas («pio», pius) testimonia l’intimo rapporto fra princeps e divinità; l’esercizio militare («padre degli eserciti», pater exercituum) era attività fondamentale di ogni imperatore (anche se a Caligola viene attribuita una sola spedizione bellica); perfino la denominazione «ottimo massimo» (optimus

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maximus) ricalcata su quella di Giove Capitolino, non era formula insolita in ambito imperiale. «Figlio dell’accampamento» (castrorum filius) rimanda invece agli aneddoti semileggendari sull’infanzia di Caligola, nato (secondo una versione invero contestata da Svetonio) nei quartieri d’inverno delle legioni germaniche: di qui la devozione che i soldati nutrirono per lui e lo stesso soprannome di Caligula (da caliga, calzatura dei soldati semplici che il figlioletto di Germanico portava durante la permanenza negli accampamenti).


PERCORSO ANTOLOGICO

LETTURA e INTERPRETAZIONE Rubriche tematiche

Svetonio organizza le «mostruosità» di Caligola in rubriche tematiche. Nella prima, che qui leggiamo, vengono raggruppate le sue empie stravaganze in materia di religione: il princeps giunge ad autoproclamarsi dio (par. 3) e ad ingaggiare una sorta di sfida con lo stesso Giove (par. 4).

Rimozione delle implicazioni politiche

Gli storici contemporanei tendono a interpretare le stranezze di Caligola, al di là delle sue private ossessioni, come un tentativo di promuovere in Roma i modelli autocratici delle monarchie orientali di età ellenistica (che prevedevano, in particolare, l’assimilazione del rex a una divinità). Svetonio, per parte sua, rimuove sistematicamente i significati

politici e istituzionali dei comportamenti di Caligola, riducendoli a manifestazioni di una psiche anormale e perversa, dominata da un’insaziabile volontà di potenza.

I dettagli: gusto del catalogo e dei mirabilia

L’attenzione si concentra in particolar modo sui dettagli: difficile per il lettore non essere catturato, ad esempio, dalla bizzarra e ricercatissima lista degli animali che venivano immolati sugli altari di Caligola o dal particolare della statua d’oro che veniva quotidianamente rivestita con abiti uguali a quelli indossati dall’imperatore. Qui Svetonio dà il meglio della sua arte narrativa, coniugando il piacere erudito del catalogo con il gusto tutto imperiale dei mirabilia.

T 3 Ritratto di Caligola De vita Caesarum IV, 50 LATINO ITALIANO

Il ritratto è uno dei momenti più importanti delle biografie svetoniane. La descrizione analitica e realistica dei tratti fisici (par. 1) serve a delineare meglio il carattere del personaggio: qui, ad esempio, la sproporzione della corporatura e la mostruosità dell’aspetto sono il corrispettivo della psicologia malata del princeps. Subito dopo (par. 2), si viene a trattare della sua salute fisica e mentale: l’accenno all’epilessia e al filtro d’amore risponde ancora una volta all’esigenza di spiegare la personalità sconvolta ed esaltata del protagonista. Il passo si conclude con un ennesimo saggio dei comportamenti anomali di Caligola, turbato di notte da mirae imagines: fra di esse, quella «del mare che gli parlava» (par. 3). [50, 1]

Statura fuit eminenti, colore expallido, corpore enormi, gracilitate maxima cervicis et crurum, oculis et temporibus concavis, fronte lata et torva, capillo raro at circa verticem nullo, hirsutus cetera.1

[50, 1] Era

alto di statura, di colorito molto pallido, di corporatura sproporzionata. Aveva gracilissimi il collo e le gambe, incavati gli occhi e le tempie, ampia e torva la fronte, radi i capelli, calva la cima della testa, mentre per il resto era molto peloso.1

1. Statura... cetera: già Seneca (De constantia sapientis 18, 1) aveva delineato di Caligola un efficace ritratto che collima nei particolari con quello di Svetonio: tanta illi palloris insaniam testantis foeditas erat, tanta oculorum sub fronte anili latentium torvitas, tanta capitis destituti

et emendicaticiis capillis aspersi deformitas. Adice obsessam saetis cervicem, et exilitatem crurum, et enormitatem pedum («un colore terreo che testimoniava la pazzia, occhi torvi quasi infossati sotto una fronte da vecchietta, una testa orrendamente pelata, seminata solo qua e

là da pochi capelli posticci; aggiungi una nuca setolosa, gambe magrissime e piedi enormi»). Conferme vengono da altre fonti, fra cui Tacito (Annales XV, 72, 2), che con una rapida pennellata descrive un uomo procerus et torvo vultu («di alta statura e torvo aspetto»).

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

12. Le biografie di Svetonio

2. capram: evidentemente da mettere in relazione con l’aspetto irsuto dell’imperatore.

Quare transeunte eo prospicere ex superiore parte aut omnino quacumque de causa capram2 nominare, criminosum et exitiale habebatur. Vultum vero natura horridum ac taetrum etiam ex industria efferabat componens ad speculum in omnem terrorem ac formidinem. [2] Valetudo ei neque corporis neque animi constitit. Puer comitiali morbo vexatus, in adulescentia ita patiens laborum erat, ut tamen nonnumquam subita defectione ingredi, stare, colligere semet ac sufferre vix posset. Mentis valitudinem et ipse senserat ac subinde de secessu deque purgando cerebro cogitavit. Creditur potionatus a Caesonia uxore amatorio quidem medicamento, sed quod in furorem verterit. [3] Incitabatur insomnio maxime; neque enim plus quam tribus nocturnis horis quiescebat ac ne iis quidem placida quiete, sed pavida miris rerum imaginibus, ut qui inter ceteras pelagi quondam speciem conloquentem secum videre visus sit. Ideoque magna parte noctis vigiliae cubandique taedio nunc toro residens, nunc per longissimas porticus vagus invocare identidem atque expectare lucem consuerat.

PERCORSO ANTOLOGICO

Per questo al suo passaggio si riteneva una colpa da punirsi con la morte guardarlo dall’alto o solo pronunciare, per qualsiasi motivo, la parola «capra».2 La faccia, poi, che ispirava naturalmente orrore e disgusto, la rendeva ancora più feroce di proposito, atteggiandola di fronte allo specchio a ogni espressione capace di destare terrore e paura. [2] La sua salute fisica e mentale non fu mai salda. Da bambino fu afflitto dall’epilessia; durante l’adolescenza era resistente agli sforzi, ma talvolta, per un improvviso mancamento, a stento riusciva a camminare, a rimanere in piedi, a riaversi e sorreggersi. Della sua debolezza di mente si era reso conto lui stesso, e più volte pensò di ritirarsi e di disintossicarsi il cervello. Si crede che sua moglie Cesonia gli avesse somministrato un filtro d’amore, che lo avrebbe però fatto impazzire. [3] A irritarlo era soprattutto l’insonnia. Infatti la notte non riusciva a dormire più di tre ore, e neppure quelle di un sonno tranquillo, ma angosciato da strane visioni: fra le altre, ad esempio, una volta gli parve di vedere l’immagine del mare che gli parlava. Perciò per gran parte della notte, infastidito dalla veglia e dallo stare disteso, di solito si metteva a sedere sul letto oppure vagava per i lunghi portici, aspettando il giorno e invocandolo senza sosta. (trad. di G. Guastella)

 Statua di Caligola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 414 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

T 4 Morte e sepoltura di Caligola De vita Caesarum IV, 58-59 LATINO ITALIANO

Le vite di Svetonio si chiudono invariabilmente con il racconto della morte del princeps. Da buon archivista l’autore incasella le notizie sotto specifiche rubriche: presagi di morte (qui registrati nel cap. 57); narrazione particolareggiata degli ultimi istanti; onoranze funebri (con eventuali appendici, assenti nel caso di Caligola, su testamento e apoteosi). Il racconto è sempre rapido e incisivo, anche se privo della forza drammatica delle corrispettive narrazioni tacitiane. Svetonio si sofferma sui dettagli e sugli aneddoti più coloriti, adoperandosi per conferire speciale rilievo alle “ultime parole” dei protagonisti. L’attenzione è concentrata sugli aspetti orripilanti e romanzeschi della vicenda: degno di un romanzo nero, in questo caso, l’accenno ai fantasmi che infestarono il giardino e la casa dove Caligola era stato malamente sepolto. Sono particolari come questi a svelare l’identità dei lettori a cui Svetonio si rivolge: un pubblico cui poco interessa il profilo storico-politico delle vicende narrate, e che apprezza invece gli episodi più insoliti e piccanti delle vite imperiali.

Kal. Febr.1 hora fere septima2 cunctatus an ad prandium surgeret marcente adhuc stomacho pridiani cibi onere, tandem suadentibus amicis egressus est. Cum in crypta, per quam transeundum erat, pueri nobiles ex Asia ad edendas in scaena3 operas evocati praepararentur, ut eos inspiceret hortareturque restitit, ac nisi princeps gregis algere se diceret, redire ac repraesentare spectaculum voluit. [2] Duplex dehinc fama est: alii tradunt adloquenti pueros a tergo Chaeream4 cervicem gladio caesim graviter percussisse, praemissa voce: «Hoc age!».5 Dehinc Cornelium Sabinum, alterum e coniuratis, tribunum ex adverso traiecisse pectus; alii Sabinum summota per conscios centuriones turba signum more [58, 1] VIIII.

Il 24 gennaio,1 verso l’ora settima,2 non si decideva ad alzarsi per andare a pranzo, perché aveva ancora lo stomaco appesantito dal cibo del giorno prima. Alla fine, gli amici lo convinsero a uscire. Quando fu in una galleria da cui bisognava passare, si fermò a osservare e incoraggiare i preparativi di alcuni ragazzi di nobile condizione, fatti venire dall’Asia per esibirsi sulla scena:3 e se il capo della compagnia non avesse detto di aver freddo, avrebbe voluto tornare indietro e far rappresentare lo spettacolo. [2] Del seguito ci sono due versioni. Alcuni raccontano che, mentre parlava ai ragazzi, da dietro Cherea4 con la spada gli inferse al collo un violento colpo di taglio, dopo aver gridato: «Esegui!».5 Da davanti, poi, il tribuno Cornelio Sabino, il secondo dei congiurati, gli trafisse il petto. Altri sostengono che Sabino, dopo aver fatto allontanare la folla da centurioni complici, aveva chiesto la parola d’ordine, secondo l’uso militare; [58, 1]

1. VIIII. Kal. Febr.: dell’anno 41 d.C., durante i ludi Palatini indetti in onore di Augusto. 2. hora... septima: l’una del pomeriggio. 3. in scaena: è lo stesso Svetonio, in altri passi, a informarci della passione di Caligola per gli spettacoli: «gladiatore trace e auriga, cantante e ballerino, tirava di scherma con armi da battaglia, guidava il carro in circhi costruiti in vari

luoghi. Si lasciava trascinare talmente dalla passione per il canto e per la danza, che neanche agli spettacoli pubblici si tratteneva dal mettersi a cantare insieme agli attori tragici mentre recitavano, e dall’imitare davanti a tutti il gesto del mimo, come per approvarlo o correggerlo» (Cal. 54, 1). 4. Chaeream: tribuno della coorte pretoria e capo della congiura. Caligola lo

aveva più volte esasperato con scherni e oltraggi di ogni genere. 5. Hoc age!: formula religiosa con la quale il sacerdote veniva invitato a colpire la vittima durante un sacrificio. Chiaro l’intendimento simbolico: l’uccisione di Caligola viene interpretata come un gesto di espiazione per le sue nefandezze.

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L’ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO

12. Le biografie di Svetonio

militiae petisse et Gaio «Iovem» dante Chaeream exclamasse: «Accipe ratum!»6 respicientique maxillam ictu discidisse. [3] Iacentem contractisque membris clamitantem se vivere ceteri vulneribus triginta confecerunt; nam signum erat omnium: «Repete!» Quidam etiam per obscaena ferrum adegerunt. Ad primum tumultum lecticari cum asseribus in auxilium accucurrerunt, mox Germani corporis custodes, ac nonnullos ex percussoribus, quosdam etiam senatores innoxios interemerunt. [59] Vixit annis viginti novem, imperavit triennio et decem mensibus diebusque octo. Cadaver eius clam in hortos Lamianos7 asportatum et tumultuario rogo semiambustum levi caespite obrutum est, postea per sorores ab exilio reversas erutum et crematum sepultumque. Satis constat, prius quam id fieret, hortorum custodes umbris inquietatos; in ea quoque domo, in qua occubuerit, nullam noctem sine aliquo terrore transactam, donec ipsa domus incendio consumpta sit. Perit una et uxor Caesonia gladio a centurione confossa et filia parieti inlisa.

PERCORSO ANTOLOGICO

quando Gaio rispose: «Giove», Cherea gridò: «Eccotelo!»;6 e mentre quello si voltava a guardarlo lo colpì, spaccandogli la mascella. [3] Mentre era a terra, con le membra contratte, e gridava d’essere vivo, gli altri lo finirono con trenta colpi. Infatti tutti avevano la parola d’ordine: «Colpisci ancora!». Alcuni gli trafissero anche i genitali. Ai primi disordini accorsero in aiuto gli addetti alle lettighe con delle spranghe, poi i Germani della guardia del corpo, e uccisero alcuni degli attentatori, come pure alcuni senatori che non c’entravano. [59] Morì a ventinove anni, fu imperatore per tre anni, dieci mesi e otto giorni. Il suo cadavere fu trasferito di nascosto nei giardini di Lamia;7 e dopo essere stato bruciato alla meglio su un rogo di fortuna, fu seppellito sotto un leggero strato di terra. In seguito le sorelle, al ritorno dall’esilio, lo riesumarono, lo cremarono e gli diedero sepoltura. Si sa per certo che prima di allora i custodi del giardino erano stati turbati dai fantasmi; anche nella casa dove aveva trovato la morte non si poté mai passare una notte senza qualche fenomeno terribile, finché la casa stessa non fu distrutta da un incendio. Insieme a lui morirono la moglie Cesonia, trafitta con la spada da un centurione, e la figlia, sfracellata contro un muro. (trad. di G. Guastella)

6. Iovem... ratum!: «il participio di reor (“calcolare, giudicare”), ratus, -a, -um, in funzione di aggettivo è spesso riferito a profezie, auspici, ecc.; nel senso di “vero”, “veritiero”, “sicuro”. La traduzione letterale dovrebbe allora essere, pressapoco: “Eccotelo realizzato” (o forse qual-

cosa del tipo: “Ecco ciò che ti auguravi”). Ma non è evidente il significato che la parola ominosa di Gaio, immediatamente “realizzata” da Cherea, poteva avere agli occhi di quest’ultimo. Agli occhi del lettore di Svetonio, invece, il realizzarsi dei segni legati alla figura di Giove rendereb-

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be la situazione perfettamente comprensibile (si ricordi il sogno di Caligola, fatto precipitare giù dal cielo da un calcio di Giove: Cal. 57, 3)» (Guastella). 7. in hortos Lamianos: i giardini ideati da Lucio Elio Lamia, console nel 3 d.C. e morto nel 33; si trovavano sull’Esquilino.


12. Le biografie di Svetonio

MAPPA GAIO SVETONIO TRANQUILLO (post 70 – post 126 o 132 d.C.)

• De viris illustribus

De vita Caesarum

• • • •

• Lingua e stile

• •

raccolta di biografie dedicate agli uomini di lettere – suddivisa in 5 libri per categorie – sopravvivono: il libro de grammaticis et rhetoribus (incompleto), più alcune sparse biografie dagli altri libri gusto del particolare erudito

dodici biografie dei primi imperatori di Roma in 8 libri da Giulio Cesare a Domiziano (con lacuna iniziale) per tempora / per species fonti varie ed eterogenee – documenti originali dagli archivi di Stato disinteresse per le implicazioni politiche attenzione concentrata su dettagli e aneddoti curiosi – coloriti cataloghi di episodi – “polverizzazione” del personaggio

prosa asciutta e disadorna – stile decoroso, impersonale e cancelleresco impasto linguistico disomogeneo (colloquialismi, arcaismi, grecismi, termini tecnici) lettura piacevole e accattivante – effetti di vivida, realistica concretezza

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Le biografie di Svetonio

Verifica finale Completamento

1 Inserisci i dati mancanti della biografia di Svetonio. Svetonio nacque probabilmente , forse a , forse a . A Roma, viene introdotto negli ambienti letterari grazie a . Le sue fortune pubbliche si devono a . Rivestì cariche di primo piano , fino agli anni . Della sua opera sopravvivono , la prima intitolata , la seconda . La data di morte si colloca dopo il oppure dopo il . p._____/12

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Svetonio scrisse numerose opere erudite, non pervenute b. Nella sua opera non inserisce mai notizie autobiografiche c. È il primo autore latino a comporre biografie di letterati d. La raccolta De viris illustribus è giunta integra fino a noi e. Le biografie De viris illustribus godettero di ampia fortuna in età imperiale f. Per le Vite dei Cesari Svetonio poté consultare documenti ufficiali g. L’attenzione del biografo si concentra sui dettagli h. Le Vite dei Cesari costituirono il modello delle biografie imperiali

V | F

p._____/5

V | F V | F V | F V | F V | F V | F V | F

p._____/8

Quesiti a scelta multipla

3

■ da Giulio Cesare a Domiziano ■ da Augusto a Vespasiano 3. Delle Vite dei Cesari non possediamo ■ la dedica a Setticio Claro e la vita di Claudio ■ la dedica a Setticio Claro e i primi capitoli della vita di Cesare ■ le vite di Claudio e di Nerone ■ la vita di Cesare e i primi capitoli della vita di Augusto 4. Svetonio utilizza testimonianze e documenti originali ■ rielaborandoli artisticamente ■ riportandoli spesso così come si trovano nelle fonti ■ parzialmente e saltuariamente ■ senza confrontarli né discuterli, in nessun caso 5. Lo stile della prosa svetoniana è ■ disadorno, essenziale, sovente ripetitivo ■ enfatico e retoricamente ricercato ■ armonioso ed elegante ■ modellato sul periodare ciceroniano

Indica il completamento corretto.

1. Sono pervenute integre le biografie svetoniane dei poeti ■ Orazio e Lucano ■ Terenzio, Virgilio e Orazio ■ Virgilio, Orazio e Lucano ■ Terenzio e Orazio 2. La raccolta De vita Caesarum comprende le biografie imperiali ■ da Augusto a Domiziano ■ da Tiberio a Traiano

Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Il corpus delle opere svetoniane a noi pervenute. 2. Tipologie narrative ricorrenti nel genere biografico. 3. Le fonti utilizzate da Svetonio nella composizione delle biografie imperiali. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Illustra lo schema-base della narrazione nelle Vite dei Cesari, con le eventuali variazioni. 2. Lingua e stile delle biografie svetoniane. 3. Leggi i brani della Vita di Caligola riportati nel Percorso antologico ( T2; T3; T4), individuando le caratteristiche tipiche della narrazione biografica di Svetonio.

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3 L’età di Adriano e degli Antonini Lo scenario temporale

Dal principato di Adriano alla morte di Commodo (117-192 d.C.)

13 Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini 14

Apuleio

© Casa Editrice G. Principato


13 Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini 1 Il «secolo d’oro» dell’impero L’età di Adriano Alla morte di Traiano, adozione e successione erano state predisposte in extremis a favore di Elio Adriano, spagnolo d’origine come il predecessore, nato nel 76, imperatore dal 117 al 138. Uomo colto, di gusti raffinati, amante delle arti e delle lettere, poeta egli stesso [ T1 b-c], Adriano dà inizio a una delle età più prospere della storia romana, caratterizzata da floridezza economica, efficienza amministrativa, stabilità politica. Traiano, sulla scia di Nerva, aveva cercato di impostare una politica di equilibrio e di collaborazione fra auctoritas imperiale e libertas senatoria; aveva favorito i ceti italici e le regioni occidentali dello Stato rispetto a quelle orientali; aveva infine ripreso, anche per restaurare le dissanguate finanze statali, una politica militare espansionistica: fra le nuove conquiste, la Dacia (a seguito delle due campagne del 101-102 e del 105-106), l’Armenia (annessa nel 114), le terre di Mesopotamia e Assiria (nello stesso anno 114). Rovesciando questa impostazione, Adriano propone un modello imperiale fondato sulla pax e su una politica di integrazione universale: blocca l’espansione romana sui confini acquisiti, consolidando le opere di difesa e in particolare edi420 © Casa Editrice G. Principato


Un discepolo entusiasta Adulescentulus Romae, priusquam Athenas concederem, quando erat a magistris auditionibusque obeundis otium, ad Frontonem Cornelium visendi gratia pergebam sermonibusque eius purissimis bonarumque doctrinarum plenis fruebar. Nec umquam factus est, quotiens eum vidimus loquentemque audivimus, quin rediremus fere cultiores doctioresque. Quando ero un giovinetto a Roma, prima di recarmi ad Atene e quando mi lasciavano del tempo libero i maestri e le lezioni, facevo sovente visita a Cornelio Frontone e godevo della sua conversazione raffinata e ricca di ogni eccellente dottrina. E non mi avvenne mai, ogni volta che lo vedevo e lo udivo discorrere, di ritornarmene meno istruito e informato. (Aulo Gellio, Noctes Atticae XIX, 8, 1; trad. di L. Rusca)

Vallum Hadriani

elocutio novella

Animula vagula blandula

insperata atque inopinata verba

color vetustatis

litterarum penus

ficando in Britannia il celebre vallum; avvia una serie di riforme e di interventi miranti ad equiparare le province all’Italia; ristruttura ampiamente l’amministrazione pubblica, creando una categoria di burocrati e di funzionari attinti prevalentemente al ceto equestre e non più a quello dei liberti, che vengono pressoché estromessi dall’esercizio del potere; si impegna in vasti progetti di ristrutturazione urbanistica volti sia a rendere più funzionali, sia ad abbellire le città dell’impero. Il senato viene di fatto esautorato, nonostante i buoni rapporti formali, a favore di un consilium principis, organo ristretto di cui sono chiamati a far parte insigni giureconsulti. L’imperatore «filelleno» Uno dei volti più noti e suggestivi del multiformis Adriano è quello dell’imperatore «filelleno». Viaggiatore instancabile, percorse a più riprese tutte le province dell’impero; ma certo mostrò una speciale predilezione per la terra di Grecia e per l’Oriente ellenizzato. Ad Atene, in particolare, che considerava la culla della civiltà, realizzò un imponente programma di edilizia monumentale, tanto che gli Ateniesi apposero, sull’arco che ancor oggi sorge nei pressi dell’Olympieion (il tempio di Zeus ricostruito da Adriano stesso), un’iscri421 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

PROFILO STORICO

zione che da un lato ricorda la città di Teseo, dall’altro le contrappone la città di Adriano; inoltre gli conferirono (nel 132), a coronamento di una lunga serie di onorificenze, i titoli di Olympios e di Panhellénios («Protettore di tutti gli Elleni»; come «Olimpio», è un attributo di Zeus). Occorre tuttavia ricordare che il culto adrianeo dell’antica bellezza greca non significa affatto negazione o rifiuto della romanità. Si tratta piuttosto di un’operazione di innesto, di definitiva sintesi fra le due culture: «il senso dell’impero di Adriano resta sempre nell’avvenuta perfetta fusione del mondo classico, di Grecia e di Roma, in una compiuta paradigmatica unità» (Mazzarino).

Statua del dio Tevere con la lupa che allatta i gemelli sullo sfondo del Canopo, ora al Museo di Villa Adriana.

I LUOGHI dell’ANTICO Villa Adriana ▰ Un luogo simbolico, una «dimora dello spirito» Villa Adriana, la residenza che l’imperatore si fece costruire, progettandola personalmente, nei pressi di Tivoli su un’area di oltre cento ettari (tanto che per secoli si credette che le imponenti rovine fossero quelle di una città), non è soltanto il fastoso ritiro di un sovrano: è soprattutto un luogo simbolico, uno spazio ideale entro il quale Adriano volle riunire, ricreandoli attraverso complesse variazioni, gli edifici e i luoghi a lui più cari, visitati durante i suoi lunghi soggiorni in Grecia e in Egitto.

▰ Adriano ricrea nella Villa famosi edifici e luoghi di Grecia e d’Egitto Vi furono dunque un Liceo e un’Accademia (le scuole filosofiche di Aristotele e di Platone in Atene), un Pritaneo (sede del collegio dei più alti magistrati ateniesi) e un Pecile (stoà poikíle,

il «portico variopinto» di Atene, ossia ornato di dipinti, al quale lavorò Polignoto) e una Valle di Tempe (in Tessaglia, ove scorre il fiume Peneo, sacra al culto di Apollo); e vi fu un Canopo, che riproduceva il canale di Alessandria, con un Serapeion o tempio di Serapide.

▰ Biblioteche e opere d’arte Dotò questa sua «dimora dello spirito» di una biblioteca greca e di una latina; e la adornò di una profusione di opere d’arte e di sculture in gran parte ispirate a celebri capolavori della statuaria greca del V-IV secolo, dal Discobolo di Mirone alle Cariatidi dell’Eretteo, dalle Amazzoni di Fidia e Kresilas all’Afrodite Cnidia di Prassitele. ▰ Per saperne di più Tra le numerose monografie dedicate alla splendida residenza adrianea, si consiglia il seguente volume: G.E. Cinque-N. Marconi, Villa Adriana. Passeggiate iconografiche, Il Formichiere, Foligno 2018.

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PROFILO STORICO

Un’età «felice» Con Antonino Pio (138-161), secondo un topos letterario e storiografico destinato a grande fortuna, l’impero giunge al culmine della sua «felicità». Diversi studiosi hanno voluto porre l’accento sui fattori di crisi che già si manifestano in quest’epoca: l’estinzione progressiva delle famiglie dell’antica nobilitas, memoria storica e civile della romanità e dei suoi originari valori; lo spopolamento delle campagne, con la conseguente recessione agricola che colpisce in particolar modo le terre italiche; la minacciosa pressione dei barbari lungo i confini; il disagio spirituale delle popolazioni, che avvertono sempre più il formalismo dei culti ufficiali, orientandosi verso le religioni misteriche e soteriche; l’aristocratico distacco fra classi superiori e inferiori. Risulta tuttavia difficile negare il senso di floridezza, di tranquillità sociale e di benessere materiale che pervade per più di mezzo secolo le province dello Stato romano. I primi scricchiolii si odono distintamente solo durante l’impero di Marco Aurelio (161-180), quando da Oriente irrompono due terribili flagelli: la peste e le prime invasioni barbariche [ cap. 15.1]. L’impero «umanistico» Giova ad ogni modo sottolineare la grandezza del progetto imperiale che s’incarna, seppure in modi diversi, nelle figure di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio: con loro s’impone la figura di un monarca illuminato che nutre ideali filosofici, confida nel potere della virtus e nel significato profondo della civiltà, non persegue una politica di conquista e di espansione ma di benessere sociale e di rigoglio culturale. Si è parlato, a questo proposito, di impero «umanistico», fondato sull’eredità spirituale della tradizione ellenico-romana, teso a realizzare un idea­le programma universalistico di buon governo. Anche le iniziative culturali ed artistiche prendono luce e significato entro una concezione del potere imperiale ispirata ai valori di umanità, di liberalità e di giustizia, che si trovano espressi con incisiva esemplarità nei Ricordi di Marco Aurelio [ cap. 15.1]. Giustamente osserva il Mazzarino che mai, come nell’età degli Antonini, «il mondo antico ha potuto esprimere una costruzione altrettanto razionale, un concentrato altrettanto maturo di tutte le sue idealità politiche». Restava tuttavia il fatto che il governo di un impero così vasto veniva affidato all’energia e all’intelligenza di un solo uomo, sia pure coadiuvato da un consiglio di personalità colte e benemerite; la vita culturale e civile dipendeva quasi totalmente dalla corte; il recupero del passato, benché nutrito di vaste idealità, rischiava di sminuzzarsi in marginali questioni erudite; i valori intellettuali della civiltà greco-latina si trovavano ad essere condivisi da una ristretta ed isolata minoranza. E restava, soprattutto, il problema della successione, per ora brillantemente risolto con il principio, tutto romano, dell’adozione: una morte repentina o un errore nella scelta del successore avrebbe potuto travolgere l’intero sistema; come di fatto avvenne.

Guida allo studio

1.

Elenca i punti più importanti del programma politico messo in atto da Adriano, evidenziando i mutamenti di indirizzo rispetto all’operato del suo predecessore. 2. Indica brevemente gli aspetti più rilevanti della politica culturale di Adriano. Perché l’imperatore fu denominato «filelleno»?

3. L’età di Adriano e degli Antonini è stata definita il «secolo d’oro» dell’impero; nondimeno, già durante il principato di Antonino Pio si avvertono i primi, inquietanti sintomi di una crisi dello Stato romano. Traccia un quadro della situazione, indicando i problemi più gravi che allora si manifestarono. 423

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

2 Seconda Sofistica e tendenze arcaizzanti PROFILO STORICO

Il principato e la cultura Pace interna, stabilità politica, prosperità economica favoriscono la diffusione della cultura e dell’istruzione in ogni provincia dell’impero. Grande rilievo assumono in particolare le scuole di retorica e di filosofia, personalmente favorite dagli imperatori allo scopo di creare efficienti quadri dell’amministrazione civile. Il passaggio graduale dai volumina ai codices contribui­ sce all’incremento della lettura. I maggiori centri urbani si provvedono di imponenti biblioteche pubbliche. La moda grecizzante La passione per il mondo ellenico spinge Adriano a privilegiare la lingua greca su quella latina. Egli stesso, come poi l’imperatore-filosofo Marco Aurelio, scrive preferibilmente in greco, sentito come più idoneo a rappresentare i nuovi ideali universalistici e cosmopoliti dello Stato romano. L’esempio di Adriano contagia la corte e gli intellettuali dell’epoca: uno dei maggiori retori del secolo, Favorino di Arles, nato in Gallia, residente a Roma, sacrifica il latino al greco; Aulo Gellio giudica apertamente la lingua latina inferiore a quella greca sul piano espressivo. Bilinguismo e unità dell’impero Il bilinguismo è comunque un tratto caratteristico dell’epoca: Adriano, Frontone, Apuleio, Marco Aurelio si servono egualmente, anche se in diverse proporzioni, sia del greco che del latino. Grecia e Roma, Oriente e Occidente costituiscono, agli occhi dei contemporanei, come una sola civiltà e un’unica cultura, nonostante la diversità delle due lingue. La «Seconda Sofistica» Il fenomeno più rilevante della cultura greca, nell’età di Adriano e degli Antonini, è quello che va sotto il nome di «Seconda Sofistica» o «Nuova Sofistica». Conferenzieri itineranti, dotati di vasta erudizione e di raffinata tecnica oratoria, i neosofisti viaggiano da un centro all’altro dell’impero producendosi in performances declamatorie sui più disparati soggetti, a volte improvvisate su richiesta del pubblico.

Le rovine della Biblioteca di Efeso, II secolo d.C.

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PROFILO STORICO

Tale fenomeno si ricollega a quello dell’antica sofistica del V-IV secolo: l’abilità oratoria e l’interesse per i procedimenti retorici non sono tuttavia sostenuti, nei nuovi sofisti, da un analogo impegno sul piano filosofico. Sugli intenti pedagogici prevalgono gli aspetti mondani; i modi della trattazione sovrastano i contenuti; la fede nella potenza psicagogica della parola si risolve nel trionfo dell’elemento spettacolare. Il movimento della Nuova Sofistica interessò tutti i grandi centri culturali dello Stato romano, con prevalenza di quelli greco-orientali (Atene, Smirne, Efeso, Pergamo in particolare). I maggiori protagonisti furono Dione di Prusa (40-dopo il 114), Favorino di Arles (ca 85-dopo il 143), Erode Attico (101-177), Elio Aristìde (129-189); ai quali si devono aggiungere anche personalità ben più complesse, e che esorbitano dai confini della neosofistica, come il filosofo Plutarco (ca 47-127), il medico Galeno (129-199), lo scrittore satirico Luciano (ca 120-dopo il 180). Tra i latini la personalità di maggior spicco fu Apuleio, del quale si parlerà nel prossimo capitolo. I neosofisti non furono estranei al dibattito su asianesimo e atticismo: se al gusto asiano appartiene l’orientamento virtuosistico e spettacolare della loro oratoria, tradizionalmente atticiste furono le scelte linguistiche dominanti. Il gusto arcaizzante Certo anche all’influsso della neosofistica si deve l’affermazione in Roma della moda arcaizzante, che raggiunse il suo apice nell’età di Adriano e degli Antonini. L’atticismo raccomandava l’uso di arcaismi, mentre era ostile ai neologismi: Frontone e Aulo Gellio prediligono, seppure con misura, i vocaboli inusitati e preziosi dell’antica tradizione letteraria. Secondo una testimonianza della Historia Augusta (Hadr. 16, 6), già Adriano sosteneva di preferire Catone a Cicerone, Ennio a Virgilio, Celio Antipatro a Sallustio. L’orientamento arcaizzante fu connesso a un recupero degli scrittori più antichi e a un rinnovato interesse filologico per le origini della letteratura latina. Fiacchezza creativa Senza voler ricorrere ai consueti topoi sulla «decadenza» delle lettere e sulla «crisi» della cultura, categorie critiche usate in un recente passato con troppa leggerezza, non può non colpire il contrasto fra lo stato di prosperità sociale di cui l’epoca gode e la situazione di chiusura e di ripetitività della letteratura contemporanea. Con l’eccezione di Apuleio, manca un’autentica forza creativa; erudizione, preziosismo e culto della forma sono le tendenze dominanti sia nella poesia dei novelli sia nella prosa d’arte di Frontone. Vengono meno i generi letterari illustri, sui quali si era edificata la grande letteratura latina. Significativamente, la storiografia si orienta verso l’epitome, gli studi verso l’enciclopedismo curioso e antiquario, la lirica verso il recupero estetizzante del passato. La letteratura viene per lo più concepita come un nobile intrattenimento e come un esercizio di bello stile.

Guida allo studio

1.

Indica i protagonisti e gli orientamenti culturali di fondo della Nuova Sofistica. Quali differenze essenziali occorre rilevare rispetto all’antica sofistica del V-IV secolo a.C.? 2. Uno dei fenomeni più interessanti dell’epoca fu il diffondersi del gusto arcaizzante:

quali furono gli aspetti salienti e gli autori più significativi di questa tendenza? Quali autori latini ritornarono in auge? Quali altri scrittori, fino allora considerati modelli eccellenti e indiscutibili, furono relegati in secondo piano? 425

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

3 Floro retore, storico e poeta PROFILO STORICO

La questione dei nomina La tradizione ci ha fatto pervenire alcune opere attribuite a un Floro vissuto tra I e II secolo d.C., designato tuttavia nei codici con nomina diversi. A lungo è prevalsa la tesi che si trattasse di tre personalità distinte: lo storico L. Annaeus Florus; il retore P. Annius Florus; il Florus poeta, celebre per uno scambio di versi con l’imperatore Adriano [ T1 a-b]. Oggi, sulla base di indizi di ordine cronologico, contenutistico e linguistico, si è propensi a far confluire i tre personaggi in un’unica figura. Accettando questa ipotesi, ci troveremmo di fronte a un letterato di origine africana vissuto fra l’età dei Flavi e quella di Adriano (del quale risulterebbe perciò coetaneo), che svolge per diversi anni attività di retore in gran parte del Mediterraneo (Sicilia, Creta, Cicladi, Rodi, Egitto, Gallia, Spagna), mietendo successo in Roma, negli anni del principato adrianeo, come pubblico conferenziere. Appartenne, come si deduce dalla sua produzione lirica, all’ambiente dei poetae novelli e fu in amichevoli rapporti con l’imperatore Adriano. Le opere Di lui possediamo: – un’opera storica intitolata Epitoma de Tito Livio (Bellorum omnium annorum DCC libri duo) [ Epitoma de Tito Livio]; – parte di un dialogo intitolato Vergilius orator an poeta («Virgilio è un oratore o un poeta?»); – due frammenti di lettere indirizzate all’imperatore Adriano; – poemata, cioè poesie, e precisamente un carme conservato nella biografia di Adriano della Historia Augusta [ T1 a], cui si devono aggiungere nove epigrammi raccolti nell’Anthologia Latina.

Epitoma de Tito Livio ▰ Una breve sintesi Il compendio di Floro vuole

essere una breve sintesi di settecento anni di storia romana, considerata sotto l’aspetto bellico e militare. Fonte primaria, ma non unica, sono le Storie di Livio, alle quali vanno aggiunte almeno le opere di Cesare e di Sallustio; improprio va dunque considerato il titolo con il quale l’opera è stata tramandata. Il successo dell’opera derivò dalla forma succinta dell’esposizione. Può anche darsi che il testo fosse stato pensato per la scuola, come rivela il ricorso a brevi sommari.

▰ Contenuti dell’opera Nel I libro vengono narrate le guerre (bella externa) sostenute da Roma nel periodo che va dalle origini alla sconfitta di Carre (53 a.C.); nel II le guerre civili (motus domestici o seditiones) dall’età dei Gracchi fino al trionfo di Ottaviano Augusto.

ed Augusto alla maturità (iuventas); l’età imperiale (che tuttavia l’autore non tratta) alla vecchiezza (senectus).

▰ Omaggio a Traiano Solo Traiano, con una curiosa rottura dello schema, ha rinverdito la città, restituendole una seconda giovinezza. L’omaggio a Traiano svela l’atteggiamento panegiristico e celebrativo dell’opera. Ogni evento è pretesto per elogi e stupori, e non è un caso che la storia di Roma si interrompa con Augusto: evidentemente a Floro mancava lo spirito critico e drammatico di un Tacito o anche l’irriverente curiosità di uno Svetonio.

▰ Un’interpretazione organicistica della storia di Roma Nella prefazione Floro tenta un’interpretazione organicistica della storia di Roma, paragonando la vita del popolo romano alla vita dell’uomo: l’età della monarchia corrisponde all’infanzia (infantia); quella della prima repubblica alla giovinezza (adulescentia); il periodo compreso fra le guerre puniche

Busto di Traiano. Londra, British Museum.

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PROFILO STORICO

Guida allo studio

1.

Riassumi le notizie in nostro possesso sulla figura di Floro, accennando alla questione aperta dai diversi nomina riportati dai codici.

2. A quali attività letterarie si dedicò? A quale gusto poetico aderì?

4 I poetae novelli Con l’espressione poetae novelli si è soliti indicare un gruppo di poeti del II secolo d.C. che si rifanno all’esperienza preneoterica (Levio in particolare) e neoterica (Catullo, Cinna, Calvo e Valerio Catone). Novelli va dunque inteso nel senso di «moderni»: ma si tratta di una modernità rivolta all’indietro, che sperimenta il ritorno a forme e a linguaggi lontani ormai due secoli. Sotto questo aspetto l’esperienza dei novelli si inserisce nel gusto antiquario e arcaizzante del tempo. Della maggior parte dei novelli conosciamo solo il nome [ I poetae novelli: le personalità e le opere]; pochi sono i frammenti pervenuti, e quel che resta non ci autorizza a pensare che esistesse una vera e propria scuola poetica, semmai un gusto comune, fondato su un ideale di brevitas, di poesia tenue e leggera interpretata come lusus e iocus. Tensione sperimentale Come i neóteroi, i novelli rifiutano l’epica e la tragedia, generi alti, a favore della lirica. L’abbassamento del tono richiede un nuovo vocabolario poetico: non quello elevato e omogeneo della tradizione classicista, ma un lessico più vario ed espressivo, comprensivo sia di termini del sermo cotidianus sia di vocaboli culti e deliberatamente arcaizzanti: l’uso dei diminutivi è forse il tratto più caratteristico di questa poesia, segno di un manierismo estetizzante e di una sofisticata stilizzazione espressiva. Ma il fenomeno più interessante è la sperimentazione metrica, che si volge in due direzioni: creazioni di metri nuovi e inediti; uso anomalo della metrica tradizionale.

I poetae novelli: le personalità e le opere Con l’eccezione di Apuleio, i novelli restano per noi quasi solo dei nomi.

▰ Floro Di Floro si è già detto; della sua produzione

lirica sopravvivono uno scherzoso contrasto con Adriano [ T1 a] e alcuni dotti epigrammi.

▰ Adriano Dell’imperatore Adriano, che secondo

mentre festeggia con una cena tra amici il tempo della vendemmia (un topos dei novelli). Ad Anniano, di cui restano quattro frammenti, sono attribuiti dei Carmina Falisca [ T1 d-e] e dei Fescennini.

▰ Settimio Sereno Ben poco sappiamo di Settimio

Sereno. Fu autore di Opuscula ruralia [ T1 f-g], centrati prevalentemente sulla vita dei campi; ne restano una trentina di versi, molti dei quali incompleti.

le fonti si applicò alla poesia sia in greco sia in latino, leggiamo invece la deliziosa risposta a Floro e soprattutto la breve lirica indirizzata alla propria anima, forse il brano più noto del novellismo [ T1 b-c].

▰ Mariano A un Mariano si devono invece i

▰ Anniano Di Anniano, nato intorno al 90 in

▰ Avito Ad Alfio Avito è attribuito un Liber Excellentium («Il libro delle grandi gesta»), nel quale si cantavano, in versi agili e brevi, fatti esemplari della storia di Roma. Ne restano tre frammenti.

territorio falisco, nell’Etruria meridionale (donde il soprannome di Falisco), ci parla Aulo Gellio (XX, 8), che lo rappresenta in una cornice campagnola,

Lupercalia, un poemetto nel quale si celebravano le antiche feste rurali in onore di Lupercus, dio pastorale della fecondità, protettore delle greggi.

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

PROFILO STORICO

Irrequietezza ed estetismo I novelli sono per lo più ispirati da quadri di vita naturale e campestre, dipinti con una delicata gamma di tocchi realistici e di notazioni psicologiche. Il gusto arcaizzante favorisce anche un vagheggiamento della religione avita e un interesse per i temi folclorici. Non mancano, infine, componimenti giocosi, realizzati con un linguaggio sempre ricercato ed elegante. Sarebbe ingeneroso ridurre questa produzione, che dovette essere varia e ricca, a un semplice gioco versificatorio. Il desiderio di evadere in luoghi idillici e remoti, in una sorta di aristocratica arcadia intellettuale, rispecchia da una parte l’ansiosa e irrequieta problematica spirituale dell’epoca, dall’altra un’ideale ricerca di identità culturale. L’irrequietudine del secolo traspare per altro nelle malinconiche e trepide descrizioni del mondo naturale: la breve fioritura di una rosa, l’immagine dei pini che tremano al soffio di zefiro [ T1 g]; la morte di un leprotto, descritta con immagini non molto dissimili da quelle cui ricorre Adriano nel dare il commiato alla vita [ T1 c].

Guida allo studio

1.

Che cosa si intende con l’espressione poetae novelli? Indica i nomi dei protagonisti e gli orientamenti fondamentali di questa tendenza poetica. 2. Quali sono i temi e i motivi prediletti dai novelli?

3. Animula vagula blandula è l’incipit di un componimento poetico dell’imperatore Adriano: traduci e commenta i versi della breve lirica [ T1 c] utilizzandone il testo per illustrare la poetica dei novelli.

5 Frontone La vita Marco Cornelio Frontone nasce a Cirta in Numidia, agli inizi del II secolo d.C. Ancor giovane si reca a Roma, dove si dedica con successo all’attività forense. Nel 138 Adriano gli affida l’educazione retorica del diciassettenne Marco Annio Vero, il futuro imperatore Marco Aurelio; in seguito, nel 143, Antonino Pio gli offre l’incarico di istruire anche Lucio Vero, che vent’anni più tardi sarebbe stato associato a Marco Aurelio alla guida dell’impero. La frequentazione degli ambienti di corte e il prestigio intellettuale gli assicurano un’onorevole carriera pubblica: questore in Sicilia, edile della plebe, pretore, membro permanente del senato, consul suffectus nel 143. Morì con ogni probabilità intorno al 170, dal momento che nell’epistolario non si trova alcun accenno ai fatti successivi al 169. Grande fu il prestigio di cui godette in vita Frontone. Una notizia di Sidonio Apollinare (Ep. I, 1, 2) ci parla di una vera e propria scuola di «frontoniani» dediti allo studio degli scrittori arcaici. Il suo magistero è del resto confermato da numerosi passi del contemporaneo, e di lui più giovane, Aulo Gellio. Opere perdute: le orazioni Sino alla fine dell’impero, la fama di Frontone venne associata al corpus delle opere oratorie: ancora nel IV e nel V secolo scrittori come Ausonio, Eutropio, Marziano Capella e Sidonio Apollinare lo considerano il maggior oratore latino insieme a Cicerone. Eppure, se si eccettuano rari e poco significativi frammenti, nessuna delle orazioni pubblicate da Frontone ci è perve428 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

nuta; della maggior parte conosciamo a malapena l’esistenza. Alcune rientravano nel filone dei discorsi d’apparato richiesti dalla struttura imperiale (elogi, panegirici, ringraziamenti), altre in quello più tradizionale delle orazioni politiche e giudiziarie. Opere superstiti: l’Epistolario Pressoché nulla si era salvato dal naufragio delle opere frontoniane, quando il cardinale Angelo Mai scoprì in due riprese, fra il 1815 e il 1819, un palinsesto del VI secolo conservato parte nella Biblioteca Vaticana di Roma, parte in quella Ambrosiana di Milano, nel quale si trovava l’epistolario di Frontone. Valore storico-documentario dell’Epistolario Non sappiamo chi abbia raccolto le epistole nel modo in cui ci sono pervenute. Certo la mano dell’ordinatore volle soprattutto privilegiare i rapporti di familiarità e di amicizia con gli imperatori: accanto alle epistole di Frontone, numerose sono infatti anche le lettere di Antonino Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero, elemento che accresce, ai nostri occhi, il valore documentario dell’intero carteggio, consentendoci di ricostruire le tendenze, il gusto e i comportamenti della corte e dell’ambiente culturale romano del tempo. Ignoriamo fra l’altro se le lettere di Frontone siano state composte con il deliberato proposito di essere un giorno destinate alla pubblicazione; né costituisce prova il fatto che appaiano finemente elaborate sul piano formale, ricche di citazioni e di allusioni letterarie. Il maggior interesse dell’epistolario è riposto nella vasta messe di osservazioni relative alla lingua e allo stile.

Busto di Marco Aurelio adolescente. Roma, Musei Capitolini.

Le teorie sulla lingua e sullo stile Frontone concentra l’attenzione sulla qualità del linguaggio letterario, che giudica ormai sclerotizzato, proponendo nuovi orientamenti stilistici e nuove soluzioni formali, cui egli stesso dà il nome di elocutio novella. In una celebre lettera indirizzata a Marco Aurelio (Ad Marcum Caesarem IV, 3 [ T3 ONLINE]), delinea con precisione un nuovo canone di modelli espressivi: i più recenti sono Lucrezio, Sallustio e il mimografo Laberio; gli altri appartengono tutti all’età arcaica. Non mancano autori di generi letterari da sempre considerati minori: togate, atellane, mimo. Perché tali autori? Perché in essi è contenuta una forza creativa che si era poi perduta, secondo Frontone, nelle generazioni successive: non a caso di Cicerone viene specialmente apprezzato l’epistolario, per la vivace commistione dei registri linguistici. Il modello stilistico disegnato da Frontone prevede in particolare l’inserzione di arcaismi e di volgarismi, cioè di termini in grado di restituire vitalità alla frase latina e di conseguire effetti di nuova intensità espressiva. Entro questa 429 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

PROFILO STORICO

prospettiva, gli arcaismi vengono definiti come insperata atque inopinata verba, cioè vocaboli che si tirano fuori «contro l’aspettazione e la supposizione dell’ascoltatore o del lettore». La ricerca di parole rare e inusitate (verba singularia) e di una patina antica (color vetustatis) non deve tuttavia pregiudicare il nitore, la proprietà e l’eleganza dei vocaboli selezionati. Frontone invita ripetutamente a riflettere fino in fondo sulle scelte linguistiche. Di ogni parola, sostiene nell’epistola de eloquentia (2, 1), va sempre valutato ogni aspetto: verborum loca, gradus, pondera, aetates dignitatesque («posizione delle parole, ordine, peso, antichità e rango»). Il rifiuto dell’asianesimo Le motivazioni che inducono Frontone a rifiutare l’asianesimo e lo stile concettoso di Seneca [ T2] rivelano una non comune intelligenza dei fenomeni storico-letterari: il gusto per la frase sentenziosa e baroccheggiante comportava a lungo andare l’affermazione del più squisito virtuosismo verbale a danno della limpidezza e della proprietà del pensiero. La soluzione non è tuttavia all’altezza della diagnosi, e consiste essenzialmente in una spinta all’indietro, alle fonti della cultura romana. Sotto questo aspetto, Frontone si inserisce perfettamente nel movimento arcaizzante dell’epoca, di cui può a ragione essere considerato una sorta di maestro e di capofila, sia per il prestigio della persona sia per il rigore delle teorie esposte.

Guida allo studio

1.

Esponi i dati più significativi della biografia di Frontone. In particolare: quale professione esercitò? con quali illustri personalità venne a contatto? quali cariche ricoprì nella sua carriera pubblica? 2. Da chi fu ritrovato il palinsesto che ci trasmette l’opera superstite di Frontone? Quali testi contiene?

L’epistolario di Frontone Il codice Ambrosiano-Vaticano comprende, seppure con ampie lacune: – 9 libri di lettere scambiate con Marco Aurelio (i primi 5 appartenenti al periodo precedente il principato; gli ultimi 4 a quello successivo); – 2 libri di lettere scambiate con Lucio Vero imperatore; – 1 libro di lettere scambiate con Antonino Pio e con altri; – 2 libri di lettere inviate ad amicos; – il cosiddetto corpus epistularum acephalum, cinque lettere di argomento retorico inviate all’imperatore Marco Aurelio, altrimenti note con il titolo De eloquentia; – un trattatello, sempre in forma epistolare, De orationibus, anch’esso indirizzato a Marco Aurelio, il principale referente di Frontone;

3. Esponi il programma arcaizzante di Frontone e le sue teorie in merito alla lingua e allo stile. In particolare, traduci e commenta l’espressione insperata atque inopinata verba.

– due saggi storici in forma epistolare: De bello Parthico; Principia historiae («I fondamenti della storia»), entrambi connessi con la guerra contro i Parti combattuta fra il 162 e il 166 e inviate rispettivamente a Marco Aurelio e a Lucio Vero; – esercitazioni, sempre in forma epistolare, di vario argomento: Laudes fumi et pulveris («Elogio del fumo e della polvere» [ T4 ONLINE ] ); Laudes neglegentiae («Elogio della negligenza»); De feriis Alsiensibus («Vacanze ad Alsio»); De nepote amisso («La morte del nipote»). Le due ultime sono inviate a Marco Aurelio: la prima offre all’imperatore un piacevole programma di otia non solo letterari (vi è compreso anche un elogio del sonno); la seconda è una consolatio per la morte del nipotino. Nel codice ritrovato da Angelo Mai sono contenuti anche un componimento non in forma epistolare (Arion) e alcune lettere in lingua greca.

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PROFILO STORICO

6 Le Notti attiche di Aulo Gellio La vita Rare e incerte sono le notizie intorno alla vita di Aulo Gellio, nella quasi totalità ricavate dalla sua stessa opera. Nacque fra il 123 e il 130 d.C., forse in Africa, da una famiglia benestante. Adulescentulus era già a Roma, dove studiò presso il grammatico Sulpicio Apollinare e il retore Antonio Giuliano. Compì il canonico viaggio in Grecia, volto soprattutto ad approfondire gli studi filosofici; qui conobbe il retore Erode Attico, che lo ospitò nella sua villa di Cefisia in Attica, uno dei più prestigiosi centri letterari dell’epoca. Visse il resto della vita tra Roma e i dintorni, dedicandosi all’amministrazione dei propri beni. Ebbe modo di frequentare le maggiori personalità della cultura greco-romana del tempo. Alla composizione della sua unica opera, le Notti attiche, dovette essere dedicata gran parte della vita. Morì non prima del 175 d.C. Le Noctes Atticae Le Noctes Atticae sono un’opera di carattere enciclopedico in 20 libri, preceduti da una prefazione, che l’autore iniziò a comporre durante il viaggio in Grecia. Di qui il titolo, che è lo stesso Gellio a spiegare: «E poiché abbiamo cominciato a redigere questi capitoli, quasi per divertimento, nelle lunghe notti invernali trascorse, come dicevo, nel territorio della regione attica, così li abbiamo intitolati alle Notti attiche» (praef. 4). Non sappiamo quando venne pubblicata: certamente non prima del 168-170, più probabilmente nel decennio successivo. L’opera ci è giunta nel complesso integra: mancano la parte iniziale della prefazione e la parte conclusiva dell’ultimo libro; gravemente frammentario è inoltre l’ottavo libro. L’argomento Le Notti attiche si propongono come un’opera di vasta erudizione che tratta in modo spicciolo e divulgativo (come si evince anche dagli indici pervenuti [ T6 ONLINE]) i più svariati argomenti: retorica, dialettica, diritto civile e religioso, matematica, geometria, fisica, astronomia e astrologia, geografia, storia naturale, medicina, gastronomia e quant’altro ancora, senza alcun limite di tempo e di spazio. Ma l’interesse maggiore è rivolto alle discipline linguistico-grammaticali e letterarie [ T5 ONLINE], che coprono circa i due terzi dei 398 capitoletti pervenuti. Animato da un’indomita passione e da un’onnivora curiosità, Gellio investiga con scrupolo problemi di natura lessicale, etimologica, metrico-prosodica, morfologica, indaga sulla storia della lingua latina, pone questioni che oggi definiremmo di critica testuale, commenta passi di autori (per lo più arcaici), pone a confronto scrittori greci e latini, affronta problemi di cronologia e di attribuzioni, spesso con risultati puntuali e brillanti. Nel corso dell’opera sono 275 gli autori greci e latini citati: un tesoro di straordinaria importanza sul piano storico-culturale, linguistico e filologico. Finalità dell’opera Nella praefatio, l’autore illustra con chiarezza i propri intenti: vuole allestire quasi quoddam litterarum penus, «quasi una dispensa di cibi culturali» (praef. 2), in modo da «condurre gl’ingegni ben disposti e alacri, per un sentiero svelto e facile, al desiderio di una scienza onorevole e alla cognizione delle arti utili» (praef. 12). Vuole insomma rivolgersi a un pubblico medio, desideroso di istruirsi e insieme di svagarsi dopo le abituali occupazioni della giornata. Le Notti attiche sono dedicate in particolar modo ai figli, ai quali il padre si rivolge con finalità pedagogiche: lo stesso aveva fatto Catone il Vecchio, tre secoli prima, con i Praecepta ad Marcum filium. 431 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

PROFILO STORICO

Il metodo di lavoro Sempre nella prefazione, Gellio spiega con onestà e semplicità il proprio metodo di lavoro, articolato in due fasi: dapprima la raccolta dei materiali, poi la loro collocazione all’interno dei libri. In entrambi i casi, l’autore confessa di non aver seguito alcun criterio: «Per la disposizione degli argomenti abbiamo adottato il criterio della casualità, quello stesso che avevamo seguito nel raccoglierli: via via che prendevo in mano un libro, greco o latino che fosse, o ascoltavo cosa che valesse la pena ricordare, io ne prendevo nota così come veniva, alla rinfusa, seguendo il mio gusto e senza badare alla natura del materiale; poi lo mettevo da parte a sussidio della mia memoria [...]. Si è dunque realizzata anche in questi taccuini quella medesima eterogeneità di contenuto che caratterizzò le schede originarie, ricavate alla svelta, senz’ordine e senza regola, da svariate audizioni e letture» (praef. 2-3). Le fonti Opera essenzialmente di compilazione, le Notti attiche si appoggiano su un vasto lavoro di ricerca e di indagine. Tra le fonti, non sempre segnalate (ma la cosa è normale nel mondo antico), spicca Varrone. Gran parte delle notizie e degli spunti viene ricavata dagli autori arcaici, che Gellio preferisce, sulla scia di Frontone, agli scrittori di età classica (con l’eccezione, peraltro, del citatissimo Virgilio). Gran parte del materiale non proviene tuttavia da libri ma da conversazioni e auditiones: ed è qui che entrano in scena i grandi eruditi dell’epoca, vive fonti che garantiscono al lettore, in ragione del loro prestigio, la veridicità degli assunti. Sono personaggi come Favorino (che inaugura ben sette libri), Erode Attico, Sulpicio Apollinare, sempre pronti a smentire antichi e moderni, a pronunciare inesorabili verdetti su questioni di ogni genere. Di fronte ad essi Gellio non scompare del tutto, talvolta si permette persino di dissentire, ma in generale si pone nell’attitudine dell’uditore entusiasta e del perenne discepolo.

Adunanza di filosofi, sarcofago da Acilia, III secolo d.C. Roma, Palazzo Massimo alle Terme.

Cornici narrative e vivacità dialogica Gellio non è, come Frontone, uno studioso o un teorico: è un dilettante affascinato da ogni forma di sapere. Sotto questo punto di vista, le Notti attiche sono un’opera affine alla ricca tradizione classica di silvae e di prata. Da queste si differenziano tuttavia per l’organizzazione dei materiali e degli estratti, che vengono preferibilmente inseriti in una cornice narrativa: incontri memorabili, passeggiate, conviti, conferenze. La testimonianza diretta e i dialoghi a più voci restituiscono il sapore delle conversazioni colte dell’epoca. La descrizione dei luoghi crea uno scenario piacevole. I capitoli di Gellio risultano perciò mossi e coloriti, ricchi di aneddoti gustosi e imprevisti. Superficiale, farraginoso, pedante, dilettantesco: ciascuno di questi aggettivi è in fondo appropriato per definire Aulo Gellio, uomo di buone letture e di buon gusto cui manca tuttavia una

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PROFILO STORICO

visione organica e unitaria della cultura. Eppure, il suo libro si legge con piacere, e non solo nell’ovvia prospettiva documentaria per cui è diventato via via, nei secoli, una miniera preziosissima di informazioni e di notizie sul mondo romano: piace in fondo proprio per l’ingenuo entusiasmo che sa trasmettere si può dire ad ogni pagina al lettore.

Guida allo studio

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

1.

Indica il numero complessivo di libri e illustra argomento, caratteristiche e struttura delle Notti attiche. Qual è il significato del titolo? 2. Quali argomenti tratta Aulo Gellio? con

quale atteggiamento? quali finalità si propone? a quale pubblico si rivolge? 3. Illustra il metodo di lavoro seguito da Gellio e le fonti principali cui attinge nel comporre la sua opera.

BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini A. La Penna, La cultura letteraria nel secolo degli Antonini, in Storia di Roma. L’impero mediterraneo, II/3, La cultura e l’impero, Einaudi, Torino 1992, pp. 491-577; AA.VV., Storia, letteratura e arte a Roma nel II secolo d.C., Atti del Convegno di Mantova (8-10 ottobre 1992), Firenze 1995; S. D’Elia, Una monarchia illuminata. La cultura nell’età degli Antonini, La Città del Sole, Napoli 2006. Sulla figura di Adriano: M.A. Levi, Adriano. Un ventennio di cambiamento, Bompiani, Milano 1994; J. Morwood, Adriano, il Mulino, Bologna 2015. � Poetae novelli I frammenti superstiti si trovano in: S. Mattiacci, I frammenti dei «poetae novelli», Ateneo, Roma 1982 (con ampio commento). Le poesie di Floro sono tradotte in: Floro, Opere, a cura di J. Giacone Deangeli, UTET, Torino 1969. Fra gli studi: E. Castorina, I «poetae novelli». Contributo alla storia della cultura latina nel II secolo d.C., La Nuova

Italia, Firenze 1949; • ID., Questioni neoteriche, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 157242. Suggestiva la lettura di E. Andreoni Fontecedro, Animula vagula blandula. Il mito dell’anima e i suoi echi nel tempo, «Aufidus», 26, 1995, pp. 7-27. � Floro e gli epitomisti del II secolo La traduzione dell’Epitome di Floro si trova in: Floro, Opere, a cura di J. Giacone Deangeli, cit. Fra gli studi: M. Galdi, L’epitome nella letteratura latina, Napoli 1922; P. Zancan, Floro e Livio, Padova 1942; A. Garzetti, Floro e l’età adrianea, «Athenaeum», 42, 1964, pp. 136-156; C. Facchini Tosi, Il proemio di Floro: la struttura concettuale e formale, Bologna 1990; L. Bessone, La storia epitomata: introduzione a Floro, Roma 1996. � Frontone Edizioni: Opere, a cura di F. Por talupi, UTET, Torino 1974; Elogio della negligenza, a cura di M.C. Cardona, prefazione di G.C. Pontiggia, Medusa, Milano 2006. Studi: P.V. Cova, I «Principia historiae» e le idee storiografiche di Frontone, Napoli 1970; A.

Pennacini, La funzione dell’arcaismo e del neologismo nelle teorie della prosa da Cornificio a Frontone, Torino 1974; P. Cugusi, Evoluzione e forme dell’epistolografia latina nella tarda repubblica e nei primi due secoli dell’Impero, Roma 1983, pp. 241-270; P. Soverini, Tra retorica e politica. Studi su Plinio il Giovane, Frontone e la «Historia Augusta», Bologna 1988; M.L. Astarita, Frontone oratore, Catania 1997. � Aulo Gellio Edizioni: Notti attiche, introd. di C.M. Calcante, trad. di L. Rusca, 2 voll., Rizzoli (BUR), Milano 1992. Studi: L. Gamberale, La traduzione in Gellio, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1969; F. Po r t a l u p i , F r o n t o n e , Gellio, Apuleio. Ricerca stilistica, Giappichelli, Torino 1974; G. Maselli, Lingua e scuola in Gellio grammatico, Milella, Lecce 1979; L. Holford-Strevens, Aulus Gellius, London 1988; L. Di Gregorio, Gellio e il teatro, «Aevum Antiquum», 1, 1988, pp. 95-147; J.P. Santini, L’auctoritas linguistica di Cicerone nelle «Notti attiche» di Aulo Gellio, Napoli 2006.

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

Sintesi

S

Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini Elio Adriano, imperatore dal 117 al 138 d.C., dà inizio a una delle età più prospere della storia romana, tanto da essere definita il «secolo d’oro» dell’impero. Uomo colto, raffinato e amante delle arti, Adriano abbandona la politica militare espansionistica di Traiano e propone un modello imperiale fondato sulla pax e sull’integrazione universale. Consolida le opere di difesa sui confini e avvia una serie di importanti interventi amministrativi e urbanistici. Viaggiatore instancabile, mostra una speciale predilezione per la Grecia e l’Oriente ellenizzato; ma il culto dell’imperatore «filelleno» per l’antica bellezza greca non comporta affatto il rifiuto della romanità, bensì segna la definitiva sintesi fra le due culture.

PERCORSO ANTOLOGICO

Gli succedono Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180). Sebbene già si avvertano i primi sintomi di crisi, continua ad imporsi la figura adrianea di un monarca illuminato che crede nei valori della civiltà e persegue una politica di benessere sociale e di rigoglio culturale. Nondimeno, la floridezza e la tranquillità dell’impero dipendono dall’energia e dall’intelligenza di un uomo solo, coadiuvato da una ristretta cerchia di corte. E negli anni di Marco Aurelio irrompono da Oriente due terribili flagelli: la peste e le prime invasioni barbariche. Nell’età di Adriano e degli Antonini la pace e la stabilità politica favoriscono la diffusione della cultura e dell’istruzione in ogni provincia dell’impero. La passione per il mondo ellenico fa sì che Adriano privilegi la lingua greca su quella latina. Il suo esempio è seguito dagli intellettuali, avviando la moda grecizzante; peraltro il bilinguismo, tratto caratteristico dell’epoca, attesta che Grecia e Roma costituiscono un’unica civiltà e un’unica cultura. Un fenomeno rilevante di quest’epoca è il movimento della Seconda Sofistica. I neosofisti sono conferenzieri itineranti che si producono in spettacolari performances declamatorie sui più disparati soggetti. Si richiamano alla Sofistica del V-IV secolo a.C., ma l’abilità oratoria e la perizia retorica non sono sostenute da un pari impegno filosofico. Si diffonde il gusto arcaizzante: Frontone e Aulo Gellio prediligono i vocaboli inusitati dell’antica tradizione letteraria. L’orientamento arcaizzante promuove un recupero degli scrittori più antichi e un nuovo interesse filologico per la letteratura delle origini. D’altra parte, con l’eccezione di Apuleio, manca un’autentica forza creativa; le tendenze dominanti sono erudizione, preziosismo e culto della

forma, mentre vengono meno i generi letterari illustri della tradizione. È consuetudine indicare con l’espressione poetae novelli un gruppo di poeti che si rifanno all’esperienza preneoterica e neoterica, secondo il gusto antiquario e arcaizzante dell’epoca. Manierismo estetizzante, sofisticata stilizzazione espressiva, sperimentazione metrica sono i tratti caratteristici della poesia dei novelli, ispirata per lo più da quadri di vita campestre, dipinti con tocchi realistici e delicate inflessioni malinconiche. Se si eccettuano l’imperatore Adriano e Floro (retore, conferenziere itinerante e autore di un’opera storica, l’Epitoma de Tito Livio), dei novelli conosciamo quasi soltanto i nomi. Marco Cornelio Frontone (inizi II secolo – ca 170 d.C.) godette presso gli intellettuali e negli ambienti di corte di grande prestigio; gli fu affidata l’istruzione dei futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero. Il suo magistero diede vita a una scuola di «frontoniani» dediti allo studio degli scrittori arcaici. Fino alla fine dell’impero la sua fama fu consegnata al corpus delle opere oratorie, di cui tuttavia possediamo soltanto rari frammenti. Pressoché nulla si era salvato dal naufragio della sua opera, finché fra il 1815 e il 1819 il cardinale Angelo Mai scoprì l’epistolario, nel quale spiccano le lettere scambiate con Antonino Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero. Il centro di interesse dell’epistolario risiede nelle osservazioni sul linguaggio letterario: l’autore propone nuove soluzioni formali, nuovi orientamenti stilistici (elocutio novella) e un nuovo canone di modelli, basato pressoché interamente sugli scrittori di età arcaica. Aulo Gellio (fra 123 e 130 – post 175 d.C.) scrisse le Noctes Atticae, un’opera miscellanea di erudizione enciclopedica in 20 libri, che tratta i più svariati argomenti, rivolgendo il maggiore interesse alle discipline linguistico-letterarie. Affronta questioni di natura lessicale, etimologica, morfologica, metrico-prosodica; discute problemi di cronologia e di attribuzione; indaga sulla storia della letteratura latina, riportando un numero imponente di citazioni da autori greci e latini (soprattutto di età arcaica), che costituiscono un tesoro di straordinaria importanza storico-culturale. Entro una cornice narrativa, l’opera è strutturata in forma dialogica; nelle discussioni intervengono i grandi eruditi dell’epoca. Non segue alcun criterio nella disposizione degli argomenti, ma forse anche per questo la lettura è sempre piacevole.

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Percorso antologico Poetae novelli T1

Un nuovo gusto poetico (Flor. fr. 1 Buechner [a]; Hadr. fr. 1 Buechner [b]; Hadr. fr. 3 Buechner [c]; Ann. fr. 1 Buechner [d]; Ann. fr. 3 Buechner [e]; Sept. Ser. fr. 10 Buechner [f]; Sept. Ser. fr. 11 Buechner [g])

LAT

IT

Frontone T2

Feroci giudizi sullo stile di Seneca e di Lucano IT (De orationibus 1-7)

T3

Sullo stile (Epistulae ad Marcum Caesarem IV, 3, 1-3)

LAT

IT

ONLINE

T4

Elogio del fumo e della polvere (Laudes fumi et pulveris)

LAT

IT

ONLINE

Aulo Gellio T5

La lettera h (Noctes Atticae II, 3)

LAT

IT

ONLINE

T6

Indice del libro IX (Noctes Atticae, praefatio)

LAT

IT

ONLINE

Poetae novelli T 1 Un nuovo gusto poetico Flor. fr. 1 Buechner [a]; Hadr. fr. 1 Buechner [b]; Hadr. fr. 3 Buechner [c]; Ann. fr. 1 Buechner [d]; Ann. fr. 3 Buechner [e]; Sept. Ser. fr. 10 Buechner [f]; Sept. Ser. fr. 11 Buechner [g]) LATINO ITALIANO

Rifacendosi al gusto preneoterico e neoterico, i poetae novelli prediligono una poesia tenue e delicata, fondata sul canone della brevitas e della raffinatezza espressiva. I temi prevalenti sono il mondo della natura [g] e la vita dei campi [d; e; f], rivissuti secondo il gusto antiquario dell’epoca e una sensibilità che a numerosi lettori è parsa «decadente». La natura viene spesso umanizzata [f; g] e ricondotta così nell’alveo di una malinconica riflessione sulla vita [c]. Non mancano i momenti scherzosi, come la squisita botta e risposta di Floro-Adriano [a; b]. Sul piano tecnico, i motivi di maggior interesse risiedono nell’uso di metri rari e di una lingua poetica morbida e languida, ricca di diminutivi e di vezzeggiativi [c; g].

Nota metrica: anacreontei in [a] e in [b]; dimetri giambici acatalettici in [c]; dimetri anapestici catalettici in [d]; metro falisco, formato da tre dattili e un giambo in [e]; tetrametri dattilici catalettici in [f] e in [g].

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

[a]

floro a adriano

Ego nolo Caesar esse, amblare <per Pelasgos latitare> per Britannos, Scythicas pati pruinas.

Non ci tengo ad esser Cesare, deambulare per gli Elleni, latitar per i Britanni, patir ghiacci boreali.

[b] adriano a floro

PERCORSO ANTOLOGICO

Ego nolo Florus esse, amblare per tabernas latitare per popinas culices pati rotundos. [c]

adriano a se stesso

5

Animula vagula blandula, hospes comesque corporis, quo nunc abibis? In loca pallidula rigida nudula, nec ut soles dabis iocos.

Non ci tengo ad esser Floro, deambulare per taverne, latitare per cantine, e patir tonde zanzare.

Anima piccolina mobile e blanda, ospite del corpo e sua compagna, ora dove te ne andrai? In una landa nuda rigida pallida, né come fai sempre scherzerai.

[d] anniano

Uva, uva sum et uva Falerna et ter feror et quater anno.

Sono uva, uva, uva Falerna!1 Tre, quattro volte l’anno mi colgono.

[e]

Quando flagella ligas, ita liga, vitis et ulmus uti simul eant: nam nisi sint paribus fruticibus, umbra necat teneras Amineas.

Quando leghi i tralci, legali in modo che vite ed olmo crescano insieme: se i rami non sono pari, l’ombra fa morire le tenere uve aminee.

[f]

settimio sereno

[g]

Inquit amicus ager domino: «si bene mi facias, memini».

Dice al padrone il campo amico: «Se mi tratti bene, me ne ricorderò».

Pinea brachia cum trepidant audio canticulum Zephyri.

Quando le braccia dei pini tremolano, odo la canzoncina di Zefiro. (trad. di A. Fo [a, b, c])

1. uva Falerna: dell’ager Falernus, in Campania; da essa si ricavava il celebre

vino cantato da Orazio (Carmina II, 6 [ vol. II , cap. 3 , T16 ]). In Campania

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erano coltivate anche le viti aminee, cui si accenna nel frammento successivo.


PERCORSO ANTOLOGICO

sullo

scaffale

Marguerite Yourcenar

Memorie di Adriano Animula vagula blandula: così si intitola il primo capitolo delle Memorie di Adriano (Mémoires d’Hadrien, 1951) di Marguerite Yourcenar. L’autrice immagina che Adriano, ormai «vicino a morire di un’idropisia del cuore», scriva al diciassettenne Marco (il futuro imperatore Marco Aurelio) dal suo ritiro nella Villa di Tivoli una lettera, che si espande via via fino ad abbracciare il racconto di tutta la sua vita. Scrive la Yourcenar, in una

Nota posta in appendice alla sua opera: «Una ricostruzione del genere di quella che avete letta sin qui, cioè a dire scritta in prima persona e attribuita al personaggio stesso che si trattava di descrivere, sotto certi aspetti sfiora il romanzo e certi altri la poesia. Potrebbe dunque esimersi dal fornire una documentazione: tuttavia, il suo valore umano risulta singolarmente arricchito dalla fedeltà ai fatti. Il lettore troverà più avanti l’elenco dei testi principali sui quali ci si è basati per compilare questo libro. Nel convalidare così un’opera

di carattere letterario non si fa del resto che conformarsi al costume di Racine, il quale, nelle prefazioni delle tragedie, enumera accuratamente le fonti. Ma innanzi tutto, e per rispondere alle domande più urgenti, seguiamo anche l’esempio di Racine indicando alcuni tra i luoghi, non molto frequenti, nei quali si è aggiunto qualche cosa alla storia o la si è cautamente modificata».

1963 e 1981; reperibile anche nel primo volume delle Opere di Marguerite Yourcenar, Bompiani 1986).

È possibile leggere le Memorie di Adriano nella bella traduzione di Lidia Storoni Mazzolani (Einaudi

Frontone T 2 Feroci giudizi sullo stile di Seneca e di Lucano De orationibus 1-7 LATINO ITALIANO

Statua di Marco Aurelio. Parigi, Musée du Louvre.

L’epistola De orationibus è un breve trattatello indirizzato a Marco Aurelio imperatore. Di fronte all’antico discepolo, reo di aver trascurato l’eloquenza a favore degli studi filosofici (par. 2), Frontone ritorna a vestire i panni del magister (par. 1), impartendo una lezione sullo stile di Seneca (parr. 2-6) e di Lucano (par. 7), eminenti rappresentanti di quel gusto asiano che Frontone aveva sempre biasimato. Si è detto a suo tempo delle sententiae senecane, atte a impressionare il lettore con la loro densa e folgorante concisione: già Quintiliano ne aveva deprecato l’abuso, lamentando l’influenza negativa che uno stile di tal genere esercitava sui giovani [ T2, cap. 6]. Ancora più aspro, e a tratti sarcastico, il giudizio di Frontone: le sentenze di Seneca soddisfano un gusto puerile, mirando ad abbagliare un uditorio impreparato con plateali giochi di prestigio (par. 3). Frontone non manca di centrare acutamente alcune caratteristiche dello stile concettoso e sovrabbondante di Seneca, ricorrendo all’uso di immagini argute ed efficaci: le «prugnette molli e malaticce»; i cavalli «che vanno al trotto»; il convitato giocoliere che acchiappa a bocca aperta le olive lanciate in aria; gli attori che fingono con lo stesso mantello figure diverse, ecc. Ancora più feroce l’attacco a Lucano («un Anneo anche lui»): l’esemplificazione, condotta con un ritmo incalzante, rende efficacemente l’andamento sovreccitato e baroccheggiante dello stile poetico lucaneo. 437 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13. Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

PERCORSO ANTOLOGICO

Frontone a Antonino Augusto [1] ... aggiungerò poche1 osservazioni, forse non a proposito, e aspre, per far sì che di nuovo tu senta in me il maestro. Sai perfettamente che questa schiera di maestri sono quasi tutti a un tempo vani e sciocchi: sono poco eloquenti, e per nulla sapienti.2 Mi sopporterai certo con buona grazia, se io riprenderò l’autorità e il titolo di maestro. [2] Confesso infatti, ed è una realtà, che c’è una sola ragione per cui il mio affetto per te possa vacillare un po’; se tu trascuri l’eloquenza. Penso tuttavia sia meglio che tu la trascuri piuttosto di coltivarla malamente. A mio parere, quell’eloquenza, come pianta disordinata e composita, innestata in parte con pigne catoniane, in parte con prugnette molli e malaticce di Seneca, va radicalmente divelta o, con espressione plautinissima, estirpata «dalle più profonde radici».3 So benissimo che Seneca è uomo dai molti pensieri e sovrabbondante; ma vedo «che le sue massime, che vanno al trotto, non resistono mai ad un’impetuosa corsa al galoppo, mai scendono in lizza, mai mirano a maestà» come dice Laberio,4 ed «egli foggia tiritere di piccoli aforismi, anzi tratti di spirito, piuttosto che motti veri e propri». [3] Così, pensi proprio di trovare in questo Anneo pensieri più nobili e sullo stesso argomento che in Sergio?5 «Ma non ugualmente armoniosi». È vero. «Né così vivaci». È così. «Né così risonanti». Non lo nego. Però, se uno stesso pasto venisse servito a due persone diverse e l’una prendesse con le dita le olive servite, se le portasse alla bocca, com’è uso e regola e se le mettesse sotto i denti; l’altra invece lanciasse in alto le sue olive, le acchiappasse a bocca aperta e, una volta in bocca le mostrasse stringendole fra le labbra come un prestigiatore fa con le palline, che ne diresti? I ragazzini senza dubbio applaudirebbero per questo e i convitati si divertirebbero, ma il primo commensale avrà pranzato secondo le convenienze, il secondo avrà fatto dei giochetti con le labbra. [4] «Nei libri di Seneca però ci sono cose dette con eleganza, e alcune anche con dignità». Qualche volta nelle fogne si trovano anche laminette d’argento, e forse per questo daremo in appalto le fogne perché siano ripulite? [5] In questo stile il primo e peggiore difetto è che uno stesso pensiero vien ripetuto mille volte sempre rivestito di un mantello diverso. Come gli attori, quando danzano col cappuccio, rappresentano sempre con lo stesso mantello, la coda del cigno, i capelli di Venere, la sferza di una Furia, così costoro esprimono un solo, identico pensiero in molti modi: lo sventolano, lo cambiano, lo rivoltano, con la stessa coda salutano, stropicciano sempre un medesimo pensiero più spesso che le fanciulle profumate la loro ambra.6

1. aggiungerò poche: il testo è lacunoso: qui inizia la parte superstite. 2. poco eloquenti, e per nulla sapienti: intenzionale la rielaborazione di una celebre espressione sallustiana: satis eloquentiae, sapientiae parum (Bellum Catilinae 5, 4).

3. «dalle più profonde radici»: in latino «exradicitus» (Plauto, Mostellaria, 1112) 4. Laberio: celebre mimografo di età cesariana [ vol. I, cap. 3.5]. 5. Sergio: L. Sergio Plauto, filosofo stoico del I secolo d.C.

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6. la loro ambra: «l’ambra gialla, scaldata nel cavo della mano, emanava un profumo molto pregiato dagli antichi» (Portalupi).


PERCORSO ANTOLOGICO

[6] C’è da dire qualcosa sulla fortuna? Vi troverai tutte le Fortune: quelle Anziati, quelle di Preneste, quelle che guardano indietro, anche le Fortune dei bagni con penne, ruote e timoni.7 [7] Ricorderò a mo’ d’esempio solo un proemio di un poeta; di un poeta della medesima età e dello stesso nome: un Anneo8 anche lui. Egli, all’inizio del suo poema, nei primi sette versi non fa che esporre il concetto di «guerre più che civili». Conta con quante espressioni egli lo svolge: «E viene concesso il diritto al delitto» ecco la prima. «Volgendosi con il braccio vincitore contro le sue viscere» e questa è l’altra. La terza sarà questa: «Le schiere consanguinee». «In un delitto comune» esprime la quarta. «Le insegne contro quelle nemiche» aggiunge anche la quinta. «Le aquile pari alle insegne» questa è la sesta fatica di Ercole. «E i giavellotti minacciosi contro i giavellotti» è la settima, il cuoio sullo scudo di Aiace.9 Anneo, quando la finirai? O, se non c’è termine né misura da osservare, perché non aggiungi anche «e allo stesso modo le trombe di guerra»? Puoi anche aggiungere: «Anche i ben noti squilli delle trombe». E prosegui pure con le loriche, gli elmi, le spade, le cinture con tutti gli altri accessori di un’armatura. (trad. di F. Portalupi)

7. Vi troverai… timoni: «La Fortuna era onorata specialmente ad Anzio e a Preneste e nei bagni. Con Fortuna respiciens si intende la fortuna che volge lo sguardo all’uomo per soccorrerlo: cfr. Cicerone, De legibus II, 11, 28: suoi attributi

erano le penne, in quanto deità alata; le ruote, perché spesso rappresentata su un cocchio, e il timone, per indicare la prerogativa di nocchiera delle sorti umane» (Portalupi) 8. Anneo: Anneo Lucano, l’autore della

T3

Sullo stile

T4

Elogio del fumo e della polvere

Pharsalia o Bellum civile [ cap. 2.7]. 9. il cuoio… Aiace: secondo Omero (Iliade VII, 219-225), lo scudo di Aiace era ricoperto da sette strati di pelle di bue.

Epistulae ad Marcum Caesarem IV, 3, 1-3

Laudes fumi et pulveris

ONLINE

ONLINE

Aulo Gellio T5

La lettera h

T6

Indice del libro IX

Noctes Atticae II, 3

Noctes Atticae, praefatio

ONLINE

ONLINE

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

MAPPA SOCIETÀ E CULTURA NELL’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI 117-180 d.C.

Imperatori adottivi

• • •

Elio Adriano (117-138) Antonino Pio (138-161) Marco Aurelio (161-180)

modello imperiale fondato sulla pax e sull’integrazione universale – opere di difesa sui confini: Vallum Hadriani – riforma dell’amministrazione – interventi urbanistici imperatore «filelleno» Villa Adriana

Il principato di Adriano

• •

impero umanistico, figura di monarca illuminato – politica di benessere sociale e rigoglio culturale incipienti segni di crisi – recessione agricola – pressione dei barbari lungo i confini – problema della successione

Fenomeni culturali

• • • • •

diffusione della cultura e dell’istruzione Seconda Sofistica moda grecizzante, bilinguismo gusto arcaizzante erudizione, preziosismo, culto della forma

Poetae novelli

• • • •

si richiamano ai neóteroi e ai preneoterici quadri di natura campestre, motivi folclorici e giocosi sperimentazione metrica, lessico vario ed espressivo manierismo estetizzante

unica opera pervenuta, con ampie lacune – carteggio con gli imperatori, valore documentario – teorie e giudizi sulla lingua e lo stile – elocutio novella (arcaismi e volgarismi) – rifiuto dell’asianesimo e dello stile concettoso

opera enciclopedica di vasta erudizione in 20 libri – interesse precipuo per le discipline linguisticoletterarie – disposizione casuale degli argomenti – cornici narrative, vivacità dialogica

Il «secolo d’oro» dell’impero

L’Epistolario di Frontone

Le Noctes Atticae di Aulo Gellio 440

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Completamento

1

Inserisci i dati mancanti della biografia di Adriano.

Elio Adriano, nato nel , imperatore dal 117 al , era di origine , come il predecessore . Propone un modello imperiale fondato sulla , abbandonando la politica e consolidando le ai confini; avvia una serie di riforme e realizza vasti progetti di . Viaggiò instancabilmente per tutte le province dell’impero, mostrando una spiccata predilezione per le terre di e dell’Oriente ellenizzato. Ad Atene realizzò un imponente programma di ; gli Ateniesi gli conferirono i titoli di . Nella Villa Adriana, la magnifica residenza che si fece costruire a , volle ricreare i luoghi e gli edifici di Grecia e d’Egitto a lui più cari. Gli successe per adozione . p._____/14

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Le scelte linguistiche dei neosofisti si ispirano al gusto asiano b. Di Floro si è conservata soltanto l’Epitoma de Tito Livio c. Il tratto più caratteristico della poesia dei novelli è l’uso dei diminutivi d. Adriano imperatore scrisse liriche nello stile dei novelli e. L’epistolario di Frontone fu riscoperto in età umanistica f. Nell’opera di Gellio la disposizione degli argomenti è casuale

2. Tra i maggiori protagonisti della Nuova Sofistica si annovera ■ Favorino di Arles ■ Erode Attico ■ Aulo Gellio ■ Dione di Prusa 3. I poetae novelli ■ si rifanno all’esperienza neoterica ■ sperimentano nuove soluzioni metriche ■ escludono il registro giocoso ■ si ispirano al mondo della natura campestre 4. Cornelio Frontone ■ non rivestì mai cariche pubbliche ■ nell’antichità ebbe fama per le opere oratorie ■ intrattenne un importante carteggio con i principes ■ rifiuta lo stile concettoso di Seneca 5. Nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio ■ il maggiore interesse è rivolto alle discipline linguistico-letterarie ■ non vengono trattati argomenti scientifici ■ è riportato un imponente numero di preziose citazioni ■ tra le fonti segnalate spicca Varrone p._____/5 Totale p._____/25

V|F V|F V|F V|F V|F V|F

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Sintomi di crisi nell’«età felice» di Antonino Pio. 2. I poetae novelli fra gusto arcaizzante e sperimentazione. 3. Il nuovo canone di modelli espressivi delineato da Frontone.

p._____/6

Quesiti a scelta multipla

Trattazione sintetica

3 Indica, fra le quattro affermazioni riportate, quella non pertinente.

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna).

1. L’imperatore Adriano ■ mira ad equiparare le province all’Italia ■ continua e intensifica la politica traianea di collaborazione con il senato ■ attinge i quadri amministrativi al ceto equestre ■ estromette i liberti dall’esercizio del potere

1. L’impero «umanistico»: un grandioso programma ideale, non esente da rischi. 2. Moda grecizzante e tendenze arcaizzanti nell’età di Adriano e degli Antonini. 3. Le Noctes Atticae di Aulo Gellio: caratteristiche, destinazione e finalità dell’opera. 441

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Società e cultura nell’età di Adriano e degli Antonini

Verifica finale


14 Apuleio 1 La vita e le opere Fonte biografica è l’autore stesso Le notizie intorno alla vita di Apuleio provengono quasi esclusivamente dalle opere stesse dell’autore, in particolare dall’Apologia, la più ricca di vivide, benché frammentarie, testimonianze autobiografiche, e dai Florida; nell’impossibilità di verificarne l’esattezza (il silenzio dei contemporanei è totale), si tende ad accoglierle con qualche cautela. Le origini e gli studi Apuleius (il praenomen è ignoto) nacque verso il 125 d.C. nella provincia romana d’Africa, a Madaura (oggi Mdaurusch, nell’entroterra algerino) sul confine tra la Numidia e la Getulia, da una famiglia di condizione sociale elevata; poté dunque compiere la sua istruzione dapprima a Cartagine, capitale dell’Africa romana e maggior centro culturale della provincia, dove studiò grammatica e retorica, poi ad Atene, dove, come gli stesso ricorda, si diede con passione a coltivare le più svariate discipline: «E anche altre coppe bevvi ad Atene: quella elaborata della poesia e quella limpida della geometria; quella della musica, dolcissima, e quella un poco austera della dialettica; e infine la coppa della universale filosofia, davvero pari al nettare, di cui non ci si sazia mai» (Flor. 20, 4). Una cultura enciclopedica Appare subito evidente l’aspirazione a conseguire una cultura enciclopedica, coronata dalla conoscenza della filosofia, chiave dell’uni442 © Casa Editrice G. Principato


Elogio del calamo Non nego certo di ignorare l’uso di spola, lesina, lima, tornio o altri strumenti del genere, ma confesso di preferire ad essi il semplice calamo per scrivere, con il quale compongo ogni sorta di versi adatti alla verga epica, alla lira, al socco comico o al coturno; e satire, indovinelli, storie varie; e orazioni lodate dalle persone eloquenti, dialoghi apprezzati dai filosofi: e queste ed altre composizioni, in greco come in latino, con lo stesso piacere, pari studio, stile analogo. (Apuleio, Florida IX, 27-29)

Philosophus Platonicus

curiositas

Lector intende: laetaberis

Isis regina

sermone Milesio varias fabulas conseram

verso, sintesi e culmine di ogni sapere secondo l’indirizzo dottrinale abbracciato da Apuleio, il medioplatonismo teosofico e misticheggiante. Philosophus Platonicus si compiacque di definirsi egli stesso, e come tale viene ricordato in un’iscrizione, nonché in diverse intitolazioni di codici. I viaggi: conferenziere itinerante e adepto dei misteri Viaggiò a lungo, sospinto da quella curiositas che appare la cifra più vistosa della sua personalità (e della sua epoca): percorse la Grecia e l’Oriente ellenizzato esercitando con successo l’attività di pubblico conferenziere, secondo i modi della Nuova Sofistica [ cap. 13.2]. Fu anche a Roma, non sappiamo in quale periodo: forse vi esercitò l’avvocatura; egli afferma comunque (Flor. 17, 4) di essersi conquistato nella capitale amicizie importanti e un’ottima reputazione. Durante le sue peregrinazioni venne iniziato a un gran numero di culti misterici e salvifici che in quel tempo pullulavano nel Mediterraneo greco-romano, interpretandoli sincretisticamente come manifestazioni, divergenti soltanto in superficie, di un unico principio divino (si veda a questo proposito l’aretalogia di Iside nell’XI libro delle Metamorfosi [ T9 ONLINE]). La magia: il processo di Sabratha e l’Apologia Nell’anno 155 o 156 (è l’unico episodio cronologicamente precisabile della vita dello scrittore), in viaggio alla volta di Alessandria, Apuleio si ferma ad Oea (l’odierna Tripoli), dove incontra Sicinio Ponziano, un antico compagno di studi, che lo convince a sposare sua madre, la ricchissima vedova Pudentilla. Tre anni dopo viene tratto in giudizio dai 443 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PROFILO STORICO

parenti di lei, sotto l’accusa di aver indotto la donna al matrimonio ricorrendo alle arti magiche. Il processo si celebra a Sabratha, di fronte al tribunale presieduto da Claudio Massimo, proconsole d’Africa: Apuleio pronuncia la propria autodifesa, la cosiddetta Apologia o De magia [ 14.2]. Non sappiamo quale sia stato l’esito del processo: molto probabilmente si concluse con un verdetto di assoluzione. Onori e celebrità a Cartagine Negli anni seguenti ritorna verosimilmente a stabilirsi a Cartagine, forse per restarvi fino alla morte. Certamente prosegue la sua carriera di oratore, ottenendo pubblici riconoscimenti: la città decretò una statua in suo onore, ed egli stesso fu investito della prestigiosa carica annuale di sacerdos provinciae. Dopo il 170 non si ha più alcuna notizia di lui. «Eloquentissimo sia in greco sia in latino» (Apol. 4) L’africano Apuleio afferma con orgoglio di possedere perfettamente entrambe le lingue di cultura dell’impero, il greco e il latino: egli è un caratteristico esempio di intellettuale cosmopolita e bilingue di quest’epoca, che ha visto compiersi il secolare processo di integrazione delle due culture. Opere conservate Numerose e svariate opere apuleiane sono andate perdute [ Apuleio enciclopedico e multiforme: opere perdute, spurie o dubbie]. Oltre alla citata Apologia, si sono conservati i Florida (sottinteso loca o scripta: «Passi fioriti»), una raccolta di 23 brani oratorii stralciati dai discorsi epidittici di Apuleio; i trattati filosofici De Platone et eius dogmate («Platone e la sua dottrina»), De deo Socratis («Il demone di Socrate»), De mundo (rifacimento-traduzione del Perì kósmou pseudoaristotelico); infine i Metamorphoseon libri («Le metamorfosi») ovvero Asinus aureus («L’asino d’oro»), unico romanzo latino a noi pervenuto integro.

Guida allo studio

1.

Quali sono i principali eventi a noi noti della vita di Apuleio? Da quali fonti sono state trasmesse le notizie in nostro possesso?

Apuleio enciclopedico e multiforme: opere perdute, spurie o dubbie ▰ Opere perdute Dell’ambizione enciclopedica

di Apuleio e della multiforme varietà dei suoi interessi sono testimonianza anche i titoli tràditi delle opere perdute. Nulla è rimasto della produzione in lingua greca. Tra gli scritti in versi latini, perduti sono gli Hymni in Aesculapium; dei Ludicra («Scherzi») e dei Carmina amatoria sopravvivono tre componimenti raffinati e leggeri alla maniera dei novelli. Non sono pervenute (eccetto qualche raro frammento) neppure le numerose opere scientifiche (o di filosofia naturale) ed erudite in prosa: De arboribus, De piscibus, De re rustica, De arithmetica, De musica, Medicinalia, Astronomica,

2. Traccia una panoramica della vasta e varia produzione di Apuleio, evidenziando i suoi multiformi interessi di intellettuale bilingue. 3. Quali opere ci sono pervenute?

Quaestiones conviviales; inoltre De republica, De proverbiis, Epitome historiarum (forse una raccolta di novelle), il romanzo Hermagoras, una traduzione del Fedone platonico.

▰ Opere spurie o dubbie Per contro, sotto

il suo nome ci sono giunte opere non autentiche, complice la fama di medico, naturalista e taumaturgo che accompagnò Apuleio nei secoli: il dialogo Asclepius, tradotto dal greco nel IV secolo, uno dei testi più notevoli del Corpus Hermeticum; i trattati (o ricettari, fra medicina empirica e magia) De herbarum medicaminibus e De remediis salutaribus. In dubbio è la paternità del trattatello latino di logica Perì hermenéias («Sull’interpretazione»).

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PROFILO STORICO

2 Eloquenza e filosofia Apologia o De magia La brillante autodifesa pronunciata da Apuleio al processo di Sabratha, nota come Apologia o, più esattamente, De magia (nei manoscritti Apulei Platonici pro se de magia liber), è l’unica orazione giudiziaria di età imperiale a noi pervenuta. Con ogni probabilità il discorso che leggiamo, troppo ampio per essere stato effettivamente pronunciato in un’aula di tribunale, è frutto di una rielaborazione successiva. Le circostanze del processo e l’accusa di magia Non senza esitazioni, data la propria passione per i viaggi e la notevole differenza d’età, intorno al 155 Apuleio aveva sposato Emilia Pudentilla, madre di un antico compagno di studi ritrovato ad Oea, Sicinio Ponziano, il quale si era adoperato per concludere il matrimonio onde evitare che i beni materni, dopo quattordici anni di vedovanza, cadessero in mano di qualche sconosciuto avventuriero. Tre anni dopo, i parenti di Pudentilla citavano in giudizio Apuleio, affermando di tutelare gli interessi del figlio minore Sicinio Pudente (rimasto unico erede dopo la morte di Sicinio Ponziano), sotto l’accusa di aver fatto ricorso a pratiche magiche per sedurre la vedova e costringerla a sposarlo (ovviamente allo scopo di assicurarsi il controllo dell’ingente patrimonio). Di fatto l’imputazione era assai grave: la magia cadeva sotto i provvedimenti di una legge sillana dell’81 a.C. (lex Cornelia de sicariis et veneficiis) che prevedeva anche la pena di morte. Orazione difensiva o conferenza? Fin dalle battute d’esordio, Apuleio mostra la disinvolta sicurezza di chi si accinge a un compito fin troppo facile: demolire un castello di accuse inconsistenti e risibili, montate contro di lui da avversari rozzi e ignoranti quanto moralmente indegni. Riservando agli accusatori sarcastiche invettive, si rivolge ostentatamente al giudice Claudio Marcello, come a magistrato integerrimo nonché uomo di raffinata cultura, unico interlocutore in grado di

Apologia: struttura e contenuti

▰ La vicenda del matrimonio Con la terza parte

L’orazione si articola in tre parti, corrispondenti ai tre punti fondamentali della difesa.

▰ Le minori accuse Nella prima parte (capp. 1-24) Apuleio respinge tutta una serie di accuse minori, intese a provare la dissolutezza dei suoi costumi: è troppo bello; la sua lunga chioma è acconciata con eccessiva ricercatezza; ha scritto versi amorosi; fa uso di una preziosa polverina dentifricia; possiede uno specchio, et similia. ▰ L’accusa di magia La seconda parte (capp. 25-65), che affronta il capo d’accusa principale, vede dapprima Apuleio impegnato a sfatare i volgari pregiudizi e le false credenze diffuse a proposito della magia, poi a confutare specifiche “prove” addotte dagli avversari, spiegando che le pretese pratiche illecite di magia sono tali soltanto per gli ignoranti: in realtà si tratta di studi zoologici, di esperienze mediche, di atti di devozione religiosa.

(capp. 66-103) si entra nel merito dei fatti accaduti dopo l’arrivo di Apuleio ad Oea, e in particolare del suo matrimonio. Dopo un’ampia e puntuale ricostruzione degli avvenimenti, Apuleio, a dimostrazione del proprio disinteresse, produce il testamento di Pudentilla, che istituisce erede principale non già il marito, ma il figlio Pudente.

▰ Sfoggio di virtuosismo È soprattutto nelle prime due sequenze che il neosofista può sfoggiare il suo virtuosismo, non perdendo occasione per infiorare il discorso di citazioni letterarie e digressioni erudite, che si dilatano talora a vere e proprie micro-conferenze: dall’elogio del dentifricio e dell’igiene orale (7-8) alla dotta disquisizione sull’impiego dello specchio nella ricerca filosofico-scientifica (15-16), al sermoncino moraleggiante, intarsiato di aneddoti esemplari, sul valore e il significato della povertà (18-22).

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PROFILO STORICO

apprezzare e condividere le sue ragioni. Infatti, sebbene l’argomento risolutivo a suo favore consista evidentemente nelle disposizioni testamentarie della consorte, nelle quali è nominato erede principale non già il marito ma il figlio, Apuleio sembra voler fondare l’autodifesa sull’esibizione della propria schiacciante superiorità culturale, ridicolizzando sistematicamente la controparte grazie alle risorse di una consumata abilità retorica. Incrocio fra due differenti generi oratorii Come si vede, l’Apologia sembra situarsi all’incrocio fra due differenti generi oratorii: entro la cornice dell’orazione giudiziaria si aprono vaste zone di eloquenza epidittica, tanto che si è persino dubitato dell’effettiva destinazione processuale del testo (e dunque della sua consistenza in quanto documento storico-biografico), volendo piuttosto riconoscere in esso una raffinata costruzione tutta letteraria, un compiaciuto “autoritratto del filosofo” in forma di conferenza. Due specie di magia «Prezioso documento della mentalità di un’epoca» (Moreschini), l’Apologia affascina anche per le ombre che la verve dell’abilissimo retore non riesce (forse volutamente) a dissipare. Resta aperta la questione della reale posizione di Apuleio nei confronti della magia: non del tutto risolutiva appare infatti la distinzione tra le due specie di magia proposta nei capitoli 25-27 [ T1], che dovrebbero costituire il cardine dell’intero discorso. Labile in sé, la distinzione è apparsa interessante in quanto sembra poter offrire una chiave interpretativa per le manifestazioni del magico nelle Metamorfosi. Il romanzo può essere letto infatti come una sconfessione della magia deteriore o stregoneria e un’esaltazione di quella “magia” positiva che fa tutt’uno con la conoscenza del vero e con l’autentica devozione religiosa. Florida Sotto il titolo complessivo di Florida sono giunti fino a noi ventitré estratti di discorsi a carattere epidittico tenuti da Apuleio fra il 160 e il 170, preziosa documentazione della sua attività di conferenziere all’apice della celebrità. Si tratta di un’antologia che un ignoto compilatore, in un’epoca non precisabile, ha ricavato da una precedente raccolta in quattro libri, verosimilmente curata dallo stesso autore. I singoli brani, di diversa estensione, sono tutti esempi di virtuosismo PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 Magia e filosofia Apologia 27 ITALIANO

Dopo aver confutato le minori accuse che gli sono state rivolte dagli avversari, Apuleio passa ad affrontare l’accusa più grave, quella di magia. Non nega affatto l’esistenza della magia, né le proprie conoscenze in materia. Fonda invece la sua difesa su una distinzione che vuole apparire decisiva e persino ovvia per una persona istruita, ma che di fatto è piuttosto sottile e non priva di ambiguità. Esiste una magia alta e nobile, tramite la quale l’uomo può entrare in contatto con la divinità e conoscere i segreti dell’universo al fine di operare il bene; e d’altra parte una magia volgare, vera e propria stregoneria esercitata a scopi malvagi. Apuleio respinge risolutamente l’accusa di magia volgare, mentre propone l’equazione magia nobile = filosofia, che ben si accorda con il platonismo misticheggiante e misteriosofico da lui stesso professato, e con la mentalità di un’epoca attraversata da correnti irrazionalistiche, cui è estranea l’idea di una rigorosa separazione fra religione, filosofia, arte magica.

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PROFILO STORICO

Ma queste sono le accuse che, normalmente, per un errore diffuso fra gli ignoranti, sono rinfacciate ai filosofi: una parte di essi, quelli che indagano sulle cause ultime ed elementari dei corpi, sono considerati atei, e per questo si crede che neghino l’esistenza degli dèi, come Anassagora, Leucippo, Democrito, Epicuro e tutti gli altri difensori della natura. Altri, invece, che investigano con particolare attenzione la provvidenza che regge il mondo e con maggior zelo onorano gli dèi, quelli allora sono chiamati volgarmente “maghi”, come se fossero anche in grado di fare quello che sanno che avviene. In questo numero furono, un tempo, Epimenide, Orfeo, Pitagora, Ostane;1 e successivamente furono esposti ad analoghi sospetti le Purificazioni2 di Empedocle, il demone di Socrate, il Bene di Platone.3 Mi rallegro, quindi, di essere annoverato anch’io fra tanti così importanti personaggi. (trad. di C. Moreschini) 1. Epimenide... Ostane: figure mitiche o semi-mitiche di veggenti, saggi e profeti. Epimenide di Creta, depositario di un’occulta sapienza sacerdotale e di poteri taumaturgici, cui si attribuivano responsi, canti di purificazione e scritti cosmogonici, secondo la leggenda visse

molti secoli e fu ad Atene nel 596 a.C. Ostane è un personaggio alquanto controverso: secondo alcuni sarebbe stato uno dei Magi al seguito di Serse durante la spedizione in Grecia, secondo altri il maestro di Democrito. 2. Purificazioni: in greco Katharmói,

poema filosofico-misterico che narrava la storia dell’anima riprendendo la dottrina pitagorica della metempsicosi. Empedocle ebbe fama di mago, come attesta Diogene Laerzio (VIII, 59). 3. il Bene di Platone: il bene supremo secondo la filosofia platonica.

Educazione CIVICA Circonvenzione o plagio? Il brano sopra riportato getta luce su uno dei temi più stimolanti tra quelli presenti nell’Apologia di Apuleio: il processo verte su un fatto o su una persona, su un’azione illecita o sulla personalità del suo autore? Il reato che si potrebbe imputare ad Apuleio oggi sarebbe quello di «circonvenzione di incapace», sanzionato dall’articolo 643 del Codice Penale. Tale fattispecie prevede una sorta di cooperazione asimmetrica tra il colpevole e la vittima: il primo, per ottenere un profitto, «induce» la vittima, abusando «dei bisogni, delle passioni o della inesperienza» della vittima stessa, a commettere un atto dannoso per sé o per altri, mentre la seconda si lascerebbe indurre ad agire dalla sua «infermità o deficienza psichica», ossia da una limitata padronanza di sé, patologica o meno, stabile o temporanea (per la minore età, o per un disturbo psichiatrico, o per fragilità caratteriale). Il danno di questo reato è duplice, perché dalla circonvenzione risulterebbe menomato non solo il patrimonio della vittima, ma anche la sua libertà di autodeterminazione. Nel caso di Apuleio, Pudentilla sarebbe stata indotta, da filtri magici e altri strumenti di suggestione, a sposare Apuleio, il quale dal matrimonio avrebbe tratto il profitto dell’eredità della vedova, a danno dei figli. Ma Apuleio lascia la questione dell’eredità a margine dell’orazione, mostrando rapidamente la totale infondatezza delle accuse.

Allora l’aspetto più interessante dell’opera è proprio il ritratto dell’intellettuale che ne emerge, dipinto dagli accusatori come un manipolatore senza scrupoli. Il che ci riporta al vecchio reato di plagio, cancellato nel 1981 come incostituzionale, per la vaghezza della fattispecie descritta, ovvero il «totale stato di soggezione» della vittima, a prescindere da qualunque danno patrimoniale. Come verificare oggettivamente che tale «soggezione» configuri un reato, oppure uno stato di dipendenza psichica simile a quello che può verificarsi in una relazione amorosa, o di forte influenza intellettuale, come può accadere nella relazione tra maestro e allievo? In gioco, come si vede, ci sono due libertà, che il codice si propone di tutelare: la libertà di autodeterminazione della vittima, che è un diritto essenziale di ogni persona, contro la libertà dell’imputato di esprimere la propria personalità, che può essere particolarmente carismatica, al punto da condizionare profondamente i comportamenti di coloro con i quali entra in relazione. Tema delicatissimo, quest’ultimo: se è vero che il reato di plagio poteva prestarsi a strumentalizzazioni contro intellettuali e filosofi di particolare fascino, la sua cancellazione – in luogo di una correzione – è stata contestata da alcuni come un vuoto legislativo per casi come quelli di alcune sette filosofico-religiose, i cui adepti appaiono fragili vittime di una sorta di “lavaggio del cervello”.

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PROFILO STORICO

retorico, funambolici pezzi di bravura atti a strappare l’applauso del pubblico. Gli argomenti sono i più svariati e curiosi: le meraviglie dell’India e i gimnosofisti, i viaggi di Pitagora, la descrizione del pappagallo, lo stile di vita del filosofo Cratete, la resurrezione di un morto ad opera del grande medico Asclepiade di Prusa, ringraziamenti, panegirici, elogi e autoelogi. Da qualsiasi spunto l’oratore trae pretesto per accattivanti dissertazioni a carattere encomiastico, descrittivo, erudito, aneddotico, accomunate dal gusto della divagazione, dal tono affabilmente divulgativo, da uno scintillante sense of humour. Colpisce soprattutto l’atteggiamento esibizionistico del neosofista latino, compiaciuto della propria abilità e del dominio che sente di esercitare su un uditorio entusiasta. Philosophus Platonicus Pur non essendo espressione di un pensiero originale, le opere filosofiche di Apuleio assumono grande rilievo dal punto di vista storico. Fino all’età dell’Umanesimo, quando fu riscoperto e restituito integro all’Occidente il «vero Platone» (sec. XV-XVI), furono considerate fonti di primaria importanza per la conoscenza della dottrina platonica; oggi continuano a rappresentare un prezioso documento di quella corrente filosofica detta del platonismo medio (situabile fra il I sec. d.C. e lo sviluppo del neoplatonismo [ cap. 15.2]. La fase medioplatonica appare caratterizzata da una contaminazione eclettica del pensiero di Platone con elementi propri di altre scuole (in particolare l’aristotelismo), nella quale si riflettono le diverse tendenze compresenti nella cultura del II secolo: da una parte l’interesse per le scienze della natura; dall’altra le inquietudini metafisiche, la propensione al misticismo, l’attrazione dell’occulto.

Guida allo studio

1.

A quale genere oratorio appartiene l’Apologia? 2. Riassumi le circostanze del processo in occasione del quale Apuleio compose il celebre discorso. 3. Illustra contenuti e struttura dell’Apologia.

Opere filosofiche di Apuleio ▰ De Platone et eius dogmate Il trattato De Platone et eius dogmate («Platone e la sua dottrina») è suddiviso in due libri, che compendiano rispettivamente la fisica e l’etica platoniche; l’esposizione è preceduta da una biografia (in buona parte fantastica e leggendaria) del filosofo. ▰ De deo Socratis Al genere della trattatistica divulgativa appartiene anche il De deo Socratis («Il dèmone di Socrate»), che espone in forma di conferenza la dottrina platonica dei dèmoni. La diffusione delle dottrine demonologiche all’epoca è attestata dalle opere di numerosi autori greci seguaci di Platone; ma il precedente più illustre è Plutarco di Cheronea (circa 47127 d.C.), che sviluppa ampiamente il tema nei Moralia.

4. Quali testi si raccolgono sotto il titolo complessivo di Florida? Per quali aspetti vanno inquadrati nel coevo movimento della Nuova Sofistica? 5. Elenca titoli e argomenti delle opere filosofiche di Apuleio, precisando l’indirizzo dottrinale seguito dall’autore.

La conferenza-trattato di Apuleio è articolata in tre parti: nella prima si delineano due mondi separati, quello degli dèi, remoto nelle sublimi altezze celesti, e quello degli uomini, confinati nell’infima materialità terrestre; nella seconda si afferma l’esistenza dei demoni, potenze intermedie fra gli dèi e gli uomini, e se ne definiscono caratteri e funzioni. La terza sezione si concentra sul demone di Socrate, la voce interiore (una sorta di oracolo privato) che secondo il racconto di Platone interveniva a distoglierlo dalle azioni destinate a non risolversi in bene.

▰ De mundo Una traduzione, o meglio un rifacimento in lingua latina del trattato pseudoaristotelico Perì kósmou è il De mundo, la cosmologia e la teologia peripatetiche vi si trovano ecletticamente combinati con elementi platonici e stoici.

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PROFILO STORICO

3 Le Metamorfosi ovvero L’asino d’oro Le Metamorfosi: datazione, titolo, fonti e modelli I Metamorphoseon libri sono l’unico romanzo antico in lingua latina a noi pervenuto per intero. Si tratta di un’opera di notevole ampiezza, dove si narrano le avventure di Lucio, un giovane scholasticus bramoso di conoscere e sperimentare i segreti dell’arte magica, che in seguito a un incantesimo “sbagliato” si trasforma in asino. Imprigionato nel corpo animalesco attraversa ogni sorta di peripezie e di travagli, finché il benigno intervento di una divinità, l’egizia Iside, non lo restituisce alla forma umana; riconoscente, egli si consacra per sempre al culto della dea. Nel corso della vicenda principale si inseriscono numerose storie secondarie, secondo la tecnica del racconto “ad incastro” (cfr. il sommario dell’opera a p. 492). Datazione dell’opera Si ignora in quale periodo Apuleio abbia atteso alla composizione dell’opera. Si presume tuttavia, argomentando ex silentio, che non sia stata scritta (o per lo meno pubblicata) prima del processo per magia (158-159 d.C.): se un’opera di tal fatta, vistosamente incentrata su magiche trasformazioni, incanti e stregonerie, fosse già stata nota al pubblico, sarebbe stato inconcepibile che non se ne facesse parola nel corso del dibattimento. Il titolo Nei manoscritti il romanzo di Apuleio reca l’intitolazione Metamorphoseon libri XI; ma fin dall’antichità al titolo “ufficiale” si affianca per tradizione quello di Asinus aureus, attestato per la prima volta nel De civitate Dei di Agostino (XVIII, 18). Non si sa peraltro se l’epiteto aureus alluda alla qualità letteraria del testo o al messaggio religioso che racchiude; ovvero al colore fulvo del mantello dell’asino, o ancora al fatto che Lucio, il personaggio trasformato, è un asino “speciale”, in quanto sotto le spoglie animalesche possiede anima e intelligenza di uomo. Fonti e modelli Indubbiamente i materiali narrativi che Apuleio intreccia nella policroma tessitura del romanzo sono stati attinti a fonti svariate, che non siamo in grado di circoscrivere con precisione. Il motivo della metamorfosi animalesca risale alle più remote tradizioni orali e preletterarie delle civiltà antiche, diramandosi tanto nel patrimonio favolistico-popolare quanto nella produzione letteraria colta, da Omero (l’episodio di Circe nell’Odissea) alla poesia ellenistica alle Metamorfosi di Ovidio, per comparire, in una novella magico-folclorica, anche nel Satyricon [ T3, cap. 5]. Lucio ovvero l’asino dello pseudo-Luciano In particolare, la storia dell’uomo trasformato in asino è argomento di un breve romanzo greco, Lucio ovvero l’asino, tramandato nel corpus delle opere di Luciano di Samosata (neosofista e poligrafo contemporaneo di Apuleio), ma considerato spurio dalla maggior parte degli studiosi. La vicenda coincide sostanzialmente con l’intreccio-base dei primi dieci libri di Apuleio; senonché, secondo quanto afferma il patriarca bizantino Fozio (IX secolo) nella sua Biblioteca, l’operina pseudolucianea potrebbe essere un’epitome dei primi due libri dei Racconti di metamorfosi di un certo Lucio di Patre (l’odierna Patrasso), un autore greco altrimenti sconosciuto, che narravano più estesamente la medesima storia. Impossibile pronunciarsi sui reali rapporti intercorrenti fra 449 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PROFILO STORICO

le tre opere: non è illecito supporre che Apuleio abbia tratto i materiali narrativi di base dallo pseudo-Luciano, integrandoli con altri elementi, in particolare gli inserti novellistici, del tutto assenti nella trama semplice e lineare del Lucio greco.

Guida allo studio

1.

Chi è il protagonista delle Metamorfosi? Traccia un rapido profilo del personaggio. 2. Al titolo “ufficiale” dell’opera si affianca per tradizione un secondo titolo: quale? Come è stato interpretato? Da quale autore proviene la prima attestazione?

3. Indica le fonti e i modelli principali del romanzo di Apuleio. 4. Evidenzia il complesso intersecarsi degli influssi di generi letterari diversi all’interno dell’opera.

Il genere LETTERARIO Reductio ad fabulam ▰ Fabula Milesia Le caratteristiche del Lucio ovvero

l’asino pseudolucianeo – l’intento puramente ludico, il tono scanzonato, la mescolanza di elementi realistici e meravigliosi, la divertita insistenza sulle situazioni erotiche piccanti e scabrose – rimandano al repertorio delle fabulae Milesiae [ cap. 5.3], cui lo stesso Apuleio dichiara apertamente di rifarsi nel prologo (sermone... Milesio varias fabulas conseram [ T2]). Al gusto milesio si ispirano diversi episodi e particolari della vicenda principale, mentre vere e proprie Milesiae vanno considerate non poche fra le insertae fabulae delle Metamorfosi (specie le novelle di beffa e di adulterio del IX libro); impossibile distinguere, naturalmente, quanto sia da attribuirsi all’invenzione dell’autore e quanto derivi invece dalle fonti, dato il naufragio pressoché totale del patrimonio milesio, in greco così come in latino.

▰ Il romanzo ellenistico d’amore e d’avventura Le Metamorfosi, in quanto racconto di una serie “addizionativa” di peripezie a lieto fine, si apparentano anche al romanzo ellenistico eroticoavventuroso [ cap. 5.3]. È stato recentemente osservato che in vari casi lo scioglimento finale della vicenda obbedisce a una convenzione (che ritroviamo, opportunamente modificata, nel romanzo latino di Apuleio): gli amanti si ricongiungono felicemente in seguito all’intervento di una divinità benigna, cui innalzano una devota preghiera di ringraziamento. Nel romanzo di Caritone di Afrodisia, Cherea e Calliroe, si tratta di Afrodite, ma è la stessa Iside in Abrocome e Anzia di Senofonte Efesio.

▰ Incrocio di generi letterari diversi Sarebbe

tuttavia riduttivo cercare di ricondurre le Metamorfosi nell’alveo della Milesia o anche del romanzo ellenistico d’amore e d’avventura. L’opera di Apuleio rivela

infatti, entro una struttura meditata e complessa, una stratificata ricchezza di contenuti e di intenti (culturali, filosofici, religiosi) che va ben oltre i limiti del filone narrativo dichiaratamente prescelto ed esibito. Nelle Metamorfosi, analogamente a quanto si è visto per il Satyricon [ cap. 5.3], confluiscono e si intersecano molteplici influssi di generi letterari diversi, dalla tragedia all’elegia, dall’autobiografia al racconto mitico-filosofico, dal teatro comico alla satira, dal poema epico alla storiografia all’oratoria (e l’elenco potrebbe continuare), come del resto è caratteristico del romanzo antico, forma ibrida e irrequieta che si muove sulle zone di frontiera del sistema letterario, e più in generale della letteratura serio-comica (secondo l’ormai celebre analisi di Bachtin).

▰ «Reductio ad fabulam» Ma se nel romanzo di

Petronio assume notevole (seppure non esclusivo) rilievo l’intento parodistico, il rovesciamento carnevalesco e irridente dei generi letterari “alti”, codificati dalla tradizione, l’operazione di Apuleio, altrettanto raffinata e consapevole, appare per certi aspetti diversa. Secondo quanto osserva Gian Franco Gianotti in un suo importante studio sulle Metamorfosi [ T2 Leggere un testo critico], l’autore concentra nella sua opera un’immensa quantità di temi e motivi di provenienza illustre, riducendoli programmaticamente alla misura della fabula, cioè di un genere letterario minore, da sempre ai margini della cultura ufficiale, destinato a un pubblico nuovo e più ampio di lettori non professionisti, sviluppatosi nel corso del II secolo. Altri studiosi ritengono invece che l’autore, attraverso una fittissima rete di sofisticate allusioni letterarie, si rivolga ad un pubblico di lettori estremamente colti. Sembra ragionevole concludere che Apuleio orchestri la sua opera con magistrale ambivalenza, giocando su (almeno) due diversi livelli di lettura, consentiti dalla poliedrica disponibilità di una forma aperta qual è il “romanzo”.

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PROFILO STORICO

Le Metamorfosi: strutture del racconto e tecniche narrative Strutture della narrazione Dal punto di vista strutturale il romanzo si articola in tre sezioni ben distinte, di ampiezza diseguale, scandite da due episodi simmetrici che segnano le svolte cruciali della vicenda, cioè le due metamorfosi del protagonista (III, 21-25 [ T4]; XI, 13 [ T10]). Libri I-III: curiositas e magia Il primo “blocco” narrativo, che corrisponde ai libri I-III, presenta una struttura piuttosto organica e coerente, impostata sullo schema del viaggio (narrativamente illustre, dall’archetipo omerico al romanzo ellenistico); tema dominante, la magia, presentata fin dall’inizio sotto una luce ambigua, come una realtà misteriosa e affascinante che può celare terribili insidie. Anche lo sviluppo della vicenda in questa fase è relativamente lineare. Lucio arde dal desiderio di penetrare i segreti dell’arte magica e persegue temerariamente questo suo obiettivo, incurante di avvertimenti e premonizioni, finché la curiositas non lo conduce alla perdita della forma umana. In questa prima parte del romanzo il modello cui l’autore si ispira più da vicino è il Satyricon, per l’evidente affinità di situazioni, figure, sfondi ambientali (ad esempio, il banchetto in casa di Birrena, cornice conviviale al racconto di Telifrone [ T3 ONLINE ], richiama la Cena Trimalchionis e gli inserti novellistici d’argomento magico “orrido” [ T3, cap. 5]. Libri IV-X: avventure “picaresche” di Lucio-asino Diversa appare invece l’articolazione dell’amplissima sequenza centrale, caratterizzata da una struttura narrativa tendenzialmente “debole”, che può essere definita “paratattica” o “a schidionata”: gli episodi si susseguono uno dopo l’altro in modo imprevedibile e fortuito, collegati fra loro unicamente dalla presenza dell’asino. Quest’ultimo, passando successivamente nelle mani di numerosi proprietari, attraversa una serie di peripezie costellate di colpi di scena sullo sfondo degli ambienti più diversi, esposto ad ogni sorta di maltrattamenti e di pericoli. Metamorfosi del protagonista e della tecnica narrativa Il mutamento nella tecnica del racconto corrisponde dunque alla metamorfosi subita dal protagonista; l’apparente disordine narrativo riflette la sostanza caotica del mondo, l’irrazionalità e la disarmonia dell’universo sociale, e per converso l’impossibilità, da parte dell’uomo-asino, di controllare gli accadimenti e di modificare la propria situazione, che diviene sempre più miserevole fino a toccare il fondo della sofferenza e della degradazione. Un itinerario conoscitivo: il parallelo con Ulisse Unica consolazione per Lucio, osservare, celato sotto le spoglie asinine, ciò che accade intorno a lui, e tendere le sue lunghe orecchie a captare ogni sorta di racconti: non a caso è in questo secondo “blocco” narrativo che si concentra il maggior numero di inserti novellistici. Ecco allora che la forzata passività di Lucio scopre un’inopinata valenza positiva, e la storia dell’uomo-asino (prototipo di ogni «romanzo di formazione») può configurarsi esplicitamente come una sorta di Odissea “minore”, un’avventura conoscitiva resa possibile dall’assunzione di una prospettiva straniata [ T8, Lettura e interpretazione]. 451 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PROFILO STORICO

Libro XI, isiaco e misterico La sezione conclusiva del romanzo comprende il solo libro XI, nel quale Lucio viene tratto a salvamento da Iside e iniziato ai misteri. In apertura, l’apparizione della dea [ T9 ONLINE], con l’annuncio della nuova, imminente metamorfosi del protagonista, segna un mutamento radicale nell’atmosfera e nei toni della narrazione, ora pervasa di misticismo e di religiose simbologie. Anche l’andamento narrativo appare assai diverso: il vorticoso susseguirsi degli episodi, fitti di vivaci inserti dialogici, lascia il posto a un racconto quasi privo di azione così come di dialogo. Unico evento di spicco, la metamorfosi [ T10], seguita da un resoconto (doverosamente) ellittico e reticente delle iniziazioni ai misteri. Lo spazio che nei libri precedenti era gremito dagli accidenti di una realtà quotidiana fin troppo rude e concreta (seppure continuamente attraversata dalle interferenze del soprannaturale magico e meraviglioso) viene ora occupato dal sogno, dalla visione, dai rituali del culto, dai commenti edificanti e parenetici del neofita entusiasta. Dietro la figura del protagonista-narratore (Lucio), che si diffonde in minuziosi ragguagli autobiografici, si profila insensibilmente quella del narratore-autore (Apuleio), che scopre il suo sottile gioco di identificazione-distanziamento quasi alla fine (XI, 27), allorché a Roma il sacerdote di Osiride Asinio Marcello dichiara che il dio, manifestando in sogno la sua volontà, lo aveva avvertito che sarebbe venuto a lui «un cittadino di Madaura»: dunque Apuleio stesso e non più Lucio, che fin dall’inizio del romanzo si era dichiarato greco, di lingua e di stirpe [ T2].

Rilievo con giovane adepto del culto di Iside, IV secolo. Ostia, Museo Archeologico.

Svelamento retrospettivo: un racconto iniziatico Appena si è compiuta la nuova metamorfosi di Lucio, il sacerdote di Iside pronuncia un discorso che getta retrospettivamente una nuova luce sull’intera vicenda, svelandone il vero significato [ T10]. Allora – e soltanto allora – tutto quanto ci è stato narrato in precedenza sembra trascolorare e assumere le connotazioni di una vasta allegoria, o meglio del racconto esemplare di un percorso iniziatico. Lucio si è macchiato di bassa sensualità (gli amori con Fotide) e di sacrilega curiositas (la pretesa di addentrarsi nei segreti dell’universo mediante torbide pratiche magiche); alla caduta è seguita l’espiazione entro un corpo animalesco, infine il riscatto, non per suo merito ma per la benevolenza di Iside, divinità potente e salvifica, che si è mossa a pietà chiamandolo a una nuova vita in seno alla comunità degli adepti. È precisamente a questo punto che diventiamo «lettori per la seconda volta» (Winkler): ci volgiamo indietro a ri-considerare l’intrico delle vicende narrate, le vediamo comporsi finalmente in un disegno unitario, e scopriamo (o ricordiamo) che tutto il cammino del romanzo era disseminato di segnali più o meno evidenti, che ora possiamo interpretare perché il discorso del sacerdote di Iside ce ne ha fornito la chiave. A cominciare da un elemento strutturale, il numero insolito dei libri (undici), che ha un evidente valore simbolico: dieci erano i giorni di preparazione prescritti al neofita dei misteri isiaci; l’undicesimo, secondo il cerimoniale, era il giorno dell’iniziazione.

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PROFILO STORICO

Insertae fabulae In seguito all’improvvisa rivelazione, assumono un nuovo significato sia la disposizione, studiatamente simmetrica, sia il contenuto delle insertae fabulae, cioè le novelle incastonate nel racconto principale, che mostrano ora in piena luce il loro rapporto con la vicenda del protagonista. Due novelle di magia (libri I-III) Nei primi tre libri, si incontrano due novelle di magia pervase di un’atmosfera inquietante – la storia di Aristomene e quella di Telifrone – entrambe concluse con la morte o la rovina dei protagonisti, che certo racchiudono un monito a guardarsi dalle insidie occulte ma terribili dell’arte magica. In particolare, nel racconto di Telifrone [ T3 ONLINE ] si addensa una fitta costellazione di motivi fondamentali nell’intera opera, da quello della curiositas a quello della metamorfosi (la donnola-strega), così che la novella appare per molti versi specchio e anticipazione di quanto sta per accadere all’incauto Lucio. Storie di briganti, d’adulterio, di delitti (libri IV-X) Analogamente, nella seconda sezione narrativa (libri IV-X), quasi a scandire la catabasi iniziatica del protagonista nei meandri della corruzione e dell’insensata malvagità umana, troviamo in successione tre racconti, violenti e sanguinosi, di briganti, poi il “romanzo tragico” di Carite e Tlepolemo, infine tre ampie storie di fatti delittuosi e foschi, conteste di episodi d’adulterio, magia nera, avvelenamento, incesto (cui peraltro si alternano inserti di tono più leggero, maliziosamente divertenti, nello stile delle Milesiae). La fabella di Amore e Psiche Ma è soprattutto la lunghissima novella di Amore e Psiche [ T5 ONLINE; T6; T7 ONLINE], posta esattamente al centro della compagine narrativa (IV, 28-VI, 24), ad imporsi quale proiezione e anticipazione, in chiave fiabesca e mitologica, della vicenda di Lucio. Restano tuttora avvolte nel mistero le origini del mito di Amore e Psiche, che da secoli appassiona gli studiosi di antropologia e filosofia, delle religioni e del folclore, oltre che, naturalmente, della letteratura. Innumerevoli le interpretazioni proposte; importa qui sottolineare che, nel corso dei primi dieci libri, l’unico elemento atto ad insinuare nel lettore delle Metamorfosi il sospetto di avere fra le mani un romanzo “a chiave”, è proprio la storia di Psiche.

Amore e Psiche, II secolo d.C. Roma, Musei Capitolini.

Lucio e Psiche Il parallelismo fra le due vicende, quella di Lucio e quella di Psiche, è trasparente: «Lucio presta orecchio, mentre la storia viene narrata a Carite, ignaro di ascoltare il racconto della propria vita e della propria futura liberazione. Anch’egli è stato sedotto dalla curiosità e deve affrontare un faticoso pellegrinaggio, ma Iside lo libererà come Amore libera Psiche. Anch’egli dovrà scendere all’Ade nel contesto del simbolismo dei misteri egiziani, e il frutto della sua mistica unione con Iside sarà l’inexplicabilis voluptas [XI, 24; Voluptas è la figlia di Psiche e di Amore], un piacere che non è possibile 453 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PROFILO STORICO

svelare. Il libro XI contiene ripetuti riecheggiamenti della storia di Psiche, a sottolineare che il rapporto di Lucio con Iside dopo le sue peregrinazioni ripropone l’apoteosi di Psiche stessa» (Walsh). Come Platone aveva fatto ricorso al racconto mitico per rendere accessibili ardui concetti filosofici, così Apuleio sembra adombrare nella bella fabella l’itinerario dell’anima (psyché in greco significa appunto «anima») attraverso il mondo terrestre e materiale, dominato dall’irrazionalità e dal caso, per ricongiungersi al principio divino.

Guida allo studio

1.

Descrivi la struttura delle Metamorfosi, distinguendo i tre “blocchi” narrativi fondamentali. Quali episodi segnano il passaggio da una sezione all’altra? 2. Si registrano mutamenti significativi nella tecnica del racconto? Sapresti indicarne le motivazioni? 3. Alla seconda metamorfosi di Lucio corrisponde uno “svelamento

retrospettivo”: quali nuovi significati assume a questo punto l’intera vicenda narrata in precedenza? 4. Con l’ausilio del sommario dell’opera illustra la tecnica del racconto “ad incastro”, citando le insertae fabulae più significative e cercando di individuare il nesso che le collega alla vicenda principale.

Le Metamorfosi: il dibattito critico sull’unità del romanzo Interpretazione “teleologica”: unità del romanzo Avallando senza riserve l’interpretazione “teleologica” della vicenda che emerge dal discorso del sacerdote di Iside, diversi studiosi si sono adoperati a ricondurre l’intera narrazione sotto il segno unificante del messaggio religioso. Tra i sostenitori della tesi unitaria spicca Reinhold Merkelbach, che interpreta puntualmente ogni episodio, addirittura ogni particolare del racconto quale prefigurazione allusiva e simbolica dell’XI libro, leggendo le Metamorfosi come un «libro isiaco» (Isis-buch), romanzo mistico che traveste in forma narrativa il percorso rituale dell’iniziato, a sua volta rievocazione e “ripetizione” del sacro mito di Iside e di Osiride. Altri interpreti, all’opposto, sono giunti persino a negare l’esistenza di un qualsivoglia rapporto fra il complesso della narrazione e l’ultimo libro, visto come una sorta di appendice incongruente e artificiosa. Il dibattito critico sulla questione dell’unità del romanzo, recentemente arricchito dai contributi delle moderne letture narratologiche, resta tuttora aperto.

Guida allo studio

1.

Un dibattito critico tuttora aperto riguarda l’unità del romanzo. Esponi i termini della questione, enunciando gli argomenti più significativi pro e contro la tesi unitaria.

2. Che cosa significa l’espressione «interpretazione teleologica»? 3. Per quali ragioni si può parlare di una persistente ambiguità delle Metamorfosi?

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PROFILO STORICO

Persistente ambiguità delle Metamorfosi Occorre in ogni caso prendere atto di una ben avvertibile distonia o dissonanza, di una sorta di iato fra i primi dieci libri e l’undicesimo che nessuna proposta interpretativa “teleologica” e unitaria riesce realmente a colmare. Nelle Metamorfosi, opera composita e problematica, confluiscono istanze diverse: da una parte il libero piacere del raccontare, proprio della narrativa d’intrattenimento e di evasione, che predomina nel resoconto delle avventure dell’uomo-asino, per culminare nelle Milesiae del IX libro; dall’altra il messaggio religioso, che pervade esplicitamente l’XI libro. Intento edificante e misticismo convivono accanto all’elemento comico e ludico, in una mistione di toni che conserva qualcosa di sfuggente e di misterioso, forse il motivo più forte del persistente, ambiguo fascino dell’opera.

Le Metamorfosi: lingua e stile Una tessitura linguistica iridescente e sontuosa Alla varietà dei toni e dei registri narrativi fa riscontro una tessitura linguistica iridescente e sontuosa, lavorata con la finezza di un «cesellatore raro, e forse unico» (Marchesi) della forma espressiva. Apuleio si forgia una lingua personalissima, composita e squisitamente artificiosa, attingendo alle risorse di un’immensa tradizione letteraria così come ai linguaggi tecnici e ai vari livelli del parlato. L’autore delle Metamorfosi accosta e fonde sulla sua pagina neologismi (talora coniazioni di parole nuove, più spesso vocaboli già esistenti cui viene attribuito un significato inedito), arcaismi cari al gusto della sua epoca, diminutivi nello stile dei novelli, poetismi, forme del sermo cotidianus (sempre letterariamente filtrate, non già adibite a una funzione mimetica di caratterizzazione realistica). Virtuosismo retorico e strutture della prosa Il virtuosismo retorico del neosofista latino si rivela anche qui in una profusione di figure e di ingegnosi artifici: ricercate metafore, ossimori, antitesi concettose, iperbati. Nel periodare tendono a prevalere le strutture paratattiche; ai nessi tradizionali subentrano legami participiali (tipici della prosa postclassica) e soprattutto elaboratissimi richiami fonico-ritmici (assonanze, allitterazioni, omoteleuti). Poikilía, abundantia, arte allusiva La poikilía (= varietas) e una fastosa, sensuale, “barocca” abundantia sono le caratteristiche più appariscenti di questo stile pittorico e musicale, virtuosisticamente modulato grazie a “dosaggi” sempre diversi, intarsiato di continui richiami allusivi ad autori delle più varie epoche, specialmente dei poeti (da Lucrezio agli elegiaci), intonati alle differenti atmosfere e situazioni del romanzo: per fare soltanto un esempio, nella discesa di Psiche all’Ade riecheggiano espressioni e stilemi virgiliani (ovviamente il riferimento è al VI dell’Eneide).

Guida allo studio

1.

Quali sono le caratteristiche salienti della lingua e dello stile di Apuleio?

2. Spiega l’esatto significato delle seguenti espressioni: poikilía, abundantia, arte allusiva.

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PROFILO STORICO

Apuleio

nel TEMPO

I contemporanei Apuleio ebbe già in vita IX, 14-28), e quella di Peronella (VII, 2; da Met. onori e fama: secondo quanto attesta egli stesso (Flor. 16), gli furono tributati pubblici riconoscimenti e dedicate statue in Cartagine e altrove. Possiamo ancora leggere un’iscrizione latina, ritrovata a Madaura, in cui la cittadinanza celebra un philosophus Platonicus, senza dubbio Apuleio stesso.

Tarda antichità e Medioevo: Apuleio mago e taumaturgo Anche in seguito la fortuna di Apuleio non conobbe interruzioni. La fama di mago, demonologo e taumaturgo, affidata soprattutto alle opere filosofiche e all’Apologia, accompagna per secoli, fin nel cuore dell’età medievale, il suo nome.

Asinus aureus: fortuna del romanzo È Agostino, come si è visto, a fornirci la più antica testimonianza del titolo vulgato dei Metamorphoseon libri (Asinus aureus), letti e apprezzati con continuità specialmente dal V secolo in poi: Marziano Capella, nei primi due libri De nuptiis Mercurii et Philologiae, si ispira alla descrizione dello sposalizio di Amore e Psiche nello scenario del palazzo incantato, mentre l’africano Fulgenzio nelle sue Mythologiae dà inizio alla tradizione esegetica della favola in chiave allegorica.

Preumanesimo trecentesco Ma la grande fortuna del romanzo apuleiano ha inizio nel XIV secolo, in ambiente preumanistico, per continuare, ininterrotta e sempre crescente, nell’età moderna. Petrarca lo conosce bene; Boccaccio scopre a Montecassino, verso il 1338, il codice del secolo XI da cui dipende tutta la nostra tradizione manoscritta (circa 40 esemplari). L’autore del Decameron ne trasse, oltre a vari spunti di tecnica narrativa e di stile, due novelle particolarmente piccanti e licenziose: quella di Pietro di Vinciolo (V, 10; da Met.

IX, 5-7).

Umanesimo e Rinascimento Precocissima la prima edizione a stampa delle Metamorfosi, l’in-folio romano del 1469 che Huysmans immagina fra i tesori della biblioteca di Des Esseintes; di poco posteriore la prima traduzione in volgare italiano, ad opera di Matteo Maria Boiardo (1478-79), pubblicata intorno al 1518. Sul limitare del nuovo secolo, risente dell’originale impasto linguistico apuleiano un’opera singolare, l’Hypnerotomachia Poliphili (1499) di Francesco Colonna, che sulla linea narrativa di un sogno, insieme delirio erotico e iniziazione mistica, innesta raffinatissimi riferimenti eruditi (dalla musica alle arti figurative, dall’astrologia all’alchimia). Del 1500 è il primo commento a stampa dell’opera, che si deve all’umanista Filippo Beroaldo il Vecchio. In varia misura il romanzo influenza la ricca produzione novellistica quattro-cinquecentesca. Del 1525 è l’Asino d’oro di Agnolo Firenzuola, una spregiudicata rielaborazione dei primi dieci libri di Apuleio che l’autore adatta a sé e ai suoi tempi.

Il secolo del Barocco e le riprese settecentesche Fin dal Cinquecento si erano avute numerose traduzioni delle Metamorfosi nelle principali lingue europee; il fenomeno si intensifica ulteriormente nel secolo seguente, il secolo del Barocco, in cui il romanzo conosce uno straordinario successo. Il canto IV dell’Adone di Giovan Battista Marino (1623) è interamente dedicato alla favola di Amore e Psiche. Anche la novella di Cianna alla ricerca dei fratelli nel Pentamerone (ovvero Lo cunto de li cunti) di Giambattista Basile, pubblicato postumo nel 1634-1636, riprende vari spunti dalla fabella delle Metamorfosi. In Inghilterra, «la sontuosa e decorativa tessitura della lingua di Apuleio tro-

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PROFILO STORICO

vò imitatori nei romanzi eufuistici di Lyly e dei suoi successori» (Walsh).

Ininterrotta fortuna di Amore e Psiche Una delle più apprezzate liriche di Ludovico Savioli, elegante rimatore fra Arcadia e Neoclassicismo, si intitola Amore e Psiche; ma a conferma dell’ininterrotta suggestione esercitata della novella apuleiana si potrebbero citare ancora i nomi di Calderón, Chiabrera e La Fontaine, inoltrandoci fino al Keats dell’Ode to Psyche, senza contare le riprese nell’ambito delle arti figurative, dagli affreschi della scuola di Raffaello nelle Logge della Farnesina e di Giulio Romano nel Palazzo Te di Mantova («Sala di Psiche») alla tela di David (1817) e al gruppo marmoreo del Canova. Occorre ricordare inoltre che lo schema di base della bella fabella ricorre in innumerevoli versioni nel vasto patrimonio delle fiabe popolari, tanto che fra le classificazioni operate dagli studiosi del folclore figura un “tipo Amore e Psiche”.

Dal romanzo picaresco al Bildungsroman Notevolissimo l’influsso delle Metamorfosi sul romanzo picaresco spagnolo, racconto in prima persona delle peripezie di un personaggio-protagonista che gira il mondo, studente itinerante o giovane servitore che cambia spesso padrone. Il filo conduttore che collega i vari episodi coincide con la vita stessa del narratore, il quale attraversa le più disparate esperienze sullo sfondo di un variopinto scenario storico-sociale, rappresentato con vivace, talora crudo realismo, non di rado sospinto ad esiti grotteschi e caricaturali. Fra i titoli più famosi si possono citare l’anonimo Lazarillo de Tormes (1554) e la Vida del buscón («Vita del pitocco» o «del furfante», 1626) di Francisco Quevedo. Eredi dei pìcari spagnoli saranno poi L’avventuroso Simplicissimus (1669) del tedesco Hans Jakob Grimmelshausen, Gil Blas de Santillana (1715-1735) del francese Alain-René Lesage, Tom Jones dell’inglese Henry Fielding (1749). Ma se tra Cinque e Settecento predomina l’interesse per gli elementi avventurosi e realistici delle Metamorfosi (il romanzo come osservatorio

della vita umana), con il Romanticismo tedesco balzano in primo piano gli aspetti mistici ed iniziatici, che esercitano un potente influsso sul «romanzo di formazione» (Bildungsroman) caratteristico dell’epoca, quale il Wilhelm Meister di Goethe (la seconda redazione si situa fra 1795 e 1796) o l’Heinrich Von Ofterdingen di Novalis (1798-1801).

Narrativa dell’Ottocento e del Novecento Leggono attentamente Apuleio gli autori della narrativa ottocentesca, tanto sul versante realistico (Flaubert) quanto su quello decadente, “nero” e “diabolico” (Huysmans, Barbey d’Aurevilly). Nel suo Mario l’Epicureo (anch’esso un particolare «romanzo di formazione»), Walter Pater dedica un intero capitolo alle Metamorfosi, «libro d’oro» [ T6 Sullo scaffale].

Il personaggio “trasformato” Dalle Metamorfosi discende anche il filone narrativo che vede come protagonista un personaggio “trasformato”, dal Pinocchio di Collodi (18801883), che rivela puntuali, persino clamorose coincidenze (al di là della trasposizione in un linguaggio e in un contesto “infantili”) con il modello apuleiano, al racconto di Kafka intitolato appunto La metamorfosi (1916).

Ambiguità e modernità delle Metamorfosi Il romanzo di Apuleio continua a manifestare la sua vitalità storica si può ben dire fino ai nostri giorni: grandi scrittori, negli ultimi due secoli, sono stati attratti dalla cangiante ricchezza dei registri linguistici e stilistici, dalla maestria della tecnica narrativa, dalla sconcertante mescolanza di elementi seri e comici. È nel segno di una profonda ambiguità che le Metamorfosi continuano ad influenzare la letteratura moderna, soprattutto quella percorsa da tensioni irrazionalistiche e visionarie, da suggestioni iniziatiche e mistico-simboliche, così come da umori grotteschi, “neri” e satirici: si pensi soltanto a due capolavori come il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki e Il Maestro e Margherita di Bulgakov [ T10 e T4 Sullo scaffale].

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

Le Metamorfosi ovvero L’asino d’oro

PROFILO STORICO

Libri I-III, 25 Lucio in Tessaglia: storie di magia

Dopo il breve prologo ha inizio il racconto del protagonista: in viaggio verso Ipata, città della Tessaglia, Lucio si accompagna per un tratto a due viandanti, uno dei quali narra una terrificante vicenda di stregoneria (Storia di Socrate e di Aristomene). Giunto a destinazione, è ospitato dal ricco usuraio Milone, che vive con la moglie Pànfile, segretamente dedita alle arti magiche, e con la graziosa servetta Fòtide. Il giorno dopo, per le strade di Ipata, incontra Birrena, parente di sua madre, che lo invita al suo palazzo e lo mette in guardia dalle malefiche arti di Panfile; in un banchetto a casa di Birrena Lucio ascolta una nuova storia di magia (Storia di Telifronte [ T3 ONLINE ]). Nottetempo trafigge tre individui sospetti che vede assaltare il portone della casa di Milone; accusato di triplice omicidio, Lucio deve difendersi in un processo sconcertante, nel teatro cittadino, con un pubblico che ride a crepapelle: si scopre alla fine che i cadaveri erano solo pupazzi, e lo scherzo giocato a Lucio era in omaggio alla festa del dio Riso. Successivamente Lucio, che ha intrecciato una relazione con Fotide, riesce ad assistere alla metamorfosi di Panfile in uccello; chiede a Fotide l’unguento magico, ma la serva sbaglia vasetto e Lucio si trasforma in asino. Fotide lo rassicura: potrà annullare la metamorfosi sbagliata mangiando delle rose [ T4].

Libri III, 26-X Peripezie di Lucio

Divenuto «asino completo» (perfectus asinus), ma con intelligenza e sensibilità umane, Lucio è relegato nella stalla, finché una banda di predoni fa razzia in casa di Milone e porta via Lucio-asino carico di bottino in una caverna tra i monti. Altri briganti giungono, raccontando le loro furfantesche imprese (Storie di Lamaco, di Alcimo e di Trasileone); da una nuova spedizione i briganti portano come ostaggio la giovane Càrite, in preda alla disperazione, rapita il giorno delle nozze: è per consolare lei che una vecchia decrepita e ubriacona racconta la lunghissima favola di Amore e Psiche (IV, 28-VI, 24), che riportiamo integralmente, divisa in tre sezioni: T5 ONLINE , T6, T7 ONLINE . Dopo un fallito tentativo di fuga di Lucio con Carite in groppa, giunge a liberarli il promesso sposo di Carite, Tlepòlemo. Lucio, a cui Carite ha promesso di tenerlo sempre con sé e di trattarlo con ogni attenzione, viene

mandato nei possedimenti in campagna, dove però la moglie del custode lo lega alla macina del mulino e lo bastona senza pietà. Quando giunge la notizia della tragica morte di Tlepolemo e di Carite (il primo ucciso da un rivale, la seconda suicida dopo aver vendicato il marito: Storia di Tlepolemo, Carite e Trasillo), i servi fuggono trascinandosi dietro le bestie da soma. Dopo altre avventure Lucio finisce in mano a sedicenti sacerdoti itineranti della dea Siria, cinedi imbroglioni che lo usano per trasportare gli arredi sacri della dea (qui egli ascolta la Storia dell’amante nascosto in una giara); quando questi vengono smascherati, Lucio è venduto a un mugnaio, e di nuovo attaccato alla macina, dove si consola ascoltando ogni sorta di racconti, tra cui tre storie di adulterio (Storia del mugnaio e dell’amante della moglie; Storia di Filesitero; Storia della moglie del tintore). I sortilegi della moglie inducono il mugnaio al suicidio, e Lucio passa nelle mani prima di un ortolano, poi di un soldato, poi ancora di un consigliere municipale, e infine di due fratelli, uno cuoco e l’altro pasticciere, servi di un ricco signore di Corinto. Colto in flagrante a divorare nottetempo cibarie prelibate, Lucio finisce per dare spettacolo nella casa del padrone, mentre mangia e beve come un essere umano: divenuto famoso come animale-prodigio, è condotto dal padrone a esibirsi nel circo di Corinto, dove dovrà unirsi con una donna condannata a morte (Storia di una gelosa assassina). Terrorizzato, Lucio fugge in un galoppo disperato fino al lido di Cencrea, dove si addormenta sfinito.

Libro XI Lucio ritorna uomo: i misteri di Iside

Risvegliatosi, Lucio si purifica nelle acque del mare, innalza una fervida preghiera alla Luna e poi si riaddormenta; allora gli si rivela in sogno Iside, la dea dai molti nomi, che gli annuncia la fine dei travagli se seguirà le sue istruzioni: l’indomani, alla festa annuale in onore di Iside, dovrà cibarsi della corona di rose recata da un sacerdote, e potrà riprendere forma umana. In cambio si consacrerà per sempre al culto della dea [ T9 ONLINE ]. Lucio segue le istruzioni e il sacerdote gli svela il significato delle sue peripezie, invitandolo a entrare nella comunità degli adepti [ T10]. Iniziato a Corinto ai misteri di Iside, Lucio in seguito si trasferisce a Roma, dove viene iniziato anche ai misteri di Osiride, fino a diventare sommo sacerdote.

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PROFILO STORICO

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

LEGGERE UN TESTO CRITICO • R.E. Witt, Diffusione del culto di Iside nel Mediterraneo BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Edizioni Apologia, a cura di C. Marchesi, Zanichelli, Bologna 1955; L’asino d’oro, a cura di P. Frassinetti, Mursia, Milano 1968; Metamorfosi, a cura di P. Scazzoso, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1971; L’asino d’oro, introd. di F. Roncoroni, trad. e note di N. Marziano, Grandi Libri Garzanti, Milano 1974; La magia, a cura di B. Mosca, Le Monnier, Firenze 1974; Le metamorfosi o L’asino d’oro, introd. di R. Merkelbach, premessa al testo di S. Rizzo, trad. di C. Annaratone, Rizzoli (BUR), Milano 1977; L’apologia, o la magia. Florida, a cura di G. Augello, UTET, Torino 1984; Metamorfosi (L’asino d’oro), a cura di M. Cavalli, Oscar Mondadori, Milano 1988; La magia, a cura di C. Moreschini, Rizzoli (BUR), Milano 1990; De mundo, a cura di M. G. Bajoni, Studio Tesi, Pordenone 1991; Il demone di Socrate, a cura di B. M. Portogalli Cagli, Marsilio, Venezia 1992; Sulla magia, a cura di C. Viareggi, Oscar Mondadori, Milano 1994; Le novelle dell’adulterio (Met.

IX), a cura di S. Mattiacci, Le Lettere, Firenze 1996; La novella di Amore e Psiche, a cura di D. Piccini, prefazione di P. Lagazzi, Medusa, Milano 2005. � Studi Per un’introduzione alle Metamorfosi: E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, I, Torino 1964, pp. 69-72; G.F. Gianotti, “Romanzo” e ideologia. Studi sulle «Metamorfosi» di Apuleio, Liguori, Napoli 1986; L. Graverini, Le «Metamorfosi» di Apuleio: Letteratura e Identità, Pacini, Pisa 2007. S u l l a s t r u t t u r a n a r r at i va delle Metamorfosi: L. Sanguineti White, Apuleio e Boccaccio. Caratteri differenziali nella struttura narrativa del «Decameron», Ed.I.M., Bologna 1977. Sulla fiaba di Amore e Psiche: T. Mantero, Amore e Psiche. Struttura di una fiaba di magia, Pubblicazioni dell’Istituto di filologia classica dell’Università di Genova 1973; C. Moreschini, Il mito di Amore e Psiche in Apuleio, D’Auria, Napoli 1994; S. Cavicchioli,

Le metamorfosi di Psiche. L’iconografia della favola di Apuleio, Marsilio, Venezia 2002; E. J. Kenney, Cupid and Psiche, Cambridge University Press 2008. Sulle fabulae Milesiae: A. Mazzar ino, La Milesia e Apuleio, Chiantore, Torino 1950. Fonti e modelli: V. Ciaffi, Petronio in Apuleio, Giappichelli, Torino 1960; G. Bianco, La fonte greca delle «Metamorfosi» di Apuleio, Claudiana, Brescia 1971; V. Ciaffi, Il romanzo di Apuleio e i modelli greci, Pitagora, Bologna 1983. Sulle dottrine religiose presenti nell’opera di Apuleio: F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1968, pp. 217-241; C. Moreschini, A p u l e i o e i l P l a t o n i s m o, Olschki, Firenze 1978. Sulla fortuna di Apuleio: E. Fumagalli, Matteo Maria Boiardo volgarizzatore dell’«Asino d’oro». Contributo allo studio della fortuna di Apuleio nell’Umanesimo, Antenore, Padova 1988.

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

Sintesi

PROFILO STORICO

S

Apuleio Apuleio nasce verso il 125 d.C. a Madaura, nella provincia romana d’Africa. Compie i suoi studi a Cartagine, poi ad Atene. Coltiva le più svariate discipline, mirando a conseguire una cultura enciclopedica, coronata dalla conoscenza della filosofia, culmine di ogni sapere secondo l’indirizzo dottrinale che ha abbracciato, il medioplatonismo teosofico e misticheggiante. Viaggia a lungo, esercitando l’attività di pubblico conferenziere nei modi della Nuova Sofistica; viene iniziato a un gran numero di culti misterici. Nel 155 o 156 ad Oea, l’odierna Tripoli, sposa una ricchissima vedova; tre anni dopo, tratto in giudizio dai parenti della moglie sotto l’accusa di averla indotta al matrimonio mediante arti magiche, pronuncia la propria brillante autodifesa, la cosiddetta Apologia o De magia. Torna verosimilmente a stabilirsi a Cartagine, dove continua la sua carriera di oratore e riceve pubblici riconoscimenti. Dopo il 170 non si ha più notizia di lui. Caratteristico esempio di intellettuale cosmopolita e bilingue dell’epoca, conosce perfettamente entrambe le lingue di cultura dell’impero, il greco e il latino. Numerose opere di Apuleio sono andate perdute; nulla si è salvato della produzione in lingua greca. Per contro, sotto il suo nome ci sono giunte opere non autentiche. Oltre all’Apologia, si sono conservati i Florida (una raccolta di brani oratorii), diversi trattati filosofici e i Metamorphoseon libri XI («Le Metamorfosi»), ovvero Asinus aureus («L’asino d’oro»), unico romanzo latino a noi pervenuto integro. Le Metamorfosi narrano le avventure di Lucio, un giovane scholasticus bramoso di conoscere e sperimentare i segreti dell’arte magica, che in seguito a un incantesimo “sbagliato” si trasforma in asino. Imprigionato nel corpo animalesco attraversa ogni sorta di peripezie finché il benigno intervento di una divinità, l’egizia Iside, non lo restituisce alla forma umana; riconoscente, egli si consacra per sempre al culto della dea. Nel corso della vicenda principale si inseriscono “ad incastro” numerose storie secondarie, tra cui la bella fabella di Amore e Psiche. I materiali narrativi sono attinti a fonti svariate; il motivo della metamorfosi animalesca discende dalle più remote tradizioni orali delle civiltà antiche, per diramarsi poi nella letteratura colta (da Omero a Ovidio al Satyricon) così come nel patrimonio favolistico popolare. È l’autore stesso a indicare nella fabula Milesia il genere di appartenenza della sua opera, che presenta analogie anche con

il romanzo ellenistico d’amore e d’avventura; ma nelle Metamorfosi confluiscono e si intersecano molteplici influssi di generi letterari diversi, come è caratteristico del romanzo antico. La struttura del romanzo si articola in tre sezioni ben distinte, scandite dai due simmetrici episodi di metamorfosi del protagonista. Il primo blocco (libri I-III), impostato sullo schema del viaggio e strutturalmente abbastanza organico, narra le avventure di Lucio in Tessaglia, terra di streghe e di magia, finché la curiositas non lo conduce alla perdita della forma umana. L’amplissima sequenza centrale (libri IV-X) presenta invece una struttura narrativa “debole”, paratattica: gli episodi si susseguono uno dopo l’altro in modo fortuito, collegati solo dalla presenza dell’asino. La sezione conclusiva comprende il solo libro XI, nel quale Lucio viene tratto a salvamento da Iside e iniziato ai misteri. Compiuta la nuova metamorfosi, un discorso del sacerdote di Iside getta retrospettivamente luce sull’intera vicenda, che viene a configurarsi come il racconto esemplare di un percorso iniziatico. Dal punto di vista critico-interpretativo, le Metamorfosi hanno sollecitato un ampio dibattito, centrato soprattutto sulla questione dell’unità del romanzo: alcuni studiosi vogliono ricondurre l’intera narrazione sotto il segno unificante del messaggio religioso; altri interpreti, all’opposto, hanno negato l’esistenza di qualsiasi rapporto fra i primi dieci libri e l’ultimo, visto come una sorta di incongruente e artificiosa appendice. Occorre in ogni caso prendere atto di una sorta di iato fra il complesso narrativo dei primi dieci libri e l’undicesimo, che nessuna interpretazione unitaria riesce a colmare. Le Metamorfosi restano dunque un’opera composita e problematica, nella quale confluiscono istanze diverse: da una parte il libero piacere del raccontare, proprio della narrativa di intrattenimento, che predomina nella lunga serie di avventure dell’uomo-asino e negli inserti novellistici; dall’altra il messaggio religioso, che pervade il libro XI. Intento edificante e misticismo convivono accanto all’elemento comico e ludico, in una mistione di toni che conserva aspetti sfuggenti e misteriosi, con il persistente fascino dell’ambiguità. Alla varietà dei registri e dei toni narrativi corrisponde una sontuosa, raffinatissima tessitura linguistica e stilistica caratterizzata da varietas, abundantia, virtuosismo retorico, ed intarsiata di continui richiami allusivi ad autori e opere delle più varie epoche.

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Percorso antologico Apologia T1

IT Magia e filosofia (27)

Metamorfosi T2

Prologo dell’opera (I,1)

LAT

IT

T3

Storia di Telifrone (II, 19-30)

LAT

IT

T4

Metamorfosi di Lucio in asino (III, 21-25)

IT

T5

La novella di Amore e Psiche (1) (IV, 28-V, 20)

IT

T6

La novella di Amore e Psiche (2) (V, 21-23)

T7

La novella di Amore e Psiche (3) (V, 24-VI, 24)

IT

T8

Peripezie di Lucio-asino: la contesa fra l’ortolano e il soldato (IX, 39-42)

IT

LAT

ONLINE

ONLINE

IT ONLINE

T9

IT ONLINE Apparizione di Iside (XI, 1-7)

T10

Nuova metamorfosi di Lucio e discorso del sacerdote di Iside (XI, 13-15)

LAT

IT

T 2 Prologo dell’opera Meta­ morphoseon I, 1 LATINO ITALIANO

Il romanzo si apre con una dichiarazione di poetica: in rapida successione vengono designati genere letterario (la fabula Milesia), argomento (le straordinarie metamorfosi di uomini mutati in alias imagines) e stile dell’opera (fondato sulla varietà dei linguaggi). Tono affabile e disinvolto, movenze colloquiali (At ego tibi), ritmo brillante catturano immediatamente il lettore, cui il narratore-protagonista si rivolge in seconda persona, promettendogli stupori e divertimento (mireris; laetaberis). [1]

At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido susurro permulceam – modo si papyrum Aegyptiam argutia Nilotici calami inscriptam non spreveris1 inspicere –, figuras fortunasque

[1]

Ecco! In stile milesio voglio per te, o lettore, intrecciar varie favole, e col piacevole mormorio del mio narrare carezzar le tue benevole orecchie. Basterà solo che tu non rifiuti di dare uno sguardo a un papiro egiziano che è stato scritto con la finezza propria a una cannuccia del Nilo.1 Avrai da stupirti, ché si tratterà

1. modo si... non spreveris: cioè in stile alessandrino. Ma il riferimento all’Egit-

to ha anche un valore simbolico e premonitorio, perché allude ai culti isiaci

che nell’ultimo libro forniranno la chiave di lettura complessiva dell’opera.

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

hominum in alias imagines conversas et in se rursum mutuo nexu refectas ut mireris. Exordior. «Quis ille?». Paucis accipe. Hymettos Attica et Isthmos Ephyrea et Taenaros Spartiatica,2 glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea vetus prosapia est; ibi linguam Atthidem primis pueritiae stipendiis merui. Mox in urbe Latia advena studiorum Quiritium indigenam sermonem aerumnabili labore nullo magistro praeeunte aggressus excolui. En ecce praefamur veniam, siquid exotici ac forensis sermonis rudis locutor offendero. Iam haec equidem ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae3 stilo quem accessimus respondet. Fabulam Graecanicam incipimus. Lector intende: laetaberis.

PERCORSO ANTOLOGICO

delle persone e delle sorti d’uomini cangiati in altre figure, i quali con alterna vicenda ritorneranno nuovamente nella forma primitiva. Inizio. – Chi è costui? – ti domanderai. Ti rispondo in breve. L’attica Imetto, l’efireo Istmo, la spartana Tenaro2 sono terre felici, celebrate in eterno in opere ancor più felici: di qui derivò in antico la mia prosapia; qui, nei primi esercizi della fanciullezza, appresi la lingua attica. Poi, nella città del Lazio, io, ch’ero straniero all’ambiente della cultura romana, intrapresi con durissima fatica lo studio dell’idioma locale, e in esso mi approfondii, senza che alcun maestro mi guidasse. Chiedo perdono, dunque, se, parlatore inesperto, incorrerò in qualche termine esotico o popolare. Del resto, anche la varietà del mio linguaggio corrisponde all’abilità del passare da una storia all’altra,3 che è propria dell’argomento da me trattato. Inizio dunque una favola che è alla foggia dei Greci. Stai attento, lettore, ché ci troverai il tuo spasso. (trad. di C. Annaratone)

2. Hymettos... Spartiatica: l’Imetto è un monte dell’Attica, noto nella geografia letteraria classica per il dolcissimo miele delle sue api; il Tenaro è un promontorio all’estremità meridionale del Peloponneso, dove, secondo la leggen-

T3

da, si apriva l’accesso agli inferi; l’Istmo è quello di Corinto (Ephyrea da Ephyra, antico nome della città). Qui si finge che a parlare sia il greco Lucio e non direttamente l’autore, notoriamente di stirpe africana.

Storia di Telifrone

Metamorphoseon II, 19-30

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3. desultoriae scientiae: desultor è l’acrobata che passa con prodigiosa abilità da un cavallo all’altro in corsa; così Apuleio diviene l’acrobata portentoso delle sue infinite e mutevoli storie.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Leggere un TESTO CRITICO Lector, intende: laetaberis Gian Franco Gianotti individua, nella frase conclusiva del prologo, la duplice chiave di lettura del romanzo.

Il “romanzo” apuleiano si rivela nella sua natura di vasta mediazione culturale, ambivalente nella volontà di conservare un corpo concettuale di provenienza dotta e di tener conto degli interessi e dei gusti di un pubblico non d’élite. Questa ambivalenza, in continuo e precario equilibrio tra realismo delle descrizioni della vita quotidiana e simbolismo delle trasfigurazioni esoteriche e mistiche che si innestano sulla dimensione stessa della quotidianità, è presente fin dalla prima battuta rivolta al lettore in chiusa del prologo: Lector intende: laetaberis. Non si tratta soltanto di una promessa di divertimento («Lettore, fa attenzione: ti divertirai»), ma di un invito che si carica di più profondo significato, non appena si badi alle potenzialità espressive dei singoli termini: «Lettore, tendi l’animo tuo: troverai la tua letizia», una letizia “spirituale” come risultato di lettura di un testo che ingloba i livelli del divertimento e della meditazione. (G.F. Gianotti, «Reductio ad fabulam». Sintesi e mediazione culturale nelle «Metamorfosi» di Apuleio, in I canoni letterari, Trieste 1981, p. 62)

T 4 Metamorfosi di Lucio in asino

LATINO ITALIANO

Panfile, moglie di Milone, è segretamente dedita alle arti magiche. Grazie all’ancella Fotide, di cui gode gli amorosi favori, Lucio riesce ad assistere alla prodigiosa trasformazione della maga in uccello. Desideroso di provare su di sé l’incantesimo, scongiura Fotide di dargli un poco dell’unguento magico; ma la ragazza, nell’agitazione, sbaglia vasetto e Lucio si trasforma in asino. Fotide tuttavia lo conforta, assicurandogli che l’indomani, mordendo delle rose, tornerà quello di prima. Al motivo fantastico-avventuroso della metamorfosi si intreccia quello allegoricomorale (destinato a rivelarsi retrospettivamente in piena luce soltanto nel libro XI [ T10]): a causa della sua irrefrenabile curiosità, Lucio incorre in una degradazione (l’imprigionamento in un corpo sub-umano), cui dovrà seguire un percorso di purificazione e di riscatto.

Asino, particolare di un mosaico da Acholla, Tunisia, II secolo d.C. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo.

Meta­ morphoseon III, 21-25

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PERCORSO ANTOLOGICO

[21] In tal modo trascorrevamo voluttuosamente le notti. Non ne erano passate molte, che un bel giorno Fotide mi corre avanti, tutta commossa e agitata, e mi rivela che la sua signora voleva la notte seguente trasformarsi in un pennuto uccello, visto che con gli altri suoi sortilegi non riusciva sino allora a far alcun passo innanzi nei suoi affari di cuore; in tal forma sarebbe poi andata a trovare volando l’oggetto del suo amore. Perciò mi preparassi con prudenza a contemplare uno spettacolo straordinario. Eran circa le nove di sera, quando Fotide, in punta di piedi, senza far rumore, mi conduce lei stessa sino alla camera che voi sapete, al piano superiore, e mi invita a metter l’occhio a una fessura della porta. Ed ecco ciò che vidi. Dapprima Panfile si spoglia di tutte le vesti, poi apre un bauletto e ne estrae alcuni vasetti, leva il coperchio a uno di essi, ne trae fuori una pomata, se ne sfrega a lungo le palme e si unge tutta, dalle unghie dei piedi alla cima dei capelli; quindi, dopo un lungo e segreto colloquio con la lucerna,1 è scossa per tutto il corpo da un tremito insistente. Al tremito sottentra poi un lieve palpitare, mentre sul corpo spunta una molle peluria, crescono delle robuste penne, il naso si incurva e si indurisce, le unghie s’ispessiscono e si fanno adunche. E così Panfile diviene un gufo. Emette uno stridulo lamento, spicca piccoli salti sul pavimento per provar le sue capacità, poi s’innalza e vola via al di fuori con l’ali spiegate. [22] Panfile, dunque, s’era trasformata a suo piacere, ma io, sebbene non fossi stato sottoposto a nessun incantesimo, ero sbalordito per l’accaduto, e tutto mi pareva d’essere, fuorché il Lucio di prima. Ero fuori di me, come stordito da una frenetica esaltazione, e sognavo ad occhi aperti; mi sfregai persino le palpebre a lungo, pel desiderio di sapere se ero sveglio davvero. Alla fine, quando tornai a riprender coscienza della realtà, afferrai la mano di Fotide e, accostandomela agli occhi,2 chiesi: – Concedimi, ti prego, una dimostrazione del tuo affetto davvero fuori dell’ordinario. Dammi un po’ di quell’unguento, ti scongiuro pei tuoi occhi, o mia dolcissima amica, e lega il tuo schiavo con un beneficio che non potrà mai ripagare. Presto! Fammi stare al fianco della mia Venere sotto forma di Amore alato. – Che dici? – rispose. – Che volpone che sei, bel vagheggino: tu vuoi che io mi dia spontaneamente la zappa sui piedi. A stento, ora che sei senz’armi, riesco a proteggerti da queste lupe3 di Tessaglia! Se diventi un uccello, dove ti cercherò, quando mai ti potrò rivedere? [23] – Mi preservino gli dèi dal commettere un’infamia simile, – replicai. – Ammettiamo pure che io mi trasformi nell’aquila stessa, che io, innalzandomi a volo, possa scorrazzare pel cielo in ogni direzione in qualità di sicuro messaggero o scudiero giulivo del sommo Giove. E con ciò? Io saprei sempre, anche dopo aver

1. con la lucerna: non è l’unico luogo delle Metamorfosi dove si alluda alle magiche virtù della lucerna (II, 11-12;V, 23 [ T6]).

2. accostandomela agli occhi: gesto del supplice. 3. lupe: donne vogliose; lupae erano dette in Roma le meretrici.

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PERCORSO ANTOLOGICO

4. aneto: pianta dai semi odorosi e dai fiori gialli, affine al finocchio.

ricevuto l’onore di appartenere al regno dei volatili, ritornare al mio piccolo nido. Giuro per il dolce nodo di questi tuoi capelli, con cui mi hai avvinto l’anima, che non anteporrò nessun’altra donna alla mia Fotide. Ma ora che ci penso, c’è da fare anche questa considerazione: quando, dopo l’unzione, mi sarò trasformato in un uccello di questo genere, io dovrò girare al largo da ogni abitazione. Che bello ed allegro amante può esser mai un gufo? Potrebbero mai le signore trovar in lui il loro piacere? Ma come! Noi vediamo bene che, quando questi uccelli si introducono in qualche casa, vengono immediatamente presi e inchiodati ai battenti delle porte. Si fa così perché essi espiino col loro supplizio quei lutti che minacciano alle famiglie con i loro voli del malaugurio. Ma io quasi mi dimenticavo di chiederti: che debbo dire o fare per levarmi di dosso le penne e ritornar quel Lucio che ero? – Stai sicuro, al riguardo ci penso io, – mi rispose. – La mia padrona mi ha dato, caso per caso, tutte le indicazioni che consentono, a metamorfosi avvenuta, di riprendere umane sembianze. Non credere, però, che l’abbia fatto per bontà d’animo. No di certo! Ma solo, perché io potessi al ritorno porgerle la medicina della salvezza. Considera infine quanto sia modesto il valore delle erbe che producono un prodigio del genere: un po’ di aneto4 con qualche foglia di alloro messo a macerare in un bicchiere d’acqua sorgiva in quantità sufficiente per bagnarsi il corpo e per berne. [24] Mentre mi ripeteva queste assicurazioni, Fotide profondamente agitata si introduce nella stanza ed estrae una scatolina dal bauletto. Io dapprima la bacio e l’abbraccio, la prego che mi assista e mi accordi un felice volo, poi getto via tutti i vestiti, vi immergo avidamente le mani e, cavata una bella dose di quell’unguento, me ne stropiccio tutte le parti del corpo. Già cercavo di librarmi a volo, or muovendo un braccio, ora l’altro, nel mio desiderio di trasformarmi in un uccello simile, ma in nessun punto del corpo mi spuntava piuma o penna; al contrario, i miei peli acquistano lo spessore delle setole, la pelle tenera diviene solido cuoio, all’estremità delle palme si perde la divisione delle dita, ed esse tutte si contraggono insieme sino a formare uno zoccolo solo, e al termine della spina dorsale mi spunta un’enorme coda. Ormai avevo un muso smisurato, una

Le FORME dell’ESPRESSIONE Come Apuleio descrive le due metamorfosi ▰ Una tecnica “omologica” Eccezionale la maestria di Apuleio nella descrizione delle due metamorfosi, rappresentate con una tecnica “omologica” affine a quella ovidiana [ vol. II, T11, cap. 5 Leggere un testo critico]: rapidissima e icastica la prima (cap. 21), più ravvicinata e indugiante la seconda (cap. 24), che il protagonista-narratore non si limita a contemplare, ma avverte compiersi, con angoscioso sbigottimento, sulla sua stessa persona.

▰ Le scelte stilistiche La minuziosa descrizione è articolata in una serie di proposizioni coordinate per polisindeto, che scandiscono le fasi della trasformazione e insieme sottolineano in crescendo le reazioni psicologiche (l’attonito stupore, poi la disperazione) di Lucio, il quale conserva sentimenti e intelligenza umana nel nuovo corpo asinino. Ogni gesto, ogni fenomeno assume plastico risalto; la frequente ellissi del verbo, così come l’impiego dei diminutivi intensamente affettivi (caratteristici dello stile apuleiano), accrescono la vivacità della sequenza descrittiva. 465

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

PERCORSO ANTOLOGICO

14. Apuleio

5. asino: si ricordi che per i platonici l’asino rappresentava l’infimo stadio della carnalità.

sullo

scaffale

bocca lunga e larga, delle narici spalancate, delle labbra pendule; e così pure le orecchie eran cresciute in modo esagerato e s’eran ricoperte di ispidi peli. Un solo conforto vedevo a questa mia sciagurata metamorfosi, ed è questo: che mentre non riuscivo più a tener Fotide tra le mie braccia, i miei attributi di maschio s’eran notevolmente sviluppati. [25] Mentre osservavo tutte le parti del corpo mio, in cerca d’un rimedio che non trovavo, e mi vedevo divenuto asino5 e non uccello, volli esprimere a Fotide il mio dispetto, per ciò ch’aveva fatto. Ma ormai mi mancava non solo il gesto, ma anche la voce dell’uomo, sicché potei solo abbassar l’estremità delle labbra e, guardandola di traverso con gli occhi bagnati di lagrime, indirizzarle la mia tacita supplica. Ella, appena mi vide in tale stato, rivolse contro di sé le mani e si prese a schiaffi: – Disgraziata me! – gridò. – Son rovinata! L’agitazione e la fretta mi han tratta in errore, e anche la somiglianza dei vasetti ha contribuito a ingannarmi. Ma fortunatamente l’antidoto di questa trasformazione è abbastanza facile a trovare: infatti, ti basterà morder delle rose, per uscire di corpo all’asino e ritornare immediatamente il mio Lucio di prima. Volesse il cielo che stasera avessi composto qualche ghirlanda di rose, come faccio di solito! Non dovresti ora sopportar alcun ritardo, nemmeno per una sola notte. Ma sta’ sicuro, che subito all’alba troverai pronto il rimedio. (trad. di C. Annaratone)

Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov Magiche metamorfosi e rituali stregoneschi hanno luogo anche nella Russia sovietica degli anni Trenta, a Mosca, come leggiamo nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, uno dei maggiori romanzi del Novecento. In particolare si vedano, nel Libro secondo (ci riferiamo all’edizione Garzanti, «I Grandi Libri»), i capitoli La crema di Azazel e Il volo: la

T5

protagonista Margherita Nikolàevna ha accettato, per ritrovare il Maestro scomparso, di recarsi al ballo annuale di Satana (che con la sua coorte di demoni sta in quei giorni seminando lo scompiglio in città), e deve perciò trasformarsi in una strega, spalmandosi su tutto il corpo un magico unguento che le donerà una nuova, diabolica bellezza insieme a straordinari poteri. Mentre vola, naturalmente invisibile e a cavallo di una scopa, nel cielo di

La novella di Amore e Psiche (1)

Mosca, Margherita viene raggiunta dalla servetta Nataša, che si è servita anch’essa della crema portentosa; ma Nataša non cavalca una scopa, bensì un grosso verro, nel quale si è trasformato l’intraprendente vicino di casa Nikolàj Ivànovic. Inequivocabile la reminiscenza di Apuleio nel gioco letterario raffinato e pluristratificato di Bulgakov, e non solo nelle suggestioni (per così dire) esteriori: anche quello di Margherita

Metamorphoseon IV, 28-V, 20

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(come quello di Lucio e come quello di Psiche) è un percorso iniziatico disseminato di ardue prove, che la condurrà infine a ricongiungersi con l’amato e a ricevere insieme a lui una soprannaturale ricompensa, fuori del mondo caotico e inautentico della realtà storica e quotidiana. Dove leggere il romanzo M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, trad. di E. Guercetti, Grandi Libri Garzanti, Milano 2014.

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 6 La novella di Amore e Psiche (2) Meta­ morphoseon V, 21-23 LATINO ITALIANO

È il momento cruciale della bella fabella: le malvage sorelle sono riuscite a convincere l’ingenua Psiche a uccidere quella stessa notte lo sposo invisibile, insinuando che si tratti, secondo il vaticinio di Apollo, di «un mostro crudele, feroce e con volto di serpe» (IV, 33), e che si appresti a divorarla insieme al figlio che porta in grembo. Psiche, rimasta sola, ondeggia a lungo fra opposti affetti; ma quando finalmente si decide a vibrare il colpo mortale, ecco che il raggio della lucerna illumina la divina bellezza di Amore dormiente. Mentre indugia, con fanciullesca curiosità, a rigirarsi fra le mani le armi del dio, Psiche si punge con una freccia: subito invasa da un’ardente passione, non si sazia di baciare e contemplare l’amato. Ma una goccia d’olio della lucerna cade improvvisamente sulla spalla di Cupido, che si desta e, constatata l’infrazione del divieto, corrucciato si invola. Dal punto di vista stilistico-espressivo, la narrazione dell’episodio è virtuosisticamente variegata di toni diversi: a un pathos acceso, di tinta tragica (Psiche agitata dalle Furie, «sconvolta come le onde che ribollono nel mare», che si accinge a porre in atto il proposito omicida), subentrano tocchi fiabeschi (gli oggetti magicamente animati che intervengono nell’azione), alternati a squarci di consumata abilità retorica (l’invettiva alla lucerna) e descrittiva (la contemplazione di Amore dormiente, una vera e propria ékphrasis di alessandrina squisitezza).

[21]

Tali verborum incendio flammata viscera sororis iam prorsus ardentis deserentes ipsae protinus tanti mali confinium sibi etiam eximie metuentes flatus alitis impulsu solito porrectae super scopulum ilico pernici se fuga proripiunt statimque conscensis navibus abeunt. At Psyche relicta sola, nisi quod infestis Furiis agitata sola non est, aestu pelagi simile maerendo fluctuat, et quamvis statuto consilio et obstinato animo iam tamen facinori manus admovens adhuc incerta consilii titubat multisque calamitatis suae distrahitur affectibus. Festinat differt, audet trepidat, diffidit irascitur et, quod est ultimum, in eodem corpore odit bestiam, diligit maritum. Vespera tamen iam noctem trahente praecipiti festinatione nefarii sceleris instruit apparatum.

[21] Così, dopo avere appiccato l’incendio con le loro parole nel cuore della sorella,

la lasciano già tutta sconvolta. Esse, invece, temendo non poco persino il trovarsi vicino a così grave delitto, si fan deporre sulla rupe dal solito soffio sulle ali del vento. Di qui fuggono velocemente, s’imbarcano sulle navi e si allontanano. Ma Psiche, rimasta sola (e sola non è, se si considerano le Furie nemiche che la tormentano), nella sua angoscia è sconvolta come le onde che ribollono nel mare. Benché la risoluzione sia presa e l’animo fermamente deciso, tuttavia ancora adesso che sta per porre mano al delitto, ella esita, vacilla e si lascia trascinare qua e là dalle varie passioni che le ispira la sua disgrazia. A volta a volta decide e rimanda, ha coraggio e paura, si abbandona alla sfiducia e all’ira; e in conclusione, nel medesimo corpo, ha ribrezzo dell’animale, ma ama il marito. Finalmente, al cader del sole, sul far della notte, in fretta e furia esegue i preparativi del nefando delitto. 467 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

Nox aderat et maritus aderat primisque Veneris proeliis velitatus1 in altum soporem descenderat. [22] Tunc Psyche et corporis et animi alioquin infirma fati tamen saevitia subministrante viribus roboratur, et prolata lucerna et adrepta novacula sexum audacia mutatur. Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum Cupidinem formonsum deum

PERCORSO ANTOLOGICO

Viene la notte, lo sposo giunge e, dopo aver sostenuto una prima prova nelle lotte di Venere, cade in un sonno profondo. [22] Allora Psiche, che per natura era debole d’animo e di corpo, si sente riavere, poiché il destino crudele la provvede di nuovo vigore. Scopre adunque la lucerna e afferra il rasoio, e la debolezza del suo sesso si muta in audacia. Ma appena la luce si offerse a rischiarare l’intimità del letto nuziale, essa vede la più tenera e la più dolce di tutte le fiere, proprio Cupido in persona, il leggiadro dio, che 1. velitatus: metafora maliziosamente allusiva tratta dal linguaggio militare (com’è consuetudine nell’elegia eroti-

sullo

scaffale

ca). Velitari designa una manovra offensiva alla maniera dei velites, i militi armati alla leggera incaricati di compiere

Mario l’epicureo di Walter Pater Nel 1885 apparve Mario l’epicureo (Marius the Epicurean) di Walter Pater, uno dei grandi testi del Decadentismo estetizzante di fine secolo. È un particolarissimo romanzo di formazione, o forse «non è un romanzo: piuttosto un pellegrinaggio spirituale, un saggio storico-filosofico» (Storoni Mazzolani). Racconta, dall’infanzia alla morte, la storia del giovane Mario, vissuto all’epoca degli imperatori Antonini. Le tappe del suo itinerario interiore coincidono con le diverse correnti che attraversano la sua inquieta epoca di transizione: dall’antica religione pagana, attraverso le diverse scuole filosofiche greche, fino alle soglie della fede cristiana. Il capitolo quinto, intitolato

Il libro d’oro, è dedicato alle Metamorfosi di Apuleio, che si immagina appena pubblicato, già grande successo di pubblico e “caso” letterario. La favola di Amore e Psiche appare a Mario «una gemma autentica in mezzo agli scherzi, all’umanità volgare ma genuina, all’orrido burlesco del libro, [...] ricca di immagini incantevoli [...] e oltre a ciò, di un gentile idealismo». Molte pagine sono dedicate a una sorta di traduzione-parafrasi della fabella, abbreviata e purgata dei passaggi più audaci. Ma nel ricordo del protagonista (il quale, più che un romano del II secolo, è un inglese di fine Ottocento, un vittoriano umbratile e sensitivo che vive in un mondo irreale, di sogno) l’antica fiaba si trasforma profondamente: contribuisce «a far convergere molte meditazioni, già familiari

rapidi assalti per poi ritirarsi immediatamente.

al ragazzo, su l’ideale di un perfetto amore dell’immaginazione, concentrato su un tipo di bellezza immacolato e puro – un ideale che non svanì mai del tutto dai suoi pensieri»; assurge insomma ad emblema di una sorta di culto della bellezza e delle emozioni alte e nobili su cui Mario vorrebbe modellare la sua vita, come un’opera d’arte. Nell’ultima parte del romanzo accadrà infine al protagonista di incontrare a Tuscolo, in casa di un comune amico, «il grande Apuleio, lo scrittore ideale della sua fanciullezza», con il quale avvierà, nel cuore della serata, una conversazione filosofica: «Quando Mario ne rievocò poi gli episodi, gli parve di udire ancora quella voce vibrante di una convinzione così profonda che, in mezzo a una scena a dir molto di elegante frivolità, aveva

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difeso arditamente una concezione mistica, su l’uomo e la sua posizione nell’universo. Per un momento, ma per un momento solo, mentre ascoltava, gli era parso, come nel tempo passato, che gli alberi “toccassero il cielo con le cime”. Certamente! l’adozione di determinate teorie, ipotesi, o credenze, dipende in gran parte dal temperamento, ne sono, per così dire, semplici equivalenti. Una scala celeste, una scala che unisce il cielo alla terra: questo era l’assunto che l’esperienza di Apuleio gli aveva suggerito [...]» (capitolo ventesimo: Ospiti). La traduzione dei brani citati è di Lidia Storoni Mazzolani. Dove leggere il romanzo W. Pater, Mario l’epicureo, introd. di M. Praz, trad. di L. Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 1970.


PERCORSO ANTOLOGICO

formonse cubantem, cuius aspectu lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi novaculam paenitebat. At vero Psyche tanto aspectu deterrita et impos animi marcido pallore defecta tremensque desedit in imos poplites et ferrum quaerit abscondere, sed in suo pectore: quod profecto fecisset, nisi ferrum timore tanti flagitii manibus temerariis delapsum evolasset. Iamque lassa, salute defecta, dum saepius divini vultus intuetur pulchritudinem, recreatur animi. Videt capitis aurei genialem2 caesariem ambrosia temulentam,3 cervices lacteas genasque purpureas pererrantes crinium globos decoriter impeditos, alios antependulos, alios retropendulos, quorum splendore nimio fulgurante iam et ipsum lumen lucernae vacillabat; per umeros volatilis dei pinnae roscidae micanti flore candicant et quamvis alis quiescentibus extimae plumulae tenellae4 ac delicatae tremule resultantes inquieta lasciviunt; ceterum corpus glabellum atque luculentum et quale peperisse Venerem non paeniteret. Ante lectuli pedes iacebat arcus et pharetra et sagittae, magni dei propitia tela.

leggiadramente riposava. Solo al vederlo, persino il chiarore della lucerna brillò più forte per la gioia e il rasoio provò rammarico pel filo sacrilego della sua lama. Ma Psiche rimase invece atterrita, alla vista del prodigio: fuor di sé, tutta pallida, stette per venir meno, e tremando si lasciò cadere giù sulle ginocchia. Volle nascondere il rasoio, ma intendiamoci, nel proprio petto, e l’avrebbe fatto di certo, se il ferro, pel timore di un tal misfatto, non fosse scivolato e sfuggito giù dalle mani dell’imprudente. E se prima ella era stanca e spossata da morire, ora, contemplando senza mai saziarsi la bellezza del volto divino, si sentiva riavere. Ella mira il biondo capo e l’abbondanza dei capelli umidi d’ambrosia;3 sul collo bianco come il latte e sulle guance rosate ella vede le ciocche dei capelli distribuirsi ed allacciarsi graziosamente, in modo che le une coprono la fronte e le altre la nuca, facendo impallidire, con lo splendore lucente che irraggiavano, persino il chiarore della lucerna. Sugli omeri dell’alato dio le bianche ali brillavano come fiori luccicanti di rugiada, e, sebbene giacessero in stato di riposo, le loro piume molli e delicate4 palpitavano tremule con capricciosa irrequietezza. E tutto il resto del corpo era liscio e splendente, e tale, insomma, che Venere può ben vantarsi d’essergli madre. Ai piedi del letto eran stesi l’arco, la faretra e le frecce, armi propiziatrici del possente dio.

2. genialem: l’aggettivo genialis indica tutto ciò che appartiene al «genio», cioè al dio tutelare di ogni individuo, il suo buono spirito; in sostanza la sua parte migliore, quella che prova gioia. Sacro al genio è infatti il giorno natalizio di ognuno, che si usa festeggiare nell’allegrezza del convito. Perciò è detto genialis ciò che rallegra e piace, e anche ciò

che è ricco e fecondo (di qui la scelta del traduttore: genialem caesariem = «abbondanza dei capelli»). 3. ambrosia temulentam: in Omero l’ambrosia è il cibo degli dèi; qui, una sorta di balsamo divino, di olio profumato (così anche nel Foscolo: nell’ode All’amica risanata, v. 45; nei Sepolcri, v. 252; nel proemio alle Grazie, v. 19).

Temulentus significa propriamente «ebbro»; dunque «stillante», «intriso» di un qualche liquido. 4. plumulae tenellae: diminutivi caratteristici del linguaggio poetico erotico (largamente impiegato in questa sequenza: cfr. nota 1); dello stesso tipo glabellus (da glaber), attestato per la prima volta in Apuleio.

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

[23] Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in Amoris incidit amorem.5 Tunc magis magisque cupidine fraglans Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis festinanter ingestis de sommi mensura metuebat. Sed dum bono tanto percita saucia mente fluctuat, lucerna illa, sive perfidia pessima sive invidia noxia sive quod tale corpus contingere et quasi basiare et ipsa gestiebat, evomuit de summa luminis sui stillam ferventis olei super umerum dei dexterum. Hem audax et temeraria lucerna et amoris vile ministerium, ipsum, ignis totius deum6 aduris, cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis etiam nocte potiretur, primus invenerit. Sic inustus exiluit deus visaque detectae fidei colluvie prorsus ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit.

[23]

PERCORSO ANTOLOGICO

Psiche, curiosa com’è, non è mai sazia di esaminare e di maneggiare questi oggetti. E mentre ammira le armi dello sposo, toglie dalla faretra una freccia e col dito pollice va provando la punta; senonché, col premere troppo il dito che ancora tremava, si punse profondamente sicché alcune goccioline del suo roseo sangue stillarono sull’epidermide. Così Psiche, ignara, spontaneamente cadde nell’amorosa rete di Amore.5 Poi, siccome sempre più ardeva di desiderio per Cupido, china su di lui lo contemplava perduta in estasi, e sua unica preoccupazione, nel dargli in fretta i suoi baci avidi e appassionati, era che si destasse. Ma mentre nel turbamento di una felicità così grande la sua mente vacilla per la ferita d’amore, la lucerna, sia che ve la spingesse una malvagia perfidia o una colpevole gelosia, sia che anch’essa bramasse di toccare e baciare quasi un tal corpo, lasciò cadere dalla sua fiamma lucente una stilla d’olio bollente sopra la spalla destra del dio. Ahimè! Audace e sfrontata lucerna, vile ancella dell’amore! Tu vorresti bruciare colui che è proprio il dio d’ogni fuoco,6 quando sai bene che proprio un qualche amante ti ha scoperto per primo, per godere più a lungo, anche di notte, dell’oggetto del suo desiderio. Sentendosi scottare, il dio balzò in piedi e vide la sua fede tradita e oltraggiata. Immediatamente volò via, senza far motto, sottraendosi ai baci e agli abbracci dell’infelicissima consorte. (trad. di C. Annaratone)

5. in Amoris... amorem: gusto “barocco” per il gioco di parole concettoso, ripreso e variato a brevissima distanza (cupidine flagrans Cupidinis).

6. ignis... deum: la fiamma d’amore è irresistibile, inestinguibile (poco dopo, in V, 25, Amore è detto «[il] dio che suole appiccare l’incendio anche alle acque»).

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PERCORSO ANTOLOGICO

T7

La novella di Amore e Psiche (3)

Metamorphoseon V, 24-VI, 24

ONLINE

T 8 Peripezie di Lucio-asino: la contesa fra l’ortolano e il soldato

Meta­ morphoseon IX, 39-42 ITALIANO

Un episodio movimentato e vivacissimo, che bene illustra le caratteristiche della sezione centrale del romanzo, avventurosa e “picaresca”: un caleidoscopio di accidenti che si susseguono a ritmo indiavolato, agganciati l’uno all’altro dagli inopinati interventi del caso; unico filo conduttore, la presenza dell’asino che, passando di mano in mano, ascolta ed osserva.

In tal modo, nello spazio d’un attimo, una famiglia scomparve nella morte.1 L’ortolano ne compianse il destino e deplorò amaramente la sua malasorte; poi, dopo aver pagato il suo tributo di lagrime all’ospite e aver battuto più volte pel dolore le mani, rimaste purtroppo vuote, si issò sulla mia schiena e riprese la via per cui eravamo venuti. Ma neppur lui poté tornar senza intoppi. Un tizio d’alta statura e, come indicavano il suo equipaggiamento e le sue maniere, soldato legionario, ci si fa incontro e con un fare superbo e pieno d’arroganza interroga: – Dove conduci quest’asino scarico? Il mio padrone, ch’era ancora scosso per l’afflizione e del resto ignorava il latino, continuava per la sua strada senza rispondere. Il soldato, dando libero corso alla brutalità che gli era familiare, e interpretando con rabbia quel silenzio come un’offesa, con un bastone di vite 2 che aveva, percuote il mio padrone e lo caccia giù dal mio dorso. Allora l’ortolano umilmente rispose che egli non conosceva quella lingua e perciò non poteva capire le sue parole. Il soldato quindi ripeté in greco: – Dove porti quest’asino? L’ortolano rispose ch’era diretto alla città vicina. Ma l’altro, subito: – Suvvia, a me serve quest’asino. Ne ho bisogno per fargli trasportare insieme con altre bestie da soma i bagagli del nostro capitano, da una fortezza qua presso. Così detto, stende la mano, mi afferra per la briglia che serviva per condurmi, e comincia a tirarmi. Ma l’ortolano, asciugandosi il sangue sgorgato dalla ferita che la bastonata di poco prima gli aveva prodotto alla testa, di nuovo scongiura

[39]

1. In tal modo... morte: il povero ortolano, attuale proprietario di Lucio-asino, è stato invitato nella casa di un possidente che vuole provargli la sua riconoscenza per un gesto di ospitalità. Duran-

te il pranzo si verificano sinistri prodigi, premonizioni della tragedia che sta per distruggere l’intera famiglia. Viene portata infatti la notizia della morte violenta dei tre figli in uno scontro con un vicino

prepotente: il padre, disperato, afferra un coltello dalla mensa e si uccide. 2. bastone di vite: insegna dei centurioni.

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PERCORSO ANTOLOGICO

il soldato che voglia considerare il suo caso in modo più civile ed umano. Alle suppliche e ai giuramenti aggiungeva l’augurio che il soldato in compenso venisse soddisfatto nelle sue speranze, e diceva: – Del resto, quest’asinello non solo è un vero fiaccone, ma nonostante ciò ha anche il vizio di mordere e va soggetto a delle crisi di epilessia, una malattia esecrabile. Per portarmi, e con grande stento, dall’orto qui vicino pochi cespi di verdura, la fatica lo stanca al punto da fargli venire il fiato grosso; e tu vuoi che sia capace di sostenere un carico più pesante? [40] Ma quando si accorse che il soldato, anziché lasciarsi vincere dalle sue preghiere, ancora più si irritava a suo danno e già alzava il bastone dalla parte più nodosa per spaccargli la testa, ricorse a un estremo rimedio. Finge di volergli abbracciar le ginocchia per muoverlo a pietà: curvandosi a terra, lo prende per tutti e due i piedi e, dando uno strattone, lo solleva verso l’alto, lo rovescia pesantemente a terra, e subito dopo, a pugni, a gomitate, a morsi, e persino con una pietra, raccattata nella strada, gli concia per le feste la faccia, le mani e le costole. Quell’altro, appena si trovò con le spalle in terra, non poté opporre né resistenza né difesa alcuna, ma pure non cessava dal minacciare: lo avrebbe fatto a pezzettini con la sua spada, solo che fosse riuscito ad alzarsi. Le sue parole mossero l’ortolano a togliergli la spada e a scagliarla lontano, dopodiché ricominciò il pestaggio con raddoppiato furore. Il soldato, ch’era steso in terra e si vedeva ridotto a mal partito per le ferite, non riuscendo a trovare altro scampo, fece finta d’esser morto. Era il solo mezzo che gli restava per cavarsi d’impiccio. L’ortolano, portando seco la spada, monta sulla mia schiena e, a rapida andatura, si dirige per la via più breve alla vicina città. Senza neppure curarsi di dare uno sguardo al suo orticello, smonta da un suo amico, gli racconta tutto e lo supplica d’aiutarlo a nascondersi insieme con l’asino per un po’ di tempo, un due o tre giorni, sinché fosse scomparso il pericolo di un processo con probabile condanna a morte. Questi ebbe riguardo per la vecchia amicizia, e lo accolse cordialmente. A me mi tira su con le gambe genuflesse per una scala in una soffitta al piano superiore, l’ortolano invece trova posto in basso nella bottega stessa: là si insinua e si acquatta dentro un piccolo baule, e sulla sua testa vien calato il coperchio. [41] Dal canto suo, il soldato, lo seppi più tardi, finì per rinvenire, ma era come se si destasse da una solenne sbornia: male in gambe e pieno di dolori per le molte percosse. Reggendosi a stento sul bastone, arriva alla città, ma la vergogna per averle vilmente buscate era tanta che non volle confidarsi con dei borghesi. Mentre egli in silenzio rimuginava lo smacco, s’imbatte in certi suoi camerati e ad essi soli racconta la sua disavventura. Decisero allora che egli se ne stesse qualche giorno nascosto nella sua tenda, poiché oltre all’affronto suo personale, temeva anche l’ira del genio che presiede al giuramento militare, per aver egli perso la spada. Essi invece presero nota dei nostri contrassegni, e promisero che si sarebbero attivamente adoperati per rintracciarci e far le sue vendette. Purtroppo ci fu un perfido vicino il quale denunciò che noi ci nascondevamo in quella casa. Subito i compagni del soldato fanno intervenire i magistrati, con il 472 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

falso pretesto che essi avevano smarrito per la strada un vasetto d’argento di gran pregio appartenente al loro ufficiale, che il vasetto era stato trovato da un ortolano, che egli non voleva restituirlo e s’era nascosto in casa d’un amico suo. I magistrati, avuta conoscenza del nome dell’ufficiale e del danno da lui patito, si presentano alla porta del nostro rifugio e a gran voce rivolgono al nostro ospite questa intimazione: il suo delitto era evidente, consegnasse perciò quelli che nascondeva in casa sua, altrimenti ne andava della sua testa. Egli però non si lascia affatto turbare, ma curandosi solo dell’incolumità dell’amico cui aveva promesso il suo appoggio, respinge ogni accusa e sostiene che l’ortolano era un bel po’ di giorni che neppur lo vedeva. Al contrario, i legionari spergiuravano che il delinquente era nascosto lì e non altrove, e invocavano a testimone del loro giuramento il genio dell’imperatore. Alla fine i magistrati sentenziarono doversi procedere a una perquisizione per controllare la verità di quegli ostinati dinieghi. Fan dunque entrare i littori e altri pubblici ufficiali con l’ordine di esaminare accuratamente ogni angolo della casa, ma, a perquisizione ultimata, vien riferito che nell’interno non appare traccia d’uomo e tanto meno d’asini. [42] Le due parti in causa riprendono perciò a battagliare con rinnovato accanimento. I soldati affermavano di sapere con certezza della nostra presenza, e di quando in quando invocavano il nome dell’imperatore, l’altro negava e non la finiva di prender a testimone la volontà degli dèi. Il baccano e le urla delle lite salirono sino a me, e io, asino, sì, ma curioso e dotato di una vivacità che confinava con la sfrontatezza, cerco di insinuare obliquamente il collo attraverso un abbaino, e di scoprire che significasse quel fracasso. Sfortuna volle che uno dei soldati volgesse lo sguardo in direzione della mia ombra, e subito egli chiamasse i compagni a vedere. Immediatamente si levò un grand’urlo: alcuni si arrampicano senz’altro sulle scale, mi afferrano e mi calan giù come un prigioniero. Allora, levato di mezzo ogni dubbio, si dànno ad esaminare con maggior cura la casa, levano il coperchio del baule e traggon fuori allo scoperto l’ortolano. Il poveretto vien consegnato ai magistrati e condotto alla pubblica prigione, naturalmente a pagar di testa sua il fio dell’incidente. In quanto a me, le beffe e le risate sul conto d’un asino che si affacciava per guardare alla finestra durarono un bel pezzo. Di qui nacque anche quel proverbio trito e ritrito dell’asino che si affaccia per guardare, e della sua ombra.3 (trad. di C. Annaratone)

3. quel proverbio... e della sua ombra: «il proverbio in questione designava la futilità di certe azioni ed era affine alla

nostra frase proverbiale ‘disputar di lana caprina’» (Annaratone).

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

LETTURA e INTERPRETAZIONE Un mondo furfantesco e violento

Si delinea a vividi colori un mondo furfantesco e violento: il soldato prepotente e senza scrupoli, il tradimento del perfido vicino, la falsa denuncia dei commilitoni, la sorte crudele dell’ortolano.

Il meccanismo narrativo: serie “addizionativa” di avventure

PERCORSO ANTOLOGICO

Va osservato peraltro che l’ortolano, a norma del meccanismo narrativo, deve necessariamente uscire di scena per innescare nuove avventure: il malcapitato aveva comprato l’asino in occasione della liquidazione dei beni di un mugnaio, che si era impiccato in seguito a fosche vicende familiari; a sua volta il mugnaio ne era entrato in possesso dopo l’arresto dei dissoluti e truffaldini sacerdoti della dea Siria; e così via.

Realismo spietato e vis comica

Al realismo spietato delle situazioni e degli ambienti fanno da contrappunto la vis comica della narrazione “straniata”, l’icasticità di certi gustosi particolari

T9

Apparizione di Iside

(l’ortolano che si rintana nel baule; il muso dell’asino che sporge dall’abbaino), la vivacità scintillante del dialogo, la magistrale orchestrazione delle scene d’insieme.

Lucio-asino protagonista di un’Odissea “minore”

«Solo la mia naturale curiosità mi procurava un po’ di svago (solacium): infatti, ognuno faceva e diceva liberamente ciò che gli passava pel capo, senza preoccuparsi affatto della mia presenza. A ragione il divino iniziatore dell’antica poesia tra i Greci, quando volle descrivere un uomo di impareggiabile saggezza, immaginò nel suo poema ch’egli avesse acquistato le sue grandi virtù visitando molte città e conoscendo molti popoli. Perciò anch’io sono riconoscente e conservo un grato ricordo dell’asino in cui m’incarnai. Esso infatti mi diede ricetto nella sua pelle e mi attribuì, attraverso i vari casi e le prove della fortuna, se non la saggezza, almeno una grande ricchezza di cognizioni» (Met. IX, 13).

Meta­morphoseon XI, 1-7

Scena dell’Asino d’oro di Apuleio, XVI secolo, affresco, San Secondo Parmense, Rocca dei Rossi.

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ONLINE


PERCORSO ANTOLOGICO

T 10 Nuova metamorfosi di Lucio e discorso del sacerdote di Iside

Meta­ morphoseon XI, 13-15 LATINO ITALIANO

Al suo risveglio sul lido di Cencrea presso Corinto, Lucio assiste alla grandiosa processione simbolica che si svolge durante la festa annuale in onore di Iside. Secondo le prescrizioni della dea, si avvicina al sacerdote, a sua volta istruito da un sogno [ T9], che reca la tanto agognata corona di rose, la divora e riprende forma umana con una metamorfosi inversa e parallela alla prima [ T4]. Il sacerdote di Iside lo saluta e lo accoglie fra gli iniziati con un discorso che retrospettivamente svela il significato di tutta la vicenda. [13]

At sacerdos, ut reapse cognoscere potui, nocturni commonefactus oraculi miratusque congruentiam mandati muneris, confestim restitit et ultro porrecta dextera ob os ipsum meum coronam exhibuit. Tunc ego trepidans, adsiduo pulsu micanti corde, coronam, quae rosis amoenis intexta fulgurabat, avido ore susceptam cupidus promissi devoravi. Nec me fefellit caeleste promissum: protinus mihi delabitur deformis et ferina facies. Ac primo quidem squalens pilus defluit, ac dehinc cutis crassa tenuatur, venter obesus residet, pedum plantae per ungulas in digitos exeunt, manus non iam pedes sunt, sed in erecta porriguntur officia, cervix procera cohibetur, os et caput rutundatur, aures enormes repetunt pristinam parvitatem, dentes saxei redeunt ad humanam minutiem, et, quae me potissimum cruciabat ante, cauda nusquam! Populi mirantur, religiosi venerantur tam evidentem maximi numinis potentiam et consimilem nocturnis imaginibus magnificentiam et facilitatem reformationis claraque et consona voce, caelo manus adtendentes, testantur tam inlustre deae beneficium.

[13]

Il sacerdote, come potei riconoscere alla prova dei fatti, era stato avvertito dell’oracolo: egli subito ristette, ammirando l’esatta corrispondenza degli avvenimenti con la missione affidatagli, e, tendendo spontaneamente la destra, mi presentò proprio dinanzi la bocca la corona. Allora io, pieno d’emozione, col cuore che mi batteva fitto a colpi precipitosi, bramoso di veder attuata la promessa, colsi avidamente con la bocca e divorai quella bella corona, ch’era tutta trapunta di rose leggiadre e smaglianti. Né mi aveva ingannato la celeste promessa: in un lampo la mia figura deforme e animalesca scivolò via. Dapprima se ne va il mio ruvido pelame; poi si assottiglia lo spessore della pelle; il ventre obeso rientra in se stesso; dalle piante dei piedi escono fuori, attraverso lo zoccolo, le dita; le mani non sono più piedi, ma si adattano alle funzioni che comporta la posizione eretta; il lungo collo si accorcia; il volto e il capo divengono rotondi; le mie enormi orecchie riprendono la primitiva piccolezza; i denti, simili a ciottoli, ritornano alla ridotta misura dell’umana costituzione; e soprattutto, ciò che prima mi tormentava, la coda, ecco, non esiste più! Le turbe sbigottiscono, i fedeli fanno atto di adorazione dinanzi ai poteri manifesti dell’augusta divinità e alla facilità meravigliosa della mia metamorfosi, che s’era svolta simile in tutto alla visione avuta durante la notte. Così essi, a voce alta e in coro, tendendo le braccia al cielo, testimoniano l’insigne beneficio della dea. 475 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

[14] At

ego stupore nimio defixus tacitus haerebam, animo meo tam repentinum tamque magnum non capiente gaudium, quid potissimum praefarer primarium, unde novae vocis exordium caperem, quo sermone nunc renata lingua felicius auspicarer, quibus quantisque verbis tantae deae gratias agerem. Sed sacerdos utcumque divino monitu cognitis ab origine cunctis cladibus meis, quanquam et ipse insigni permotus miraculo, nutu significato prius praecipit tegendo mihi linteam dari laciniam; nam me cum primum nefasto tegmine despoliaverat asinus, compressis in artum feminibus et superstrictis accurate manibus, quantum nudo licebat, velamento me naturali probe muniveram. Tunc e cohorte religionis unus inpigre superiorem exutus tunicam supertexit me celerrume. Quo facto sacerdos vultu geniali et hercules inhumano in aspectum meum attonitus sic effatur: [15] «Multis et variis exanclatis laboribus magnisque Fortunae tempestatibus et maximis actus procellis ad portum Quietis et aram Misericordiae tandem, Luci, venisti. Nec tibi natales1 ac ne dignitas quidem, vel ipsa, qua flores, usquam doctrina profuit, sed lubrico virentis aetatulae ad serviles delapsus voluptates curiositatis inprosperae sinistrum praemium reportasti. Sed utcumque Fortunae [14]

PERCORSO ANTOLOGICO

Quanto a me, tanto era lo sbalordimento, così esorbitante il mio stupore, ch’ero rimasto come impietrato e privo di favella; e l’animo mio non riusciva più a contenere una gioia così improvvisa e grande. Non sapevo più che argomento scegliere ed enunciare pel primo; donde prendere le mosse, con la voce or ora recuperata; con qual discorso inaugurare felicemente la rinascita della mia lingua; quali termini trovare abbastanza espressivi per attestare la mia gratitudine alla dea possente. Ma il sacerdote, il quale, mercè il divino intervento, conosceva dall’a alla zeta tutte le mie disgrazie, benché fosse anch’egli commosso per lo straordinario miracolo, con un significativo cenno del capo ordinò che mi si desse una veste di lino per coprirmi. Difatti, appena m’ero liberato da quella maledetta pelle asinina, io avevo stretto le cosce l’una contro l’altra e vi avevo accuratamente steso sopra le mani per quanto mi consentiva la mia nudità, e avevo così cercato di proteggere il mio pudore con quel velo che la natura mi offriva. Uno del venerabile corteo si affrettò allora a togliersi la tunica esterna ed a coprirmi. Dopodiché, il sacerdote, con espressione ispirata e contemplando affascinato la mia persona, così parlò: [15] – Dopo aver sostenuto prove d’ogni genere ed esser stato travagliato dalle tempeste gravi della Fortuna e dalle più aspre calamità, tu sei finalmente giunto, o Lucio, al porto della Quiete e all’altare della Misericordia. Non ti è giovato per nulla né la nobiltà dei natali1 né la stima dovuta ai tuoi meriti né il sapere medesimo, che in te è grande, ma dal capriccio dell’età giovanile ti sei lasciato trascinare in piaceri degni d’uno schiavo, e hai riscosso l’amara ricompensa della tua infelice curiosità. Ma comunque, la Fortuna, che è cieca e fa il male senza 1. natales: nel corso della narrazione Lucio si vanta di discendere per parte di madre da Plutarco di Cheronea,

l’illustre autore delle Vite parallele e di un imponente corpus di scritti filosofico-morali di indirizzo mistico platoniz-

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zante, nonché da suo nipote Sesto, anch’egli cultore di filosofia morale.


PERCORSO ANTOLOGICO

caecitas, dum te pessimis periculis discruciat, ad religiosam istam beatitudinem inprovida produxit malitia. Eat nunc et summo furore saeviat et crudelitati suae materiem quaerat aliam; nam in eos, quorum sibi vitas in servitium deae nostrae maiestas vindicavit, non habet locum casus infestus. Quid latrones, quid ferae, quid servitium, quid asperrimorum itinerum ambages reciprocae, quid metus mortis cotidianae nefariae Fortunae profuit? In tutelam iam receptus es Fortunae, sed videntis, quae suae lucis splendore ceteros etiam deos illuminat. Sume iam vultum laetiorem candido isto habitu tuo congruentem, comitare pompam deae sospitatricis inovanti gradu. Videant inreligiosi, videant et errorem suum recognoscant: en ecce pristinis aerumnis absolutus Isidis magnae providentia gaudens Lucius de sua Fortuna triumphat. Quo tamen tutior sis atque munitior, da nomen sanctae huic militiae, cuius non olim sacramento etiam rogabaris, teque iam nunc obsequio religionis nostrae dedica et ministerii iugum subi voluntarium. Nam cum coeperis deae servire, tunc magis senties fructum tuae libertatis».

avvedersene, facendoti passare attraverso i pericoli più angosciosi ti ha condotto a questo stato di felicità che offre la religione. Se ne vada, ora, si abbandoni ai maggiori eccessi, e cerchi altri soggetti per la sua crudeltà! L’esistenza di coloro che il sovrano potere della nostra dea riscatta pei suoi servizi, è ormai al di fuori delle asperità della sorte. Briganti, belve, schiavitù, giri e rigiri per strade impossibili, il trovarsi ogni giorno a tu per tu con la morte: quali sono stati i guadagni della Fortuna malvagia? Ormai sei sotto la protezione della Fortuna, ma è una Fortuna, questa, che ha occhi per vedere, e che, con lo splendore emanante dalla sua luce, illumina anche gli altri dèi. Atteggia il tuo volto a quella letizia che si addice a questa tua candida veste, e accompagna con giubilo la processione della dea salvatrice. Vedano gli increduli, vedano e riconoscano il loro errore. Ecco! Lucio celebra con gioia il trionfo sulla sua malvagia Fortuna, poiché Iside ha voluto nella sua previdenza liberarlo dalle antiche miserie. Ma per esser più sicuro della sua protezione, iscriviti in questa santa milizia, dato che pocanzi ti è stato richiesto di giurarle fedeltà. Sin d’ora consacrati all’obbedienza della nostra religione e sottomettiti volontariamente al giogo del suo ministero. Infatti, solo quando comincerai a militare al servigio della dea, potrai meglio capire il valore della tua libertà. (trad. di C. Annaratone)

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

LETTURA e INTERPRETAZIONE Svelamento retrospettivo

L’ispirato discorso del sacerdote di Iside che conclude l’episodio (par. 15) svela retrospettivamente il significato della vicenda finora narrata: Lucio si è lasciato trascinare dalla voluptas e dalla curiositas; ma ora, grazie al misericordioso intervento della divinità, è stato liberato (absolutus) dai travagli della sua lunga espiazione ed ha raggiunto il portus Quietis; finalmente sottratto ai capricciosi e maligni influssi della Fortuna caeca, potrà gioire e trionfare sotto la protezione della Fortuna videns, nella quale si deve riconoscere la benigna providentia Isidis.

PERCORSO ANTOLOGICO

Metamorfosi quale travestimento esteriore dell’iniziazione

La nuova metamorfosi di Lucio altro non è che il travestimento esteriore, a livello narrativo, di un’iniziazione ai misteri isiaci. Già nella notte precedente Lucio-asino si è tuffato nelle acque del mare per purificarsi [ T9], così come il neofita prende un bagno lustrale durante i riti preliminari; la corona di rose allude a quella che l’iniziato si pone sul capo; infine, «la metamorfosi di Lucio in essere umano e la cerimonia che

sullo

scaffale

Il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki Un altro giovane intraprendente e assetato di nuove esperienze percorre un itinerario iniziatico nei meandri di un labirintico romanzo: Alfonso Van Worden, il protagonista (o, per esprimerci con maggiore cautela, uno dei protagonisti) del Manoscritto trovato a Saragozza, misterioso e affascinante capolavoro scritto in lingua francese dopo il 1797 dal nobile polacco Jan Potocki, morto suicida nel 1815 in un alone di leggenda. L’autore del Manoscritto (come già, a suo modo,

lo vede indossare la bianca veste del mista di Iside sono la stessa identica cosa» (Merkelbach).

Una nuova sensibilità religiosa

Si avverte in queste pagine il fermento di una nuova sensibilità religiosa: non è possibile illudersi di resistere ai colpi della Fortuna facendo assegnamento su risorse esclusivamente umane e razionali (natales, dignitas, doctrina), bensì piegandosi alla fiduciosa accettazione di un messaggio religioso salvifico. Notevoli le consonanze terminologiche e concettuali con la spiritualità cristiana: il nuovo significato di libertas, paradossalmente coincidente col servire (inammissibile per la mentalità classica antica); l’uso delle metafore militari (da nomen... sanctae militiae, sacramentum); l’immagine di una divinità pietosa che si china verso la debolezza dell’uomo e lo trae a salvamento, in cambio di un solenne impegno di perpetua dedizione, arrivando a promettergli una vita beata anche dopo la morte; l’idea dell’ingresso nella comunità degli adepti come vera e propria rinascita (renatus quodam modo è detto Lucio poco più avanti, nel cap. 16).

Apuleio) ambisce a realizzare una summa di tutti i generi narrativi conosciuti nella sua epoca (romanzo nero, picaresco, satirico, d’intrigo politico; storie d’amore, di briganti, di fantasmi; racconto fantastico e libertino, conte philosophique, novella orientale, e altro ancora), attraverso una proliferazione di storie che rampollano l’una dall’altra secondo una sofisticata strategia compositiva (si è parlato di «romanzo-matrioska», oppure, ricorrendo alla terminologia musicale, di «grande fuga») e si riflettono l’una nell’altra in un complicato gioco di specchi. Singolare analogia con

il romanzo apuleiano, nell’Epilogo un personaggio – lo sceicco dei Gomelez, signore di una società sotterranea e detentore di una segreta saggezza che affonda le sue radici nelle tradizioni dell’antico Egitto – svela al protagonista il vero significato delle vicende che ha attraversato. In questo caso, tuttavia, non si tratta di una rivelazione religiosa, bensì di una spiegazione razionale dei misteri e dei prodigi magico-demoniaci che costellano il racconto; inoltre, ad Alfonso vengono destinate ricompense decisamente terrene (oro, figli, onori). L’opera di Potocki sembrerebbe dunque ispirata alla

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filosofia naturale settecentesca di matrice illuministica, sul versante sensista e materialista; non senza zone di ambiguità, tuttavia, tanto che nella sua struttura “polifonica”, che comporta la successiva adozione di diversi e contraddittori punti di vista, si è voluto vedere, piuttosto che un romanzo a tesi del secolo dei Lumi, una sorta di barocco «teatro delle maschere», una vertiginosa (e modernissima) professione di relativismo. Dove leggere il romanzo J. Potocki, Manoscritto trovato a Saragozza, prima edizione integrale a cura di R. Radrizzani, trad. di G. Bogliolo, Guanda, Parma 1990 (TEA, Milano 1995).


PERCORSO ANTOLOGICO

CULTURA e SOCIETÀ Splendori e miserie della curiositas

più piena maturità occorre attraversare l’errore fino in fondo.

▰ Il paradosso della punizione Il termine curiositas è attestato per la prima volta nelle Epistulae ad Atticum di Cicerone (II, 12, 2): da cura, attraverso l’aggettivo curiosus, esso indica un’ansia impaziente di conoscenza che può tradursi in frettolosa superficialità, una passione travolgente per la ricerca e l’indagine che può trasformarsi in precipitazione imprudente. Per altro verso, il pensiero cristiano, a partire da Agostino (Confessiones X 35), interpretò la curiositas come «concupiscenza degli occhi», lussuria conoscitiva che devia la conoscenza dal Creatore alle creature, disperdendola nel vano desiderio di esperienze sempre mutevoli anziché concentrarla sull’essenza della Verità interiore. Entrambe le accezioni convergono nella necessità di una punizione: il Lucio di Apuleio subisce la trasformazione in asino per aver preteso una scorciatoia nell’accesso alle arti magiche, saltando il paziente percorso di una graduale formazione spirituale. Notoriamente la vicenda delle Metamorfosi è tra le fonti di ispirazione del Pinocchio di Collodi, il cui protagonista disobbedisce ai sensati consigli di Geppetto, del Grillo parlante e della Fata dai capelli turchini per assecondare la sua curiosità. Eppure, con paradosso significativo, in entrambi i casi è proprio violando le norme della conoscenza convenzionale che si aprono spazi per un’esperienza più ricca e ampia: le avventure di Pinocchio formeranno il suo carattere fino a prepararlo all’acquisizione dell’aspetto umano, così come la metamorfosi asinina apre a Lucio l’accesso a conoscenze ed esperienze del tutto inedite. Per conquistare una

▰ Curiosità e scienza moderna A partire dal Seicento, con la nascita della scienza moderna, la curiosità è stata costantemente rivalutata, e ancora oggi ha un ruolo fondamentale nella nostra visione della conoscenza. Con l’età moderna conoscere non è più ripercorrere un patrimonio già acquisito nel passato, o attingere a una verità predeterminata, o ancora concentrarsi su una teorica essenza astratta delle cose: conoscere è cercare ciò che ancora nessuno conosce, scoprire ciò di cui nemmeno si sospettava l’esistenza. Oggi è impensabile una scienza che non ci ponga costantemente di fronte al nuovo, e ai dilemmi volta a volta inediti che il nuovo ci pone. Nel metodo scientifico trovano così una sintesi curiosità e rigore, l’apertura all’ignoto e la sua integrazione nel conosciuto: anziché violare la moralità, la curiosità ci costringe a porla di fronte a sfide inedite e imprevedibili. Al di fuori dell’ambito scientifico, una delle qualità imprescindibili per il cittadino del mondo “postmoderno”, complesso e in continua trasformazione, pare proprio la curiosità, come disponibilità alle nuove esperienze, desiderio di cimentarsi in situazioni sfidanti, capacità di affrontare l’imprevisto, apertura alle diversità culturali. Forse per questo ancora ci parla con grande forza esemplare l’«orazion picciola» dell’Ulisse dantesco: fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza (Inferno XXVI, 119-120), umanissimo squillo di tromba con cui l’eloquente ingannatore (come tale punito all’inferno) esorta i suoi pochi compagni rimasti a violare ogni confine umano e divino, a seguire le strade rischiose ed esaltanti della curiosità.

Leggere un TESTO CRITICO Diffusione del culto di Iside nel Mediterraneo In questo brano vengono esposti i motivi della grande diffusione del culto di Iside nel Mediterraneo grecoromano (ricerca di un contatto diretto con il divino;

speranze di salvazione; superamento delle differenze sociali): gli stessi motivi che favoriscono, proprio negli stessi anni, il successo della religione cristiana.

Identificandosi con la Madre degli Dei, Iside divenne, dovunque raccolse adepti, la Forza della Vita, la Natura intima del mondo. A quel punto essa divenne importante non solo sulle sponde del Nilo, ma lungo tutte le coste del Mediterraneo, e anche oltre. Nella sua terra natale si diceva di lei che era potente sulla terra e grande agli Inferi, che faceva gonfiare la corrente del Nilo in modo che abbracciasse e fecondasse la terra, creando 479 © Casa Editrice G. Principato


L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

14. Apuleio

PERCORSO ANTOLOGICO

cosí tutto quanto esiste. Ora essa adempiva tutte queste funzioni su scala pancosmica. Troviamo Iside rispettata e ammirata da Apuleio come lo è Venere da Lucrezio, per il fatto di dar vita a tutte le cose che vivono nell’aria, in mezzo al mare e sulla terra, la fauna e la flora. La sua potenza controlla i venti, le stagioni, e la rotazione dei cieli. Da lei si sprigiona la luce del sole. Quando Lucio cade lungo disteso dinanzi alla sua immagine e preme su di essa il suo volto bagnato di lacrime, invocandola tra i singhiozzi, la sua estrema umiliazione è una prova del suo sentimento di nullità e di indegnità di fronte alla divina maestà della dea. È un incontro diretto tra un miserabile e la Onnipotente Signora. [...] La divinità salvatrice delle religioni misteriche era personalmente interessata al benessere dell’umanità; essa aveva esperienza della sofferenza umana, e addirittura la sperimentava. Il mystes [= colui che veniva iniziato ai sacri misteri] si rivolgeva ad una potenza divina che avrebbe ascoltato direttamente le sue preghiere ed assicurato in eterno la sua salvazione. Iside affermava orgogliosamente nella sua aretalogia [letteralmente «racconto di cose meravigliose»: nelle letterature classiche sta a indicare la novellistica sacra, qualcosa di molto simile a quello che sarà più tardi l’agiografia cristiana] di essere stata responsabile della rivelazione agli uomini dei misteri. A lei in effetti essi facevano appello più che ad ogni altra divinità nei momenti di sconforto, perché tutti essa abbracciava, dando sicura speranza di consolazione e di conforto. «Iside» si può pensare che essi abbiano gridato «nella tua veste nera, abbi pietà di noi». L’iniziato era solo con la Madre, le parlava con fiducia. Ed essa ascoltava compassionevolmente. Quanto era diverso tutto ciò dal tentare di arrampicarsi sull’Olimpo! Lì abitava in splendido isolamento l’altissima ma remota gerarchia del pantheon greco. Sembravano gli dèi immaginati da Lucrezio negli intermundia, creature fittizie in sconosciute regioni dello spazio, assolutamente prive di interesse per i problemi di tutti i giorni degli uomini. Nel mondo postalessandrino, in cui uomini e donne erano così spesso scossi e disillusi dallo spettacolo di edifici politici che si sbriciolavano o erano caduti, scarso conforto era da attendersi dagli Olimpii. Milioni di persone in quel tempo devono aver anelato ad un colloquio personale, in merito alle loro speranze e ai loro timori, con quegli augusti e celesti aristocratici – ma tutto invano. Solo Iside li ascoltava. [...] Vitruvio, un’autorità per quanto riguarda l’architettura romana, osserva che è molto diverso il luogo in cui si innalzano templi a divinità olimpie come Giove, Giunone e Minerva, da quello dei templi di Iside e Serapide [un’altra divinità egizia, spesso identificato con Osiride, marito di Iside]. I difensori tradizionali delle città-stato hanno la loro sede in alto su un’acropoli, mentre la coppia egiziana è adorata in una piazza del mercato. Questa chiara distinzione fatta da un osservatore esperto dà un’idea precisa del contrasto che c’è tra l’antica religione tradizionale e la nuova fede alessandrina da poco importata: un contrasto di cultura, di simboli, e anche di topografia. Iside e le divinità sue compagne d’Egitto fanno presa nelle città italiche per la loro disponibilità a porsi su di un piano relativamente modesto. Essa entra come amica delle masse; pone la sua casa a stretto contatto con il centro degli affari e del commercio dove può essere vicina e cara all’uomo comune. Essa è Amore nel senso più pieno. Il Signore e le Signore della triade capitolina, guardate dal basso nel forum, potevano sembrare aristocraticamente scostanti al basso popolo che cercava aiuto divino al suo livello. (R.E. Witt, Isis in the Graeco-Roman World, Thames and Hudson, London 1971, pp. 133 ss.; traduzione italiana in L’agonia del paganesimo, a cura di I. Micheli, Messina-Firenze 1974, pp. 104-107)

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LABORATORIO

Nell’officina di Apuleio La prima metamorfosi di Lucio Metamorphoseon III, 24

SINEDDOCHE

DIMINUTIVO DI PLUS DIMINUTIVO DI PLUMAE DIMINUTIVO DI TENERA OMOTELEUTO

[Photis] summa cum trepidatione inreˉ pit cubiculum et pyxidem depromit arcula. Quam ego amplexus ac deosculatus prius utque mihi prosperis faveret volatibus deprecatus abiectis propere laciniis totis avide manus immersi et haurıˉto plusculo uncto corporis mei membra perfricui. Iamque alternis conatibus libratis brachiis in avem similem gestiebam: nec ullae plumulae nec usquam pinnulae, sed plane pili mei crassantur in setas et cutis tenella duratur in corium et in extı̆mis palmulis perdito numero toti digiti coguntur in singulas ungulas et de spinae meae termino grandis cauda procedit. Iam facies enormis et os prolixum et nares hiantes et labiae pendulae; sic et aures inmodicis horripı̆lant auctibus.

I dati

5

Giunto in Tessaglia, Lucio ha trovato ospitalità nella casa di Milone, la cui moglie – Panfile – è dedita alle arti magiche. Grazie ai favori dell’ancella Fotide, Lucio assiste segretamente alla trasformazione di Panfile in uccello. Desideroso di vivere anch’egli la stessa esperienza, chiede a Fotide un po’ dell’unguento di cui si era servita la padrona: ma Fotide sbaglia vasetto, e Lucio si ritrova, all’improvviso, trasformato in asino.

Dentro il testo 1 2 3

4

Traduci il brano proposto. Dividi il brano in sequenze, assegnando a ciascuna di esse un titolo. Inrepit: propriamente “entrare strisciando”: la preposizione in, incorporata nel verbo, regge l’accusativo di moto a luogo (cubiculum). Scandisci il paradigma del verbo. Pyxis, -idis (originariamente una piccola scatola in legno, dal sostantivo greco pyxis, “bosso”) indica in latino un contenitore di unguenti o profumi, generalmente di forma cilindrica. Come si è evoluto, nella nostra lingua, il termine? E in quale ambito semantico è oggi utilizzato?

6 7

8

9

10 11

12

DIMINUTIVO DI ARCA ABLATIVO ASSOLUTO ABLATIVO ASSOLUTO ABLATIVO ASSOLUTO DIMINUTIVO DI PINNAE DIMINUTIVO DI PALMIS

POLISINDETO

Arcula è diminutivo di arca, e significa “scrigno”. Apuleio lo usa ancora nel suo valore diminutivo, che già da tempo i parlanti non riconoscevano più. Sapresti indicare uno o più termini della lingua italiana che hanno egualmente perduto, con il passare del tempo, il valore diminutivo? Lacinia: letteralmente significa “lembo”: ma qui, per sineddoche, “vestito”. Totis: totus, che in età classica era un termine del lessico familiare, nel latino imperiale va gradatamente sostituendo omnis: quale dei due termini si affermerà nella lingua italiana? avide manus immersi: che cosa rivela questa espressione? qual è lo stato d’animo di Lucio in questo momento? Haurito: participio perfetto del verbo haurio, attestato solo in età imperiale: qual era la forma classica? Uncto: in funzione di sostantivo, è un neologismo dell’autore. In avem similem gestiebam: si può parlare, per questo dettaglio narrativo, di ironia? o addirittura di un registro comico-grottesco? Nec ullae plumulae nec usquam pinnulae: ellissi del verbo (esse) e uso di diminutivi: che effetto producono sul lettore? Come tradurre? 481

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L’ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI

13 14

crassantur: ancora un termine sconosciuto al latino classico, e che deriva dall’aggettivo crassus. Come si configura la descrizione della metamorfosi di Lucio? Completa la tabella seguente, ponendo l’attenzione sull’uso dei vocaboli che riguardano il corpo di Lucio e la sua nuova veste animalesca: pili

setae

19

20 21

Oltre il testo

cutis digiti

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spinae terminus facies

facies enormis

os

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nares labiae

24

aures 15 16 17

18

Possiamo parlare, per le Metamorfosi, di un puro piacere della narrazione? Motiva l’asserzione fondandoti sul brano letto e su altri passi a te noti del romanzo. Paratassi e ipotassi: quale procedimento prevale in Apuleio? Con quali effetti sulla narrazione? Poni in rilevo gli aspetti stilistici più significativi dello stile di Apuleio.

Horripilant: un altro neologismo di Apuleio. Significa «avere il pelo irto». In quale punto del brano l’autore passa al presente storico o narrativo? Per ottenere quale effetto? Apuleio ricorre più volte, in questo brano, a termini diminutivi: si può dire che si tratta di un gusto proprio di un’intera epoca? Conosci autori coevi ad Apuleio che ne abbiano fatto uso? Si è parlato, per il personaggio di Lucio, di curiositas: in quali punti del brano emerge questo aspetto della sua personalità?

25

Seleziona un passo delle Metamorfosi di Ovidio in cui si descriva, come qui, un processo di trasformazione. Esistono affinità nei procedimenti dei due autori? Che cos’era, propriamente, nella casa ellenistica, un cubiculum? Ricerca e spiega anche l’esatto significato dei seguenti termini: fauces, atrium, tablinum, triclinium, peristylium, exhedra. Figure di maghe potenti e terribili sono spesso presenti nella letteratura classica: pensa, in particolare, a Circe e a Medea, protagoniste di celebri passi dell’Odissea e delle Argonautiche. Una parte importante della narrazione nelle Metamorfosi di Apuleio è ambientata in Tessaglia, che nel mondo antico fu considerata un luogo di magie e di sinistri portenti. Si ricordi l’impressionante descrizione dei macabri sortilegi della strega tessalica Erichto fornita da Lucano nel libro VI della sua Farsaglia.

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14. Apuleio

MAPPA APULEIO (ca 125-170 d.C.)

orazione di autodifesa al processo di Sabratha (158 o 159 d.C.) – l’accusa: ricorso alle arti magiche – incrocio tra oratoria giudiziaria ed eloquenza epidittica – distinzione tra magia positiva (= filosofia) e magia deteriore (= stregoneria)

23 estratti di discorsi epidittici (160-170 d.C.) – documentazione dell’attività di conferenziere – argomenti i più svariati e curiosi – virtuosismo retorico

• • • • •

De Platone et eius dogmate De deo Socratis De mundo corrente del platonismo medio grande rilievo storico per la conoscenza della dottrina platonica prima dell’Umanesimo

romanzo in 11 libri – unico in lingua latina pervenuto integro fabula Milesia, romanzo ellenistico – influssi di molteplici altri generi avventure di Lucio trasformato in asino struttura tripartita – libri I-III: Lucio in Tessaglia, curiositas e magia – libri IV-X: avventure picaresche di Lucio-asino; al centro la fabella di Amore e Psiche – libro XI: isiaco e misterico, svelamento retrospettivo – aperto il dibattito sull’unità del romanzo ricchissima tessitura linguistica, composita e artificiosa – virtuosismo retorico – poikilía, abundantia, arte allusiva

Apologia o De magia

Florida

Opere filosofiche

Metamorphoseon libri o Asinus Aureus

• •

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Apuleio

Verifica finale Completamento

1

Inserisci i dati mancanti della biografia di Apuleio.

Apuleio nasce verso il a nella provincia romana d’Africa. Compie i suoi studi a , poi ad . Aspira a conseguire una cultura , culminante nella conoscenza della . Viaggia a lungo, sospinto dalla curiositas, esercitando l’attività di ; viene iniziato a numerosi . Nel 158 o 159 viene tratto in giudizio sotto l’accusa di aver indotto al matrimonio una ricchissima vedova mediante ; la sua orazione di autodifesa è nota con il titolo di , ovvero De magia. Negli anni successivi torna a stabilirsi a . Dopo il di lui non si hanno più notizie. p._____/12

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Apuleio possiede perfettamente sia la lingua greca sia quella latina b. Della sua produzione in lingua greca si sono conservate opere erudite in prosa c. I Florida sono una raccolta di sentenze e brani filosofici d. Segue l’indirizzo dottrinale del platonismo medio e. Si ignora in quale periodo abbia composto le Metamorfosi f. Apuleio dichiara di rifarsi nel suo romanzo alle fabulae Milesiae g. Destinatari delle Metamorfosi sono solo i lettori più colti e raffinati h. Il titolo Asinus aureus compare per la prima volta in un’opera di S. Ambrogio

3

p._____/5

V|F

Totale p._____/25

V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F

p._____/8

Quesiti a scelta multipla

■ è un’esortazione a intraprendere la via della sapienza ■ compendia la fisica e l’etica platoniche ■ è un commento ai dialoghi “socratici” di Platone 3. Le Metamorfosi sono strutturate ■ in due sezioni simmetriche, separate dalla favola di Amore e Psiche ■ in quattro blocchi narrativi, scanditi dalle metamorfosi del protagonista ■ in tre sezioni, ciascuna conclusa da un’inserta fabula ■ in tre blocchi narrativi di ampiezza diseguale 4. L’inserto novellistico più ampio del romanzo è ■ la Storia di Telifrone ■ la Favola di Amore e Psiche ■ la Storia di Tlepolemo, Carite e Trasillo ■ la Storia della matrigna avvelenatrice e del medico saggio 5. Per ritornare alla forma umana Lucio-asino dovrà ■ mangiare una ghirlanda di rose ■ ungersi con un nuovo balsamo magico ■ assistere alla festa del dio Riso ■ mangiare tre diversi frutti esotici

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Elenca le opere pervenute di Apuleio, precisandone il genere e l’argomento. 2. Esponi con quali argomentazioni Apuleio sostenga la sua autodifesa nell’Apologia. 3. Il parallelismo tra la vicenda di Lucio e quella di Psiche.

Trattazione sintetica

Indica il completamento corretto.

1. L’Apologia viene prevalentemente considerata ■ un’orazione giudiziaria ■ un incrocio fra differenti generi oratorii ■ un autoritratto in forma di conferenza ■ un’orazione epidittica 2. Il trattato De Platone et eius dogmate ■ espone la dottrina platonica dei dèmoni

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Fonti e modelli delle Metamorfosi. 2. Mutazioni di contenuto e di tecnica narrativa nei diversi blocchi del romanzo. 3. Divergenti interpretazioni in merito all’unità del romanzo.

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4 Dalla crisi dell’impero alla fine del mondo antico Lo scenario temporale

Da Settimio Severo ai regni romanobarbarici (193-secolo VI d.C.)

15 La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo 16 Le nuove forme della letteratura cristiana 17

Scrittori cristiani fra II e IV secolo

18

La rinascita della cultura pagana

19

Il trionfo del cristianesimo

20 Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

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15 L a crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo 1 La crisi politica, sociale e spirituale dell’impero L’età di Marco Aurelio Il 17 marzo del 180 d.C. Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, moriva a Vienna, al termine di un principato oppresso dall’angoscia della peste (importata nel 166 dall’esercito del fratello Lucio Vero, di ritorno da Oriente) e dalle prime minacciose incursioni barbariche lungo i confini del Danubio (nel 168 Marcomanni e Quadi si spinsero fino ad Aquileia e a Verona). L’epidemia di peste aveva costretto l’imperatore ad arruolare contingenti barbarici non romanizzati negli auxilia dell’esercito, per reintegrare i reparti sguarniti. Erano, in molti casi, gli stessi uomini che si cercava di ricacciare oltre confine con la forza delle armi: la contraddizione sarebbe inevitabilmente esplosa due secoli dopo. I Ricordi I Ricordi di Marco Aurelio, redatti in lingua greca nell’ultimo decennio di vita, sono la testimonianza più cruda e oggettiva della crisi che tormentava la civiltà classica, chiusa entro i confini di un moralismo nobile e austero, costretta a giocare in difesa la propria partita con la storia. Marco Aurelio scrive sotto la tenda militare ai confini dell’impero, in terre nordiche devastate dai nemici, dettando a se stesso pensieri sulla morte e sulla vanità delle azioni umane.

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La vecchiaia del mondo Dai monti scavati e tormentati si estraggono sempre meno lastre di marmo: le miniere ormai sfruttate offrono minor ricchezza d’argento e d’oro, i filoni impoveriti si esauriscono di giorno in giorno; e diminuiscono e mancano nei campi i contadini, nel mare i marinai, i soldati negli accampamenti, la rettitudine nella vita pubblica, la giustizia in tribunale, nelle amicizie la concordia, nelle attività pratiche la perizia, nei costumi i buoni princìpi. (Cipriano, A Demetriano 3, 8, trad. di G. Toso)

Corpus Hermeticum Anthologia Latina Centones Disticha Catonis Constitutio Antoniniana De die natali

Tabula Peutingeriana

Pur continuando a combattere con energia e con coraggio, tenendo fede all’impegno di compiere fino in fondo il proprio dovere per la salvezza dello Stato romano, l’imperatore-filosofo non può fare a meno di confessare a se stesso l’inanità di ogni impresa. La sua fiducia nella razionalità e nella provvidenzialità dell’universo appare minata da un profondo senso di disagio esistenziale e di funebre fatalismo. Eppure, di lì a pochi anni, gli scrittori del III secolo avrebbero considerato il principato di Marco Aurelio come l’ultimo tempo felice della storia romana: si affermava la coscienza della crisi e della decadenza, che non avrebbe più abbandonato da quel momento la cultura pagana. Il principato di Commodo Il successore di Marco Aurelio, il primogenito Commodo (180-192), si affrettò alla morte del padre a concludere una pace svantaggiosa con le popolazioni germaniche. Tornato a Roma, impostò una politica autocratica ispirata, come quella di Marco Antonio, di Caligola e di Nerone, ai modelli orientali. Di nuovo si spezzava, con lui, il disegno augusteo di una diarchia senato-princeps a favore di una monarchia assoluta. Commodo represse il senato e condusse una campagna di confisca dei beni senatorii. Le magistrature furono ridotte a meri simulacri: nel solo 189 si avvicendarono ben venticinque consoli. Vittima di una congiura, Commodo cadde assassinato il 31 dicembre del 192.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

fonti

PROFILO STORICO

visive

La famiglia imperiale Nel tondo si trova raffigurata, in abiti di rappresentanza, la famiglia imperiale: dall’alto, Settimio Severo e la moglie Giulia Domna, con i figli Geta e Caracalla. Settimio e i figli indossano corone d’oro decorate con pietre preziose. Si osserverà il colore scuro della pelle di Settimio, che era originario della Libia, mentre Giulia Domna della Siria. Il volto cancellato è quello di Geta, il figlio più giovane di Settimio e di Giulia, che fu fatto assassinare dal fratello dopo una breve coreggenza: Caracalla procedette, dopo l’assassinio, a far cancellare ogni immagine, pubblica o privata, del fratello: un caratteristico esempio di damnatio memoriae.

Tondo severiano, tempera su legno (diametro cm. 30, 5), fine del II secolo d.C. Berlino, Altes Museum.

L’età dei Severi (193-235) Nel caos dei pretendenti, tutti sorretti dalla forza degli eserciti, prevalse Settimio Severo, un generale di origine africana che comandava le truppe della Pannonia Superiore. Iniziava con lui una nuova dinastia, quella dei Severi, destinata a sconvolgere per sempre gli equilibri dello Stato romano. Settimio Severo (193-211), dopo aver riabilitato e divinizzato la figura di Commodo, contro il quale il senato aveva preteso una damnatio memoriae, assunse il titolo di dominus, termine che in Roma significava potere assoluto e tirannico. I Severi ridussero progressivamente il senato a uno strumento burocratico privo di reali facoltà decisionali, instaurando una monarchia militare, fondata sulla potenza degli eserciti. La necessità di favorire con privilegi e donativi la classe militare determinò un nuovo inasprimento del sistema fiscale, il che aggravò la situazione economica dello Stato e ridusse il valore della moneta romana. La Constitutio Antoniniana Il successore di Settimio Severo fu il figlio Marco Aurelio Antonino, detto Caracalla (211-217) dal mantelletto gallico che era solito portare. Appena eletto, Caracalla emise un editto, la Constitutio Antoniniana (212), che estendeva il diritto di cittadinanza romana a tutte le province dell’impero, portando a termine un processo storico iniziato nel I secolo a.C. con la guerra sociale e con il progetto universalistico di Giulio Cesare. Il livellamento amministrativo e giuridico dell’impero provocò un indebolimento delle strutture statali, nonché un ulteriore aggravio della pressione fiscale: il diritto alla civitas comportò infatti l’applicazione della vigesima hereditatum, la tassa di successione dei beni patrimoniali, prima limitata solo ad alcune province. Orientalizzazione dell’impero Fino allora l’impero era stato governato da potenti famiglie di origine italica e iberica. I Severi erano invece una dinastia afro-­ orientale: Settimio proveniva dall’Africa; la moglie Giulia Domna dalla Siria. Roma divenne con Caracalla, e ancor più con Elagàbalo (218-222), una corte orientale, dominata dall’elemento femminile e dal simbolismo cerimoniale, aperta 488 © Casa Editrice G. Principato


15. La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo

agli influssi dei culti orientali, misterici ed escatologici. Non solo mutavano le forme del governo imperiale: mutavano anche gli antichi mores su cui si era fondato il nome di Roma. Il senato, pur spossessato del potere politico e impoverito dalle periodiche repressioni, rimase l’unico custode di una romanità che andava fatalmente dissolvendosi nel crogiolo religioso e culturale dell’impero. L’età dell’anarchia militare (235-284) La caduta dei Severi (235) provocò una situazione ancora più confusa, inaugurando l’età dell’anarchia militare (235-284), caratterizzata da instabilità politica, difficoltà economiche e inquietudine sociale. In meno di cinquant’anni si diedero il cambio undici imperatori, quasi tutti assassinati o morti in modo tragico combattendo contro forze nemiche. Il primo di essi, Massimino Trace (235-238), incarnava una figura del tutto inedita per la storia romana: di umilissime origini (fanciullo pascolava le pecore sui monti della Tracia), privo di studi, inesperto della lingua latina, aveva percorso i gradi della carriera militare grazie alla sua straordinaria prestanza fisica; proclamato imperatore dalle truppe, non si curò neppure di ricevere dal senato la tradizionale investitura. Nell’anno 248, mentre veniva festeggiato con grande fasto e pompa di spettacoli il millennio della fondazione di Roma, i Goti penetravano nella penisola balcanica mettendola a ferro e fuoco. Scorrerie barbariche, crisi economica, inflazione sempre crescente a causa degli alti costi degli eserciti e dell’instabilità sociale, spopolamento delle campagne indotto anche dal calo demografico e dalle epidemie crearono un quadro di incertezza e di miseria di cui restano testimoni gli apologisti cristiani dell’epoca. Il vescovo Cipriano [ cap. 17.3], intorno al 246-247, descriveva così lo stato dell’impero: «le strade sono sbarrate dai briganti, i pirati percorrono i mari, dappertutto si sparge sangue e si fa guerra tra forze nemiche; sangue fraterno bagna il mondo» (Ad Donatum 6). Verso la metà del secolo l’impero sembra sul punto di disgregarsi: nel 251 Decio (249-251) muore combattendo contro i Goti; nel 260 Valeriano (253-260), catturato con l’inganno dai Persiani, muore in vergognosa prigionia; il suo cadavere viene scorticato e la pelle appesa in un tempio come macabra spoglia trionfale a irrisione del nome di Roma [ T10 ONLINE , cap. 17]. Sotto il regno di Gallieno (260-268), la Gallia si rende indipendente; in Oriente si costituisce il regno di Palmira. Le successive vittorie di Claudio il Gotico (268-270), di Aureliano (270-275) e di Aurelio Probo (276-282) preludono a un periodo di riscossa istituzionale, che si compirà con il regno di Diocleziano. Le mura aureliane innalzate a difesa di Roma nel 271, di cui sono tuttora visibili le imponenti reliquie, sono un segno di questo recupero ma anche il sintomo di una paura che si materializzerà più di un secolo dopo, nel 410, con l’assedio e l’espugnazione dell’urbe ad opera dei Visigoti di Alarico. Diocleziano (284-305) Imponente e coraggiosa, l’opera di riforma avviata da Diocleziano riguardò l’intera vita amministrativa ed economica dell’impero, riu­ nificato lungo i confini tradizionali e riorganizzato nella Tetrarchia, un sistema che prevedeva due Augusti (uno a capo delle terre d’Occidente, l’altro d’Oriente) e due Cesari (già designati per la successione, in modo da evitare disordini dinastici). Diocleziano si richiamava, nel suo nuovo ordinamento, alle antiche virtutes romane. Ma ben poco aveva in comune con l’antica Roma la sua concezione autocratica e teocratica dell’impero, a sua volta fondata su una concezione divina e sacrale della persona dell’imperatore: Diocleziano si fregiò dell’appellativo di 489 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

PROFILO STORICO

Iovius; la statuaria dell’epoca lo raffigura in un atteggiamento ieratico finora sconosciuto all’arte romana. Nel suo sforzo autocratico, Diocleziano cercò di eliminare ogni forza antagonistica al suo progetto. Va spiegata così la terribile persecuzione dei cristiani che insanguinò l’impero fra il 303 e il 305, e che continuò localmente fino al 312. Persecuzioni di cristiani avevano già avuto corso durante l’impero di Decio e di Valeriano [ cap. 17.3], ma quella di Diocleziano fu la più accanita e spietata: in gioco era l’unità dell’impero, intesa non solo in senso amministrativo e territoriale, ma anche politico e culturale. L’unità religiosa Nel mondo romano la vita religiosa era stata vincolata, fin dalle origini, a quella pubblica e civile: «i gesti sacerdotali erano affidati a tutti quelli che erano, o erano stati, regolarmente eletti come magistrati o sacerdoti del popolo romano. Tutti i magistrati dovevano svolgere mansioni sacerdotali» (Scheid). L’unità politica e culturale dell’impero passava necessariamente per quella religiosa. Agli occhi di Diocleziano non poteva sfuggire il carattere anti-istituzionale assunto dalla religione cristiana (si pensi ai casi di diserzione militare, all’aperto rifiuto dei culti imperiali), né lo stato di conflittualità e di disgregazione in cui versavano le sette cristiane (da sempre divise su questioni dottrinali). Il proposito di ripristinare uno Stato forte e organico imponeva dunque la restaurazione dei culti tradizionali. Prima ancora dell’editto di Nicomedia (23 febbraio 303), con il quale venivano colpite le chiese cristiane, Diocleziano aveva promulgato nel 297 un editto analogo contro la religione manichea. L’impero cristiano Paradossalmente, l’idea-guida di Diocleziano era destinata a realizzarsi non molti anni dopo sotto il vessillo del cristianesimo. Furono

fonti

visive

I Tetrarchi Il celebre gruppo, incastonato nell’angolo sud della Basilica di San Marco, raffigura i Tetrarchi stretti nel simmetrico abbraccio simboleggiante la Concordia Augustorum: gli Augusti Diocleziano e Massimiano abbracciano i Cesari Galerio e Costanzo Cloro. Lo stile della plastica tetrarchica, potentemente compatto e rigidamente schematizzato, «bene aderisce al duro porfido, fornito dalle cave imperiali d’Egitto, che, richiamando il colore della porpora, è sempre più usato come materiale consono alla maestà imperiale nei ritratti [...] Le teste assumono la compattezza di un solido geometrico su cui le unitarie calotte di capelli sono nettamente marginate, le barbe sono picchiettate e incise con duro e astratto calligrafismo, le pieghe dei panneggi scavate con rigida simmetria» (Becatti).

Gruppo in porfido dei Tetrarchi. Venezia, Piazzetta di San Marco.

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15. La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo

Costantino e Teodosio, infatti, a restaurare l’unità dello Stato romano, accentuando i tratti sacrali e autocratici della figura imperiale. È significativo il fatto che Costantino, dall’alto della sua carica di pontefice massimo, nel 325 volle convocare il Concilio di Nicea per risolvere la spinosa questione intorno alla natura umana e divina del Cristo: l’impero non poteva tollerare disunioni sul piano religioso. Teodosio operò la svolta definitiva: il 28 febbraio 380 l’editto di Tessalonica impegnava i sudditi a una rigorosa osservanza dell’ortodossia cristiana; il 20 dicembre 381 furono emanate a Costantinopoli le prime norme contro il paganesimo; nel 391 una Costituzione rendeva il cristianesimo religione di Stato; nel 392 fu alfine pubblicata una legge speciale contro i culti pagani.

Guida allo studio

1.

Dalla morte di Marco Aurelio (180 d.C.) a quella di Aurelio Probo (282 d.C.) corre un secolo caratterizzato da profondi mutamenti: ricorda le personalità di maggiore rilievo e gli eventi più significativi. 2. In quale momento della storia romana incomincia ad affermarsi la «coscienza della crisi», l’inquietante consapevolezza di una decadenza irreversibile? 3. Illustra l’opera di riforma dello Stato romano avviata da Diocleziano (284-305), indicando le idee-guida e gli obiettivi del grandioso progetto, nonché i principali provvedimenti adottati.

4. Quali furono i due imperatori che di fatto portarono a compimento il progetto di Diocleziano nel secolo successivo? È lecito affermare che furono i principali fautori di una svolta di incalcolabile rilevanza storica? 5. Nei due secoli che seguono la morte di Marco Aurelio la concezione dell’impero e della persona dell’imperatore subiscono profonde trasformazioni. Indica quali, distinguendo le varie fasi del processo. Si può parlare di un’accentuazione di tendenze già in atto fin dalle origini della storia imperiale?

2 Filosofia e religione nell’età della crisi Orientalizzazione della corte e diffondersi dei culti misterici L’orientalizzazione della corte imperiale e la tendenza ellenizzante favoriscono interessi di natura religiosa e filosofica piuttosto che letteraria. Secondo un orientamento già attestato dalle Metamorfosi di Apuleio, sempre più si diffondono i culti misterici e soteriologici, che assicuravano un contatto diretto con la divinità, la speranza di una redenzione e di una salvezza individuale oltre la vita terrena, l’accesso a pratiche cultuali vissute comunitariamente. Elagabalo impone il culto sincretistico del dio Sole, rispetto al quale ogni altra divinità doveva essere considerata subalterna. Anche il successore Severo Alessandro favorì una religione di tipo sincretistico: nel palazzo imperiale dove viveva non mancava ogni giorno di sostare dinanzi a un larario nel quale erano raffigurati i grandi «santi» dell’umanità, da Apollonio di Tiana (un taumaturgo vissuto nel I secolo d.C.) ad Abramo, da Cristo a Orfeo fino allo stesso Alessandro Magno. La madre di Severo Alessandro, fra l’autunno del 231 e la primavera del 232, volle a corte il filosofo cristiano Origene per essere istruita sulle rivelazioni della nuova fede. Il neoplatonismo Le tradizionali filosofie pagane, di orientamento razionalistico, sembrano destinate ad esser travolte dalle nuove religioni rivelate. In realtà, pro491 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

PROFILO STORICO

prio mentre si diffonde il cristianesimo, il mondo pagano elabora con Plotino e i suoi discepoli uno dei sistemi filosofici più complessi e profondi del mondo antico, una dottrina che chiamiamo neoplatonica perché fondata su una nuova interpretazione del pensiero di Platone, sincretisticamente fuso con l’eredità delle altre scuole filosofiche greche e delle correnti orfiche, dionisiache, misteriche. Il neoplatonismo può dunque essere anche letto, sul piano storico, come un tentativo di fondere le prospettive razionalistiche della grande tradizione filosofica con le nuove spinte irrazionalistiche e religiose della cultura contemporanea. Il pensiero di Plotino Al centro della filosofia di Plotino, forse la più ardua e complessa speculazione del mondo antico, sta il problema del rapporto fra Dio e mondo, fra l’Uno e il molteplice. Dall’Uno discendono, attraverso un processo di irradiazione, il Noûs (variamente tradotto con Spirito o Intelletto) e l’Anima: Uno,

Marco Aurelio: A se stesso Providentia deorum è uno dei motti più diffusi sulle monete del II secolo: una provvidenza razionale regge l’universo, e influenza benignamente la trama degli avvenimenti. A questo modello si ispira Marco Aurelio, nel tracciare il profilo di un imperatore impegnato in un’attiva opera di filantropia universale; tuttavia la solidarietà filantropica sembra scontrarsi, nelle epigrafiche e scabre riflessioni dei Ricordi, con il senso della miseria e della caducità degli uomini e degli eventi. Il dovere di umana partecipazione ne risulta tanto più eroico ma anche venato di rassegnazione. Una filosofia nobile e austera, quella di Marco Aurelio, inadatta a soddisfare quelle ansiose aspettative salvifiche e la ricerca di un rapporto personale con la divinità, quali si trovavano nell’ultimo libro delle Metamorfosi di Apuleio come nei testi apologetici che i cristiani inviavano allo stesso imperatore, ricevendone in cambio aristocratico disprezzo. Alessandro il Macedone e il suo mulattiere, morendo, ebbero uguale sorte, perché o furono riassorbiti nei principii creativi dell’universo o andarono dispersi entrambi in atomi [Ricordi VI, 24]. L’Asia, l’Europa, angoli dell’universo; l’intero mare una goccia dell’universo; il monte Athos una zolla dell’universo; ogni attimo un punto dell’eternità. Tutto è piccolo, mutabile, destinato a svanire [Ricordi VI, 36]. Mira, come da un altissimo culmine, le innumerevoli greggi umane, le loro innumerevoli cerimonie, il navigare che fanno, da ogni parte, in tempesta e in bonaccia, le diversità di coloro che nascono, convivono, muoiono. Considera la vita vissuta sotto antichi regni; quella che altri vivranno dopo di te, quella che oggi si vive tra popoli barbari; e quanti non ti conoscono neppure di nome,

quanti tra poco se ne saranno dimenticati, quanti che ora ti lodano, tra breve ti insulteranno; e come la memoria, la fama, nulla sia quaggiù degno di stima [Ricordi IX, 30]. La sostanza di ogni corpo è la putrefazione; acqua, polvere, ossicini, lordura. I marmi sono callosità della terra; l’oro e l’argento, sedimenti; le vesti, peli; la porpora, sangue. E così tutto il resto. Lo spirito è anch’esso qualcosa di simile e passa, trasformandosi, da un essere all’altro [Ricordi IX, 36]. O uomo, tu sei stato cittadino di questa grande città. Che ti importa, se per cinque o tre anni? Quel che avviene secondo le leggi, è giusto per tutti. Che cosa v’è quindi di terribile, se dalla città non ti scaccia un tiranno, un giudice iniquo, ma quella stessa natura che prima ti ha introdotto? Come un attore comico congedato dal pretore che l’aveva assunto in scena. «Ma io non ho recitato i cinque atti del dramma, bensì tre». Ottimamente; nella vita però i tre atti sono il dramma intero, perché colui che stabilisce la fine è quel medesimo che, una volta, è stato già l’autore dell’intreccio ed ora lo è dello scioglimento. Tu invece non sei autore né dell’una né dell’altra cosa. Vattene quindi tranquillo, com’è tranquillo colui che t’accomiata [Ricordi XII, 36]. (trad. di C. Carena)

▰ Per saperne di più Di Peter Brown, tra i maggiori studiosi del Tardo Antico, ti consigliamo in particolare il volume Il mondo tardo antico (Einaudi, Torino 1974). Per approfondire gli sviluppi del pensiero stoico tra I e II secolo d.C., puoi leggere il Manuale di Epitteto, che influenzò Marco Aurelio e la cui fortuna giunge fino alla modernità: lo tradusse, fra gli altri, Giacomo Leopardi. L’edizione di riferimento è Epitteto, Manuale, Garzanti, Milano 1990, che riporta in appendice anche il «volgarizzamento» leopardiano.

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15. La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo

Intelletto e Anima (paragonati a Luce, Sole e Luna) costituiscono le tre ipostasi (cioè sostanze) attraverso cui l’Essere (ousía) si rivela, divenendo altro da sé. Al fondo del processo di irradiazione, che è il risultato di una sovrabbondanza d’essere dell’Uno, il quale resta dunque sempre integro in sé senza mai depauperarsi, sta la materia, interpretata non come male ma come privazione di bene. Plotino continua a serbarsi fedele al principio classico della razionalità del cosmo: la ragione resta lo strumento fondamentale attraverso il quale l’uomo può comprendere l’essenza dell’universo, senza ricorrere a pratiche teurgiche o all’aiuto trascendente della divinità. Anche la nozione di estasi, fondamentale nell’economia del pensiero plotiniano, non dipende dalla grazia divina (come sarà nel cristianesimo) né viene vincolata a operazioni magiche (come nell’ermetismo) ma rappresenta il culmine della consapevolezza di sé, quando l’anima dell’uomo, co-

Il Corpus Hermeticum e gli Oracoli caldaici L’interesse per la magia, l’astrologia e l’occultismo diffuso nell’età dei Severi è alla base del Corpus Hermeticum, pervenutoci in redazioni d’età medioevale: si tratta di una raccolta di testi di carattere misticosimbolico attribuiti a Hermes Trismégistos («tre volte grande») identificato sincretisticamente con il dio egizio Thot, inventore della scrittura e accompagnatore delle anime nel regno dei morti. L’ermetismo godette di grande fortuna sia negli ambienti pagani che in quelli cristiani. Sempre nel III secolo si diffusero gli Oracoli caldaici, rivelazioni in esametri redatte nell’età di Marco Aurelio combinando elementi di platonismo e neopitagorismo con zoroastrismo, astrologia babilonese ed esoterismo. I testi sono pubblicati in Ermete Trismegisto, Corpo Ermetico e Asclepio, a cura di B.M. Tordini Portogalli, SE, Milano 1997.

pubblicherà con il titolo di Enneadi. Muore nel 270, dopo aver invano tentato di fondare in Campania Platonopoli, la città governata dai filosofi secondo l’antico progetto di Platone.

Vita e opere di Plotino

Statua di Marco Aurelio a cavallo, bronzo. L’imperatore vestito di tunica ha il braccio destro sollevato nel gesto dell’adlocutio, che significa pacificazione, 176 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Nato intorno al 205 a Licopoli, in Egitto, Plotino si trasferisce ancor giovane nella dotta Alessandria, dove frequenta, insieme al letterato greco Longino e al cristiano Origene, la comunità ascetica di Ammonio Sacca: un ex bracciante che, come Socrate, con il suo insegnamento orale (non lasciò alcuno scritto) si propone di far pensare, di operare una trasformazione delle coscienze ricongiungendo l’uomo all’essere divino. Nel 243 Plotino segue Gordiano III in una spedizione contro i Persiani, mosso soprattutto dal desiderio di venire a contatto con la sapienza orientale. Si reca poi a Roma, dove fonda una scuola in cui insegna e commenta i testi platonici (245-268): alle sue lezioni assiste anche l’imperatore Gallieno con la moglie. Dal 253 compone i trattati che il discepolo Porfirio

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

PROFILO STORICO

stretta a vivere esiliata sull’incerta soglia fra Uno e Tutto, nell’opacità della materia e nella dimensione del tempo, si ricongiunge direttamente all’Uno, e ne gode la beatifica visione. A tale stato non si giunge se non tramite l’esercizio della virtù, la contemplazione della bellezza e lo studio della filosofia. L’uso tuttavia di un linguaggio immaginoso e analogico, di derivazione poetica e religiosa, il carattere sincretistico della dottrina, la capacità di porre in relazione mondo visibile e mondo invisibile, la forza vitale e l’eccezionale suggestione dei testi, favoriscono un variegato sfruttamento dei testi plotiniani. Il messaggio di Plotino, fondato sul primato della ragione e della filosofia, finisce storicamente per incrociarsi con proposizioni di natura irrazionale e fideistica, alimentando sia le ragioni del paganesimo politeista sia quelle del cristianesimo monoteista. Contro i cristiani di Porfirio Proprio negli ambienti di orientamento neoplatonico, si sviluppa alla fine del III secolo un’intensa polemica anticristiana, il cui maggior rappresentante è il filosofo Porfirio, autore verso il 270 di un opuscolo in lingua greca intitolato «Contro i cristiani» (Katà Christianòn). Il testo, fatto distruggere prima da Costantino e poi da Teodosio II, è andato perduto; noi possiamo tuttavia ricostruirne il contenuto grazie alle numerose citazioni polemiche degli scrittori cristiani successivi, in particolare di Eusebio e di Agostino. Porfirio, nato nell’antica città fenicia di Tiro nel 234, aveva studiato filosofia ad Atene ed era giunto a Roma nel 263, entrando nella scuola di Plotino. Alla morte del maestro (nel 270), divenne la nuova guida della scuola neoplatonica romana, che resse fino alla morte nel 305. Grande sistematore del pensiero plotiniano, Porfirio accentuò l’aspetto pratico e combattivo del neoplatonismo, scorgendo nel cristianesimo una minaccia alla civiltà ellenica e prendendo le parti dell’antica religione classica: gli dèi del politeismo, secondo l’interpretazione neoplatonica, sono metafore e simboli del principio divino che governa il mondo; i miti sono la rappresentazione esteriore e storica dell’essenza universale delle cose. Al contrario, la religione cristiana appare a Porfirio come un idoleggiamento confuso di ingenue fantasie malamente abborracciate dagli evangelisti nei loro racconti su Cristo. Proprio per la loro indipendenza intellettuale, filosofi come Porfirio dovettero apparire ancora più pericolosi al mondo cristiano delle stesse persecuzioni, che pure provocarono, fra l’età di Decio e quella di Diocleziano, defezioni e contrasti di non poca gravità all’interno delle comunità cristiane.

Guida allo studio

1.

Nuove tendenze e nuovi interessi di natura religiosa caratterizzano l’«età della crisi»: traccia una panoramica dei fenomeni di maggiore rilievo. 2. Illustra i punti salienti della dottrina

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neoplatonica elaborata da Plotino e dai suoi discepoli, rendendo conto del persistente influsso esercitato da questo indirizzo filosofico nell’ambito della cultura tardoantica.


15. La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo

3 Poeti pagani del III secolo Esaurimento dei generi poetici nel II secolo d.C. Nonostante la sua floridezza artistica e culturale, già l’età degli Antonini era stata avara di poesia. Visto con il distacco dei posteri, l’improvviso esaurimento dei grandi generi poetici del passato non può non impressionare: l’elegia di argomento amoroso si era spenta con Ovidio in età augustea; l’epica si conclude con la generazione di Stazio, di Valerio Flacco e di Silio Italico; la poesia tragica, dopo il folgorante ritorno con Seneca, cade definitivamente nell’oblio; la poesia satirica di impegno morale e di tono rea­ listico scompare con Giovenale. L’unica produzione significativa del II secolo era stata la lirica dei poetae novelli [ cap. 13.4], caratterizzata dal tono lieve dei versi e dall’occasionalità della composizione. La poesia del III secolo Nel III secolo la situazione non appare molto diversa: sulla via già tracciata dai novelli, la poesia resta un lusus sperimentato in forme brevi e ricercate, nelle quali prevalgono il virtuosismo stilistico e lo sfoggio delle abilità tecniche. L’aspetto funambolico di questa poesia è testimoniato dalla moda dei versi ropalici (nei quali ogni verso ha una sillaba in più del precedente), dei versi reciproci (leggibili allo stesso modo sia partendo dalla prima sillaba che dall’ultima), dei versi ecoici (da echo: distici nei quali la parte finale del pentametro fa eco alla parte iniziale dell’esametro) e dai centoni (da cento, un drappo fatto con ritagli di colore diverso), carmi composti con versi di vari autori (Virgilio soprattutto) intarsiati in modo da ottenere un nuovo risultato espressivo. L’Anthologia Latina La maggior parte dei testi sopravvissuti derivano da una silloge chiamata dagli studiosi Anthologia Latina e formatasi in ambiente africano, durante il periodo della dominazione vandalica. I componimenti risalgono a varie epoche: per molti degli autori conservati non siamo neppure in grado di stabilire l’esatta collocazione cronologica, che a volte può addirittura oscillare fra il II e il V secolo. Pentadio, Osidio Geta e Reposiano A Pentadio, forse di origine africana, sono assegnati sei componimenti in distici elegiaci, tre dei quali in versi ecoici: tra questi si segnala il De adventu veris («L’arrivo della primavera»), dove il mito si dissolve in aggraziati tocchi naturalistici. Africano fu Osidio Geta, che nella sua tragedia Medea (circa 200 d.C.) ci offre il primo esempio pervenutoci di centone latino: se il centone in sé è un abile intarsio di citazioni dei grandi classici, ormai mandati a memoria dai grammatici, Osidio complica ulteriormente l’operazione trasferendo versi virgiliani dal genere epico a quello tragico. Un’eco di Ovidio si trova nella grazia ornamentale, sensuale e maliziosa, del De concubitu Martis et Veneris («L’incontro d’amore di Marte e di Venere»), poemetto mitologico di un altro africano, Reposiano. Sammonico, Nemesiano e Vespa Vissuto alla corte di Severo Alessandro (222235) e di Gordiano I (238), Quinto Sereno Sammonico scrisse un Liber medicinalis, poemetto di oltre 1100 esametri in cui sono raccolte ricette mediche per la cura di varie patologie, e la cui fonte principale sono i libri di medicina contenuti nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Nemesiano dedica i suoi Cynegetica («L’arte della caccia») agli imperatori Carino (283-285) e Numeriano (283-284); 495 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

di lui ci sono pervenute anche quattro Eclogae di ispirazione virgiliana. Vespa piega l’armamentario della retorica scolastica al genere comico-satirico nel Iudicium coci et pistoris iudice Vulcano («Contrasto fra un cuoco e un fornaio con giudice Vulcano»). PROFILO STORICO

Disticha Catonis Anonima è stata trasmessa una raccolta di sentenze intitolata Disticha Catonis, composta per diverse aggiunte in un’età compresa fra il II e il VII secolo. Il nome di Catone dev’essere stato scelto per dare maggiore autorità alle sentenze. La raccolta comprende un prologo (in forma di epistola prosastica), cinquantasette sententiae in prosa, quattro libri di disticha (composti ciascuno di due esametri), gli ultimi tre preceduti da brevi prefazioni metriche: sono per lo più massime di tono proverbiale e popolare di cui troviamo già traccia nelle iscrizioni del II secolo. La loro grande fortuna è testimoniata fin dal IV secolo e in seguito per tutta l’epoca medievale. Terenziano Mauro Il grammatico e metricista Terenziano Mauro, vissuto in un’età compresa tra la fine del II e gli inizi del IV secolo, è autore di un trattato in versi diviso in tre libri: De litteris (sulla fonetica latina); De syllabis (sulla prosodia); De metris (sulla metrica). L’interesse per la metrica non è casuale: Terenziano, infatti, dimostra di conoscere a fondo la produzione dei novelli, caratterizzata, come si ricorderà, da uno spiccato sperimentalismo metrico.

Guida allo studio

1.

Delinea la situazione della poesia pagana nel III secolo, descrivendo le forme in cui viene coltivata. Si possono rilevare analogie con la produzione del secolo precedente? 2. Elenca i nomi e le opere dei più significativi

poeti pagani del III secolo, mettendo in evidenza la varietà dei generi e degli argomenti trattati. 3. Qual è il primo esempio a noi noto di centone in lingua latina?

Mosaico raffigurante una scena di caccia, IV secolo. Piazza Armerina, Villa imperiale al Casale.

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15. La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo

4 Giuristi, eruditi e grammatici La letteratura giuridica Lo stato di disordine istituzionale non impedisce ai principes di esercitare, come già nei secoli precedenti, un’attività di mecenatismo e di protezione nei confronti di intellettuali, scrittori e filosofi. Alla corte dei Severi operano di fatto i maggiori giuristi della storia romana: da Emilio Papiniano ai discepoli Domizio Ulpiano e Giulio Paolo, autori di raccolte giuridiche di fondamentale importanza per la trasmissione del diritto occidentale. Papiniano è prefetto del pretorio sotto Settimio Severo, con il quale ha rapporti di amicizia; Ulpiano e Giulio Paolo ereditano la carica pretoriana sotto Severo Alessandro. Ma è significativo del nuovo clima politico che Papiniano venga fatto uccidere da Caracalla nel 212 e che Ulpiano subisca la stessa sorte nel 228, quando viene assassinato davanti a Severo Alessandro per mano dei pretoriani. Nel momento in cui Roma esprime un’importante generazione di giuristi, le nuove forze del potere imperiale sopprimono ogni forma di legalità. Eruditi e antiquari Continua, per tutto il III secolo, la tradizione degli studi eruditi e antiquari. Nel 238, in occasione del compleanno di un certo Quinto Cerellio, il grammatico Censorino scrive De die natali («Il giorno natalizio»). L’opera, giunta incompleta, tratta delle origini del genere umano, delle età dell’uomo, dei calendari, della divisione del tempo (in secoli, lustri, anni, mesi, giorni) e del rapporto astrologico fra giorno di nascita e vita umana. Di antichità si occupò anche Cornelio Labeone, autore di scritti, non pervenuti, di argomento religioso e divinatorio: De dis animalibus, Fasti, De oraculo Apollinis Clarii, De disciplina Etrusca. Tra la fine del III e l’inizio del IV secolo opera Gaio Giulio Solino, autore di un compendio di argomento storico, geografico, etnografico, zoologico e botanico intitolato Collectanea rerum memorabilium («Raccolta miscellanea di cose memorabili»). Le fonti sono Pomponio Mela, Svetonio e soprattutto la Storia naturale di Plinio. L’autore si occupa di ogni genere di curiosità e di notizie stravaganti, e proprio per questo continua ad essere letto con interesse per tutto il Medioevo, fino alle soglie dell’età umanistica. Atlanti e itineraria Gli interessi geografici sono predominanti nell’Itinerarium provinciarum Antonini Augusti, scritto probabilmente negli ultimi anni del III secolo e ricavato da un originale dell’età di Caracalla. Percorrendo diciassette strade maestre più una serie di itinerari secondari, l’autore si sofferma sulle singole località calcolandone le distanze. A un’epoca oscillante fra III e IV secolo va assegnata la Tabula Peutingeriana, di cui possediamo una copia medievale ritrovata nel 1507 e in seguito ceduta al cancelliere austriaco Conrad Peutinger (da cui il nome). La Tabula, tuttora conservata a Vienna, fu probabilmente esemplata sulla grande mappa itineraria realizzata da Agrippa in età augustea. L’impero viene disegnato in tutta la sua ampiezza su una striscia di pergamena lunga m 7,40 e divisa in 12 segmenti (uno dei quali è andato perduto). Lungo le strade vengono indicati i nomi delle località dove era possibile sostare; tra una stazione e l’altra, in miglia romane, le distanze. 497 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

PROFILO STORICO

Grammatici Nelle scuole continua l’attività grammaticale, che già aveva caratterizzato il secolo precedente. Elenio Acrone commenta Orazio, Persio e due commedie di Terenzio, gli Adelphoe e l’Eunuchus. Gaio Giulio Romano scrive vari trattati su questioni grammaticali. Sesto Pompeo Festo compendia il De verborum significatu di Verrio Flacco, un erudito di età augustea. Benché oscuro, il lavoro di questi studiosi prepara la grande opera di sistemazione dei grammatici del IV e del V secolo [ cap. 18.10].

Guida allo studio

1.

La letteratura giuridica nell’età dei Severi. Si può parlare di uno stato di tensione e di conflitto fra la corte imperiale e le grandi personalità giuridiche dell’epoca? 2. Continua, per tutto il III secolo, la tradizione

degli studi eruditi e antiquari. Indica titoli e argomenti delle opere di Censorino, Cornelio Labeone, Giulio Solino. 3. Che cos’è la Tabula Peutingeriana? Dove è conservata attualmente?

Statua di fanciulla che gioca con gli astragali,  II secolo d.C. Berlino, Pergamon Museum.

Materiali

ONLINE

BIBLIOGRAFIA ESTESA

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15. La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo

essenziale

Bibliografia

B

Sintesi

S

� Sulla crisi dell’impero e sulla cultura pagana del III secolo si suggeriscono due grandi classici: E.R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, La Nuova Italia, Firenze 1970; P. Brown, Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a Maometto, Einaudi, Torino 2017. � Tra le numerose edizioni dei Ricordi di Marco Aurelio (il titolo originario «A se stesso» è stato variamente tra-

dotto) si segnalano: Ricordi, introd. di M. Pohlenz, trad. di E. Turolla, Rizzoli, Milano 1997; I ricordi, a cura di C. Carena, trad. di F. CazzaminiMussi, Einaudi, Torino 2015; Pensieri, a cura di M. Ceva, Mondadori, Milano 2016. � Per i poeti pagani del III secolo, spesso di non facile reperimento in edizioni accessibili, si consiglia il volume curato da Luca Canali, Antologia della poesia latina, Mondadori, Milano 1993, dove si trova-

no i testi di Reposiano e di Pentadio. Un’ampia antologia dei Disticha Catonis si trova in Catone, Distici, a cura di G.C. Pontiggia, Medusa, Milano 2005. Di Sereno Sammonico esiste una traduzione italiana a cura di C. Ruffato, La medicina in Roma antica, UTET, Torino 1996. � Tra gli eruditi, si consiglia la lettura di Censorino, Il giorno natalizio, a cura di V. Fontanella, Zanichelli, Bologna 1993.

La crisi dell’impero Verso la fine del II secolo d.C. ha inizio un processo di trasformazioni sociali e culturali che porteranno alla disgregazione della civiltà classica e all’affermarsi del Cristianesimo. Al centro di tali trasformazioni si pone una nuova visione religiosa del mondo, fondata sul bisogno di intrattenere rapporti diretti e salvifici con la divinità. Mentre Marco Aurelio, seguendo una lunga tradizione filosofica, si accosta al sacro mediante la ragione, le nuove credenze che giungono da Oriente pongono l’accento sull’ardore di una rivelazione illuminante e pervasiva, che trasforma e fa rinascere. Il processo di orientalizzazione della corte imperiale, che si impone definitivamente con la dinastia dei Severi (193-235 d.C.), promuove una religione di tipo sincretistico, in cui la dottrina cristiana sembra ancora poter convivere con la tradizione dei culti misterici e con le pratiche magiche, astrologiche e occultistiche diffuse da sempre fra gli strati popolari: ne sono testimonianza i testi del Corpus Hermeticum e le rivelazioni contenute negli Oracoli caldaici. Mentre il cristianesimo va rafforzandosi, e penetra gradatamente negli stessi apparati dello Stato romano, la cultura pagana reagisce con una nuova interpretazione del pensiero di Platone: il Neoplatonismo, il cui massimo rappresentante fu Plotino (205-270 d.C.), tenta di saldare il tradizionale primato della ragione e della filosofia con proposizioni di natura irrazionale e fideistica. Nel mondo pagano come in quello cristiano sembrano

egualmente imporsi i concetti di «conversione» e di «rivelazione». Ma Porfirio, il maggior discepolo di Plotino, avvertendo l’insanabilità del conflitto fra pensiero classico e cristiano, compone verso il 270 un violento opuscolo in lingua greca intitolato Contro i cristiani: il libro, per la sua pericolosità, fu fatto distruggere dagli imperatori cristiani. L’esaurimento progressivo dei grandi generi poetici, già evidente nel secolo precedente con l’esperienza dei novelli, si accentua nel corso di tutto il III secolo: la poesia si riduce gradatamente a pratiche virtuosistiche e sperimentali (di cui sono testimonianza i versi ecoici di Pentadio e i centoni di Osidio Geta) o alla stanca ripresa degli insuperabili modelli virgiliani e ovidiani (Reposiano, Nemesiano). Continua la tradizione degli studi di argomento erudito, antiquario e grammaticale; si diffondono gli atlanti illustrati, che danno ragione dell’espandersi dei viaggi lungo le grandi strade maestre dell’impero: di questa produzione, che dovette essere considerevole, resta una copia su pergamena della Tabula Peutingeriana. Resiste il tradizionale pensiero giuridico romano: ma non è senza significato che alcuni dei maggiori autori di raccolte giuridiche dell’età dei Severi vadano incontro a morte violenta: Papiniano per ordine di Caracalla nell’anno stesso (212) in cui era stata promulgata la Constitutio Antoniniana; Ulpiano per mano dei pretoriani di Severo Alessandro nel 228.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

MAPPA LA CRISI DELL’IMPERO E LA CULTURA PAGANA DEL III SECOLO

• • • I prìncipi e gli eventi

• • Fenomeni culturali

• •

• •

Marco Aurelio (161-180 d.C.) – incursioni barbariche: Quadi e Marcomanni – epidemia di peste Commodo (180-192 d.C.) – politica autocratica – repressione del senato Dinastia dei Severi (193-235 d.C.) – orientalizzazione della corte – monarchia militare – Constitutio Antoniniana (212 d.C.) Età dell’anarchia militare (235-284 d.C.) – i Goti nella penisola balcanica (248) – quadro di incertezza e di miseria – l’impero sembra sul punto di disgregarsi Diocleziano (284-305 d.C.) – imponente opera di riforma istituzionale – instaurazione della Tetrarchia – concezione autocratica e teocratica del potere imperiale

diffusione di culti misterici e soteriologici – Corpus Hermeticum, Oracoli caldaici il Neoplatonismo: Plotino e Porfirio – fusione del razionalismo classico con le nuove spinte irrazionalistiche e misticheggianti esaurimento dei generi poetici – virtuosismo stilistico e tecnico, sperimentalismo grandi giuristi alla corte dei Severi: Papiniano, Ulpiano – raccolte giuridiche fondamentali per la trasmissione del diritto occidentale studi eruditi e antiquari atlanti e itineraria

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Completamento

1

Inserisci i dati storici mancanti.

Marco Aurelio morì nel a , dove stava combattendo per arginare le incursioni barbariche dei , che nel 168 si erano spinti fino a . Durante il suo regno scoppiò una grave . Nell’ultimo decennio di vita aveva composto un libro tradizionalmente tradotto con il titolo di , una severa meditazione morale intrisa di filosofia . Gli succedette il figlio , che regnò dal 180 al , impostando una politica autocratica ispirata agli imperatori , e spezzando la tradizionale collaborazione con il . p._____/11

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Alla corte dei Severi operano i maggiori giuristi della storia romana b. Ad Aurelio Probo si deve la realizzazione delle mura aureliane c. Reposiano fu autore di un Liber medicinalis d. Plotino scrisse un violento libello contro i cristiani e. Molti dei poeti in lingua latina del III secolo provengono dall’Africa

3. L’autore dei Cynegetica è ■ Nemesiano ■ Vespa ■ Osidio Geta ■ Pentadio p._____/3

Collegamento

4 Associa al nome dell’imperatore gli anni del suo principato. 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Caracalla Decio Elagabalo Diocleziano Settimio Severo Aureliano

a. 193-211 b. 211-217 c. 218-222 d. 249-251 e. 270-275 f. 284-305 p._____/6 Totale p._____/25

V|F V|F V|F V|F V|F

p._____/5

Quesiti a risposta singola

5 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Letteratura giuridica nell’età dei Severi. 2. L’età dell’anarchia militare. 3. La diffusione dei culti misterici nel III secolo d.C.

Quesiti a scelta multipla

3

Trattazione sintetica

Indica il completamento corretto.

1. La Constitutio Antoniniana fu promulgata da ■ Geta ■ Caracalla ■ Settimio Severo ■ Severo Alessandro 2. Il millennio della fondazione di Roma venne festeggiato nell’anno ■ 247 ■ 252 ■ 248 ■ 253

6 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Cause della crisi dell’impero fra II e III secolo d.C. 2. Diocleziano e la ricostruzione dell’impero. 3. Plotino e il pensiero neoplatonico.

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La crisi dell’impero e la cultura pagana del III secolo

Verifica finale


16 Le nuove forme della letteratura cristiana 1 Nascita della letteratura cristiana latina Origini orientali della Chiesa cristiana Dalla Palestina, sua terra d’origine, il cristianesimo si diffuse ben presto nelle città asiatiche di lingua greca. Fu ad Antiochia che la nuova setta assunse per la prima volta il nomen Christianum, secondo la testimonianza contenuta negli Atti degli Apostoli (11, 26). Le origini orientali della Chiesa cristiana, il fatto che in greco fossero composti tutti i testi del Nuovo Testamento, il prestigio culturale della lingua (incrementato e favorito dagli stessi imperatori adottivi), l’estrazione sociale dei primi fedeli, sono motivi sufficienti a spiegare perché il greco si imponesse per almeno due secoli come lingua ufficiale della Chiesa anche nella parte occidentale dell’impero. In Roma, durante questo periodo, perfino gli uffici liturgici, i canti e le preghiere furono in greco. La letteratura cristiana latina Non stupisce dunque che una letteratura cristiana latina si sviluppasse solo negli ultimi anni del II secolo, e che ancora per tutto il III secolo gli scrittori in lingua latina fossero di origine esclusivamente africana: l’Africa era la regione dell’impero più refrattaria alla lingua greca, la più romanizzata e latinizzata delle province. Dall’Africa provennero Minucio Felice, Tertulliano, Cipriano, Arnobio, Lattanzio; da Cartagine sarebbe giunto in Roma, alla fine del IV secolo, Agostino, il maggior filosofo cristiano del primo millennio. 502 © Casa Editrice G. Principato


Quod vides, scribe in libro «Ego sum alpha, et omega, principium, et finis», dicit Dominus Deus: «qui est, et qui erat, et qui venturus est, omnipotens». Ego Joannes frater vester, et particeps in tribulatione, et regno et patientia in Christo Jesu: fui in insula, quae appellatur Patmos, propter verbum Dei, et testimonium Jesu. Fui in spiritu in Dominica die, et audivi post me vocem magnam tamquam tubae, dicentis: «Quod vides, scribe in libro: Et mitte septem Ecclesiis, quae sunt in Asia, Epheso, et Smyrnae, et Pergamo, et Thyatirae, et Sardis, et Philadelphiae, et Laodiciae». (Apocalisse I, 8-11)

et verborum ordo mysterium est

Vulgata

Acta Martyrum figura týpoi hemón Apocalypsis hymni Chronicon Carmen de ave Phoenice Guida allo studio

1.

Quali sono le ragioni per cui una letteratura latina cristiana si sviluppa soltanto alla fine del II secolo?

2. Da quale regione dell’impero provengono, ancora per tutto il III secolo, gli scrittori cristiani in lingua latina?

2 Le traduzioni della Bibbia Una cultura scritturale Il sostantivo neutro plurale tà Biblía, che in greco significa «i Libri», si trasformò in latino in un singolare femminile per indicare «il libro» per eccellenza, «la Bibbia», che i cristiani divisero ben presto in Antico e Nuovo Testamento. Come già per il mondo ebraico, i testi sacri costituirono il fondamento della cultura cristiana, il testo-base su cui si formava e si educava l’intera comunità. Il corpus neotestamentario I libri del Nuovo Testamento, in tutto ventisette, furono tradizionalmente ripartiti in: Libri storici (i quattro Vangeli più gli Atti degli Apostoli); Libri didattici (quattordici Lettere di Paolo, una di Giacomo, due di Pietro, tre di Giovanni, una di Giuda Taddeo); un Libro profetico (l’Apocalisse attribuita all’apostolo Giovanni). 503 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

PROFILO STORICO

Le traduzioni Dell’Antico Testamento, scritto originariamente in ebraico e in ara­ maico, esisteva una versione in greco elaborata ad Alessandria verso la fine del III secolo a.C.: la cosiddetta versione dei Settanta, chiamata così dal numero di dotti ebrei (settantadue per la precisione) che l’avevano approntata. I libri neotesta­ mentari, invece, erano stati composti direttamente in greco, anche se sappiamo che del Vangelo di Matteo era esistita una prima stesura in aramaico. Intorno al 200 la Bibbia era stata tradotta solo parzialmente in lingua latina; per una versione integrale bisognerà attendere altri cinquant’anni. Le più antiche traduzioni latine della Bibbia venivano un tempo designate con l’espressione Vetus Latina (vetus rispetto a quella successiva di Gerolamo), quasi si trattasse di un corpus omogeneo di testi, a sua volta suddiviso, secondo la provenienza geografica, in due rami, detti Vetus Afra e Vetus Itala. Oggi si è invece soliti adottare la denominazione, più generica, di Veteres Latinae, sottolineando la varietà e la molteplicità delle traduzioni circolanti nelle regioni cristianizzate. Di queste antiche versioni possediamo ampi passi tramandati da manoscritti frammentari, oltre a numerose citazioni ricavate dagli scritti anteriori alla Vulgata geronimiana. Sermo humilis Nate in ambienti umili e rivolte agli strati sociali più bassi della popolazione, queste traduzioni ricorsero a un latino assai semplice improntato sostanzialmente al sermo cotidianus. I cristiani trovavano del resto nelle parole di Gesù l’esortazione a un discorso tanto più vero e più sincero quanto più umile e comprensibile. Gesù aveva infatti detto nel Vangelo di Matteo (V, 37): Sit autem

Le FORME dell’ESPRESSIONE Caratteri del latino cristiano

▰ La sintassi Sul piano sintattico prevale la

La lingua dei cristiani, che era andata gradatamente costituendosi – nei primi secoli – come lingua di una precisa comunità, contribuì dopo il IV secolo a innovare la stessa lingua latina, sia sul piano lessicale che sintattico.

▰ Il lessico Il lessico si arricchisce di forme derivate

dall’ebraico (Satanas, Sabaoth, seraphin, gehenna, hosanna, amen) e soprattutto dal greco, sia per indicare la nuova vita comunitaria (ecclesia, apostolus, baptisma, eucharistia, martyr, catechumenos, clerus, diaconus, episcopus), sia per indicare concetti nuovi (abyssus, blasphemia, zizania). Numerosi i neologismi (communio, incarnatio, resurrectio, trinitas) e gli slittamenti semantici di una parola o di un’espressione latina: dominus non è più il padrone ma il «Signore»; refrigerium, che nella lingua popolare pagana significava «ristoro», «riposo», assume ora il valore di «pace celeste», «beatitudine eterna»; fides non è più la fedeltà alla parola data ma la «fede». Si vedano, nel successivo capitolo, i nuovi significati di vocaboli come passio o confessio, parolechiave della cultura religiosa.

costruzione paratattica, accompagnata dal dilagare della caratteristica congiunzione et; scompaiono le proposizioni oggettive e soggettive all’accusativo + infinito, sostituite da proposizioni sostantivali introdotte da quod, quia, quoniam; l’indicativo sostituisce il congiuntivo nelle interrogative indirette; viene impiegato il genitivo di qualità in funzione attributiva (odor suavitatis invece di odor suavis), tipico delle lingue semitiche; il complemento di tempo determinato viene costruito con in e l’ablativo (in illo die; in diebus illis, ecc.) invece dell’ablativo semplice; il participio presente viene usato al posto del perfetto (in Matteo, ad esempio, troviamo: Iesus exiens de domo sedebat secus mare: «Gesù, uscito di casa, sedeva lungo il mare»; in luogo della perifrastica passiva, l’idea di necessità viene espressa con la perifrasi del verbo debere (Ego a te debeo baptizari: «io devo essere battezzato da te»).

▰ Per saperne di più Uno dei maggiori studiosi

della lingua latina cristiana è stato Joseph Schrijnen, cui si deve il saggio I caratteri del latino cristiano antico, introduzione di S. Boscherini, Pàtron, Bologna 1977.

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16. Le nuove forme della letteratura cristiana

sermo vester: Est, est; Non, non; quod autem his abundantius est, a malo est («Ma sia il vostro parlare: Sì, sì; No, no; perché il di più viene dal maligno»). Anche quando sono in possesso di una ricca strumentazione culturale ricavata dalle scuole pagane di retorica e di dialettica, i cristiani dei primi secoli nutrono sentimenti di diffidenza nei confronti di uno stile ricercato ed elegante.

 La guarigione

dell’emorroissa. Roma, Catacombe dei santi Marcellino e Pietro.

Letteralismo Le traduzioni cristiane dei testi sacri introducono inoltre il principio, rivoluzionario per il mondo antico, della traduzione letterale [ SCHEDA 1: «La traduzione nel mondo latino» ONLINE ]: se Dio è il vero autore dei testi biblici, tutto, in essi, «anche l’ordine delle parole, è un mistero» (et verborum ordo mysterium est), e come tale va rispettato. La Vulgata La frase citata è di Gerolamo (Epist. 57, 5, 2), che per circa un ventennio (fra il 384 e il 405) attese alla revisione delle vecchie traduzioni dei Vangeli sull’originale greco e alla traduzione del Antico Testamento direttamente dall’ebraico [ cap. 19.3]. La nuova traduzione dei testi sacri, destinata ad imporsi nei secoli successivi con la denominazione di Vulgata (sottinteso editio: cioè un’«edizione popolare»), incontrò in realtà fra i contemporanei non poca resistenza: in un testo considerato sacro, cioè ispirato da Dio, ogni variazione, per quanto piccola, non poteva che suscitare turbamento e sconcerto. Il latino cristiano Non c’è dubbio che le traduzioni dei testi sacri abbiano avviato una trasformazione radicale della lingua latina, che poi si trasmetterà anche ai testi di carattere dottrinale e propriamente letterario. Il rifiuto di impiegare vocaboli propri della religione pagana, la necessità di ricorrere a termini nuovi per divulgare una dottrina estranea alla mentalità romana (con frequente ricorso a grecismi e semitismi), l’atmosfera chiusa e settaria del protocristianesimo (che favorisce la formazione di un gergo speciale all’interno delle comunità) spingono i traduttori all’uso di una lingua che conserva ben poco della fisionomia classica.

Guida allo studio

1.

Con quali denominazioni vennero successivamente designate le più antiche traduzioni latine della Bibbia? A quale pubblico si rivolgevano? Verso quali scelte linguistiche e stilistiche si orientano i traduttori, e per quali ragioni? 2. Per quale motivo le versioni cristiane dei testi sacri inaugurano il criterio della traduzione letterale?

3. Che cos’è la Vulgata? Qual è il significato del titolo? A quale epoca risale? Chi ne è l’autore? 4. Riepiloga le principali trasformazioni sul piano sintattico e lessicale subite dalla lingua latina in epoca cristiana a partire dalle prime traduzioni dei testi sacri, cercando di individuarne le ragioni.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

PROFILO STORICO

3 Le testimonianze: Atti e Passioni dei Martiri; Vite dei Santi; Confessioni; Racconti di pellegrinaggio I martiri «Martire» in greco significa «testimone»: martiri sono dunque tutti coloro che hanno testimoniato la loro fede fino al sacrificio della vita. Anche il mondo classico aveva conosciuto forme di eroismo sapienziale: Socrate ne era il prototipo. Ma i martiri cristiani sono un fenomeno di massa, non degli individui isolati. Il loro modello è Cristo, che morì sulla croce, e di cui riproducono, nel momento in cui affrontano la morte, la «Passione». Acta e Passiones Acta, in latino, erano sia gli atti ufficiali dello Stato romano (leggi, decreti, ordinanze) sia i resoconti pubblici di tali deliberazioni. Con il termine Acta martyrum vengono designati gli scarni resoconti dei processi e delle esecuzioni cui furono sottoposti i cristiani a causa della loro fede. Talvolta questi acta sono stati tramandati con il nome di passiones (da patior), vocabolo che pone l’accento sulle sofferenze dei protagonisti. Oggi si è soliti indicare con passiones i testi di carattere più vario e mosso, dove prevalgano o siano particolarmente accentuati gli aspetti narrativi. «Atti dei martiri» in lingua greca compaiono già verso la metà del II secolo; il primo esempio di Acta martyrum in lingua latina si riferisce invece all’episodio dei martiri di Scili, un piccolo centro della Numidia sottoposto alla giurisdizione di Cartagine. Qui, nel 180 d.C., vengono sottoposti a processo, condannati e giustiziati, dodici cristiani che si erano rifiutati di giurare sul Genio dell’imperatore [ T1]. PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 Un processo contro i cristiani Acta Martyrum Scilitanorum ITALIANO

Busto di Commodo. Roma, Musei Capitolini.

Ci troviamo in Africa, a Cartagine, uno dei maggiori centri del Mediterraneo imperiale, durante i primi mesi del principato di Commodo. Alcuni cittadini di Scili, tutti di umile origine, vengono processati e condannati alla decapitazione per essersi rifiutati di giurare sul Genio dell’imperatore, un atto formale che contrastava con il rigoroso monoteismo della fede cristiana. Il documento si limita a riferire, senza alcun abbellimento retorico e in una lingua povera e scarna, le domande e le risposte dell’interrogatorio. Proprio dalla semplicità dello schema compositivo e dall’umiltà dello stile emerge con evidenza il contrasto insanabile fra due mondi antitetici per mentalità: ciò che per il proconsole è follia (dementia, un termine che ricorre anche in Plinio il Giovane [ T6, cap. 10]), per i cristiani è un merito e una gloria; alla durezza della sentenza, i condannati rispondono con la tradizionale formula di ringraziamento (Deo gratias). La conclusione, diversa nel tono e nello stile dal resto del documento, rivela l’uso liturgico del testo presso le comunità cristiane.

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16. Le nuove forme della letteratura cristiana

Sotto il consolato di Presente (per la seconda volta) e Condiano, il diciassette luglio, a Cartagine Sperato, Narzalo e Cittino, Donata, Seconda, Vestia furono condotti in giudizio nell’ufficio del governatore; il proconsole Saturnino disse: «Potete ottenere il perdono dell’imperatore signor nostro, se vi ravvedete». Sperato disse: «Non abbiamo mai fatto nulla di male, mai ci siamo dedicati all’iniquità; non abbiamo mai insultato nessuno, bensì ringraziato chi ci maltrattava: perché noi obbediamo al nostro imperatore». Il proconsole Saturnino disse: «Anche noi abbiamo una religione, e la nostra è una religione semplice: giuriamo sul genio dell’imperatore signor nostro e facciamo sacrifici per la sua salute: proprio quello che dovete fare anche voi». Sperato disse: «Se mi porgi ascolto in tutta serenità, ti svelerò il mistero della vera semplicità». Saturnino disse: «Se cominci a parlar male dei nostri sacri riti, io non ti ascolto. Tu, piuttosto, giura sul genio dell’imperatore signor nostro». Sperato disse: «Io non conosco autorità supreme in questo mondo: servo piuttosto quel Dio che nessun uomo ha visto né può vedere coi suoi occhi. Io non ho rubato nulla, pago una tassa ogni volta che acquisto qualcosa, poiché io conosco il mio Signore, re dei re e imperatore di tutte le nazioni». Il proconsole Saturnino disse agli altri: «Rinnegate questo credo». Sperato disse: «Cattivo è solo quel credo che porta all’omicidio o a dir falsa testimonianza». Il proconsole Saturnino disse: «Cessate di condividere la follia di costui». Cittino disse: «Non temiamo nessun altro all’infuori del Signore Dio nostro che è nei cieli». Donata disse: «Onore a Cesare in quanto Cesare, ma timore solo verso Dio». Vestia disse: «Sono cristiana». Seconda disse: «Voglio essere ciò che sono». Il proconsole Saturnino disse a Sperato: «Persisti nel dirti cristiano?». Sperato disse: «Sono cristiano», e tutti si unirono alle sue parole. Il proconsole Saturnino disse: «Volete del tempo per decidere?». Sperato disse: «Su una questione tanto semplice dal punto di vista giuridico, non c’è bisogno di decidere». Il proconsole Saturnino disse: «Cosa avete nella vostra cassetta?». Sperato disse: «I libri con le epistole di Paolo, un uomo giusto». Il proconsole Saturnino disse: «Avete trenta giorni di tempo per ravvedervi». Sperato nuovamente gli disse: «Sono cristiano», e tutti gli altri consentirono con lui. Il proconsole Saturnino lesse la condanna da una tavoletta: «Sperato, Narzalo, Cittino, Donata, Vestia, Seconda e gli altri che hanno confessato di vivere da cristiani, poiché hanno ostinatamente respinto la possibilità loro offerta di tornare a vivere da romani, vengono condannati alla pena capitale». Sperato disse: «Ringraziamo Dio». Narzalo disse: «Oggi stesso siamo martiri in cielo: grazie a Dio». Il proconsole Saturnino fece bandire da un araldo: «Ho dato l’ordine di giustiziare Sperato, Narzalo, Cittino, Veturio, Felice, Aquilino, Letanzio, Gennaro, Generosa, Vestia, Donata, Seconda» Tutti dissero: «Grazie a Dio». E così tutti insieme furono coronati dal martirio, e regnano col Padre e il Figlio e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen. (trad. di G. Chiarini)

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

 San Pietro, affresco, V PROFILO STORICO

secolo. Napoli, Catacombe di San Gennaro.

Al 203 risale invece la Passio Perpetuae et Felicitatis, nella quale si narra del processo, del carcere e dell’esecuzione di Vibia Perpetua, una giovane donna madre di un bimbo che ancora allatta, di Felicita e dei loro compagni di fede, tra il quali il prete Saturo. Il testo presenta una struttura articolata e composita a tre voci: all’anonimo redattore si devono infatti un’introduzione, un epilogo e il racconto di una parte dei fatti; a Perpetua e a Saturo la narrazione in prima persona degli avvenimenti principali, accompagnati dalle visioni (quattro di Perpetua; una di Saturo) ispirate da Dio durante l’attesa del martirio. A chi erano indirizzati questi testi? Ai credenti, per uso liturgico e commemorativo. Ogni anno, nel giorno del martirio, i fedeli si riunivano sulla tomba del santo o sul luogo dell’esecuzione, e davano lettura di tali testimonianze a scopo edificante e parenetico. Talvolta i testi potevano esser letti a voce alta accanto a quelli testamentari durante le sacre funzioni. Legati alla fase eroica del martirio, gli acta e le passiones non si esauriscono con l’età di Costantino; mutano tuttavia la loro natura, volgendosi rapidamente al romanzesco e al leggendario, e alimentando la ricca produzione agiografica delle epoche successive. Le vite dei santi Il nuovo contesto storico-culturale provoca un mutamento di forme letterarie. Già numerose «passioni» (in particolare la Passio Perpetuae et

Un caso di renitenza alla leva: gli Acta Maximiliani

previste dal codice militare romano, che implicavano, fra l’altro, l’invocazione agli dèi pagani e al Genio dell’imperatore.

▰ La vicenda Particolarmente interessanti, per le loro

▰ Due contrapposte visioni del mondo Il serrato

implicazioni ideologiche, si rivelano gli Acta Maximiliani, resoconto del processo e dell’esecuzione del giovane nùmida Massimiliano, che nell’anno 295, nella città africana di Thebassa, rifiuta di prestare servizio militare, ritenuto incompatibile con la fede cristiana.

▰ Il dibattito Sulla questione esisteva già

un’imponente letteratura (si veda, in particolare, il De corona di Tertulliano: cap. 17.2), centrata su due ordini di problemi: il rifiuto della guerra, determinato dal nuovo ideale evangelico di pace; l’impossibilità di pronunciare le tradizionali formule di giuramento

confronto tra il proconsole e Massimiliano oppone due visioni del mondo totalmente in contrasto: alla militia imperiale, il giovane cristiano oppone la militia Christi; alle insegne delle legioni, il signum Domini (cioè il battesimo). Allo stesso modo il giorno del martirio, negli acta e nelle passiones, sarà comunemente indicato come dies victoriae.

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16. Le nuove forme della letteratura cristiana

Felicitatis) contenevano nuclei narrativi e biografici; e spesso, nei racconti di martirio, gli anonimi narratori avevano indugiato sugli episodi più singolari e sui particolari più orridi e impressionanti. Dal modello martirologico degli acta e delle passiones discendono le «vite dei santi», centrate sulle figure esemplari del monaco e del vescovo. Anche in questo caso lo scopo è edificante: offrire modelli di virtù al pubblico dei fedeli, intrattenendolo con narrazioni semplici e avvincenti di fatti straordinari, spesso ambientati in luoghi esotici e remoti (in particolare i deserti d’Oriente, meta tradizionale dei primi anacoreti). Accanto al modello martirologico, sulle «vite dei santi» influisce anche la biografia classica, che ininterrotta fortuna aveva avuto dall’età ellenistica in poi, soprattutto nella forma delle «vite di filosofi»: biografie esemplari che trasmettevano un messaggio di natura morale a un pubblico di non elevata cultura. Accanto alle virtù classiche (fermezza, coraggio, temperanza) si affermano le nuove virtù evangeliche (umiltà, mansuetudine, misericordia). La prima biografia cristiana in lingua latina è la Vita Cypriani, una narrazione che sta al confine tra il resoconto martirologico e il racconto biografico: Cipriano, vescovo di Cartagine [ cap. 17.3], fu decapitato nel 258 durante la persecuzione di Valeriano. Un suo collaboratore, il diacono Ponzio, volle narrarne il martirio facendolo precedere da una breve vita, che tuttavia prende inizio soltanto al momento della conversione del vescovo. Ma il genere biografico nel mondo latino si diffuse soltanto nella seconda metà del IV secolo, sull’onda di un grande successo: la Vita di Antonio scritta in lingua greca da Atanasio e subito tradotta in due versioni latine [ cap. 17.10]. Le più antiche vite in lingua latina non tradotte dal greco sono quelle scritte da Gerolamo in onore dei monaci Paolo, Ilarione, Malco e Paola [ cap. 19.3], la Vita Ambrosii redatta da Paolino di Milano, la Vita Augustini scritta da Possidio e la Vita Martini composta da Sulpicio Severo verso la fine del IV secolo [ cap. 19.7]. Racconti di pellegrinaggio Nell’ambito dell’autobiografia va collocato il racconto di pellegrinaggio, testimonianza di un fenomeno sociale alquanto diffuso nel IV secolo: il viaggio devoto nei luoghi santi della cristianità. Propriamente il rac-

Il genere LETTERARIO L’autobiografia cristiana ▰ Scarsa fortuna dell’autobiografia nella cultura pagana Il genere autobiografico non aveva mai goduto nel mondo greco-romano di particolare fortuna. Autobiografie erano apparse in Roma fin dal II secolo a.C., ma sempre con intenti politici: restavano esclusi gli elementi specificamente privati e personali.

▰ Una nuova mentalità È soltanto con l’affermarsi della nuova mentalità cristiana che l’attenzione si volge al singolo individuo e alla sua personale vicenda spirituale. L’uomo cristiano è spinto a guardare dentro di sé per trovare i segni di una verità superiore: come

scriverà Agostino, cercare Dio significa cercare se stessi, perché Dio vive in interiore hominis. La modalità della conversione, così diffusa fino all’età di Costantino e di Teodosio, imprime sulle esperienze personali il sigillo di un evento eccezionale e celeste.

▰ Un modello rivoluzionario: le Confessioni di Agostino Spunti autobiografici troviamo già negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo (l’episodio più celebre è quello dell’illuminazione di Damasco: Acta 26, 9-20). Ma è solo con le Confessioni di Agostino [ cap. 19.4] che ci troviamo dinanzi a un genere nuovo e rivoluzionario destinato a enorme fortuna nel corso dei secoli.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

PROFILO STORICO

conto di pellegrinaggio continua la tradizione pagana degli itineraria [ cap. 15.4]. Completamente mutati sono invece le finalità, i toni e i registri espressivi dei testi cristiani, dove il motivo religioso prevale ampiamente su quello geografico. L’opera più nota fra quelle a noi giunte è la cosiddetta Peregrinatio Aetheriae, ritrovata ad Arezzo nel 1884 in un manoscritto proveniente da Montecassino. Il racconto è condotto in forma epistolare: l’autrice dapprima narra le varie tappe del suo lungo viaggio (compiuto negli anni successivi al 381) in Egitto, in Palestina e in Mesopotamia, poi descrive le cerimonie liturgiche più importanti che si tengono ogni anno a Gerusalemme. L’autrice è una donna colta che si esprime in una lingua sostanzialmente classica ma già segnata, sintatticamente e lessicalmente, dalle nuove forme del latino cristiano.

Guida allo studio

1.

Che genere di testi designano rispettivamente le denominazioni di Acta martyrum e Passiones? Ricordi i titoli più significativi? Chi erano i destinatari di questi testi? 2. Quali sono le figure esemplari sulle quali si incentrano le vite dei santi? Qual è la prima biografia cristiana in lingua latina?

3. Esponi i motivi per cui con l’affermarsi del cristianesimo il genere autobiografico fiorisce in modo nuovo e inusitato. Ricordi il titolo più significativo e il nome del suo autore? 4. Affini all’autobiografia sono i racconti di pellegrinaggio. Qual è l’opera più nota fra quelle giunte fino a noi?

4 Il testo apologetico Caratteri, obiettivi ed evoluzione Apologhéomai, in greco, significa «parlo in mia difesa» «mi difendo»; «difensori» della fede cristiana furono dunque gli apologisti, attivi nel bacino dell’impero fra il II e il V secolo. Due furono i fronti sui quali combatterono la loro battaglia, quello del giudaismo e quello del paganesimo; il secondo, per evidenti ragioni istituzionali, ben più impegnativo del primo. Chiari gli obiettivi: denunciare gli abusi giuridici dello Stato romano, imputato di discriminare ingiustamente la religione cristiana; confutare le accuse, spesso infamanti, indirizzate contro i cristiani; attaccare la stessa religione pagana, palesandone le incongruenze e le assurdità. Spesso gli aspetti propriamente difensivi si mescolano ad atteggiamenti apostolici, e gli attacchi al paganesimo culminano nell’esaltazione della verità e della bellezza della nuova fede. La svolta costantiniana rese progressivamente inattuale il discorso apologetico: conclusa l’età eroica delle persecuzioni, i cristiani si impadronirono gradualmente di tutte le leve dello Stato romano, emarginando la cultura tradizionale. La parentesi di Giuliano l’Apostata (361-363) fu troppo breve per poter incidere sulla situazione; semmai, dopo l’editto di Tessalonica (28 febbraio 380), che proclamava il cristiane­ simo niceno unica fede dell’impero, e dopo le successive disposizioni antipagane volute da Teodosio nel 391 e 392, furono i pagani ad essere oggetto di intolleranza e di persecuzione. Testi di carattere apologetico e antipagano, tuttavia, furono composti ancora fino ai primi decenni del V secolo, quando gli intellettuali pagani tentarono l’estrema, forse impossibile, resistenza dinanzi all’integralismo cristiano. 510 © Casa Editrice G. Principato


16. Le nuove forme della letteratura cristiana

Gli apologisti latini Per più di un secolo, l’apologetica costituì la punta di diamante della letteratura cristiana latina, con esiti assai vari: aperto e conciliante Minucio Felice ( cap. 17.1 ), aspro e intollerante Tertulliano ( cap. 17.2), sarcastici ed aggressivi Arnobio ( cap. 17.4) e Firmico Materno ( cap. 17.7), interessato al discorso dottrinale Lattanzio ( cap. 17.5). Varie sono anche le forme utilizzate: si va dal dialogo filosofico (Minucio Felice) al trattato (la forma più consueta) alla lettera (notissime quelle composte da Ambrogio sulla questione dell’Altare della Vittoria [ cap. 19.1]), senza dimenticare l’apologetica in versi, di cui si parlerà più avanti. Ancora più vario lo stile: baroccheggiante e strepitoso quello di Tertulliano, ciceroniano quello di Minucio Felice e di Lattanzio.

Guida allo studio

1.

Illustra caratteri ed obiettivi del testo apologetico, indicando con precisione l’epoca e le ragioni storiche della sua massima fioritura.

2. Chi sono i primi apologisti latini? 3. Dopo quale eventi storici il genere comincia di fatto a esaurirsi?

5 La letteratura esegetica: il commento ai testi sacri Origini e sviluppi della letteratura esegetica Grande importanza assume, all’interno della cultura cristiana, l’esegesi della Bibbia, testo sacro dell’intera comunità e perciò sottoposto a un’ermeneutica sottile e approfondita: interpretare un passo in un modo piuttosto che in un altro, poteva avere forti ripercussioni anche nell’ambito della vita organizzativa ed istituzionale della Chiesa. Commenti a singoli passi troviamo naturalmente in scritti vari, dalle omelie alle epistole, ma è significativo che fin dal II secolo si senta l’esigenza di dedicare veri e propri studi all’interpretazione di determinati passi o di interi libri testamentari. L’impulso decisivo all’attività esegetica proviene da Origene (ca 185-253), un autore di lingua greca che si dedicò al commento dei testi sacri sia nelle numerose omelie (circa duecento) sia nelle opere destinate alla lettura. Nel mondo occidentale di lingua latina, i primi commenti ai testi sacri risalgono agli inizi del IV secolo, e in particolare a Vittorino di Pettau, che commentò l’Apocalisse. La grande letteratura esegetica latina si sviluppa tuttavia tra la metà del IV secolo e gli inizi del V con Ilario di Poitiers [ cap. 17.8], Mario Vittorino [ cap. 17.9], Ambrogio [ cap. 19.2], Gerolamo [ cap. 19.3] e Agostino [ cap. 19.4]. L’interpretazione allegorica Nell’interpretazione dei testi gli scrittori cristiani, che nella maggior parte dei casi si sono formati alle scuole del paganesimo, si avvalgono degli strumenti dell’antica e tradizionale esegesi, sviluppatasi soprattutto in ambito alessandrino: non mancano dunque osservazioni di carattere grammaticale, linguistico e filologico, indagini storiche o excursus filosofici. L’interpretazione è condotta versetto per versetto, e tende sia a spiegare il testo 511 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

PROFILO STORICO

sul piano letterale, sia a illuminare i significati spirituali sottesi al primo livello. Il metodo interpretativo dominante è quello allegorico, già in uso presso le scuole platoniche e stoiche, che da tempo leggevano i poeti allo scopo di trarne insegnamenti di carattere morale o dottrinale. Quello allegorico (dal greco állon «altro», e agoréuo «dico») è propriamente un metodo volto a ricercare significati nascosti sotto la lettera del discorso o della narrazione. Tale metodo presuppone una decisa svalutazione del piano letterale rispetto a quello spirituale: i fatti scritturali vengono interpretati in chiave esclusivamente simbolica. L’interpretazione tipologica o figurale Interamente alla cultura cristiana si deve invece un tipo particolare di interpretazione allegorica, comunemente detto figurale o tipologico, che «mirava a vedere nelle persone e nei fatti dell’Antico Testamento figure o profezie reali della redenzione del Nuovo» (Auerbach). Mentre l’allegoria svuotava gli episodi veterotestamentari della loro sostanza storica, riducendoli al loro mero significato spirituale, l’interpretazione figurale serbava intatta la concretezza e la realtà degli antichi accadimenti sacri. Come ancora ha scritto Auerbach, «figura è qualche cosa di reale, di storico, che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa reale e storica». Ogni evento dell’Antico Testamento si trova ad annunciare profeticamente gli eventi del Nuovo Testamento in virtù di una concordanza o di una somiglianza misteriosamente predisposta da Dio nel suo piano di salvazione. Ogni fatto e ogni persona dell’Antico Testamento vanno insomma interpretati come «figura», cioè un’anticipazione e una profezia della venuta di Cristo, che porta a compimento le promesse del Padre. Tale metodo interpretativo si trova già delineato nelle Lettere di San Paolo, e in particolare nella prima lettera ai Corinzi, dove gli ebrei del deserto sono definiti typoi hemón («figure di noi stessi»), e dove si afferma che «tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte a nostro avvertimento, per noi che siamo venuti alla fine dei secoli».

PERCORSO ANTOLOGICO

T 2 L’interpretazione figurale Paolo, I Corinthiis 10, 1-13 ITALIANO

Nella primavera del 55 san Paolo invia da Efeso, dove in quel momento si trovava, una lettera in lingua greca alla comunità cristiana di Corinto, all’epoca la più grande città della Grecia, che l’apostolo aveva evangelizzato pochi anni prima. La lettera comprende un prologo (1, 1-9), un epilogo (16, 1-24) e il vero e proprio corpo del discorso, nel quale vengono affrontati vari temi di carattere dottrinale e disciplinare. Nel capitolo 10, Paolo avverte i Corinzi che nessuno può ritenersi salvo per il fatto di aver ricevuto da Dio grandi benefici, e porta come esempio il popolo di Israele: solo pochi entrarono nella terra promessa, quelli cioè che dimostrarono spirito di sacrificio; i più perirono durante il viaggio nel deserto, nonostante i doni loro riservati dal Padre celeste. Il brano è significativo perché Paolo vi introduce il concetto di «figura», leggendo le vicende del popolo d’Israele come un’anticipazione profetica di Cristo e della redenzione.

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16. Le nuove forme della letteratura cristiana

Non voglio infatti che voi ignoriate, o fratelli, che i padri nostri1 furono tutti sotto la nube,2 e tutti attraversarono il mare,3 e tutti furon battezzati in Mosè nella nube e nel mare, e tutti mangiarono dello stesso cibo spirituale,4 e tutti bevvero della stessa bevanda spirituale 5 (poiché bevevano alla pietra spirituale che li accompagnava, e quella pietra era Cristo). Ma non della maggior parte di essi si compiacque Dio, poiché furono atterrati nel deserto. Ora, queste cose erano figura di noi stessi, affinché non siamo desiderosi di cose malvage, come quelli furono; né diveniate adoratori degli idoli, come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto:6 Si adagiò il popolo per mangiare e bere, e si alzò per divertirsi; né fornichiamo, come alcuni di essi fornicarono, e ne perirono in un sol giorno ventitremila. Né tentiamo Cristo, come alcuni di essi lo tentarono, e perirono morsi dai serpenti;7 né mormoriate, come alcuni di essi mormorarono, e perirono colpiti dallo sterminatore. Ora, tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte a nostro avvertimento, per noi che siamo venuti alla fine dei secoli. Per la qual cosa, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Non vi ha assaliti tentazione, se non umana: ora, Dio è fedele, e non permetterà che voi siate tentati al di là delle vostre forze, ma vi darà insieme con la tentazione anche la via di scampo, così che la possiate sostenere.

1. padri nostri: gli antichi ebrei. 2. sotto la nube: allusione alla misteriosa nuvola che guidava il popolo d’Israele nel deserto, difendendolo dal sole, secondo il racconto biblico (Esodo 13, 21; Numeri 9, 21). 3. attraversarono il mare: si allude all’attraversamento del Mar Rosso (Esodo 14, 22). 4. cibo spirituale: la manna, detta spirituale perché di origine miracolosa, inviata da Dio al suo popolo (Esodo 16, 15). 5. bevanda spirituale: l’acqua uscita prodigiosamente dalla pietra a Rafidim nel primo anno dopo l’uscita dall’Egitto (Esodo 17, 6) e nel deserto di Sin l’ultimo anno di permanenza nel deserto (Numeri 20, 8).

Guida allo studio

1.

6. secondo quanto sta scritto: Esodo 32, 6. 7. come... serpenti: l’episodio è raccontato nei Numeri (21, 4-6).

Cristo con Pietro e Paolo, dettaglio dal sarcofago di Giunio Basso, IV secolo. Città del Vaticano, Museo del Tesoro di San Pietro.

Ricostruisci le origini e gli sviluppi della letteratura esegetica, soffermandoti sul metodo interpretativo prevalentemente adottato.

2. Quali sono le caratteristiche peculiari dell’interpretazione tipologica o figurale? Quale rapporto si stabilisce, secondo questo metodo esegetico, fra Antico e Nuovo Testamento? 513

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

6 Riconversione delle forme tradizionali: epistolografia, oratoria, storiografia PROFILO STORICO

Un nuovo sistema di valori Si è visto come la letteratura cristiana si sviluppi in un rapporto dialettico e conflittuale con la tradizione pagana, che, anche quando viene utilizzata, si trova ad essere riconvertita in un nuovo sistema di valori e di idealità. Le diverse finalità del mondo cristiano (mosso da interessi esclusivamente religiosi), la presenza di un testo-guida come la Bibbia (ispirato da Dio, dunque sacro), gli intenti sostanzialmente pratici degli scrittori (volti all’apologia, all’apostolato, a formulazioni dottrinali, alla catechesi o alla vita pastorale), l’uso di un linguaggio “scandalosamente” semplice per affrontare temi alti e impegnativi (con la conseguente rottura degli schemi retorici classici), sono tutti fattori che incidono in profondità anche sui generi nei quali appare meno sensibile il divario rispetto ai codici della tradizione. L’epistolografia È questo il caso dell’epistolografia: già articolata in un’ampia varietà di forme e di funzioni nel mondo ellenistico e poi in quello romano (si pensi a Cicerone e a Plinio il Giovane), acquisisce particolare rilievo nella cultura cristiana delle origini, adattandosi benissimo alle sue necessità organizzative e al suo proselitismo. Non a caso le epistole in lingua greca di San Paolo [ T2] sono i più antichi documenti della letteratura cristiana, precedenti la composizione degli stessi Vangeli. Rivolgendosi a comunità religiose (chiese o gruppi di chiese), Paolo sviluppa temi dogmatici e apologetici in forme ampie e rigorosamente formalizzate: un prologo, il corpo della trattazione, un epilogo. L’epistola cristiana finisce inoltre per incrociarsi con altri generi: il trattato (come in Cipriano, vescovo di Cartagine [ cap. 17.3]), la riflessione morale, la narrazione (come la lettera 108

Il genere LETTERARIO Le forme della storiografia cristiana I filoni più fortunati della ricerca storica cristiana furono: – la cronaca universale, che dispone in ordine cronologico i fatti della storia del mondo a partire dalla creazione o da Abramo (non più dunque, come per gli storici pagani, dalla guerra di Troia o dalla fondazione di Roma) fino all’epoca di chi scrive. L’intento che guida gli autori è dichiaratamente apologetico: la religione giudaica (fondamento di quella cristiana) si pone all’origine del mondo, precede tutte le altre religioni. – la storia universale, che non si limita a ordinare gli eventi in tavole cronologiche, ma si propone anche di interpretarli secondo una prospettiva teologica e provvidenzialistica. L’opera più esemplare, a questo

proposito, sono le Storie di Orosio [ cap. 20.2]; – la storia ecclesiastica, che si occupa della Chiesa fin dalle sue origini, sia sul piano gerarchico e istituzionale, sia su quello teologico-dottrinale. Entro tale filone, si possono disporre indagini più specifiche: le biografie degli scrittori cristiani (esemplare il De viris illustribus di Gerolamo [ cap. 19.3]; la storia delle eresie; la storia delle persecuzioni (si veda, in particolare, il De mortibus persecutorum di Lattanzio [ cap. 17.5].

▰ Eclisse dei generi storiografici classici Completamente assenti, come si può osservare, sono proprio i generi storiografici più illustri della tradizione romana (la monografia politica e l’annalistica).

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16. Le nuove forme della letteratura cristiana

di Gerolamo, comprendente un racconto di pellegrinaggio). Non mancano testi costruiti entro una cornice epistolare: l’esempio più clamoroso è quello dell’Apocalisse, che Giovanni invia alle sette chiese d’Asia. Le più importanti raccolte epistolari in lingua latina sono quelle di Cipriano [ T8 ONLINE, cap. 17], Ambrogio [ cap. 19.2], Gerolamo [ T6 ONLINE-T7; T8-T9 ONLINE, cap. 19] ed Agostino [ T17-18 ONLINE , cap. 19]; mentre fino al IV secolo prevalgono le finalità pratiche e religiose, in seguito le lettere recuperano un carattere artistico e una più accurata elaborazione retorica. L’oratoria Se la grande oratoria latina (già entrata in crisi in età imperiale, per le ragioni lucidamente delineate da Tacito nel Dialogus de oratoribus), si era affermata negli spazi civici, quella cristiana ha la sua sede nella chiesa, assumendo la forma dell’omelia, breve sermone di argomento sacro che il sacerdote rivolge ai fedeli durante una funzione liturgica, per celebrare festività, commemorare i martiri e i santi, commentare passi scritturali. Il primo volume di omelie in lingua latina si deve ad Ambrogio, autore dei nove sermoni sulla creazione raccolti nell’Exameron [ T2 ONLINE, cap. 19], il quale pure produsse orazioni di tipo epidittico (si ricordino i discorsi funebri in onore di Teodosio e del fratello [ cap. 19.2]). Di Agostino ci sono giunti circa cinquecento sermoni, probabilmente solo un decimo di quelli effettivamente pronunciati [ cap. 19.4]. La storiografia La storiografia cristiana riceve un significativo impulso all’inizio del IV secolo dall’opera di Eusebio di Cesarea, autore in lingua greca di un Chronicon, apparso intorno al 303, e di una Storia ecclesiastica, forse pubblicata nel 312, l’anno della vittoria di Costantino al ponte Milvio: non è un caso che il cristianesimo, divenuto religione ufficiale dello Stato, cominciasse a proporre un’interpretazione della storia alternativa e concorrente a quella della storiografia pagana. Il fato e la cieca fortuna sono sostituiti della provvidenza divina; alla tradizionale concezione ciclica della storia il cristianesimo ne oppone una linea­ re, che da un inizio (la Creazione) muove verso la fine (il Giudizio Universale). Mentre gli storici pagani ricercavano le cause contingenti dei fatti, talvolta molteplici e contrastanti, gli storici cristiani potevano appellarsi a spiegazioni di carattere metastorico. Così gli avvenimenti politici e militari perdono importanza, mentre la Chiesa è posta al centro del mondo; la storia nazionale è sostituita da una storia universale e teologica.

Guida allo studio

1.

Nell’ambito della letteratura cristiana si assiste a una riconversione dei generi tradizionali, quali epistolografia, oratoria e storiografia: illustra le fasi salienti di questa operazione di riuso e di trasformazione,

sottolineando le novità più rilevanti. 2. Che cos’è un’omelia? A quale autore si deve il primo volume di omelie in lingua latina? 3. Quali sono le forme storiografiche più fortunate presso gli scrittori cristiani? 515

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

7 La poesia PROFILO STORICO

La poesia cristiana nasce dopo la prosa Mentre nel mondo pagano la poesia aveva sempre preceduto la prosa, la cultura cristiana sembra a lungo ignorare i generi poetici a favore di quelli prosastici, per varie motivazioni: la scarsa dimestichezza con la poesia degli strati sociali di basso livello culturale, tra i quali il cristianesimo ebbe ampia diffusione; l’urgenza di soddisfare necessità pratiche, che privilegiava forme letterarie come l’apologetica, il trattato, l’epistolografia; il ripudio della poesia in sé, considerata come la forma letteraria più rappresentativa del mondo pagano. In realtà, per esempio nella declamazione dei salmi biblici, la poesia cristiana nasce con finalità non estetiche ma cultuali, come preghiera e spesso anche come strumento di istruzione dei fedeli. Solo dopo l’editto di Milano (313 d.C.) si recupera un interesse verso le forme poetiche tradizionali e nasce una poesia cristiana in lingua latina, spesso in concorrenza con quella pagana. Tuttavia i generi tradizionali subi­ scono un’originale trasformazione per via della profonda novità dei contenuti. L’inno L’inno nasce come un canto di lode e di preghiera che la comunità dei credenti eleva a Dio. Il fondatore del genere innodico latino di argomento cristiano è Ilario di Poitiers [ cap. 17.8], seguito a poca distanza da Mario Vittorino [ cap. 17.9]; è poi Ambrogio a disegnare una precisa struttura metrica (otto strofe, ciascuna costituita da quattro dimetri giambici), destinata al canto e all’accompagnamento musicale [ T5, cap. 19]. Più vicini ai modelli classici sono gli inni di Prudenzio [ T19 ONLINE, cap. 19], non destinati al canto ma alla lettura, e rivolti non all’intero corpo dei fedeli ma a un pubblico colto. L’epos biblico L’epos biblico in lingua latina, il cui iniziatore fu Giovenco [ cap. 17.6] all’inizio del IV secolo, fu particolarmente coltivato nel secolo successivo, quando diede origine a poemi ispirati sia all’Antico e al Nuovo Testamento e modellati sul linguaggio dell’epos classico: tra gli altri si ricordano l’Alethía («La verità») di Claudio Mario Vittorio, l’Heptateuchos di Cipriano Gallico, il Paschale Carmen di Sedulio sulla vita di Cristo. Nel VI secolo Aratore, poeta cresciuto a Milano e operante alla corte gota di Ravenna, mise in versi gli Atti degli Apostoli (De actibus Apostolorum). La poesia agiografica Primo esempio di poesia agiografica a noi nota sono le Laudes Domini, carme anonimo in esametri composto tra il 317 e il 326 d.C., in cui si racconta un miracolo dai toni apocalittici a cui l’autore sostiene di aver assistito nei pressi di Autun, in Gallia. Nei secoli successivi vengono redatte due parafrasi in versi della famosa Vita Martini di Sulpicio Severo [ cap. 19.7], una da Paolino di Périgueux, l’altra da Venanzio Fortunato; ma i più ispirati tra i versi agiografici restano senza dubbio i Carmina natalicia di Paolino di Nola [ cap. 19.6]. La poesia apologetica Accanto all’aspro e immaginoso Carmen apologeticum [ T11 ONLINE , cap. 17] di Commodiano (poeta di difficile collocazione cronologica), ricordiamo alcuni esempi di un’ampia produzione antipagana in versi, che sembra concentrarsi tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, negli anni della cosiddetta «rinascita» pagana: un Carmen contra paganos in esametri, invettiva rivolta a un senatore distintosi per l’attività anticristiana (nel quale si è voluto riconoscere Simmaco); un Carmen contra quendam senatorem ex christiana religione ad idolorum servitutem conversum, anch’esso in esametri, il cui obiettivo polemico potrebbe essere Flavio Manlio Teodoro, console nel 399; i due celebri libri Contra Symmachum composti nel 401-402 da Prudenzio [ cap. 19.5]. 516 © Casa Editrice G. Principato


16. Le nuove forme della letteratura cristiana

L’autobiografia in versi Sulla scia delle Confessioni di Agostino, Paolino di Pella compone un’autobiografia in esametri intitolata Eucharisticos Deo sub ephemeridis meae textu («Ringraziamento a Dio attraverso il diario della mia vita»), pubblicata nel 459, quando l’autore aveva superato gli ottant’anni: una vita avventurosa e drammatica, dall’infanzia in un’agiata famiglia pagana fino alla conquista della fede in Cristo, viene raccontata con una freschezza che compensa l’andamento approssimativo dei versi; modelli poetici sono Virgilio e Ausonio. La poesia epigrafica Ricco è il corpus di iscrizioni funebri cristiane oggi raccolte, insieme a quelle pagane, nei Carmina Latina Epigraphica. All’interno di questo corpus, godettero di particolare fortuna gli epitafi per i martiri composti nella seconda metà del IV secolo da papa Damaso (366-384), lo stesso che affidò a Gerolamo l’incarico di rivedere le antiche traduzioni latine della Bibbia. La poesia bucolica Al retore Endelechìo si deve un singolare carme bucolico scritto intorno al 400 d.C., dal titolo De mortibus boum: in un’epidemia di bestiame che dalla Pannonia era dilagata fino in Gallia (ispirata a un fatto storico reale), il pastore Titiro ha salvato gli animali segnandoli con la croce, e induce alla conversione due pastori che hanno perso tutto il bestiame. Trasparente la cristianizzazione del modello virgiliano della prima ecloga, peraltro rielaborato in metri lirici oraziani. La poesia centonaristica Il primo esempio di centone cristiano è un poema di argomento biblico comunemente designato come Cento Probae, dal nome dell’autrice, Faltonia Betitia Proba, vissuta nel IV secolo. Episodi biblici vi vengono narrati facendo uso esclusivamente di spezzoni virgiliani, con l’eccezione del proemio, in cui Proba sostiene di voler dimostrare che Virgilio «ha cantato i pii doni di Cristo», anticipando così la cristianizzazione di Virgilio che sarà così importante nella cultura medioevale, dall’interpretazione allegorica dell’Eneide proposta da Fulgenzio fino alla Commedia dantesca.

Guida allo studio

1.

Per quali motivi nel mondo cristiano la poesia nasce dopo la prosa? 2. Enumera le forme caratteristiche della poesia cristiana, ricordando gli autori e le opere più importanti.

Carmen de ave Phoenice ▰ Un poemetto in distici elegiaci Particolare

interesse riveste un poemetto in distici elegiaci intitolato De ave Phoenice, generalmente attribuito, con notevoli riserve, a Lattanzio [ cap. 17.5]. La mitica fenice apparteneva da tempo sia alla simbologia pagana sia a quella cristiana: da Tertulliano, ad esempio, era stata usata come simbolo della resurrezione di Cristo.

▰ Assenza di riferimenti al cristianesimo L’assenza di concreti riferimenti al cristianesimo, nel De ave Phoenice, potrebbe significare

3. Quale rapporto si instaura fra i poeti cristiani e i modelli poetici del paganesimo?

che l’autore cristiano intendeva rivolgersi a un pubblico colto pagano, alludendo a Cristo per via indiretta attraverso identificazioni mitologiche (Cristo = Fenice; Dio Padre = Febo Sole). Lattanzio stesso, nelle Divinae institutiones (V, 5), riconosceva l’utilità di rivolgersi al mondo pagano mediante un’interpretazione allegorica dei grandi poeti latini.

▰ Primo esempio di poesia cristiana in lingua latina? Se il De ave Phoenice fosse suo, ci troveremmo di fronte al primo esempio di poesia cristiana latina che si pone consapevolmente nel solco di quella classica.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

Materiali

B essenziale

Bibliografia

PROFILO STORICO

ONLINE

LABORATORIO • Un passo dall’Apocalisse di Giovanni: «La grande meretrice» BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Letteratura cristiana latina Antologie e studi complessivi: M. Simonetti, Letteratura cristiana antica greca e latina, introduzione di G. Lazzati, Sansoni-Accademia, FirenzeMilano 1969; J. Fontaine, La letteratura latina cristiana, Bologna 1973; Dizionario patristico e di antichità cristiane, a cura di A. Di Berardino, 3 voll., Mar ietti, Tor ino 1983-1988; H. Hagendahl, Cristianesimo latino e cultura classica. Da Tertulliano a Cassiodoro, Borla, Roma 1988; G. Bosio-E. Dal Covolo-M. Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa, SEI, Torino 1990-1995; C. Moreschini-E. Norelli, Storia della Letteratura Cristiana Antica, greca e latina, 2 voll. in 3 tomi, Morcelliana, Brescia 19941996; Letteratura cristiana antica, a cura di M. Simonetti, con la collaborazione di E. Prinzivalli, voll. 3, Piemme, Casale Monferrato 1996. � Versioni bibliche e latino cri­ stiano L. Leone, Latinità cristiana. Introduzione allo studio del latino cristiano, Lecce 1971; A. Ceresa-Gastaldo, Il latino delle antiche versioni bibliche, Roma 1975; J. Schrijnen, I caratteri del latino cristiano antico, Bologna 1977; E. Valgiglio, Le antiche versioni latine del Nuovo Testamento. Fedeltà e aspetti grammaticali, Napoli 1985. � Atti e passioni dei martiri Edizioni: Atti e passioni dei martiri, a cura di A.A.R. Bastiaensen e altri,

Fondazione Lorenzo Valla-A. Mondadori, Milano 1987. Studi: G. Lazzati, Gli sviluppi della letteratura sui martiri nei primi quattro secoli. Con appendice di testi, Torino 1956; E. Prinzivalli, Perpetua, la martire, in Roma al femminile, a cura di A. Fraschetti, Roma-Bari 1994. � Vite dei santi Vite dei santi (I: Vita di Antonio; II: La storia lausiaca; III: Vita di Cipriano. Vita di Ambrogio. Vita di Agostino; IV: Vita di Martino. Vita di Ilarione. In memoria di Paola), a cura di C. Mohrmann, testo critico e commento a cura di G. J. M. Bartelink (I-II), A.A.R. Bastiaensen (III), A. A. R. Bastiaensen e Jan W. Smit (IV), trad. di P. Citati e S. Lilla (I), M. Barchiesi (II), L. Canali e C. Carena (III), L. Canali e C. Moreschini (IV), Fondazione Lorenzo Valla-A. Mondadori, Milano 19741975. � Racconti di pellegrinaggio Edizioni: Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, a cura di P. Siniscalco e L. Scarampi, Città Nuova, Roma 2000; Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, a cura di N. Natalucci, Nardini, Firenze 1991. Studi: C. Milani, Studi sull’«Itinerarium Egeriae». L’aspetto classico della lingua di Egeria, «Aevum», 43, 1969, pp. 381-452; AA.VV., Atti del convegno internazionale sulla «Peregrinatio Egeriae». Arezzo, 23-25 ottobre 1987, Città di Castello 1990; E.

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Löfstedt, Commento filologico alla «Peregrinatio Aetheriae». Ricerche sulla storia della lingua latina, a cura di P. Pieroni, Bologna 2007. � Apologetica Edizioni: per i testi di Minucio Felice, Tertulliano, Cipriano, Arnobio, Lattanzio e Firmico Materno si veda l’indice bibliografico del cap. 17. Studi: M. Sordi, I cristiani e l’impero romano, Milano 1983. � Epistolografia, oratoria e sto­ riografia cristiana Studi: L. Tondelli, Il disegno divino nella storia, Torino 1947; A. Momigliano, Storiografia pagana e cristiana nel secolo IV d.C., in AA.VV., Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, Torino 1975, pp. 89-110; AA.VV., La storiografia ecclesiastica nella tarda antichità, Centro di Studi Umanistici, Messina 1980; S.K. Stowers, Letter Writing in Greco-Roman Antiquity, Philadelphia 1989. � Poesia cristiana Edizioni: Antologia cristiana, voll. 2, a cura di Q. Cataudella, SansoniAccademia, Milano 1969; Poeti latini tradotti da scrittori contemporanei, a cura di V. Guarracino, vol. II, Bompiani, Milano 1993; Antologia della poesia latina, a cura di L. Canali, con la collaborazione di A. Fo e M. Pizzica, Mondadori, Milano 1993; Poeti cristiani latini dei primi secoli, a cura di V. Guarracino, Mimep-Docete 2017.


16. Le nuove forme della letteratura cristiana

Sintesi

S

Le nuove forme della letteratura cristiana Dalla Palestina il cristianesimo si diffuse dapprima nelle città asiatiche di lingua greca; per almeno due secoli il greco si impose anche in Occidente come lingua ufficiale della Chiesa. Una letteratura cristiana in lingua latina si sviluppa solo negli ultimi anni del II secolo. Come già nel mondo ebraico, i testi sacri costituirono il fondamento della cultura cristiana. Le traduzioni dei testi sacri Delle più antiche traduzioni latine della Bibbia (trasformazione di tà Biblía, in greco «i Libri»), le Veteres Latinae, possediamo soltanto ampi frammenti. Le traduzioni cristiane dei testi sacri, che ricorrono a un latino assai semplice, fondato sul sermo humilis e cotidianus, introducono il principio, estraneo al mondo antico, della traduzione letterale. Fra il 384 e il 385 Gerolamo attese alla revisione delle vecchie traduzioni dei Vangeli (scritti originariamente in greco) e alla traduzione dell’Antico Testamento direttamente dall’ebraico. La nuova traduzione geronimiana si impose nei secoli successivi con la denominazione di Vulgata. Le traduzioni dei libri sacri avviarono una radicale trasformazione della lingua latina, che si trasmise in seguito ai testi dottrinali e letterari. Testimonianze e biografie Gli Acta Martyrum («Atti dei Martiri») sono i resoconti dei processi e delle esecuzioni cui furono sottoposti i cristiani che testimoniarono (martyr in greco significa «testimone») la loro fede, tramandati anche con la denominazione di Passiones; testi destinati ai credenti per uso liturgico e commemorativo. Il primo esempio in lingua latina risale al 180; si esauriscono nell’età di Costantino. Dal modello degli Acta e delle Passiones, incrociato con quello della biografia classica, si sviluppano allora le «Vite dei santi», racconti esemplari arricchiti di elementi romanzeschi e leggendari; grande successo ebbe la Vita di Antonio (seconda metà del IV secolo). Al genere dell’autobiografia vanno ricondotte le Confessiones, narrazioni di esperienze personali centrate sull’episodio decisivo della conversione, tra cui spicca il capolavoro di Sant’Agostino (396-400), e i racconti di pellegrinaggio, tra cui il più noto è la Peregrinatio Aetheriae (composto dopo il 381). Testi apologetici Gli apologisti («difensori») della fede cristiana, attivi fra II e V secolo, combatterono la loro battaglia più impegnativa contro il paganesimo, perseguendo chiari obiettivi: denunciare gli abusi giuridici e le discriminazioni dello Stato romano; confutare le accuse rivolte ai cristiani; attaccare la religione pagana. Gli apologisti

latini (Minucio Felice, Tertulliano, Arnobio, Firmico Materno, Lattanzio, Ambrogio) utilizzarono vari generi e forme di scrittura, con atteggiamenti ed esiti altrettanto vari. La svolta costantiniana rese progressivamente inattuale il discorso apologetico. Letteratura esegetica L’esegesi biblica, cioè l’interpretazione e il commento dei testi sacri, assunse grande importanza nell’ambito della cultura cristiana. L’impulso decisivo proviene da Origene (185 ca – 253), autore di lingua greca. La letteratura esegetica in lingua latina si sviluppa soprattutto fra la metà del IV e gli inizi del V secolo, con Ilario di Poitiers, Mario Vittorino, Ambrogio, Gerolamo, Agostino. Nell’interpretazione dei testi gli scrittori cristiani si avvalgono di due metodi: da una parte l’antico metodo allegorico, già in uso presso i pagani, volto a cercare significati spirituali nascosti in chiave simbolica sotto la lettera; dall’altra l’interpretazione tipologica o figurale, che invece si deve interamente alla cultura cristiana, secondo la quale ogni evento dell’Antico Testamento annuncia profeticamente gli eventi del Nuovo; entrambi gli eventi, misteriosamente collegati nel piano divino di salvazione, hanno realtà storica. Riconversione dei generi tradizionali La letteratura cristiana si sviluppa in un rapporto dialettico e insieme conflittuale con la tradizione pagana, che viene utilizzata, ma per essere riconvertita in un nuovo sistema di valori. Le diverse finalità degli scrittori cristiani, mossi da interessi esclusivamente religiosi; la presenza di un testo-guida, la Bibbia, ispirato da Dio; l’uso di un linguaggio semplice ed umile nel trattare argomenti alti, portano alla rottura degli schemi retorici classici e alla riconversione dei generi e delle forme tradizionali, quali l’epistolografia, volta a finalità pastorali e apostoliche; l’oratoria, che assume la forma dell’omelia; la storiografia, che sostituisce una concezione lineare della storia umana a quella ciclica del mondo classico. Forme della poesia cristiana Anche nell’ambito della poesia gli scrittori cristiani sono obbligati a un’originale trasformazione dei generi tradizionali. Accanto all’innografia si impongono l’agiografia e l’autobiografia in versi, la poesia polemica e apologetica, la poesia didascalica e l’epica di argomento scritturale. Non mancano peraltro testi poetici che rivisitano, pur nella novità dei contenuti, le più tradizionali forme della letteratura pagana, dall’epitalamio alla poesia bucolica.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

MAPPA LE NUOVE FORME DELLA LETTERATURA CRISTIANA

Traduzioni latine dei testi sacri

• • • • • •

Testimonianze e biografie

• • •

Testi apologetici

Letteratura esegetica

Riconversione dei generi tradizionali

II-V secolo d.C.

traduzione letterale latino molto semplice, sermo humilis Veteres Latinae (solo frammenti) La Vulgata di Gerolamo (384-405) – revisione delle vecchie traduzioni dei Vangeli – traduzione dall’ebraico dell’Antico Testamento radicale trasformazione della lingua latina

Acta Martyrum e Passiones – resoconti dei processi e delle esecuzioni dei cristiani Vite dei santi: racconti esemplari (Vita di Antonio) – elementi romanzeschi e leggendari Confessiones: la conversione esperienza decisiva racconti di pellegrinaggio (Peregrinatio Aetheriae)

• • •

apologisti = difensori (della fede) diversi generi e forme di scrittura obiettivi: – denunciare gli abusi giuridici e le discriminazioni – confutare le accuse rivolte ai cristiani – attaccare la religione pagana

• •

esegesi = interpretazione e commento dei testi sacri due metodi interpretativi: – antico metodo allegorico – interpretazione tipologica o figurale

riuso della tradizione pagana entro un nuovo sistema di valori epistolografia: finalità pastorali e apostoliche oratoria: assume la forma dell’omelia storiografia: concezione lineare, storia universale forme della poesia cristiana: – innografia – agiografia e autobiografia in versi – poesia polemica, apologetica, didascalica – epica di argomento scritturale

• • • •

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Completamento

1 Inserisci i dati mancanti. Dell’Antico Testamento, scritto originariamente in e in , esisteva una versione in , elaborata a verso la fine del III secolo a.C., la cosiddetta versione . I libri del Nuovo Testamento, invece erano stati elaborati direttamente in , anche se del Vangelo di era esistita una prima stesura in . Le più antiche traduzioni latine della Bibbia venivano designate complessivamente con l’espressione Vetus Latina; oggi dette . Le traduzioni cristiane dei testi sacri introducono il principio della . Negli anni San Gerolamo attese a una nuova traduzione dei testi sacri che si impose con la denominazione di . p._____/12

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Una letteratura cristiana in lingua latina si sviluppa solo all’inizio del IV sec. V | F b. Fino alla fine del II sec. anche in Occidente la lingua della Chiesa fu il greco V | F c. I cristiani dei primi secoli scrivono in uno stile ricercato ed elegante V | F d. Le traduzioni dei testi sacri avviano una trasformazione della lingua latina V | F e. Gli Acta Martyrum sono colorite narrazioni delle vite dei santi V | F f. La letteratura apologetica si sviluppa soprattutto nell’età di Costantino V | F g. Gli apologisti cristiani utilizzano sia la prosa sia il verso V | F h. L’impulso decisivo all’esegesi dei testi sacri fu dato da Origene V | F p._____/8

Quesiti a scelta multipla

3

Indica il completamento corretto.

1. Il primo esempio di Acta Martyrum si riferisce a un processo celebrato ■ a Roma ■ a Cartagine

2.

3.

4.

5.

■ a Scili, in Numidia ■ ad Antiochia La Passio Perpetuae et Felicitatis risale al ■ 180 d.C. ■ 303 d.C. ■ 295 d.C. ■ 203 d.C. La prima biografia cristiana in lingua latina è ■ la Vita Cypriani ■ la Vita Martini ■ la Vita Augustini ■ la Vita Ambrosii Tra gli apologisti latini, fa uso del classico dialogo filosofico ■ Tertulliano ■ Minucio Felice ■ Lattanzio ■ Firmico Materno Il fondatore del genere innodico in lingua latina è ■ Prudenzio ■ Ambrogio ■ Ilario di Poitiers ■ Venanzio Fortunato p._____/5 Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Illustra le motivazioni che inducono i traduttori dei testi sacri a far uso di una lingua lontana dal latino classico. 2. Destinazione e uso degli Acta Martyrum e delle Passiones. 3. Obiettivi e principali autori dell’apologetica latina. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Le vite dei santi: modelli, diffusione e caratteristiche salienti. 2. L’interpretazione tipologica o figurale dei testi sacri. 3. Le forme della poesia cristiana: riuso e riconversione dei generi tradizionali.

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Le nuove forme della letteratura cristiana

Verifica finale


17 Scrittori cristiani fra II e IV secolo 1 Un dialogo “ciceroniano”: l’Octavius di Minucio Felice Vita e opere Minucio Felice è africano, con ogni probabilità originario di Cirta, in Numidia; vive tra il II e III secolo d.C. a Roma, esercitando l’avvocatura; è autore dell’Octavius, forse la prima opera apologetica in lingua latina che ci sia pervenuta. Sulla cronologia dell’Octavius esistono due tesi contrastanti, che fanno entrambe riferimento all’Apologeticum di Tertulliano: esistono infatti tra le due opere analogie tali da far ritenere che una sia stata il modello dell’altra; e poiché l’Apologeticum fu scritto negli anni 197-198, la composizione dell’Octavius va avanzata o anticipata rispetto a tale data. Riassunto dell’Octavius L’Octavius è un dialogo composto secondo il tradizionale modello dei dialoghi filosofici di Cicerone. Il narratore, mentre ripensa all’amico Ottavio ormai morto, ricorda un episodio lontano nel tempo: si trovava infatti insieme ad Ottavio e ad un altro amico, il pagano Cecilio, nella città di Ostia. In una mattina di primo autunno, i tre stanno passeggiando sulla spiaggia, quando, nel passare accanto a una statua di Serapide, Cecilio avvicina la mano alle labbra e vi imprime un bacio, un gesto di devozione secondo l’uso pagano. Ottavio esprime 522 © Casa Editrice G. Principato


Il Giudizio Universale Ecco dal cielo risuonare cupa, echeggiante dovunque, la tromba che spaventa il mondo intero, nell’imminente rovina. All’improvviso il sole si dilegua, e appare a un tratto la notte. E Dio grida: «Fino a quando pensavate che io pazientassi?». Al suo cenno precipita il castigo da ogni plaga del cielo; con fragore di tuono discende l’uragano di fuoco. [...] Non vi sarà allora alcun soccorso, e inutile sarà gridare aiuto; non vi sarà una nave su cui trovar rifugio, né alcun nascondiglio. Né verranno in aiuto quei signori che prima eran tenuti in gran rispetto. Ognuno si darà molto da fare per conto suo, ma non gli gioverà. Gioverà solo a quelli che Cristo avrà contrassegnati. Per essi sarà come una rugiada, per tutti gli altri mortale castigo. (Commodiano, Carmen apologeticum, vv. 1001-1018 passim, trad. di A. Salvatore)

contra

pauperes fides

adversus

ira

ruina

gloria resurgentium sanctorum

lapsi

demones Tu es diaboli ianua

allora il suo rammarico che Cecilio possa continuare a vivere nella «cecità» di un tale errore. Giunti sul lido, Cecilio e Ottavio ingaggiano una disputa alla presenza del narratore, che farà da giudice ascoltando (capp. 1-4). Comincia a parlare Cecilio, esponendo una visione del mondo di carattere sostanzialmente scettico e probabilistico: l’uomo non può addentrarsi nei grandi misteri della natura; è improbabile che il mondo sia retto da una provvidenza divina; sarà dunque preferibile, in uno stato di incertezza gnoseologica, attenersi agli dèi della tradizione. Dopo aver celebrato la pietas dei Romani, che onorano «tutti quanti gli dèi», Cecilio stigmatizza le empie e depravate consuetudini delle sette cristiane, le loro irragionevoli, contraddittorie credenze, manifestando un aristocratico disprezzo nei confronti dei seguaci di Cristo, uomini rozzi, miserabili, privi di cultura (capp. 5-13 [ T2]). Si inserisce a questo punto il narratore Minucio, esercitando la sua funzione di moderatore in una sorta di intermezzo (capp. 14-15). Nella sua replica, Ottavio esalta l’universalità del messaggio evangelico e sostiene l’esistenza di una provvidenza che regge l’universo, di cui elogia la bellezza, l’ordine e la necessità. Accusando la religione pagana di incongruenze e falsità, dimostra inoltre che Roma ha esercitato finora un dominio scellerato e violento sul mondo e annuncia la nuova etica cristiana, fondata su valori di purezza, carità, semplicità di vita e di costumi (capp. 16-38 [ T3-T4 ONLINE]). Il dialogo si conclude con la resa di Cecilio. 523 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

PROFILO STORICO

Una forma classica Indipendentemente dal problema cronologico, l’Octavius appare come un testo apologetico anomalo (nella forma, nei toni e nei contenuti) se confrontato con quella che sarà la tradizione apologetica cristiana di lingua latina. Intanto è l’unico che scelga la forma del dialogo, e che si ispiri ai modelli della cultura pagana, in particolare al De natura deorum e al De amicitia di Cicerone. La conversazione fra amici colti durante una passeggiata in un luogo sereno e piacevole era del resto una situazione topica della letteratura latina. Un pubblico colto e pagano La scelta di un’architettura tradizionale, il tono misurato e composto della disputa, inscritta in una elegante e piacevole cornice, lo stile ciceroniano non privo di colori poetici e attento ai canoni classici del ritmo, il continuo richiamo alle scuole filosofiche classiche, l’assenza di riferimenti ai dogmi e alle problematiche dottrinali del cristianesimo, il ricorso a strumenti di ordine esclusivamente logico-razionale per persuadere l’uditore, indicano che Minucio vuole rivolgersi a un pubblico pagano, colto, sensibile, che apprezza le finezze di una prosa elegante e la chiarezza intellettuale del discorso.

Guida allo studio

1

Per quali ragioni l’Octavius di Minucio Felice viene definito un testo apologetico anomalo?

2. Chi sono gli interlocutori del dialogo? Quali i contenuti essenziali dei loro interventi? 3. A quali modelli letterari si ispira l’autore e a quale pubblico intende rivolgersi?

2 L’energia morale e dottrinale di Tertulliano La vita Tertulliano nasce a Cartagine intorno alla metà del II secolo. Compie buoni studi, conosce la lingua greca, approfondisce la filosofia stoica, la retorica, il diritto; e certamente assiste alle brillanti conferenze che negli stessi anni, proprio a Cartagine, tiene Apuleio, al culmine della notorietà e della fama. Per un certo periodo dimora a Roma, dove è probabile svolgesse l’attività di avvocato. La testimonianza dei martiri e il disgusto per la corruzione morale dell’impero determinano verso il 195, in età già matura, la conversione alla nuova fede: «non si nasce, si diventa Cristiani» scriverà egli stesso, alludendo al proprio destino. Alla fine del secolo appartengono tre scritti di grande interesse: Ad martyras (la prima opera latina di esortazione al martirio, indirizzata a un gruppo di cristiani rinchiusi nel carcere di Cartagine), Ad nationes e il celebre Apologeticum, la sua opera più nota e importante. Rigorismo morale e intransigenza dottrinale lo spingono verso posizioni ereticali: all’incirca dal 206-207 aderisce al gruppo dei montanisti, che predicava l’imminente fine del mondo e una severa disciplina di vita; qualche anno più tardi fonderà una propria setta, che da lui verrà chiamata «tertullianista» e sarà ancora attiva per almeno un secolo. Muore dopo il 220. Il corpus delle opere Di Tertulliano ci sono pervenute trentun opere (più i titoli di altre dodici opere perdute), che vengono solitamente classificate in tre gruppi: testi di carattere apologetico, dottrinale, morale. 524 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Opere apologetiche Nel primo gruppo spicca l’Apologeticum («Apologetico» ovvero «Discorso di difesa»). Scritto nel 197-198 e indirizzato ai governatori romani delle province, l’Apologetico vuole dimostrare l’assurdità giuridica delle persecuzioni [ T5], confutare le accuse infamanti rivolte al cristianesimo, sottolineare la diversità della scelta cristiana da ogni altra filosofia, fino ad esaltare il valore del martirio e la fatalità del trionfo di Cristo. Complementare all’Apologeticum e di poco precedente è il libro intitolato Ad nationes («Ai pagani»). Analoghi gli argomenti, ancor più pronunciato l’attacco al mondo pagano, accusato di immoralità e di violenza. Minucio e Tertulliano: le due facce del cristianesimo contemporaneo Minucio e Tertulliano sono le due facce del cristianesimo contemporaneo: una rassicurante, che mitiga e concilia le differenze; l’altra minacciosa e rigorista, che nonostante le professioni di lealismo trasmette il senso di un’abissale rottura fra due modi di vivere e di pensare. Solo due anni dopo, nel De praescriptione haereticorum (VII, 9), Tertulliano avrebbe scritto: «Che cos’hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l’Accademia e la Chiesa? Che cosa gli eretici e i cristiani? La nostra cultura viene dal portico di Salomone». Opere dottrinali Il mondo cristiano, durante i primi secoli, non fu una realtà omogenea ed unitaria, come testimoniano l’enorme numero di sette e di comunità, e gli accesi dibattiti dottrinali a cui esse diedero vita. A questi dibattiti Tertulliano partecipò con il consueto vigore polemico e la forza teorica del suo pensiero. Nel De praescriptione haereticorum («La prescrizione contro gli eretici»), scritto intorno al 203, Tertulliano impegna il proprio sapere giuridico per dimostrare che solo la Chiesa cattolica è depositaria della verità e autorizzata a interpretare i testi sacri: va perciò considerata «menzognera a priori» ogni dottrina nata successivamente e in contrasto con la chiesa dei primi apostoli.

L’Apologeticum di Tertulliano ▰ Un pamphlet aspro e violento Diversamente

dall’Octavius di Minucio Felice, l’Apologeticum di Tertulliano è condotto su toni battaglieri e polemici, sostenuti da un linguaggio brillante e acceso, sferzante e sarcastico, paradossale e barocco. Sentiamo in queste pagine la coscienza di una forza incontenibile, espressa con accenti di sfida e uno straordinario vigore espressivo: «Non siamo che di ieri. Eppure abbiamo riempito già la terra, tutti i vostri domini; le città, le isole, i centri fortificati, i municipi, le borgate, diciamo meglio gli stessi accampamenti, le tribù, le decurie, la corte, il senato, il foro. Una sola cosa vi abbiamo lasciato: i templi» (37, 4).

▰ Una requisitoria antipagana Non meraviglia perciò che uno scritto di difesa si trasformi in una requisitoria antipagana, ribaltando le tradizionali

accuse contro i cristiani: è la religione pagana ad essere immorale; è la cultura pagana a trasmettere miti di incesto e di infanticidio; è l’apparato giuridico pagano ad essere intollerante e oppressivo; sono i pagani a macchiarsi d’empietà verso gli dèi, dal momento che venerano l’imperatore più di Zeus Olimpio.

▰ Sul carteggio Plinio-Traiano Le pagine più note

dell’Apologeticum sono quelle riservate alla demolizione sarcastica delle lettere intercorse fra Plinio il Giovane e l’imperatore Traiano [ T6, cap. 10]. Tertulliano, va aggiunto, per ora non si contrappone all’impero (come farà con intransigente asprezza nelle opere del periodo montanista): rispetta, secondo le indicazioni di San Paolo, le istituzioni, compresa la necessità del servizio militare e l’opportunità di pregare per la salute del princeps: il cristiano è un cittadino leale, afferma ripetutamente, che tuttavia pretende libertà di coscienza e di religione.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

PROFILO STORICO

Violenta e sistematica, la lotta contro l’eresia gnostica (secondo la quale esistevano due princìpi divini: il Dio buono del Nuovo Testamento e quello malvagio del Vecchio) fu condotta con numerosi e continui interventi: fra questi l’Adversus Marcionem («Contro Marcione») e l’Adversus Praxĕan («Contro Prassea»). Al periodo montanista appartengono due importanti saggi dottrinali: De carne Chri­sti, nel quale viene affermata la sostanza reale del corpo di Cristo; De resurrectione carnis, sul tema della resurrezione dei corpi. Opere di carattere morale Del terzo gruppo fanno parte numerose opere nelle quali vengono precisate norme di comportamento per la vita pratica, liturgica o morale. Fra di esse: De spectaculis («Gli spettacoli»), sui ludi pagani sia circensi che teatrali, considerati strumenti del demonio e perciò da evitare; De pudicitia («La pudicizia»), contro i rapporti sessuali fuori dal matrimonio; De idololatria («L’idolatria»), nel quale vengono severamente proibite tutte le attività economiche coinvolte con i culti pagani. Al periodo montanista appartengono testi fortemente polemici come il De fuga in persecutione («Sulla fuga durante la persecuzione»), violenta condanna di chi si sottrae al martirio, e il De corona («Sulla corona»), contro il servizio militare giudicato incompatibile con la vita cristiana. La donna Notevole il corpus delle opere sul tema della donna, demonizzata fino ad essere considerata un perverso strumento di Satana ai danni dell’uomo: nel De cultu feminarum («L’eleganza delle donne»), scritto intorno al 200, viene condannato ogni apparato di seduzione femminile [ T6; T7 ONLINE]; nel De virginibus velandis («Le vergini debbono portare il velo») viene prescritto alle donne di velarsi il capo non solo in chiesa ma anche uscendo di casa; nel De exhortatione castitatis («Esortazione alla castità») e nel De monogamia («Sull’unico matrimonio») le seconde nozze dopo la vedovanza sono giudicate alla stregua di un adulterio. Il tema è ripreso nell’Ad uxorem («Alla propria moglie»), dove le donne vengono ammonite a non risposarsi dopo la morte del marito. Il matrimonio stesso è considerato, sulla scorta del pensiero paolino, una minaccia costante per la vita cristiana. Conclusioni su Tertulliano La vicenda intellettuale di Tertulliano, passionale e grandiosa nella sua ricerca di integrità e di verità, testimonia dunque un inasprimento di toni dalle iniziali opere apologetiche (in cui è evidente, nell’ex pagano da poco convertito, il bisogno di rivolgersi a quel mondo nel quale era fino a quel momento vissuto) agli scritti successivi (tutti rivolti all’interno della complessa e variegata realtà cristiana, ancora in via di assestamento dottrinale). L’ultimo Tertulliano è per un totale distacco della cultura cristiana da quella pagana, contro le stesse posizioni della Chiesa contemporanea.

Guida allo studio

1.

Dove nasce Tertulliano? Quali sono le fasi salienti della sua vita? Quali rapporti instaura, negli ultimi anni, con le autorità ecclesiastiche?

2. Elenca le principali opere di Tertulliano, rispettandone la tradizionale classificazione in tre gruppi. 3. In particolare, indica l’epoca di composizione, i destinatari e i contenuti dell’Apologeticum, proponendo un rapido confronto con l’Octavius di Minucio Felice.

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PROFILO STORICO

3 Un martire della Chiesa: Cipriano, vescovo di Cartagine La vita e il corpus delle opere Cipriano nasce a Cartagine da una facoltosa famiglia pagana agli inizi del III secolo. Compie gli studi tradizionali nelle migliori scuole romane della sua città, esercitando con successo la professione di retore. Intorno al 246 si converte al cristianesimo, producendo grande impressione, data la sua notorietà, sui concittadini. Tra la fine del 248 e gli inizi del 249 viene eletto vescovo della sua città, in un periodo di grande difficoltà, caratterizzato dalla persecuzione di Decio contro le comunità cristiane (249-251) e dai problemi disciplinari riguardanti, dopo la fine della persecuzione, i cosiddetti lapsi (da labor = «scivolare», «cadere», «cedere»), cioè coloro che avevano sacrificato agli dèi pagani (sacrificati) o si erano procurati falsi libelli (libellatici) [ Le figure e gli eventi della storia, p. 568], e che ora pretendevano di essere riammessi nella comunità. La posizione assunta da Cipriano, poi sancita dal concilio di Cartagine del 252, fu equilibrata e prudente, lontana sia dal lassismo di chi voleva immediatamente concedere la comunione a chi era «caduto», sia dal rigorismo estremo di chi non voleva concedere la comunione neppure in punto di morte: i lapsi potevano essere riammessi nella comunità cristiana, ma solo dopo aver fatto pubblicamente penitenza ed essersi impegnati in preghiere ed opere [ T10 ONLINE]. In ogni caso Cipriano riaffermava con forza l’autorità del vescovo, l’unica in grado di concedere il perdono. Negli anni successivi Cipriano si trova ad affrontare nuovi gravissimi problemi: la peste, che infuria fra il 252 e il 254 a Cartagine; la controversia sulla dottrina battesimale; infine, nel 257, la nuova persecuzione promossa dall’imperatore Valeriano. Cipriano viene in un primo momento arrestato, processato e condannato all’esilio. Richiamato e di nuovo sottoposto a processo, venne decapitato il 14 settembre 258 [ Il martirio di Cipriano nella testimonianza del diacono Ponzio ONLINE]. Di Cipriano ci sono pervenuti tredici trattati, ai quali si deve aggiungere il corpus delle Epistulae. Testi di carattere apologetico Alcune delle opere di Cipriano nascono da un intento apologetico: Ad Donatum, scritto subito dopo la conversione, contrappone la luce della verità cristiana alle tenebre del paganesimo morente; Ad Demetrianum, scritto nel 252, vuole scagionare i cristiani dall’accusa di essere responsabili di epidemie, guerre e calamità; Ad Fortunatum de exortatione martyrii, composto nel 257-258, è una raccolta di brani scritturali che esortano i credenti a perseverare nella fede dinanzi alla prospettiva del martirio. Prima delle opere di Cipriano, la più vicina al suo passato di retore pagano, A Donato introduce il tema della vita cristiana mediante una cornice di sapore letterario che ricorda l’Ottavio di Minucio Felice: l’autore invita infatti Donato, un amico anch’egli appena convertito, a trascorrere la giornata in sua compagnia in un delizioso giardino. È chiaro che Cipriano, all’indomani della conversione, sente ancora un profondo legame con la cultura pagana; ancor più significativo che in tutte le opere successive, scritte in qualità di vescovo, non vi sia più traccia della cultura letteraria pagana e che i richiami siano solo di carattere biblico ed evangelico. 527 © Casa Editrice G. Principato


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17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

PROFILO STORICO

Testi di carattere disciplinare e pastorale La maggior parte degli scritti di Cipriano riguardano problemi di vita pratica delle comunità cristiane. Ai primi anni dell’episcopato appartiene il De habitu virginum («La condotta delle vergini»), ispirato al De cultu feminarum di Tertulliano: Cipriano condanna il lusso, la vanità e l’ostentazione dei beni, cose che non si addicono a chi ha scelto di vivere secondo i princìpi della castità e lontano dalle lusinghe del mondo. Il De lapsis («Gli apostati»), scritto nel 251 poco dopo la fine della persecuzione di Decio, è un’opera marcatamente polemica nella quale Cipriano difende il principio dell’autorità della Chiesa, la sola che possa arrogarsi il diritto di perdonare i peccati. Agli anni 252-253 appartiene invece il De mortalitate («La pestilenza»): rivolgendosi ai fedeli, inquietati dalla violenza dell’epidemia e turbati dal fatto che essa colpisse indifferentemente credenti e pagani, Cipriano annunzia l’avvento del regno di Dio, di cui la pestilenza è un segno. Le lettere Il libro delle Lettere costituisce il primo epistolario cristiano in lingua latina che ci sia pervenuto: ottantun lettere, sedici delle quali scritte dai suoi corrispondenti, nelle quali si affrontano i grandi problemi interni (la questione dei lapsi [ T8 ONLINE ]; la controversia sul battesimo; questioni disciplinari e morali) ed esterni (le persecuzioni, le epidemie) di una delle più importanti comunità cristiane d’Africa. Cipriano manifesta esemplarmente, in ogni occasione, le sue doti di equilibrio e di fermezza. Ardenti di passione sono le ultime lettere, scritte nella premonizione e nell’attesa del martirio.

Guida allo studio

1.

Quali sono le tappe decisive della vita di Cipriano? 2. Quali problemi dovette affrontare nel decennio in cui fu vescovo di Cartagine?

3. Indica i titoli e l’argomento delle più significative fra le sue opere.

Le FIGURE e gli EVENTI della STORIA La persecuzione di Decio ▰ Il principato di Decio (249-251) Di rango

senatorio e di fede pagana, Decio aveva conquistato il potere sconfiggendo sotto Verona, nel settembre del 249, Filippo l’Arabo (245-249), imperatore che aveva simpatizzato per il cristianesimo. Per ripristinare l’autorità in un impero da ormai quindici anni smarrito nei torbidi della guerra civile, Decio tenta di restaurare il prestigio del senato romano e le antiche tradizioni religiose del paganesimo.

▰ La persecuzione contro i cristiani Alla fine

del 249 ordina che ciascun civis Romanus rivolga una pubblica preghiera agli dèi, dinanzi alle autorità locali, per la salute dell’imperatore e della sua famiglia: un atto di sottomissione al potere imperiale e agli dèi della tradizione, che per un cristiano significava l’abiura. L’ordine di Decio prevedeva un’applicazione burocraticamente capillare: ogni capofamiglia doveva

sacrificare pubblicamente agli dèi ricevendo un certificato (libellus), senza il quale si poteva essere condannati al carcere, alla tortura, all’esilio, alla confisca dei beni e in casi estremi alla morte. La persecuzione di Decio, la prima ad essere condotta in ogni parte dell’impero, fu sanguinosa e durissima, e si placò soltanto nel giugno del 251 per la morte dell’imperatore durante una battaglia contro i Goti.

▰ Il problema dei lapsi e dei libellatici In Africa

la persecuzione ebbe inizio nel gennaio del 250, provocando una reazione forse inattesa nelle file cristiane: furono molti infatti ad abiurare; più ancora quelli che si procurarono falsi libelli, legittimando anche in questo caso la politica vessatoria dell’impero. Fu proprio il vescovo Cipriano a dover affrontare, dopo la morte di Decio e la fine della persecuzione, la spinosa questione, cercando una soluzione conciliatrice che non esasperasse le famiglie cristiane che avevano affrontato senza esitazioni la tortura, la confisca dei beni o il martirio.

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PROFILO STORICO

4 Il pessimismo eterodosso di Arnobio La vita Anche Arnobio, come la maggior parte degli apologisti cristiani, è di origine africana: nasce infatti a Sicca Veneria, nell’attuale Tunisia, intorno alla metà del III secolo. Pagano convinto, ostile al cristianesimo, insegna retorica in una scuola della sua città. Poco prima del 300 si converte alla religione di Cristo in seguito a una visione. Muore intorno al 326-327. Un trattato apologetico: Adversus nationes Arnobio scrive il trattato apologetico Adversus nationes («Contro i pagani»), composto in sette libri fra il 304 e il 310, dunque fra l’inizio della persecuzione dioclezianea e l’editto di Costantino. La parte propriamente apologetica comprende i primi due libri, nei quali Arnobio espone la dottrina cristiana; ai libri successivi è riservata una sezione accesamente polemica, nella quale l’autore demolisce e confuta i riti e i culti del politeismo pagano. La dottrina di Arnobio Le concezioni dottrinali di Arnobio hanno fatto molto discutere per la loro eterodossia: alcuni studiosi hanno voluto imputarle ad ignoranza; altri a una rigorosa scelta teologica, «coscientemente e coerentemente deviante dall’ortodossia riconosciuta» (Gigon). Valgano, come esempio, le riflessioni sulla natura dell’anima e sul ruolo dell’uomo nel mondo [ T9 ONLINE]: Arnobio afferma che l’anima è una sostanza intermedia fra Dio e la materia, che non è immortale per natura ma solo se ubbidisce integralmente a Dio e che, per conseguenza, è destinata anch’essa a perire se non è illuminata dalle verità divine. L’uomo non è stato creato direttamente da Dio ma, come sostenevano i neoplatonici, da un demiurgo di livello inferiore nella gerarchia spirituale dell’universo. Essere fragile, debole e incline al male, l’uomo (come asseriva la dottrina epicurea) non svolge alcuna funzione significativa nel mondo, che continuerà indifferentemente a vivere «anche se non si oda nome d’uomo e taccia nel silenzio d’una vuota solitudine quest’orbe terracqueo» (II, 37). Con argomentazioni della filosofia scettica, Arnobio nega anche ogni pretesa di conoscenza umana e irride alla superbia di chi si esalta per poche, scarne cognizioni: «per quanto tutte le generazioni umane s’affatichino a investigare la natura, che cosa possiamo sapere da noi, che non so qual cosa con volontà perversa ha formato e chiamato all’esistenza, tanto ciechi e superbi che, pur ignorando tutto, ci inganniamo e, ritenendoci dotti, ci esaltiamo per l’ampollosità d’un animo tronfio?» (II, 7). Privato di qualsiasi ruolo nel disegno del mondo, l’uomo non è dunque altro, per Arnobio, che animal caecum et ipsum se nesciens, «una creatura cieca e che ignora se stessa» (II, 74). La vis polemica La sezione polemica (libri III-VII) risulta di fatto la parte più convincente dell’Adversus nationes: qui l’autore ha modo di esprimere il suo rifiuto delle credenze politeistiche pagane dando libero corso a un’eccezionale vena satirica. Arnobio non si accontenta di confutare: deve irridere, demolire, sferzare l’assurdità e l’empietà di una cultura che un tempo era stata la sua.

Guida allo studio

1.

Indica le ragioni per cui la dottrina di Arnobio viene considerata eterodossa. 2. Anche Arnobio ricorre spesso a un linguaggio aspro e irridente, soprattutto

quando deve annientare le credenze del mondo pagano: ricordi altri autori protocristiani che abbiano fatto ricorso a registri espressivi analoghi? 529

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

5 L’umanesimo cristiano di Lattanzio PROFILO STORICO

La vita e le opere Lattanzio nasce in Africa verso la metà del III secolo da una famiglia pagana. Intorno al 290 viene chiamato da Diocleziano a Nicomedia, in Bitinia, per insegnare retorica. Poco prima della persecuzione dioclezianea (Editto di Nicomedia: 23 febbraio 303 d.C.), Lattanzio si converte al cristianesimo, perdendo l’incarico presso la corte. Proprio agli anni della sanguinosa repressione, che nelle province orientali infierì con particolare asprezza, risalgono le sue opere più importanti: De opificio Dei (intorno al 303) e Divinae institutiones (fra il 304 e il 313 circa). Dopo l’editto di Milano (313 d.C.) viene chiamato da Costantino a Treviri, nelle Gallie, per fare da precettore a Flavio Crispo, lo sfortunato figlio dell’imperatore fatto misteriosamente giustiziare dal padre nel 326. A Treviri Lattanzio risiede fino alla morte (databile intorno al 330), esercitando una rilevante influenza sulla politica legislativa di Costantino. Qui compone l’ultima opera a noi nota, il De mortibus persecutorum, scritta verosimilmente fra il 318 e il 321 d.C. De opificio Dei Il trattato De opificio Dei («L’opera creatrice di Dio») già svela il carattere filosofico delle opere di Lattanzio. In polemica con l’epicureismo, l’autore afferma che l’opera di Dio trova il suo compimento nell’uomo, creatura dotata di facoltà intellettive e spirituali, l’unica (riprendendo un antico motivo stoico) che abbia assunto una posizione eretta per poter contemplare il cielo, sua sede naturale. L’approfondimento cristiano di un tema stoico rivela in Lattanzio la volontà di stabilire un dialogo e una continuità con la cultura classica. Negli stessi anni, Arnobio sfoga il suo cupo pessimismo antiumanistico in un’opera scomposta e intemperante (Ad nationes); Lattanzio, al contrario, cerca di conciliare due culture e trova il denominatore comune nell’esaltazione dell’uomo, figura di armonia e di bellezza creata a immagine di Dio. Divinae institutiones Le Divinae institutiones («Le istituzioni divine») si configurano come un trattato apologetico diviso in sette libri: i primi tre volti a confutare le tesi idolatriche del paganesimo; i successivi quattro a insegnare le verità cristiane. Come nell’opera precedente, il discorso si sviluppa mediante un sapiente apparato argomentativo, quasi Lattanzio volesse confutare il paganesimo con gli strumenti del paganesimo e mantenersi in uno spazio di elegante tolleranza. Il ricorso allo stile ciceroniano, l’impostazione filosofica e razionalistica del discorso, la volontà di dialogare con le filosofie del mondo classico testimoniano dello sforzo di Lattanzio di diffondere la dottrina cristiana negli ambienti colti del paganesimo, in conformità con il programma classicistico e moderato di Costantino.

Costantino, busto in bronzo. Belgrado, Museo Nazionale di Serbia.

De mortibus persecutorum Nel De mortibus persecutorum («La morte dei persecutori [del cristianesimo]»), scritto probabilmente a Treviri, l’autore mostra un atteggiamento ben altrimenti aggressivo e polemico nei confronti del mondo pagano, sia nella scelta della materia che nel tono. La tesi di Lattanzio è che Dio

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PROFILO STORICO

punisce implacabilmente, con sofferenze fisiche e morali, tutti coloro che hanno perseguitato il cristianesimo; e lo dimostra narrando le morti atroci degli imperatori persecutori [ T10 ONLINE ], ai quali contrappone Costantino, nuova figura di imperatore cristiano, assistito nel suo governo da Dio, rispettoso della giustizia e difensore della vera fede. Anche in quest’opera, tuttavia, Lattanzio evita rotture troppo violente con il passato: gli imperatori malvagi, perseguitando il cristianesimo, hanno di fatto tradito i valori di tolleranza del mondo romano, che non vanno respinti ma integrati con i nuovi valori cristiani. Opera pamphlettistica piuttosto che storiografica, il De mortibus persecutorum interessa soprattutto per la concezione provvidenzialistica della storia che tanta fortuna avrà nei secoli successivi e soprattutto in età medievale.

Guida allo studio

1.

Elenca i titoli e gli argomenti delle opere più significative di Lattanzio. 2. Qual è il suo atteggiamento nei confronti della cultura pagana?

3. Si può affermare che inauguri una nuova fase dell’apologetica cristiana?

6 Due opposti modelli di poesia cristiana: Commodiano e Giovenco Si è detto in altro luogo come la cultura cristiana presti inizialmente scarsa attenzione ai generi poetici, riservati sostanzialmente a un uso comunitario e liturgico [ cap. 16.7]. Commodiano Un’esperienza poetica originale è quella di Commodiano, forse originario di Gaza in Palestina, che trascorre la maggior parte della sua vita in Africa e scrive, in un’epoca compresa tra il III e il V secolo, due opere in versi: le Instructiones («Istruzioni cristiane») e il Carmen apologeticum adversus Iudaeos et Graecos («Carme apologetico contro Giudei e Greci»). Le Instructiones, in due libri, comprendono ottanta brevi componimenti acrostici in esametri di carattere apologetico e morale. Le prime lettere di ogni verso formano ogni volta il titolo del carme e definiscono il tema del componimento. I carmi del primo libro sono indirizzati a Giudei e Greci; quelli del secondo ai cristiani, aspramente rimproverati per i loro peccati. Il Carmen apologeticum traccia in 1059 esametri la storia della rivelazione da Mosè alla resurrezione di Cristo, seguita dai segni che annunciano la fine del mondo, la distruzione di Roma e il Giudizio Universale [ T11 ONLINE]. Il mondo di Commodiano è potentemente drammatico, diviso senza sfumature tra giusti e peccatori. L’intransigenza morale dei contenuti e il vigore fantastico delle immagini risultano stranamente rafforzati dai difetti formali dell’opera: sintassi legnosa e monotona; lessico approssimativo; metrica zoppicante. Ciononostante il Carmen di Commodiano affascina per l’energia “primitiva” e ardente dei suoi quadri e per l’asprezza polemica dei suoi ammonimenti. 531 © Casa Editrice G. Principato


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17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

PROFILO STORICO

Statua di Cristo docente, IV secolo. Roma, Museo Nazionale Romano.

Giovenco In tutt’altra direzione si muove la poesia di Giovenco, che a ragione può essere definito come il fondatore dell’epos cristiano di argomento biblico in lingua latina. Gaio Vettio Aquilino Giovenco è un sacerdote spagnolo che nasce a Illiberis, presso l’attuale Granada, alla fine del III secolo. Intorno agli anni 329-330, in età costantiniana, compone quattro Evangeliorum libri («Libri dei Vangeli»), una trasposizione in esametri della vita di Cristo fondata sul racconto dei quattro evangelisti, e in particolare di Matteo. Nella praefatio all’opera, richiamandosi a Omero e a Virgilio ma sottolineando nel contempo la profonda diversità fra poesia pagana (fondata sulla finzione) e cristiana (fondata sulla verità), Giovenco annuncia una poetica cristiana destinata a caratterizzare la cultura dei secoli successivi, quando i classici del mondo pagano verranno incorporati e riutilizzati con intenti cristiani. Il racconto evangelico viene dunque arricchito dai colori poetici della tradizione, con aggiunta di epiteti epicheggianti (Dio, come Zeus, viene detto tonans), amplificazioni descrittive, citazioni di noti episodi classici: il risultato è un vangelo “virgiliano” di ispirazione letteraria e di tono alto.

PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 Evangeliorum libri Praefatio 1-27 ITALIANO

Tutti i poemi epici esordivano con un proemio, tradizionalmente composto di invocazione e argomento. Giovenco non si sottrae alla consuetudine, ed annuncia che canterà Christi gesta (v. 19), chiedendo ispirazione non alle Muse ma allo Spirito Santo (vv. 25-26). Ma l’autore non si accontenta di un semplice proemio: consapevole della novità del suo gesto, sente l’esigenza di introdurre il poema con una riflessione generale sulla poesia, ribadendo con convinzione motivi tradizionali della letteratura classica, dalla fama e dalla gloria destinata ai poeti (vv. 6-14) all’eternità dell’opera (vv. 21-22). Conscio che il mondo dovrà presto aver fine (vv. 1-5), come ammoniva la teologia cristiana contemporanea, Giovenco si affretta tuttavia a parlare di una nuova forma di eternità, in grado di superare i confini di questo mondo e addirittura di garantire la salvezza spirituale del poeta (vv. 22-24).

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PROFILO STORICO

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Nulla nel mondo resterà a durare senza fine. Non la natura o i regni o l’aurea Roma, non il mare o la terra o le ardenti costellazioni. Irrevocabile infatti il Creatore un tempo ha fissato in cui rovente l’estremo rogo divorerà il creato. Pure d’uomini innumerevoli eccelse imprese e onorata virtù lunga perpetuano la memoria, la fama ne crescono e i meriti i poeti. Alcuni nel nobile verso innalza la bocca di Smirne, altri la dolcezza di Marone nato sul Mincio. Né dei poeti minore si spande la gloria, il nome che illeso rimane finché volino i secoli e il giro del polo intorno per acque e terre volga la volta nel suo prescritto andare. Se tanto durevole fama acquistano i canti che nel racconto d’antichi prodi intrecciano menzogne, a noi certa nei secoli la fede d’eterna lode darà onore immortale, ogni merito ripagando. di Cristo infatti io narrerò la vita che genera vita, al popolo dono divino dal dubbio neppure sfiorato. Né il rogo universale è da temere distrugga quest’opera: semmai, ecco, essa mi farà grazia quando in nube di fuoco scenderà fulgente giudice, gemma del Padre, dall’alto trono di Cristo. Dunque cantiamo! E nel canto m’ispiri salvifico lo Spirito, la mente mi asperga di limpide onde del dolce Giordano, perché di Cristo degnamente io dica. (trad. di P. Maffeo)

9. la bocca di Smirne: Omero; Smirne, secondo la tradizione, era una delle sette città che si disputa-

Guida allo studio

1.

vano il vanto di aver dato i natali al poeta.

Quali sono le due opere poetiche più significative dell’epoca che stiamo trattando? 2. Delinea un rapido confronto fra la poesia di Commodiano e di Giovenco.

3. Per quali aspetti la poetica di Giovenco, enunciata nella praefatio alla sua opera, anticipa una tendenza caratteristica della cultura cristiana dei secoli successivi?

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17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

7 L’intolleranza di Firmico Materno PROFILO STORICO

La vita Di origine siciliana, forse di Siracusa, retore e avvocato, amico delle grandi famiglie senatorie romane, Giulio Firmico Materno opera nell’età successiva all’editto di tolleranza, convertendosi al cristianesimo dopo il 337. Mathesis In gioventù si occupa di astrologia, scrivendo poco prima della morte di Costantino un lungo trattato in otto libri di orientamento pagano e sincretistico, Mathesis, un compendio scarsamente originale e spesso approssimativo ricavato da più fonti, e in particolare dagli Astronomica di Manilio [ cap. 2.2]. Mathesis in greco significa «scienza», «dottrina», «sapere»: per Firmico l’astrologia è la scienza per antonomasia, l’unica capace di instaurare un rapporto tra mondo umano e mondo divino. L’opera, il più vasto trattato astrologico giunto a noi dal mondo classico, godrà di speciale fortuna in età medievale e successivamente in quella umanistica. Un testo apologetico: De errore profanarum religionum La Mathesis era dedicata a un potente funzionario imperiale; agli imperatori Costante e Costanzo II, successori di Costantino, è invece dedicata la seconda opera a noi pervenuta, il De errore profanarum religionum («L’errore delle religioni profane»), un testo apologetico e polemico composto fra il 343 e il 350. Con un linguaggio virulento ricco di ornamenti retorici e di echi classicheggianti, Firmico assume posizioni estremistiche contro i culti pagani, che non solo considera falsi ed empi ma anche strumenti diabolici. Rivolgendosi direttamente agli imperatori, Firmico chiede perciò la persecuzione e l’annientamento degli idolatri [ T12 ONLINE]. Benché isolata nella cultura cristiana dell’epoca, come testimonia anche lo scarso successo dell’opera, l’intolleranza di Firmico rivela la mutata atmosfera che si respira intorno alla metà del secolo, quando il cristianesimo è ormai la religione più diffusa dell’impero, sostenuta con autorevolezza e con forza dagli imperatori.

Guida allo studio

1. In quale epoca vive Firmico Materno? 2. Ricorda il titolo e l’argomento della sua opera apologetica.

3. Per quali ragioni storiche rimane isolata nell’ambito della cultura cristiana dell’epoca?

8 Ilario di Poitiers e la questione ariana La vita Ilario nasce a Pictavium (oggi Poitiers), in Aquitania, verso il 315, da una famiglia benestante di religione pagana. La conversione avviene in età adulta; poco dopo, nel 350, Ilario è già vescovo della sua città. A causa delle posizioni accesamente antiariane sostenute durante il concilio di Béziers del 356, è costretto dall’imperatore Costanzo a lasciare le Gallie per la Frigia. Dopo aver partecipato al Sinodo di Seleucia (359), chiede all’imperatore di poter affrontare a Costantinopoli, in un pubblico dibattito, Saturnino di Arles, il vescovo intorno al quale si raccolgono le forze dell’arianesimo in Gallia: a causa del rifiuto, compone 534 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

una violenta invettiva Contra Constantium Imperatorem. Tornato in patria nel 360, partecipa l’anno successivo al concilio di Parigi. La morte di Costanzo favorisce il partito antiariano, e Ilario si trova coinvolto in prima persona nella lotta contro il vescovo di Milano, l’ariano Aussenzio, senza tuttavia riuscire ad ottenere la sua deposizione. Muore verso il 367. Opere di carattere dottrinale Nel trattato in 12 libri De Trinitate (altrimenti noto come De fide contra arianos), quasi interamente composto negli anni dell’esilio, Ilario affronta il problema cristologico. Nei primi tre libri vengono esposte le tesi cattoliche e le soluzioni al problema date durante il concilio di Nicea del 325: doppia natura, umana e divina, del Cristo; consunstanzialità e coeternità di Padre e Figlio [ Una controversia teologica: la questione ariana]. La prima parte del I libro ha carattere autobiografico: l’autore delinea il proprio itinerario dall’iniziale politeismo alla definitiva fede cristiana [ T13 ONLINE ]. Nei libri successivi (IVXII), l’autore passa alla confutazione diretta della dottrina ariana, appoggiandosi soprattutto sui passi biblici. Opere di carattere esegetico Non meno importanti sono le opere di carattere esegetico. Al periodo compreso fra il 353 e il 356 appartiene il Commento a Matteo, il primo di carattere continuativo del mondo occidentale, dove il Vangelo viene interpretato nella sua integralità (con rare omissioni) facendo ricorso al metodo allegorico. Successivi all’esilio sono invece il Commento ai Salmi e il Trattato sui mi-

Una controversia teologica: la questione ariana ▰ L’eresia ariana Ad opera di Ario, un sacerdote

di Alessandria vissuto tra la fine del III e gli inizi del IV secolo (morì nel 336), si diffuse nel mondo cristiano un’eresia destinata a influenzare profondamente non solo l’istituzione ecclesiastica ma anche la vita politica e sociale dell’impero. L’eresia ariana, nella sua forma più radicale, partiva da tesi già da tempo diffuse negli ambienti influenzati dalla scuola teologica antiochena: il Figlio, assimilato a una sorta di demiurgo, è stato generato dal Padre ai fini della creazione del mondo; non è coeterno al Padre, al quale è subordinato; va considerato «dissimile» (anómoios) dal Padre quanto alla sostanza (di qui il termine di Anomei, con il quale si solevano designare i sostenitori della formula ariana). Queste tesi furono severamente condannate durante il concilio di Nicea (estate del 325), quando fu imposta la formula (detta appunto nicena) della consunstanzialità: il Figlio è homousios, cioè «identico» quanto alla sostanza (consubstantialis in latino), al Padre.

▰ Uso politico dell’eresia negli anni di Costanzo Nel momento in cui sembrava domata, la dottrina ariana riprese forza negli anni successivi alla morte di Costantino (337), quando il figlio Costanzo (337-361)

decise di sfruttarla a fini strettamente politici: svalutare la figura del Cristo comportava infatti una diminuzione della Chiesa stessa, da Cristo fondata. In gioco erano i rapporti fra le due grandi istituzioni che avrebbero retto le sorti del mondo occidentale per circa mille anni: Costanzo mirava a subordinare la Chiesa all’Impero; la controversia sconfinava decisamente dal piano teologico a quello temporale. È in questa fase che le tesi ariane giungono alla formula più moderata, e tuttavia ancora eterodossa rispetto al credo niceno, del Figlio ora definito homoiousios, cioè «simile» quanto alla sostanza, al Padre.

▰ Ariani e antiariani in Occidente Negli anni

che vanno dall’impero di Costanzo al concilio di Costantinopoli (381), che sancì la definitiva condanna della dottrina, ariani e ortodossi si affrontarono con asprezza in due schieramenti contrapposti. Nel mondo occidentale le personalità ariane più attive furono Saturnino, vescovo di Arles, e Aussenzio, vescovo di Milano immediatamente prima di Ambrogio. Dei loro scritti restano scarsi frammenti, molti dei quali noti attraverso l’opera di Ilario di Poitiers [ cap. 17.8] e di Mario Vittorino [ cap. 17.9], il massimo oppositore in lingua latina delle dottrine ariane. Durante il regno di Costanzo le posizioni restarono tuttavia complesse e sfumate, e non mancarono personalità che trascorsero da uno schieramento all’altro.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

steri, entrambi influenzati dalla lettura di Origene: qui, in particolare, i personaggi dell’Antico Testamento sono letti come «tipi» o «figure», cioè prefigurazioni, di Cristo e della Chiesa [ cap. 16.5]. PROFILO STORICO

Gli Inni Ilario è inoltre autore di un Liber hymnorum, il primo volume di inni in lingua latina a noi noto: anche in questo caso giocò l’influenza della cultura cristiana di lingua greca, di cui Ilario aveva fatto diretta esperienza negli anni dell’esilio. Solo tre sono tuttavia gli inni superstiti, per giunta lacunosi.

Guida allo studio

1.

Esponi le tesi fondamentali dell’eresia ariana, ripercorrendone la vicenda storica fino al Concilio di Costantinopoli (381 d.C.).

2. Ricorda gli interventi più significativi di Ilario di Poitiers sulla questione ariana. 3. Quali altre opere furono composte da Ilario?

9 Mario Vittorino, da retore pagano a scrittore cristiano La vita Scissa in due periodi nettamente distinti è la vita di Gaio Mario Vittorino, un africano nato verso la fine del III secolo, che aveva trovato la sua fortuna a Roma aprendo una scuola di retorica alla quale venivano educati i figli delle più prestigiose famiglie del ceto senatorio di fede pagana e di cultura neoplatonica. Forse nel 355, Mario Vittorino si converte al cristianesimo. Dopo l’editto di Giuliano (17 giugno 362), che proibiva ai cristiani l’insegnamento nelle scuole pubbliche, si ritira a vita privata dedicandosi al commento delle Lettere di San Paolo. Muore non molto tempo dopo. Le opere del periodo pagano Bipartita, com’è naturale, è anche la sua produzione. Prima della conversione egli è uno dei maggiori protagonisti, insieme a Elio Donato, di quella rinascita degli studi filologici e grammaticali di cui si parla in altro luogo [ cap. 18.10]. Entro questo ambito si collocano un’Ars grammatica, solo parzialmente conservata, e un commento al De inventione di Cicerone. Ancora più spiccati sono gli interessi filosofici, indirizzati allo studio della logica aristotelica e del pensiero neoplatonico.

Gesù con gli apostoli Giovanni, Luca e Marco a bordo di una barca, rilievo di un sarcofago del IV secolo. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

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PROFILO STORICO

Le opere del periodo cristiano Dopo la conversione, Vittorino mette la sua vasta cultura al servizio della causa cristiana, schierandosi apertamente contro l’arianesimo in alcuni scritti di notevole interesse teologico, fra cui i tre libri Adversus Arium, opera particolarmente importante, soprattutto perché testimonia della confluenza tra pensiero neoplatonico e dottrina cristiana. Di argomento trinitario sono i tre Inni, composti intorno al 360: in assenza di un metro fisso, i versi procedono liberamente con effetti di prosa ritmata. Figure di ripetizione, rispondenze interne, rime e ritornelli contribuiscono al tono ispirato delle composizioni, il cui modello sono i Salmi biblici. Dell’attività esegetica di Vittorino sopravvivono i commentarii a tre lettere di San Paolo (agli Efesini, ai Gàlati e ai Filippesi). Anche in questo caso Vittorino non rinuncia a far uso degli strumenti retorici e linguistici della tradizione classica. L’analisi è soprattutto rivolta alla lettera del testo; scarsa risulta invece la conoscenza dell’Antico Testamento. Una figura isolata Vittorino si era convertito al cristianesimo in extrema senectute, secondo la notizia di Gerolamo, ed era naturale che gli studi retorici e filosofici ai quali si era dedicato per tutta la vita finissero per prevalere sulle nozioni scritturali e su un’approfondita conoscenza della storia ecclesiastica. Anche per questo le sue opere godettero di una limitata fortuna presso i contemporanei. Gerolamo, nel De viris illustribus (cap. 101), riserverà un giudizio negativo ai tre libri contro Ario, considerati eccessivamente «oscuri» e troppo tecnici, destinati esclusivamente a un pubblico colto. Lo apprezza invece Agostino, che alla sua conversione dedica una celebre pagina delle Confessioni [ Simpliciano narra la conversione di Mario Vittorino ONLINE ].

Guida allo studio

1.

Quali sono gli aspetti più rilevanti della vita di Mario Vittorino? 2. Quando, in particolare, si converte al cristianesimo?

3. Quali sono i titoli delle opere composte dopo la conversione? Sapresti illustrarne il contenuto?

10 Un grande “successo” del IV secolo: la Vita di Antonio di Atanasio tradotta da Evagrio di Antiochia Anacoretismo e cenobitismo Fin dalle origini il cristianesimo aveva esaltato la pratica dell’ascetismo, senza tuttavia dar luogo a forme radicali di vita al di fuori della comunità: si trattava di uomini e di donne che si votavano liberamente alla castità, si astenevano dai divertimenti e dal lusso, dedicandosi in particolare ad opere di misericordia e di carità. È solo in Egitto, tra la fine del III secolo e gli inizi del IV che l’ascetismo comincia ad assumere le forme, diverse e complementari, dell’anacoretismo e del cenobitismo. L’anacoreta (da anachoréo, «mi tiro in disparte») è colui che sceglie di vivere nel deserto in assoluta solitudine, votandosi 537 © Casa Editrice G. Principato


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17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

PROFILO STORICO

alla mortificazione e alla preghiera. Il cenobìta è colui che decide di dedicarsi agli studi e alla preghiera, ma all’interno di un cenobio (dal greco koinóbion, «vita in comune»), una piccola comunità regolata da precise e severe norme di comportamento. La diffusione dell’ascetismo anacoretico e cenobitico coincide con la fine delle persecuzioni e la legittimazione ufficiale del cristianesimo all’interno dell’impero: la vita monacale sostituisce l’esperienza del martirio, e si caratterizza come una scelta estrema, volta a conseguire una perfezione spirituale che la vita delle città non consentiva di raggiungere. La Vita di Antonio scritta dal vescovo Atanasio Pur non essendo il primo ad abbandonare la famiglia per la solitudine dei deserti, Antonio può essere considerato il padre dell’eremitismo, soprattutto per l’influenza che la sua persona esercitò sulla diffusione del monachesimo in Oriente e in Occidente. Antonio muore nel 356. Da circa un anno Atanasio (ca 295-373), vescovo di Alessandria, costretto per la terza volta all’esilio a causa delle posizioni antiariane, si trova rifugiato presso i monaci del deserto: e qui, forse già nel 357, scrive in lingua greca la Vita di Antonio, un libro che godette immediatamente di un enorme successo popolare, e fu tradotta in latino, intorno al 375, da Evagrio di Antiochia. Nella Vita Antonii viene narrata in uno stile piano e semplice la vita di Antonio dall’infanzia fino alla morte: la fuga dalla città, i progressi sulla via della perfezione spirituale, gli esercizi ascetici, la lotta contro le tentazioni demoniche, i prodigi, gli insegnamenti, le dispute contro i filosofi pagani [ T14] e gli eretici ariani, la morte gloriosa. Molte le ragioni del successo: l’ambientazione esotica, la vivacità romanzesca della narrazione, la varietà delle situazioni, la profonda spiritualità della figura di Antonio e la radicalità delle sue scelte di vita. Il racconto si presenta nella forma di un encomio in funzione parenetica: le vicende del santo monaco

Hieronymus Bosch, Le tentazioni di Sant’Antonio, part. (1505 ca). Lisbona, Museu National de Arte Antiga.

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PROFILO STORICO

costituiscono, come si legge nel prologo dell’opera, «un esempio adeguato per l’ascesi degli anacoreti». Fortuna dell’opera Il libro ebbe fortuna in ogni strato sociale, toccando i cuori e l’immaginazione dell’intera cristianità. Lo lesse Gerolamo a Treviri, verso il 370, e ne restò affascinato, al punto da decidere di vivere anch’egli da anacoreta nel deserto. Lo stesso Gerolamo, più tardi, si dedicò alla composizione di tre vite di monaci [ cap. 19.3]: si può dire che dalla lettura della Vita Antonii derivarono, nel mondo occidentale, non solo un gran numero di vocazioni ma anche un vero e proprio genere letterario, quello delle vite dei monaci nel deserto. Sulla forza di irradiazione e di illuminazione del libro, si veda anche l’intensa «confessione» di Agostino [ Sconvolgimenti e risoluzioni prodotti dalla lettura della Vita di Antonio ONLINE].

Guida allo studio

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

1.

Che cosa distingue anacoretismo e cenobitismo? 2. Qual è il significato etimologico dei due termini?

3. Esponi i contenuti essenziali della Vita Antonii, indicando l’autore e la data di composizione dell’opera, nonché le ragioni del suo immenso successo.

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Il martirio di Cipriano nella testimonianza del diacono Ponzio • Dalle Confessioni di Sant’Agostino: Simpliciano narra la conversione di Mario Vittorino • Dalle Confessioni di Sant’Agostino: sconvolgimenti e risoluzioni prodotti dalla lettura della Vita di Antonio LETTURE PARALLELE • Des Esseintes legge il De cultu feminarum di Tertulliano (Huysmans) BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Edizioni: Minucio Felice, Ottavio, a cura di F. Solinas, Oscar Mondadori, Milano 1992; Tertulliano, Apologetico, a cura di E. Buonaiuti, introd. e commento di E. Paratore, Laterza, Bari 1972; ID., Apologia del cristianesimo - La carne di Cristo, a cura di C. Moreschini, L. Rusca, C. Micaelli, Rizzoli BUR, Milano 1984; Cipr iano, Trattati, a cura di A. Cerretini, Città Nuova, Roma 2004; Arnobio, Contro i pagani, a cura di B. Amata, Città Nuova, R o m a 2 0 1 7 ; L at t a n z i o, Divinae Institutiones. De opificio Dei. De ira Dei (antologia con testo a fronte), a cura di U. Boella, Sansoni,

Firenze 1973; ID., Come muoiono i persecutori, a cura di M. Spinelli, Città Nuova, Roma 2005; Commodiano, Carme Apologetico, a cura di A. Salvatore, SEI, Torino 1977; Giovenco, Il Poema dei Vangeli, a cura di L. Canali, Bompiani, Milano 2011; Firmico Materno, L’errore delle religioni pagane, a cura di E. Sanzi, Città Nuova, Roma 2006; Ilario di Poitiers, La Trinità, a cura di A. Orazzo, 2 voll., Città Nuova, Roma 2011; ID., A Costanzo. Inni, a cura di L. Longobardo, Città Nuova, Roma 2015; Mario Vittorino, Scritti cristiani, a cura di G. Balido, Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2018; Vita di

Antonio, in Vite dei santi, vol. I, a cura di C. Mohrmann, testo critico e commento di G.J.M. Bartelink, trad. di P. Citati e S. Lilla, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1974. � Studi: M. Simonetti, La letteratura cristiana antica greca e latina, introd. di G. Lazzati, Sansoni/Accademia, Firenze 1969; S. Pezzella, Cristianesimo e paganesimo romano. Tertulliano e Minucio Felice, Laterza, Bari 1972. Per la poesia cristiana: Poeti cristiani latini dei primi secoli, a cura di V. Guarracino, MIMEP-DOCET, Pessano con Bornago 2017 (con ampia antologia di testi tradotti).

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

Sintesi

PROFILO STORICO

S

Scrittori cristiani fra II e IV secolo Agli anni 197-198 d.C. si debbono i primi due testi apologetici in lingua latina: l’Octavius di Minucio Felice e l’Apologeticum di Tertulliano: opera di impianto dialogico, dai toni misurati e composti, verosimilmente rivolta a un pubblico pagano la prima; aspra, combattiva, tagliente, dai toni accesi e passionali, composta in una lingua vigorosa e baroccheggiante la seconda, fondata sulla radicale inconciliabilità tra mondo pagano e mondo cristiano. Tertulliano conclude la sua vita eclissandosi dalla scena, isolandosi dalle chiese ufficiali e fondando una propria setta, forse nell’ansia, mai appagata, di una perfezione cercata più nel rigorismo delle scelte che nella concretezza della vita pratica. Altra e diversa è la personalità del vescovo Cipriano, che vive la sua fede con sereno equilibrio, proponendosi compiti organizzativi e direttivi all’interno di una vasta comunità di fedeli, duramente provata dalle persecuzioni di Decio (250-251) e di Valeriano (258) e dalla peste di Cartagine (252-254). Intransigenza e vigore polemico informano il trattato apologetico Adversus nationes di Arnobio, composto negli anni compresi fra la persecuzione dioclezianea e l’editto di Costantino. Le riflessioni sull’anima e sulla condizione umana espressi nel trattato, così come la negazione di ogni forma di antropocentrismo, sono il risultato del sincretismo religioso dell’epoca, e dell’influenza della tradizionale filosofia scettica sull’apparato dottrinale cristiano ancora in evoluzione. In conformità con il programma classicistico e moderato di Costantino, le Divinae institutiones di Lattanzio abbandonano la via della disputa passionale (quella di Tertulliano e di Arnobio) a favore di un’impostazione filosofica e razionalistica dei problemi. Per Lattanzio il cristianesimo non è in contrasto con la sapienza pagana: ne è solo l’estremo sviluppo, la conquista definitiva di

una verità che il paganesimo aveva espresso per frammenti e in modo incompiuto: questo concetto spiega la sua fortuna presso gli umanisti italiani del Quattrocento. Impegnati sul versante dottrinale ed apologetico, gli scrittori cristiani si interessano solo in età costantiniana, con la fine delle persecuzioni e la legittimazione ufficiale della loro fede, alle forme della poesia. Commodiano e Giovenco danno vita a due esperienze poetiche opposte: potente, aspro, drammatico, metricamente irregolare il Carmen apologeticum di Commodiano, che affronta i grandi temi cristiani della rivelazione, della resurrezione, della fine del mondo e del Giudizio Universale; nel solco della tradizione poetica pagana gli Evangeliorum libri di Giovenco, che traspongono in esametri di gusto virgiliano il racconto evangelico della vita di Cristo. Il tono aspro e battagliero dell’apologia si trasforma in furore integralista nel De errore profanarum religionum di Firmico Materno, un tardo convertito che non si limita ad annunziare le terribili persecuzioni che Dio riserverà agli idolatri, ma si rivolge direttamente agli imperatori Costante e Costanzo per chiedere esplicitamente la repressione cruenta della religione pagana e la persecuzione di quanti ancora ne praticavano il culto. Mentre impeversa l’eresia ariana, molti sono gli scrittori che si affrontarono con asprezza su due schieramenti contrapposti. Contro le tesi di Ario, condannate nel concilio di Nicea del 325, scrissero Ilario di Poitiers nel trattato De Trinitate e Mario Vittorino nei tre libri Adversus Arium. Alla rapida diffusione del monachesimo si deve la grande popolarità di cui godette, nel corso del IV secolo, la Vita di Antonio, scritta in greco da Atanasio e immediatamente tradotta in diverse lingue: da essa nacque un vero e proprio genere letterario, quello delle vite dei monaci nel deserto.

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Percorso antologico Giovenco T1

Evangeliorum libri Praefatio 1-27

IT

Minucio Felice T2 T3 T4

Parla il pagano Cecilio: dicerie infamanti sui cristiani Octavius 9, 3-7 Un ribaltamento di prospettive: i poveri sono i più vicini alla saggezza Octavius 16, 5-6

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Roma, città empia e brutale Octavius 25, 1-7

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Tertulliano T5

I paradossi giuridici dei tribunali pagani Apologeticum 2

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T6

Contro gli ornamenti femminili De cultu feminarum I, 1, 1-2

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T7

Quod infingitur, diaboli negotium est De cultu feminarum II, 5, 1-5

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Cipriano T8

Lettera sui lapsi Epistulae 34

Arnobio T9

La condizione umana Adversus nationes II, 16-19

LAT

Lattanzio T10

Dio punisce chi perseguita i cristiani: la morte di Valeriano De mortibus persecutorum 5

Commodiano T11

Il Giudizio universale Carmen apologeticum 1001-1040

Firmico Materno T12

Imperatori, perseguitate il paganesimo! De errore profanarum religionum 28, 12-13; 29

Ilario di Poitiers T13

Alla ricerca di Dio De Trinitate I, 1-5

Vita Antonii T14

Antonio e i filosofi

Vita Antonii 72-73

IT

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

Minucio Felice T 2 Parla il pagano Cecilio: dicerie infamanti sui cristiani Octavius 9, 3-7

PERCORSO ANTOLOGICO

ITALIANO

Parla Cecilio, pagano. L’autore si propone di riassumere in questo passo tutte le dicerie, spesso derisorie e infamanti, che circolavano all’epoca sul conto dei cristiani: onolatria (venerare una testa d’asino); celebrazione di riti orgiastici notturni; infanticidio; incesto. Si trattava, in realtà, di un travisamento volgare dei riti cristiani: dal banchetto eucaristico, ad esempio, discendeva l’accusa di infanticidio; dal costume di chiamarsi fratelli e sorelle derivava l’accusa di incesto; dalla consuetudine di ritrovarsi insieme all’alba e al tramonto per pregare, era nata l’immagine dei cristiani come di una setta di cospiratori segreti dediti a culti ignominiosi. Cecilio tocca anche quello che doveva essere l’aspetto più scandaloso della dottrina cristiana agli occhi di un Romano: principio e fondamento della nuova fede era un uomo che aveva subito l’onta della crocifissione, una punizione infamante riservata a schiavi e criminali di umile condizione. Le accuse riferite da Minucio ritornano identiche nelle pagine degli altri apologisti cristiani, e in particolare (con diverso spirito e diverso linguaggio) nell’Apologeticum di Tertulliano (4, 2; 6, 11; 9, 20). Anche Tertulliano ricorda come i pagani andassero dicendo che caput asininum esse deum nostrum, e fa risalire la diceria calunniosa a un passo di Tacito (Historiae V, 4).

Sento dire che per non so quale convinzione demenziale venerano la testa consacrata del più ignobile fra gli animali, l’asino: è proprio una religione degna di questi costumi e fatta apposta per praticarli. [4] Altri riferiscono che essi onorano i genitali del proprio capo religioso e sacerdote e che li adorano come se fossero le parti sessuali di chi li ha generati. Non so se si tratta di fandonie, ma certo è un sospetto quanto mai ammissibile per quel loro celebrare riti segreti e notturni! E chi va dicendo che oggetto del loro culto sono un uomo punito per un grave delitto con l’estremo supplizio e i funesti legni della croce, attribuisce a costoro altari perfettamente in linea con gente depravata e scellerata, tanto da presentarli come persone che venerano ciò che meritano. [5] Quanto all’iniziazione di giovani neofiti, le voci che circolano sono tanto ripugnanti quanto note. Un bimbetto coperto di farina, perché tragga in inganno gli sprovveduti, è collocato davanti alla persona da iniziare al culto. Ebbene, questo fanciullo viene ucciso dal neofita con colpi inferti alla cieca e non localizzabili. Poi – che azione sacrilega! – i presenti leccano avidamente il suo sangue, fanno a gara nello spartirsi le sue membra; sanciscono la loro alleanza con questa vittima e nella complicità del delitto si impegnano a mantenere un reciproco silenzio. Tali riti sono più orribili di qualsiasi sacrilegio. [6] Siamo informati anche del loro banchetto, tutti ne parlano qua e là e lo conferma anche il discorso del nostro amico di Cirta.1 Si riuniscono per il festino in un giorno stabilito con tutti i loro figli, le sorelle, le madri, persone di ogni sesso ed età. E là, dopo un copioso banchetto, quando l’atmosfera del convivio si è riscaldata e l’ardore dell’ebbrezza li ha accesi di una libidine incestuosa, un cane assicurato a un candelabro viene aizzato con un bocconcino di carne, lanciato oltre il limite del guinzaglio, a 542 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

slanciarsi in avanti e a saltare. [7] Così, una volta rovesciato e spento il lume che fa da testimonio alla scena, intrecciano col favore delle tenebre, che non conoscono il pudore, legami di una passione innominabile, affidandosi all’incertezza del caso. Tutti sono pertanto incestuosi nella stessa misura almeno per la complicità se non per il comportamento effettivo, dal momento che per desiderio di tutti, nessuno escluso, si desidera qualsiasi cosa possa accadere negli atti di ogni singolo partecipante. (trad. di F. Solinas)

1. il discorso... Cirta: Frontone, il celebre retore nato a Cirta, in Numidia

fonti

visive

[ cap. 13.5 ], pronunciò in senato un discorso contro i cristiani poco dopo la

metà del II secolo d.C.

Un graffito ingiurioso Questo graffito, scoperto nel 1857 su un muro del Collegio dei paggi imperiali (Paedagogīum) sito sul Palatino, mostra un uomo dalla testa d’asino crocifisso; alla sua destra, un orante gli si rivolge con un’epigrafe greca che significa: «Alexàmenos venera il suo Dio». L’autore del graffito ha voluto evidentemente irridere Alexàmenos, forse da poco convertito al cristianesimo, ricorrendo a una diceria ingiuriosa diffusa nel mondo pagano, come conferma un passo, qui riportato, dell’Octavius [ T2]. Al graffito si ispirò uno dei più suggestivi carmi latini di Giovanni Pascoli, Paedagogium (1903).

Il crocifisso blasfemo del Palatino, II-III secolo d.C. Roma, Museo Nazionale delle Terme.

T3

Un ribaltamento di prospettive: i poveri sono i più vicini alla saggezza

ONLINE

Octavius 16, 5-6

T4

Roma, città empia e brutale

Octavius 25, 1-7

ONLINE

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

Tertulliano T 5 I paradossi giuridici dei tribunali pagani Apologeticum 2 ITALIANO

In questo brano, forse il più celebre dell’opera, Tertulliano denuncia una serie di incongruenze giuridiche a danno dei cristiani: sono puniti se vengono denunciati, ma non devono essere ricercati; vengono torturati non per confessare una colpa (essere cristiani) ma per negarla. Il gusto del paradosso è costantemente sostenuto da chiarezza argomentativa e rigore logico. Si rileggano, a questo proposito, le celebri lettere di Plinio il Giovane e dell’imperatore Traiano cui Tertulliano fa qui riferimento [ T6, cap. 10]. [1]

PERCORSO ANTOLOGICO

Comunque, se proprio noi siamo quei pericolosissimi uomini che si dice, perché noi siamo trattati diversamente dagli altri delinquenti, dal momento che se siamo rei della medesima delinquenza, il trattamento non dovrebbe essere diverso? [2] Quando gli altri sono imputati dei capi d’accusa denunciati contro di noi, essi posson bene far ricorso e alla loro eloquenza e alla eloquenza mercenaria degli avvocati per dimostrare la loro innocenza. È loro concessa ogni facoltà di rispondere, di replicare, poiché è ben risaputo che non è consentito mai condannare imputati senza difesa e senza contestazioni. [3] Solamente ai cristiani viene impedito di parlare per smantellare l’accusa, per difendere la verità, perché il giudice non compia ingiustizie. Dai cristiani non si aspetta che una cosa: quella che appare necessaria all’odio pubblico: la confessione del loro nome, non l’esame del loro crimine. [4] Al contrario, quando voi procedete contro qualche criminale, non basta che egli abbia confessato la sua pravità di omicida, di sacrilego, di incestuoso, di nemico pubblico (per registrare soltanto capi d’accusa lanciati contro di noi), perché procediate senz’altro alla sentenza. Voi vi preoccupate di conoscere le circostanze e la qualità del fatto, il numero, il luogo, il modo, il tempo, i testimoni, i complici del delitto. [5] Quando si tratta di noi, nulla di simile: eppure sarebbe altrettanto necessario strappare con la tortura la confessione delle false imputazioni; sarebbe necessario sapere dall’imputato di quante carni d’infanti avesse gustato, quanti incesti1 avesse perpetrato nell’ombra, quali cuochi e quali cani avessero assistito alle orge infami. Insigne titolo di gloria per un governatore di provincia che potesse mettere la mano su un cristiano che si fosse nutrito delle carni di cento infanti! [6] E invece noi abbiamo trovato che è stata perfino proibita l’inchiesta a nostro riguardo. Plinio il giovane, nel momento in cui governava una provincia, dopo avere condannato alcuni cristiani ed averne spinti altri fuori della loro professione di fede, messo in allarme dal loro strabocchevole numero, credette opportuno di consultare Traiano, allora imperatore, sul modo di comportarsi in avvenire, confessando che, all’infuori della loro ostinata volontà di non partecipare a sacrifici, null’altro aveva potuto trovare di imputabile nella celebrazione dei loro misteri, se non che usavano adunarsi alle prime luci del giorno, per sciogliere inni a Cristo qual Dio e per astringersi in una disciplina che vietava formalmente l’omicidio, l’adulterio, la frode, la perfidia e qualsiasi altro atto delittuoso. 544 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

1. carni d’infanti… incesti: colpe comunemente attribui­ te ai cristiani dell’epoca (cfr. Octavius 9 [ T2]).

[7] E Traiano rispose che gente di tal natura non doveva essere ricercata, ma doveva però essere punita, qualora fosse stata deferita alle autorità. [8] Oh strana sentenza, fatta illogica e contraddittoria dalla esigenza politica! Vieta che siano ricercati perché innocenti e li dichiara passibili di pena come delinquenti. Risparmia dunque e in pari tempo infierisce dissimula e punisce. E allora perché mai, o sentenza, ti esponi tu stessa ad una nota di censura? Se condanni, perché non inquisisci? E se non inquisisci, perché non assolvi? In tutte le province ci sono distaccamenti militari tratti a sorte perché vadano alla ricerca dei malviventi delle strade. Al cospetto dei rei di lesa maestà e dei pubblici nemici ogni individuo è costituito soldato. In tal caso l’inchiesta è per natura da estendersi ai complici e ai confidenti. [9] Solo il cristiano non è lecito sottoporlo ad inchiesta, ma è ben permesso di deferirlo al Tribunale, quasi che l’inchiesta dovesse approdare a qualche cosa di diverso da ciò cui approda la denuncia. Voi condannate così un denunciato che nessuno volle fosse ricercato. Sicché costui meritò una pena non perché fosse colpevole, ma perché fu preso e catturato mentre non doveva essere ricercato. [10] Ma c’è un altro punto in cui si riconosce che voi non ci trattate alla medesima stregua degli altri criminali. Ed è il fatto che voi sottoponete gli imputati che negano ai tormenti, perché confessino la loro reità. I cristiani invece voi li torturate affinché neghino. Se il nostro fosse un crimine, noi negheremmo l’imputazione e voi logicamente ci costringereste a confessare attraverso i tormenti. Né è da pensare che voi non riteniate di dover ricercare la confessione dei nostri delitti attraverso la tortura, perché siete sicuri in anticipo di questi delitti, mercé la stessa confessione del nostro nome. Perché, quotidianamente, voi, all’omicida confesso, pur sapendo benissimo che cosa sia l’omicidio, strappate coi tormenti la confessione delle circostanze del crimine. [11] Nel caso nostro voi siete nel torto due volte, ché presumendo la realtà dei nostri crimini solo sulla base della nostra confessata professione di fede, ci vorreste costringere mercé tormenti a desistere dalla nostra confessione, negando in pari tempo il nostro nome e i nostri presunti delitti, di cui avevate, sulla base del nostro nome, prestabilito la realtà. [12] Evidentemente voi non volete che noi scompariamo dalla vita, pur considerandoci incorreggibili scellerati. Persistete nel dire ad un omicida: nega, e condannate ad essere fatto a pezzi un sacrilego che persista nella sua confessione. Se non agite così di fronte a criminali palesi, vuol dire che ci giudicate del tutto innocenti, poiché solo pensando che ci giudichiate innocenti, si può comprendere che voi non vogliate farci persistere in una confessione, che, evidentemente, per una presupposta necessità, e non per senso di giustizia, voi ritenete condannabile. [13] Grida un uomo: – son cristiano. – Non fa che confessare quel che egli è. E tu invece vorresti sapere quel che non è. Chiamati ad estorcere la verità, solo da noi fate del vostro meglio per strappare una menzogna. «Sono – dice costui – quel che tu vuoi sapere ch’io sia. Perché tu mi sottoponi a tormento per allontanarmi dalla verità? Sono un reo confesso e tu mi sottoponi alla tortura. Se io negassi, che cosa mai faresti tu?». Agli altri che negano, tu ragionevolmente non presti facilmente fede. Se noi neghiamo, tu ti dichiari subito soddisfatto. (trad. di E. Buonaiuti)

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

T 6 Contro gli ornamenti femminili De cultu feminarum I, 1, 1-2 LATINO ITALIANO

Sono vari i trattati di Tertulliano dedicati alla donna, considerata, come viene detto nel brano che segue, diaboli ianua. Tertulliano dà la motivazione teologica (si veda anche la nota 1) della doppia punizione inflitta da Dio alla donna, non solo cacciata dall’Eden biblico ma anche costretta a soggiacere alla volontà del marito: fu Eva, infatti, a trasgredire per prima la legge divina, trascinando poi Adamo nel peccato e costringendo lo stesso figlio di Dio a morire sulla croce per la redenzione dell’umanità. [1] Si

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tanta in terris moraretur fides, quanta merces eius expectatur in caelis, nulla omnino vestrum, sorores dilectissimae, ex quo deum vivum cognovisset, et de sua, id est de feminae condicione didicisset, laetiorem habitum, ne dicam gloriosiorem appetisset, ut non magis in sordibus ageret, et squalorem potius affectaret, ipsam se circumferens Evam lugentem et paenitentem, quo plenius id, quod de Eva trahit, – ignominiam dico primi delicti et invidiam perditionis humanae – omni satisfactionis habitu expiaret. In doloribus et anxietatibus paris, mulier, et ad virum tuum conversio tua, et ille dominatur tui:1 et Evam te esse nescis? [2] Vivit sententia dei super sexum istum in hoc saeculo; vivat et reatus necesse est. Tu es diaboli ianua, tu es arboris illius resignatrix, tu es divinae legis prima desertrix; tu es quae eum suasisti, quem diabolus aggredi non valuit; tu imaginem dei, hominem, tam facile elisisti; propter tuum meritum, id est mortem, etiam filius dei mori habuit; et adornari tibi in mente est super pelliceas tuas tunicas?2 [1] Se ancora rimanesse in terra una fede pari al premio che se ne aspetta in cielo, senza dubbio nessuna di voi, sorelle amatissime, una volta conosciuto il Dio vivente e preso coscienza della propria condizione, ossia di quella femminile, avrebbe bramato un abito più elegante, per non dire più vanitoso, al punto che si troverebbe più a suo agio in abiti dimessi e desidererebbe piuttosto ostentare vesti da lutto, presentandosi come un’Eva afflitta e in penitenza, in modo da riscattare, con ogni sorta di abbigliamento da discolpa, il retaggio che le deriva da Eva – vale a dire l’ignominia della prima colpa – e l’odiosità di aver mandato in rovina il genere umano. Tu, donna, partorisci tra dolori angosciosi, la tua tensione è per il tuo uomo ed egli è il tuo padrone:1 e non sai di essere Eva? [2] In questo mondo è ancora operante la sentenza divina contro codesto tuo sesso: è necessario che duri anche la condizione di accusata. Sei tu la porta del diavolo, sei tu che hai spezzato il sigillo dell’Albero, sei tu la prima che ha trasgredito la legge divina, sei stata tu a circuire colui che il diavolo non era riuscito a raggirare; tu, in maniera tanto facile hai annientato l’uomo, immagine di Dio; per quello che hai meritato, cioè la morte, anche il figlio di Dio ha dovuto morire: e hai ancora in animo di coprire di ornamenti le tue tuniche di pelle?2 (trad. di S. Isetta) 1. In doloribus... dominatur tui: cfr. Genesi 3, 16. Dio, rivolgendosi ad Eva dopo il peccato, le dice: Multiplicabo aerumnas tuas, et conceptus tuos: in dolore paries filios, et sub viri potestate eris, et ipse

dominabitur tui. 2. pelliceas tuas tunicas: cfr. Genesi 3, 21: Fecit quoque Dominus Deus Adae et uxori eius tunicas pelliceas, et induit eos. Si tratta delle tuniche di pelle che Dio

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consegna ad Adamo ed Eva prima di cacciarli dal Paradiso: la vergogna della nudità è una delle conseguenze del peccato.


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T7

Quod infingitur, diaboli negotium est

De cultu feminarum II, 5, 1-5

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Cipriano T 8 Lettera sui lapsi Epistulae 34 ITALIANO

Mentre ancora non si era spenta la persecuzione di Decio, già si registravano i primi scontri all’interno delle comunità cristiane sul problema dei lapsi, coloro che erano «caduti» rinnegando la propria fede dinanzi alle autorità imperiali: perdonarli e riammetterli immediatamente in seno alla comunità o negar loro la comunione persino in punto di morte? Il problema, affrontato con misura ed energia da Cipriano in un vero e proprio opuscolo (De lapsis), ricorre più volte anche nelle lettere del suo epistolario, testimonianza diretta delle difficoltà che la Chiesa cristiana doveva superare nei primi secoli della sua storia per raggiungere una stabilità sul piano organizzativo e dottrinale. L’azione di Cipriano, qui come altrove, non è mai dettata da prese di posizione di natura teorica ma dalla preoccupazione di non spezzare l’unità interna della Chiesa: per questo si dà ordine di congelare momentaneamente il caso in attesa di un concilio e di una decisione collegiale dei vescovi riuniti. La lettera presenta un’intelaiatura solida e organica, fondata sull’autorità dei passi scritturali; su tutto prevale il pragmatismo energico e ponderato di un uomo abituato a prendere decisioni per il bene della comunità, contro ogni spinta individualistica ed estremistica: con ragione, è stato osservato che Cipriano, come poi Ambrogio nel secolo successivo, si comporta come un magistrato romano prima ancora che come un vescovo cristiano. Possiamo anzi dire che è proprio in quest’epoca che la Chiesa sposta decisamente il suo baricentro mentale dal mondo ebraico a quello romano, da cui eredita capacità decisionale e fermezza organizzativa.

Cipriano saluta i presbiteri ed i diaconi. [1] Carissimi fratelli, avete agito con rettitudine e disciplina, perché d’accordo con i miei col- leghi che erano presenti, avete stabilito di negare la comunione al sacerdote Gaio di Dida1 ed al suo diacono. Costoro sono stati spesso sorpresi a comunicare con i lapsi ed ad offrire le loro oblazioni anche se i lapsi erano colpevoli di gravi colpe. Secondo quello che mi avete scritto, sono stati avvertiti più volte dai miei colleghi di non fare questo. Essi hanno continuato con ostinazione nella loro audace presunzione ed hanno ingannato dei fratelli del nostro popolo. Desideriamo venire loro in aiuto nel modo più utile e provvedere alla loro salvezza senza alcuna adulazione, ma con sincera devozione, perché facciano una vera penitenza ed innalzino preghiere a Dio unendole a sinceri gemiti di dolore. Perché sta scritto: «Ricordati da dove sei caduto e fa’ penitenza».2 In un altro passo la divina Scrittura dice: «Così dice il Signore: quando ti convertirai e gemerai, allora ti salverai e saprai in quale stato ti trovavi».3 [2] Costoro come possono gemere e fare penitenza, se alcuni sacerdoti impediscono loro di gemere e piangere? Nella loro stoltezza ritengono di poter offrire la 1. Dida: Dida o Didda, forse l’attuale Djedeida, una località a 25 km da Tunisi.

2. Ricordati... penitenza: Apocalisse 2, 5.

3. Così dice il Signore... trovavi: Isaia 30, 15.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

PERCORSO ANTOLOGICO

comunione e non sanno che è stato scritto: «Quelli che vi dicono beati, vi fanno sbagliare e sviano i vostri passi».4 Non ci meraviglia che i nostri salutari e sinceri consigli non servano a nulla, quando la vera salvezza è ostacolata dalle adulazioni e dalle nocive accondiscendenze. L’animo ferito e malato dei lapsi soffre ciò che i malati e quelli che stanno poco bene patiscono spesso fisicamente. Essi respingono cibi che fanno bene e bevande utili, perché secondo loro sarebbero amare e insopportabili, mentre ricercano quello che piace e ciò che momentaneamente è gradito. In questo modo si danneggiano e rischiano di morire per difetto di remissività e per intemperanza. Quando ci si lascia adescare dalle lusinghe di uno che sia compiacente e tenero, le vere medicine che può offrire il competente non possono certo giovare. [3] Voi dunque secondo i consigli che vi ho mandato, consigli che seguono la tradizione e sono salutari, non allontanatevi da quella che è la soluzione più giusta. Vi prego di far leggere veramente questa lettera anche ai colleghi che si trovassero tra voi, o dovessero sopraggiungere. Così siamo tutti di un medesimo parere nell’assumere in una reciproca collaborazione un utile provvedimento che possa recare aiuto e guarire le ferite dei lapsi. Tratteremo esaurientemente tutti i problemi quando con l’aiuto della misericordia del Signore potremo radunarci.5 Nel frattempo allontanate dalla nostra comunione chi temerariamente o con precipitazione, sia questi un nostro sacerdote, diacono o forestiero, oserà offrire la comunione con la Chiesa ai lapsi prima del nostro decreto. Esporrò il motivo di tale audacia in presenza di tutti, quando, permettendolo il Signore, potremo riunirci. [4] Avete pure espresso il desiderio che io vi mandassi per iscritto quello che io penso dei sud- diaconi Filomeno e Fortunato e dell’accolito Favorino, che si sono allontanati da noi per un certo tempo ed ora sono ritornati. Non ritengo di dover pronunciare la sentenza da solo su questo caso particolare, anche perché molti del clero sono ancora assenti e non hanno pensato, anche se tardi, a raggiungere la propria sede. Dobbiamo conoscere questi casi dettagliatamente ed esaminarli con maggior attenzione non solo con i miei colleghi, ma con tutto il popolo. Bisogna risolvere il caso e darne un giudizio dopo averlo preso in esame con cura, perché possa costituire per i ministri della Chiesa un precedente per l’avvenire. Nel frattempo private costoro solo delle distribuzioni mensili,6 senza però far credere di averli esautorati dal ministero ecclesiastico. Il loro caso resta differito a quando tutto sarà normalizzato e noi saremo tra voi. Vi auguro, carissimi fratelli, di stare sempre bene. Salutate tutta la fraternità. Addio. (trad. di G. Toso)

4. Quelli... passi: Isaia 3, 12. 5. quando... radunarci: cioè in attesa di un concilio che definisca regole precise sulla questione dei lapsi. 6. distribuzioni mensili: nelle comunità

protocristiane era molto diffusa la pratica delle offerte, di cui beneficiavano chierici e poveri. Cipriano ne parla più volte nelle sue lettere, raccomandandosi alla generosità delle famiglie abbienti. Il tema

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viene affrontato direttamente nel trattato De opere et eleemosynis («Le buone opere e l’elemosina»), scritto nel 253 d.C.


PERCORSO ANTOLOGICO

CULTURA e SOCIETÀ “Prime donne”: Eva, Pandora, Maria Lo studioso americano Stephen Greenblatt evidenzia con efficacia le trasformazioni dell’immagine femminile nei primi secoli del cristianesimo, in cui, tra aperture e chiusure, continuità e innovazioni, a volte con espressioni contraddittorie (nello stesso San Paolo, il primo ad

affrontare la questione dei generi nella vita della Chiesa nascente), finisce per prevalere, in nuove forme a volte esasperate da atteggiamenti integralisti, un’antichissima tradizione misogina.

I protocristiani non accolsero il mito di Pandora1 più di quanto abbiano accolto il resto del pantheon greco e romano, ma i fedeli non poterono fare a meno di lanciare un’occhiata retrospettiva alla cultura che stavano rifiutando. Forse Pandora non è mai esistita, scrisse il teologo Tertulliano nel II secolo, ma l’allettante tentazione di cui è simbolo continua a provocare danni terribili. Nel suo libro sull’abbigliamento femminile, l’autore passa in rassegna i castighi che Dio inflisse a Eva e ai suoi discendenti. […] Sebbene molto letto, Tertulliano – a quanto sembra – fu giudicato con diffidenza dai cristiani ortodossi. Nonostante ciò, la sua enfasi sull’incorreggibile vanità e sui difetti morali delle donne ebbe una vasta eco. Più conforme alla tradizione del protocristianesimo fu Girolamo, un contemporaneo di Agostino, la cui traduzione della Bibbia in latino (la Vulgata, dalla parola latina che significa «popolare») diventò il principale canale della religione in Occidente. Molto influente e ammirato – è il patrono dei traduttori, dei bibliotecari e degli scrittori di enciclopedie –, Girolamo discetta di continuo, nelle sue opere, degli ornamenti e dei ritocchi che avevano indignato così tanto Tertulliano. Inveisce contro le donne «che si dipingono le labbra e gli occhi di rosso vivo o di non so quali belletti. La loro faccia impiastricciata è ributtante […] Neppure il numero degli anni riesce a convincerle che sono piuttosto anzianotte. Si acconciano il capo con capelli altrui e sulle vecchie grinze cercano di rifarsi una giovinezza ormai passata». Girolamo, un uomo celibe, si spinse però molto più in là di Tertulliano, che invece era sposato. Non si accontentò infatti di mettere in guardia le donne dall’uso dei cosmetici o di esortarle a coprirsi i capelli o a restare in casa. Attorniato da una cerchia di devotissime signore, che erano le sue generose mecenati e con cui aveva frequenti scambi epistolari, nutriva un profondo disprezzo per il matrimonio. Non poteva sciogliere le unioni già celebrate, ma consigliò severamente alle vedove di non risposarsi. […] Era cambiato qualcosa. La storia ebraica della creazione pareva contenere una celebrazione estatica del matrimonio […] I rabbini avevano interpretato l’invito divino a essere fecondi e a moltiplicarsi come un ordine solenne. Secondo il Talmud2, chi era sposato e in grado di avere figli, ma non lo faceva, commetteva un crimine equivalente a un omicidio. […] Le donne che seguirono Girolamo rinunciarono a una vita di agi e privilegi. Coraggiose, determinate e molto istruite, contribuirono a fondare conventi in un ambiente ostile e pericoloso. Contro ogni probabilità, si ripromisero di recuperare almeno le tracce 1. Pandora: secondo il racconto di Esiodo, la prima donna, creata dagli

dèi come punizione per il furto del fuoco commesso da Prometeo.

2. Talmud: uno dei testi fondamentali dell’ebraismo, fonte di norme giuridiche e insegnamenti morali.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

17. Scrittori cristiani fra II e IV secolo

della purezza della prima donna, prima che compisse il fatale gesto di tendere la mano e assaggiare il frutto proibito. Questa conquista spirituale e il relativo potere non le liberarono però dalla colpa che avevano ereditato. Era innegabile, infatti, che Eva avesse peccato e che le conseguenze di quell’errore si estendessero persino alle sue discendenti più devote. Uno dei loro castighi, inflitto direttamente da Dio, era la sottomissione all’uomo: «Egli ti dominerà». Tutti dovevano capire che l’autorità esercitata dalle donne era fortemente compromessa dai limiti derivanti dal peccato della prima donna. […] La veemente condanna di Eva si associò spesso alla fervida celebrazione di Maria, capace di cancellare il peccato della prima donna. L’antitesi fu preparata nel minimo dettaglio fin dall’inizio. Dalla carne del vecchio Adamo era stata tratta Eva; dalla carne di Maria era nato il nuovo Adamo. Durante l’incontro con la Vergine Eva, la parola del serpente si era insinuata nel suo orecchio; durante l’incontro con la Vergine Maria, era stata la parola di Dio a insinuarsi nel suo. Attraverso Eva la parola del serpente aveva costruito l’edificio della morte; attraverso Maria, la Parola di Dio aveva costruito il tessuto della vita. Il nodo di disobbedienza che Eva aveva fatto con il suo scetticismo, Maria lo aveva sciolto con la sua fede e obbedienza. Eva aveva partorito il peccato; Maria aveva partorito la grazia. Eva diventò Ave. PERCORSO ANTOLOGICO

(S. Greenblatt, Ascesa e caduta di Adamo ed Eva, Rizzoli, Milano 2017, pp. 143-149)

Arnobio T9

La condizione umana

Adversus nationes II, 16-19

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Lattanzio T 10

Dio punisce chi perseguita i cristiani: la morte di Valeriano

ONLINE

De mortibus persecutorum 5

Commodiano T 11

Il Giudizio Universale

Carmen apologeticum 1001-1040

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Firmico Materno T 12

Imperatori, perseguitate il paganesimo!

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De errore profanarum religionum 28, 12-13; 29

Ilario di Poitiers T 13

Alla ricerca di Dio

De Trinitate I, 1-5

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PERCORSO ANTOLOGICO

Vita Antonii T 14 Antonio e i filosofi Vita Antonii 72-73 LATINO ITALIANO

Con il cristianesimo si affermano nuovi ideali di sapienza e di virtù: Antonio, l’eremita che ha scelto di vivere asceticamente nel deserto, pur essendo «ignaro di lettere», et tanta ab se intelligebat et sapiebat quomodo nemo huius nationis hominum (par. 72, 1). Le sue conoscenze non dipendono infatti dalla tradizionale cultura appresa nelle scuole, ma da Dio, che lo istruisce direttamente, come già un tempo i patriarchi e i profeti. Si trovava infatti scritto nel libro di Isaia (54, 13): «Tutti i tuoi figli saranno istruiti dal Signore». E in Geremia (31, 33-34): «Ecco l’alleanza che io farò con la casa d’Israele: dopo quel tempo – dice il Signore – imprimerò la mia legge nelle loro viscere, la scriverò nei loro cuori, io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. E allora un uomo non farà più da maestro al suo prossimo». La sconfitta dei filosofi che vanno a tentare Antonio è anche la sconfitta del mondo pagano e della sua filosofia, costretta ad arrendersi di fronte alla potenza della Rivelazione cristiana. [72, 1] Era

straordinariamente saggio, e, ciò che è ammirevole, era ignaro di lettere ma comprendeva e intendeva da solo tante cose come nessun uomo di quella generazione. [2] Una volta vennero da lui due filosofi pagani che pensarono di poter mettere in difficoltà Antonio. Egli si trovava a qualche distanza dal monte sulla riva del fiume. [3] Comprese dal loro volto che genere di uomini fossero, si mosse e disse loro, per mezzo dell’interprete: «Perché, o filosofi, vi siete presi la pena di venire da un uomo stolto?». E loro risposero che non era uno stolto, ma un sapiente. [4] Egli disse loro: «Se dunque, come vi ho detto, siete venuti da me come si va da uno stolto, la vostra fatica è stata certo inutile e vana. Ma se siete venuti da un sapiente, come credete, imitatemi. È giusto imitare le cose buone. [5] Se fossi stato io a venire da voi, forse io avrei imitato voi. Ma poiché siete stati voi a venire spontaneamente da me, diventate come me: io sono cristiano». Quelli, udite queste parole, si ritirarono pieni di ammirazione. Vedevano che anche i demoni temevano Antonio. [73, 1] Un’altra volta, dei filosofi simili a quelli andarono a trovarlo mentre si trovava fuori dal monte, e quasi lo derisero perché era ignaro di lettere. [2] Antonio disse loro: «Rispondetemi voi. Che cosa viene prima, la mente o le lettere? Quale delle due cose crea e inventa l’altra? La mente crea le lettere, o le lettere la mente?». Essi risposero che la mente viene prima delle lettere, e anzi le ha inventate. [3] E Antonio: «Dunque, finché la mente è sana e segue la propria natura, non ha bisogno delle lettere». Udito ciò, quelli stessi che erano venuti da lui e quelli che gli facevano corona furono presi d’ammirazione, vedendo una così grande intelligenza in un uomo illetterato, quello che i greci chiamavano idiota. [4] Non aveva maniere rozze quest’uomo che fino alla vecchiaia visse sul monte, ma era piacevole e arguto, e la sua parola era condita di sale divino. Non invidiava nessuno, ma aveva gioia per tutti coloro che andavano da lui. Essi ritornavano con gioia. (trad. di P. Citati e S. Lilla)

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

MAPPA SCRITTORI CRISTIANI FRA II E IV SECOLO

Octavius, testo apologetico – dialogo “ciceroniano” – pubblico colto e pagano

Tertulliano

• • •

opere apologetiche, dottrinali e morali rigorismo, asprezza dei toni approdo all’eresia montanista

Cipriano

• •

vescovo di Cartagine, martire nel 258 opere apologetiche, di carattere disciplinare e pastorale (la questione dei lapsi)

Adversus nationes, trattato apologetico – concezioni eterodosse – pessimimo e vis polemica

Lattanzio

• •

Divinae Institutiones: umanesimo cristiano De mortibus persecutorum: atteggiamento aggressivo e polemico

Due modelli di poesia cristiana

• •

Commodiano, Carmen apologeticum Giovenco, Evangeliorum libri

Firmico Materno

De errore profanarum religionum – posizioni estremistiche, intolleranza

Ilario di Poitiers

• • •

De Trinitate: contro l’eresia ariana opere esegetiche Inni

Mario Vittorino

• • •

da retore pagano a scrittore cristiano Adversus Arium: contro l’eresia ariana Inni

vita anacoretica esemplare – stile piano e semplice – vasta fortuna dell’opera

Minucio Felice

Arnobio

Vita Antonii

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Completamento

Collegamento

1 Inserisci i dati mancanti della biografia di Cipriano. Cipriano nasce a agli inizi del III secolo. Compiuti gli studi tradizionali, esercita la professione di . Intorno al si converte al cristianesimo. Fra il 248 e il 249 viene eletto della sua città, in un periodo estremamente difficile, caratterizzato negli anni dalla persecuzione di e poi dal problema dei . Tenne una posizione equilibrata e prudente, sancita dal concilio di . Nel nel deve affrontare, fra gli altri gravissimi problemi, la nuova persecuzione promossa dall’imperatore . Dapprima condannato all’esilio, viene di nuovo processato e nel 258.

3

tore. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Attribuisci a ciascuna opera citata il nome dell’au-

Adversus nationes Evangeliorum libri De Trinitate Mathesis Octavius Vita Antonii De spectaculis De mortibus persecutorum

a. Firmico Materno b. Tertulliano c. Ilario di Poitiers d. Atanasio e. Arnobio f. Minucio Felice g. Lattanzio h. Giovenco p._____/8 Totale p._____/25

p._____/12

Quesiti a scelta multipla

2

Quesiti a risposta singola

Indica il completamento corretto.

1. I primi testi apologetici in lingua latina si devono a ■ Arnobio e Cipriano ■ Minucio Felice e Tertulliano ■ Tertulliano e Arnobio ■ Cipriano e Minucio Felice 2. Il testo apologetico più integralista e intollerante è ■ Adversus Nationes di Arnobio ■ Apologeticum di Tertulliano ■ Carmen apologeticum di Commodiano ■ De errore profanarum religionum di Firmico Materno 3. Il concilio di Nicea del 325 condannò ■ l’eresia gnostica ■ le concezioni eterodosse di Arnobio ■ le dottrine di Ario ■ il movimento dei montanisti 4. Nella Vita Antonii si narra ■ la conversione esemplare di un pagano ■ l’esperienza di un lapsus o apostata ■ il processo e il martirio del santo ■ la vita di un santo anacoreta nel deserto 5. Scrissero importanti opere contro l’eresia ariana ■ Firmico Materno e Arnobio ■ Lattanzio e Commodiano ■ Ilario di Poitiers e Mario Vittorino ■ Atanasio e Tertulliano

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Il tema della donna nell’opera di Tertulliano. 2. Datazione, destinatari e obiettivi di Firmico Materno nel De errore profanarum religionum. 3. Due diverse forme di vita ascetica: anacoretismo e cenobitismo. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Un testo apologetico anomalo: l’Octavius di Minucio Felice. 2. Concezioni dottrinali eterodosse nell’opera di Arnobio. 3. Le esperienze poetiche di Commodiano e Giovenco.

p._____/5

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Scrittori cristiani fra II e IV secolo

Verifica finale


18 La rinascita della cultura pagana 1 La cultura pagana del IV secolo Un periodo di relativa stabilità Le iniziative politiche, amministrative e militari intraprese da Diocleziano e da Costantino assicurarono all’impero un periodo di relativa stabilità, che si protrasse sino alla fine del IV secolo. Nonostante le periodiche crisi causate dalle lotte di successione, dalla crisi agraria e soprattutto dall’aggravarsi del problema germanico, nel periodo che va da Costantino a Teodosio l’autorità imperiale si rafforza, le strutture statali si consolidano. Persino il disastro di Adrianopoli (378) sembra temporaneamente assorbito grazie all’energia di Teodosio e alle misure prese in campo religioso, politico e militare: inserimento dei Germani nei ranghi dell’esercito; unità religiosa dello Stato; separazione amministrativa dell’impero. La rinascita degli studi I privilegi fiscali e i benefici materiali accordati dagli imperatori alle scuole favoriscono una rinascita degli studi, soprattutto grammaticali, retorici e antiquari. Significativo, a tale proposito, è il prestigio di cui godono i retori durante tutto il secolo: molti di loro, benché di umili origini familiari, ascendono ad alte cariche pubbliche e sono in grado di esercitare una notevole influenza sugli stessi imperatori. Una nuova fioritura letteraria Il ritrovato mecenatismo delle corti determina infine una nuova fioritura letteraria: imponente, nella seconda metà del secolo, è la produzione storiografica, panegiristica e soprattutto poetica. Poeti di 554 © Casa Editrice G. Principato


Giuliano riapre i templi degli dèi Sebbene dalla prima fanciullezza fosse piuttosto incline al culto degli dèi e con il passare degli anni ne fosse sempre più acceso, tuttavia, temendo per molte ragioni, praticava alcuni di questi riti nella massima segretezza. Allorché però, venuti meno i motivi della paura, si rese conto che era giunto il tempo di fare liberamente ciò che voleva, manifestò apertamente i suoi segreti pensieri e con decreti chiari e ben definiti ordinò di riaprire i templi, di portare vittime agli altari e insomma di ristabilire il culto agli dèi. (Ammiano Marcellino, Le storie XXII, 5, 1-2, trad. di A. Selem)

carmina figurata

Pervigilium Veneris

De rosis nascentibus Bissula Mosella Ara Victoriae Periochae

Panegyrici

Roma Aeterna

Historia Augusta

corte furono sia Ausonio sia Claudiano, le due maggiori personalità letterarie del secolo. La reazione pagana al cristianesimo L’affermazione politica del cristianesimo, unitamente alla vitalità del suo pensiero e alla ricchezza di forme letterarie da esso prodotte, determina per contrasto il risveglio della cultura pagana e suscita orgogliosi tentativi di reazione alla rapida e progressiva cristianizzazione della vita pubblica. Tale reazione si esplicò su due piani diversi: politico-religioso il primo (restaurare le istituzioni del mondo pagano), storico-culturale il secondo (salvaguardare l’identità del paganesimo, promuovendo la difesa della sua lunga e gloriosa tradizione). Il breve regno di Giuliano Sul ripristino degli antichi culti fu incentrato il programma di restaurazione del paganesimo attuato da Giuliano nei brevissimi anni del suo governo (361-363). Figlio di un fratellastro di Costantino, Giuliano aveva visto sterminare l’intera sua famiglia nei mesi appena successivi alla morte del primo imperatore cristiano (337), quando si era aperta la lotta per la successione. Conquistato in seguito a vicende alquanto fortunose il potere, il giovane imperatore emanò una serie di editti che miravano a restaurare il prestigio del ceto senatorio, a dare nuovo impulso agli studi classici e a far rifiorire l’antica religione nazionale. Nel luglio del 362 fu emanato l’editto nel quale si vietava di fatto l’insegnamento della retorica, fondato sui classici del paganesimo, a chi pagano non era. Scopo del provvedimento era proteggere nella sua autentica essenza una cultura 555 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

18. La rinascita della cultura pagana

di cui il cristianesimo si appropriava sul piano tecnico, svuotandola tuttavia dei suoi valori ideali. Il progetto si dissolse con l’improvvisa morte di Giuliano, il 27 giugno 363, durante la sfortunata spedizione contro i Persiani. PROFILO STORICO

L’aristocrazia senatoria pagana tenta un’ultima difesa Mentre Giuliano moriva in una lontana terra d’Oriente, nella città di Roma, da tempo emarginata dal potere ma pur sempre prestigiosa, l’antica aristocrazia senatoria di fede pagana tentò un’ultima difesa della propria identità storica e nazionale. Il senato di Roma, all’epoca, non si identificava più con l’ordine senatorio, una classe sociale relativamente numerosa che si trovava diffusa in tutte le province dell’impero e che presentava, dopo la metà del secolo, una composizione a chiara maggioranza cristiana. In Roma, al contrario, il senato era ancora controllato da famiglie di fede pagana, orgogliose della propria tradizione. Culto del passato e difesa del priscus mos costituivano gli obiettivi fondamentali della loro azione politica. I maggiori rappresentanti di tale ideologia furono Vettio Agorio Pretestato, Virio Nicomaco Flaviano e Simmaco [ cap. 18.4]; tutti e tre figurano come protagonisti nei Saturnalia di Macrobio, l’ultima opera che si proponga consapevolmente di difendere e di celebrare il paganesimo [ cap. 20.6].

Guida allo studio

1.

La ripresa degli studi che si registra nel IV secolo d.C. coincide con un periodo di relativa stabilità dell’impero. Quali furono i provvedimenti politico-militari adottati dagli imperatori per la sicurezza dello Stato? Quali le iniziative culturali di rilievo? 2. Per quali ragioni si verifica nel IV secolo una rinascita della cultura pagana?

Difesa e recupero dei classici latini ▰ Crisi delle biblioteche pubbliche Il recupero

dei tradizionali valori della romanità implicava anche la difesa dei classici latini che rischiavano, per cause diverse, di andare perduti. Una di tali cause era la crisi delle biblioteche pubbliche: Ammiano Marcellino testimonia che a Roma, verso la metà del IV secolo, erano tutte chiuse come tombe (XIV, 6, 18).

▰ Nuove edizioni e commenti dei classici Già

da tempo le Storie di Livio erano state sostituite, a causa della mole (almeno 142 rotoli), da sbrigative epitomi [ cap. 18.6]. A rieditare l’immensa opera si provvide, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, nella dotta cerchia di Simmaco e dei suoi amici. Negli anni 395-397 un recensore di nome Sallustius approntava un’edizione

3. Quale imperatore perseguì un dichiarato programma di restaurazione del paganesimo? In quali forme e mediante quali interventi? 4. Delinea la situazione dell’aristocrazia senatoria al tempo della rinascita pagana, ricordando le figure e le iniziative di maggior rilievo.

corretta di Apuleio. Nel 401 Flavio Gennadio Felice Torquato emendava Marziale. L’anno successivo un altro aristocratico, Flavio Giulio Trifoniano Sabino, correggeva il manoscritto di Persio. Servio, l’illustre grammatico attivo tra la fine del IV e gli inizi del V secolo [ cap. 18.10], commentava non solo Virgilio ma anche Giovenale, Stazio e Lucano.

▰ Gli angusti confini dell’operazione di recupero Benché significativa, tale operazione di recupero dei classici non usciva tuttavia dai ristretti confini dell’aristocrazia pagana: un pubblico colto e generoso ma chiuso in se stesso ed isolato, incapace di contatti con il pubblico medio dei lettori, che peraltro cominciò anch’esso, proprio agli inizi del V secolo, a ridursi sensibilmente in concomitanza con le prime invasioni germaniche.

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PROFILO STORICO

2 La poesia: Optaziano Porfirio, Tiberiano, Pervigilium Veneris, De rosis nascentibus, Naucellio, Avieno, Aviano Dall’età dei novelli [ cap. 13.4], la poesia latina aveva percorso la strada del virtuosismo tecnico e del lusus, concentrandosi quasi esclusivamente sugli aspetti formali e sperimentali del testo [ cap. 15.3]. Optaziano Porfirio Nel solco di questa tradizione va interpretata la produzione di Publilio Optaziano Porfirio, vissuto fra il 260 e il 337: dopo essere caduto in disgrazia presso l’imperatore Costantino, ne ottenne il perdono inviandogli una raccolta laudatoria e convertendosi al cristianesimo. Di lui restano una trentina di carmi, per lo più dedicati all’imperatore, e caratterizzati soprattutto dalla costruzione di congegni poetici artificiosi ed elaborati. Nei carmina figurata, caratteri d’argento e d’oro sovrappongono e intrecciano più testi leggibili in varie direzioni, talvolta raffigurando oggetti ed emblemi [ T2 ONLINE] Tiberiano Di Tiberiano, vissuto tra la fine del III secolo e la prima metà del IV, ci sono noti quattro carmina di vari argomenti (dall’idillio primaverile a temi più impegnati ed elevati, morali e filosofici) e metri, che rimandano all’atteggiamento sperimentale dei poeti novelli, temperato tuttavia da un tono più austero e sobrio che anticipa la fioritura letteraria pagana della seconda metà del secolo. Pervigilium Veneris A Tiberiano è stato attribuito da diversi studiosi il carme forse più suggestivo e prezioso della poesia tardo-antica, il Pervigilium Veneris («La veglia di Venere»), un inno in onore di Venere Iblea giunto anonimo che è stato variamente datato tra il II e il V secolo [ T3 ONLINE]. Pur nell’incertezza delle ipotesi critiche, l’indagine stilistica e storica porta a credere che il Pervigilium sia opera di un poeta pagano vissuto intorno alla metà del IV secolo. Il carme, in tutto 93 versi, si presenta diviso in dieci strofe di lunghezza diseguale, scandite ognuna da un ritornello. Il metro è il settenario trocaico, un verso non lirico ma drammatico, usato dai comici latini e presente anche nella poesia di Lucilio. La scelta del metro e l’uso del ritornello sono elementi popolari inseriti in un contesto dotto e raffinato. Il linguaggio, solo apparentemente semplice, è intessuto di elementi rari e preziosi, accostati con finezza a termini di origine colloquiale. Catullo, Virgilio e Lucrezio sono i modelli del carme; i poetae novelli il retroterra culturale e poetico. I poeti delle rose Alle rose, argomento di una stanza del Pervigilium Veneris (vv. 22-26 [ T3 ONLINE ]), sono dedicati anche numerosi componimenti di epoca tardo-imperiale, molti dei quali contenuti nell’Anthologia Latina [ cap. 15.3]: tra questi spicca l’elegia De rosis nascentibus, in cui la descrizione naturalistica e allegorica di un giardino culmina con un invito di tono oraziano a godere della giovinezza. Naucellio e gli Epigrammata Bobiensia Nel 1955 venne pubblicata per la prima volta una raccolta di liriche che si è soliti indicare con il titolo di Epigrammata Bobiensia, dal monastero di Bobbio donde proveniva il codice Vaticano contenente la silloge. I testi più significativi appartenevano a Giunio (o Giulio) Naucellio, un dotto amico di Simmaco. Il modello dichiarato è Ausonio; i versi hanno carattere intimo e autobiografico [ T1]. 557 © Casa Editrice G. Principato


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PROFILO STORICO

Avieno Attivo intorno alla metà del IV secolo, di cospicua famiglia pagana originaria di Bolsena, scrisse tre opere di genere didascalico: gli Aratea, rielaborazione amplificata del poema di Arato di Soli già tradotto da Cicerone; due poemetti geografici, la Descriptio orbis terrae (libera traduzione in esametri di un’opera greca di Dionisio Periegeta) e l’Ora maritima, descrizione delle coste europee dalla Bretagna al mar Nero, giunta incompleta. Aviano Ad Aviano (o Avianio) sono attribuite quarantadue favole in distici elegiaci dedicate a un Teodosio, che si è soliti identificare nell’erudito Macrobio. Se questo fosse vero, la raccolta sarebbe da assegnare alla prima metà del V secolo e l’autore apparterebbe all’ambiente pagano evocato nei Saturnalia [ cap. 20.6]. Il modello di Aviano non è Fedro ma il poeta favolista greco Babrio, vissuto nel II secolo d.C.

PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 «Sfogliando i dotti libri degli antichi» Epigrammata Bobiensia 5 ITALIANO

Naucellio si descrive come un uomo felicemente dedito agli otia letterari, cui piace trascorrere gli ultimi anni della sua vita nella quiete della casa spoletina, leggendo «i dotti libri degli antichi».

5

Parco amante di ricchezze, la lusinga degli onori ho vinto. Studio, qui, coltivo un tempo amico alle Muse, io, Giunio, poeta della cetra ausonia. Tutto il piacere possibile ricavo di qui: godo campi, casa, orti bagnati da pure fontane e i dolci marmi delle Pieridi incostanti. Mi piace vivere così, placidamente invecchiare sfogliando i dotti libri degli antichi. (trad. di Cesare Greppi)

Guida allo studio

1.

Traccia una rapida panoramica della poesia pagana nel IV secolo, ricordando le personalità poetiche, i generi coltivati e le opere più significative. 2. Traduci i seguenti termini tecnici e titoli di opere, spiegandone il significato e contestualizzandoli: carmina figurata;

Pervigilium Veneris; De rosis nascentibus; Epigrammata Bobiensia; Descriptio orbis terrae; Ora maritima. 3. Il motivo delle rose, tra descrizione naturalistica e allegoria, nella poesia pagana del IV secolo.

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PROFILO STORICO

3 Ausonio di Bordeaux La vita Il poeta più rappresentativo del secolo è Decimo Magno Ausonio, nato a Bordeaux (Burdigala) nel 310, quando l’impero era ancora pagano, e morto fra il 393 e il 394, dopo che il cristianesimo era stato proclamato da Teodosio religione ufficiale dello Stato romano. Di famiglia agiata, Ausonio compie gli studi fra Bordeaux e Tolosa. A partire dal 334, e per circa un trentennio, si dedica all’insegnamento nella sua città natale. Verso il 364 è invitato da Valentiniano I a Treviri, sede imperiale presso i confini del Reno, come precettore di Graziano, che all’epoca aveva sei anni. Nel 368 Ausonio accompagna Valentiniano e Graziano durante la spedizione militare contro gli Alamanni; verso il 369-370 viene insignito del titolo di comes, qualche anno più tardi di quaestor sacri Palatii. Dopo l’elezione imperiale di Graziano (375), Ausonio ottiene cariche ancora più prestigiose: prefetto d’Italia e Africa (376), prefetto al pretorio delle Gallie (378), console (379). Svolge una politica filosenatoria di impronta conservatrice, fondata sulla tolleranza religiosa e sulla preminenza dei tradizionali valori della cultura pagana. Verso il 380, quando Graziano si avvicina alla politica di Ambrogio, ad Ausonio vengono meno i favori della corte. Dopo la morte di Graziano (383), il poeta si trova di fatto completamente esautorato dagli incarichi pubblici. Negli anni successivi fa ritorno a Bordeaux, nei suoi poderi fuori città, dedicandosi agli otia letterari. Le opere: un complesso assai vario La produzione di Ausonio, tradizionalmente nota con il titolo generale di Opuscula, si presenta come un complesso assai vario: si va dal panegirico imperiale a versi di carattere privato e quotidiano; da puri esercizi virtuosistici a intensi componimenti di tema funebre ed elegiaco; dalla poesia di viaggio a testi di argomento pedagogico; dalle poesie d’amore ai carmi di contenuto religioso. Alquanto incerta e dibattuta resta la cronologia: le opere pervenute sembrano, con poche eccezioni, tutte successive al 364 [ Opere varie di Ausonio]. Poesie d’amore: il canzoniere per Bissula Fra le raccolte più felici di Ausonio va ricordato l’esiguo canzoniere in metri vari dedicato a Bissula [ T4 ONLINE ], un’avvenente schiavetta germanica ricevuta in dono dal poeta alla conclusione della guerra alamannica. Siamo nell’ambito, programmatico, di una poesia tenue e leggera, di argomento amoroso. Nella prefazione alla raccolta, l’autore parla di «poesiole dedicate per gioco alla mia pupilla, versi non limati, destinati ad essere canterellati in casa, per divertimento». I contenuti, il tono, i metri e lo stile rimandano al modello neoterico, filtrato attraverso l’esperienza dei novelli. Mosella Per comune giudizio è la Mosella, un poemetto in esametri scritto a Treviri fra il 370 e il 371, il capolavoro di Ausonio. Il componimento si pone all’intersezione di vari generi letterari: può infatti essere qualificato come un carme odeporico, un encomio e un idillio. Ogni sezione del poemetto presuppone una preziosa trama di riferimenti che lo espandono al di là dei suoi confini naturali: il catalogo dei pesci, ad esempio, segue il modello degli Halieutica di Ovidio. Il componimento inizia come un diario di viaggio del poeta che abbandona le rive della Nava, attraversa le selve germaniche e percorre le sponde lucenti della Mosella fino a Treviri (vv. 1-22 [ T5]). Seguono le lodi del fiume e delle sue lim559 © Casa Editrice G. Principato


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Opere varie di Ausonio

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▰ Opere celebrative Spicca la Gratiarum actio,

un’«orazione di ringraziamento» pronunciata a Treviri nel 379 per l’assunzione del consolato e ricca di lodi all’imperatore Graziano. Ricordiamo anche il ciclo di venti poesie intitolato Ordo urbium nobilium («Elenco di città illustri»), sulle città più famose dell’impero; i Parentalia («Iscrizioni in onore dei parenti morti»), trenta carmi polimetrici dedicati alla famiglia del poeta; la Commemoratio professorum Burdigalensium («Commemorazione dei professori di Bordeaux»), elogio funebre dei grammatici e dei retori che avevano insegnato nella città natale del poeta.

▰ Componimenti “scolastici” Al mondo della

scuola fanno riferimento numerose opere, destinate all’uso dei colleghi se non degli stessi studenti: il Protrepticus ad nepotem, piano di studi per un’adeguata formazione culturale; le Eclogae, su argomenti di varia erudizione; il Ludus septem sapientium, in cui i sette savi

illustrano in latino le loro più celebri massime inserite in greco; i Caesares, elenco degli imperatori romani da Cesare ad Elagabalo; gli Epitaphia heroum qui bello Troico interfuerunt («Epitafi degli eroi che presero parte alla guerra troiana»).

▰ Divertimenti virtuosistici Oltre al Technopaegnion («Scherzo d’arte») e al Gryphus ternarii numeri («L’enigma del numero tre»), compose un Cento nuptialis in cui i versi virgiliani sono ricombinati in tono parodistico e scherzoso.

▰ Epigrammi Esercizio galante e ingegnoso, vari nel metro e nel contenuto, gli Epigrammata riprendono i modelli di Catullo, di Marziale e dei poeti novelli.

▰ Epistole Le venticinque Epistole, una delle quali in

prosa, sono indirizzate a parenti, amici e discepoli: tra i destinatari figurano Simmaco [ cap. 18.4] e Paolino di Nola [ cap. 19.6 e T20 ONLINE ]. Ne emerge il quadro di una società colta e ricca, attaccata ai valori del glorioso passato di Roma, come anche ai propri privilegi di casta.

pide acque (vv. 23-74 [ T6 ONLINE ]), il catalogo dei pesci (vv. 75-149), la descrizione dei colli circostanti, ricchi di feraci vigneti (vv. 150-168), nonché delle rive, immaginosamente popolate di ninfe e di satiri (vv. 169-188). Dopo aver indugiato sul prezioso spettacolo dei colli che si rispecchiano nella corrente (vv. 189-199), il poeta evoca i festosi Neptunalia (vv. 200-239), dipinge scene di pesca (vv. 240-282), loda la placida quiete delle acque (vv. 283-297), vanta lo splendore architettonico delle ville e delle terme costruite lungo le rive (vv. 298-348), elenca i copiosi affluenti della Mosella (vv. 349-374), celebrando infine la nobiltà del fiume, di cui un giorno il poeta canterà gli uomini illustri (vv. 374-417). Segue l’elogio di Treviri e della famiglia imperiale, baluardo contro le nemiche popolazioni barbariche, recentemente sconfitte (vv. 418-437). Nella sezione conclusiva, di tono autobiografico, l’autore appone la tradizionale sphragís (il «sigillo», cioè la firma dell’autore), promettendo la gloria poetica al fiume immortalato nei suoi versi (vv. 438-483). Arte di Ausonio La poesia è intesa da Ausonio, sulla scia dei novelli, come un lusus raffinato e prezioso, una scintillante esibizione di erudizione e di abilità: di qui il gusto del catalogo, l’inesauribile sperimentazione metrica, il piacere dei giochi linguistici, il predominio della retorica, il culto delle forme, l’arte allusiva.

Guida allo studio

1.

Traccia un quadro riassuntivo della vasta produzione di Ausonio, classificando le sue numerose opere per gruppi omogenei. 2. Quali affinità presenta l’opera di Ausonio con la coeva fioritura poetica e culturale della rinascita pagana?

3. Illustra contenuti e struttura della Mosella di Ausonio. Nell’ambito di quale genere letterario è possibile situare il poemetto?

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PROFILO STORICO

4 Oratoria ed epistolografia: Simmaco La vita Quinto Aurelio Simmaco era nato intorno al 340 da un’agiata famiglia romana di recente nobiltà. Il padre, una delle personalità più influenti della capitale, fu nominato nel 364 prefetto dell’Urbe; proprio in quegli anni ebbe inizio la carriera pubblica del giovane Simmaco. Nel 369, inviato dal senato romano a Treviri presso l’imperatore, pronunciò due panegirici in onore di Valentiniano I e di Graziano. Negli anni successivi, ritornato in Roma, rivestì varie cariche pubbliche: proconsole d’Africa nel 373, praefectus Urbi nel 384-385, console nel 391. Il più autorevole rappresentante della cultura pagana del IV secolo Insieme ad Agorio Pretestato e a Nicomaco Flaviano [ cap. 18.1], con i quali intrattenne rapporti di parentela e di amicizia, dev’essere considerato come il più autorevole rappresentante della cultura pagana negli anni della grande svolta, quando il cristianesimo viene proclamato religione di Stato e il culto pagano viene messo fuori legge dagli editti imperiali. L’episodio dell’altare della Vittoria Noto è l’episodio dell’altare della Vittoria [ cap. 19.1]: nel 382 Simmaco fu a capo della delegazione senatoria romana che protestava contro la rimozione dalla Curia dell’insigne monumento; la delegazione non venne tuttavia ricevuta da Graziano. Approfittando dell’improvvisa morte dell’imperatore, nel giugno del 384 Simmaco ritornò sulla questione, chiedendo ufficialmente a Valentiniano II di ricollocare l’altare nella sede originaria: nell’occasione pronunciò la famosa Relatio de ara Victoriae [ T7 ONLINE]. L’intervento di Ambrogio, vescovo di Milano, stornò il nuovo tentativo. Né valsero i successivi, che costarono fra l’altro a Simmaco l’espulsione da Roma nel 391, su ordine personale di Teodosio. Gli ultimi anni Nel 387 si schierò con l’usurpatore Massimo, l’uccisore di Graziano che aveva preso le parti della fazione pagana, dedicandogli un panegirico ora perduto. Quando l’anno dopo Massimo trovò la morte nella battaglia di Sciscia, Simmaco si salvò; più tardi ottenne il perdono di Teodosio. Fra il 392 e il 394

Opere di Simmaco: orazioni ed epistole ▰ Le orazioni Delle otto orazioni a noi pervenute, tre sono panegirici destinati agli imperatori Valentiniano e Graziano, pronunciati quando l’autore risiedeva alla corte di Treviri: il linguaggio è affine a quello dei Panegyrici Latini [ cap. 18.5], ricercato, enfatico e iperbolico. In senato furono invece tenute le altre orazioni. ▰ L’epistolario, modellato su quello di Plinio

L’epistolario di Simmaco è strutturato secondo il modello illustre di quello pliniano: i primi nove libri comprendono le lettere private, in tutto circa novecento, scritte fra il 364 e la morte; il libro X raccoglie invece il carteggio ufficiale, ovvero le lettere di carattere pubblico. L’ordinamento interno delle lettere

private non è cronologico ma per destinatario. Del libro X restano due sole lettere, indirizzata la prima a Teodosio, la seconda a Graziano.

▰ Temi delle epistole I temi sono quelli consueti

dell’epistolografia imperiale: biglietti d’auguri, inviti, elogi, raccomandazioni (che vanno ad occupare l’intero libro IX), consolazioni, ringraziamenti. Scarsi sono invece i riferimenti alla realtà politica e sociale (ma può anche darsi che le lettere più delicate e compromettenti siano state espunte dal figlio nell’edizione definitiva).

▰ Una raffinata cultura letteraria Attento in particolar modo agli schemi retorici del genere, Simmaco dispiega nelle sue lettere tutto il complesso armamentario di una raffinata cultura letteraria: dotte allusioni ai classici, preziosi giochi di stile, abili variazioni intorno ai motivi topici della tradizione epistolare. 561

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appoggiò la causa dell’usurpatore Eugenio, anch’egli filopagano, che fu tuttavia sbaragliato al Frigido dalle forze imperiali di Teodosio (6 settembre 394). Dopo il 397 si schierò a favore di Stilicone, che pareva intenzionato a sostenere la corrente senatoria pagana. Nel febbraio del 402 fu a Milano, in delegazione presso la corte di Onorio. La morte va collocata poco tempo dopo. In quegli stessi mesi, il cristiano Prudenzio componeva due libri in versi Contra Symmachum [ cap.19.5]. Il corpus delle opere Simmaco si distinse nell’ambito dell’oratoria e dell’epistolografia. Restano di lui: otto orazioni, incomplete e frammentarie; la vasta raccolta delle Epistole, in tutto circa novecento lettere; il corpus delle quarantanove Relationes, ovvero i rapporti ufficiali spediti agli imperatori durante il periodo della prefettura romana [ Opere di Simmaco: orazioni ed epistole].

5 I Panegyrici Latini La raccolta Nel 1433 l’umanista Giovanni Aurispa scoprì a Magonza una raccolta comprendente il Panegirico a Traiano di Plinio il Giovane [ cap. 10.2] e undici discorsi pronunciati fra il 289 e il 389. La raccolta fu probabilmente compilata tra la fine del IV e gli inizi del V secolo in una scuola di retorica della Gallia. Al secolo III appartengono quattro panegirici: due pronunciati a Treviri in onore dell’imperatore Massimiano (nel 289 e nel 291); uno rivolto a Costanzo Cloro, padre di Costantino (nel 297); l’ultimo, pronunciato nel 298 dal retore Eumenio alla presenza del governatore della Gallia Lugdunense, in occasione della ricostruzione della scuola retorica di Autun (Pro instaurandis scholis), è l’unico che non abbia per destinatario un imperatore. Cinque sono i panegirici dedicati a Costantino: quattro pronunciati a Treviri fra il 307 e il 313, il quinto pronunciato a

Il genere LETTERARIO Evoluzione del termine «panegirico» ▰ Nell’antica Grecia: etimologia del termine Con

«panegirico» (da pan, «tutto», e ágyris, «adunanza») si intendeva nell’antica Grecia un discorso di genere epidittico (dimostrativo) pronunciato dinanzi al popolo riunito in assemblea. Noto è il Panegirico composto da Isocrate intorno al 380, nel quale si sosteneva la preminenza di Atene sulle altre città greche in virtù della sua tradizione di libertà e di civiltà.

▰ A Roma, in età imperiale: un discorso laudativo In età imperiale il termine venne ad assumere il significato di discorso laudativo, rivolto per lo più all’imperatore in occasioni di speciale importanza. Caratteri encomiastici presentavano già l’orazione Pro Marcello, pronunciata da Cicerone dinanzi a Cesare nel 46 a.C., il Panegyricus Messallae in esametri compreso nel Corpus Tibullianum e la Laus Pisonis di età neroniana.

Spentasi gradatamente, per i motivi enunciati nel Dialogus de oratoribus [ T1, cap. 11], l’oratoria di genere deliberativo, infiacchitasi quella di genere giudiziario, le uniche forme di oratoria che fiorirono dopo il I secolo furono quelle d’apparato.

▰ Dalla Gratiarum actio al panegirico I consoli

iniziarono a rivolgere un discorso di ringraziamento agli imperatori per la carica loro concessa, consuetudine testimoniata ancora nel IV secolo dalla Gratiarum actio rivolta da Ausonio a Graziano nel 379 [ cap. 18.3]. Da tale pratica si sviluppò in seguito l’uso del panegirico, in prosa o in versi (si vedano i panegirici di Claudiano [ cap. 18.9]), di cui gli imperatori si servirono come veicolo di diffusione dei loro programmi politici. A questo genere appartengono anche i panegirici di Simmaco [ cap. 18.4].

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Roma nel 321. Restano infine il panegirico rivolto a Costantinopoli all’imperatore Giuliano nel 362 e il discorso pronunciato a Roma nel 389 in onore di Teodosio. Caratteri dei Panegyrici Latini Il panegirico imperiale latino segue un preciso schema, affine a quello della biografia e degli antichi elogia: proemio, origini familiari dell’imperatore, luogo di nascita, educazione, virtù, imprese, auguri di fortuna e di prosperità. Frequenti sono le inserzioni di exempla tratti dalla storia e dalla mitologia. Altrettanto definiti sono i caratteri stilistici: enfasi iperbolica, ricchezza di figure retoriche, solenne e astratta sentenziosità.

Guida allo studio

1.

Quali testi sono stati trasmessi sotto il titolo complessivo di Panegyrici Latini? In quale epoca fu compilata la raccolta? 2. Dopo aver rapidamente delineato l’evoluzione storica del termine

«panegirico», precisandone il significato etimologico, metti in luce le peculiari caratteristiche del panegirico latino di età imperiale.

6 Storici e biografi Involuzione del genere storiografico Con l’eccezione di Ammiano Marcellino, la letteratura latina non conosce più storici di alto livello dopo la morte di Tacito. La fine della libertas, la progressiva estinzione delle illustri famiglie della nobilitas, il declassamento del senato causano la dispersione di un patrimonio di pensiero che si era compiutamente espresso nel passato proprio nell’ambito del genere storiografico. Gli storici posteriori al II secolo appartengono ai nuovi ceti dell’apparato burocratico statale e sono legati alle figure dei príncipi, da cui dipendono direttamente: di qui la preferenza accordata alla biografia sull’annalistica, l’assenza di problematicità e di profondità storica, il prevalere della narrazione aneddotica sulla riflessione politica. Le forme più diffuse sono quelle del breviario (o compendio) e dell’epitome (o riassunto), ad uso sia della scuola sia di funzionari imperiali ignari di storia romana. Le epitomi Al IV secolo vanno con tutta probabilità assegnate le Periochae (dal greco periochè, «sommario») degli Ab urbe condita di Tito Livio: brevi riassunti, libro per libro, della monumentale opera di età augustea. Al IV-V secolo risalgono anche le Epitomi dell’opera di Valerio Massimo approntate da Giulio Paride e da Ianuario Nepoziano. Un compendio di taglio tematico può essere considerato il Liber prodigiorum di Giulio Ossequente, personaggio altrimenti ignoto. Si tratta di una raccolta di prodigi accaduti, relativamente alla sezione conservata, dal 190 all’11 a.C. Manca la parte iniziale, che verosimilmente prendeva le mosse dall’anno 249. I materiali sono tratti quasi completamente dalle Storie di Livio. L’autore, evidentemente legato agli ambienti della resistenza pagana, ritorna più volte sulla necessità di richiamarsi agli antichi culti che avevano fatto grande Roma. I breviari Alla classe della burocrazia amministrativa imperiale appartengono anche Eutropio e Festo, al primo dei quali si deve il più noto breviario dell’epoca. 563 © Casa Editrice G. Principato


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Grammatico e retore, forse originario delle Gallie, Eutropio scrisse un compendio di storia romana intitolato Breviarium ab urbe condita. L’autore scrive su richiesta di Valente (364-378), un imperatore di origine danubiana che ignorava pressoché tutto della storia di Roma: di qui la necessità di un rapido compendio, composto in una lingua semplice ed elementare, come si conveniva ad un lettore incolto e sprovveduto. Problematica risulta tuttora l’identità di Rufio Festo, autore anch’egli di un Breviarium scritto dopo il 371, sempre su richiesta di Valente: l’imperatore voleva approfondire alcuni aspetti della storia romana, soprattutto in merito alle spedizioni militari contro le popolazioni orientali.

Guida allo studio

1.

Quali sono le forme più diffuse del genere storiografico nel IV secolo? Quali le opere a noi pervenute?

2. Per quali ragioni la letteratura latina non annovera storici di alto livello dopo la morte di Tacito? Con quale eccezione?

7 L’ultimo grande storico di Roma: Ammiano Marcellino Notizie biografiche Le informazioni in nostro possesso sulla vita di Ammiano Marcellino provengono in massima parte dalla sua opera, i Rerum gestarum libri («Storie»), nella quale l’autore inserisce con una certa frequenza notizie ed episodi a carattere autobiografico. Siriano di Antiochia, di madrelingua greca, Ammiano nacque intorno al 330 d.C. da una famiglia di rango piuttosto elevato, come si deduce dall’ottima educazione letteraria ricevuta e dal fatto che intraprese la carriera militare entrando a far parte ancora giovanissimo del corpo scelto dei protectores domestici, una sorta di élite dell’esercito. Nel 353-354 è a Nisibis in Mesopotamia, addetto allo stato maggiore del magister equitum Ursicino, il generale che allora comandava la guarnigione romana alle frontiere con la Persia. Ammiano fu al suo fianco per circa sette anni nel corso di varie missioni; dopo il congedo di Ursicino nel 360, non si hanno notizie certe sui movimenti di Ammiano fino al 363, quando partecipa alla sfortunata spedizione di Giuliano in Persia, nel corso della quale il giovane imperatore trovò la morte [ T8]. In seguito, ritornato ad Antiochia, si ritirò probabilmente a vita privata, riprendendo gli studi e incominciando a raccogliere materiali per la sua opera storica. Viaggiò in Egitto e in Grecia; verso il 380 si stabilì a Roma, dove attese alla composizione delle Storie. Si ritiene che Ammiano sia entrato in contatto con gli ambienti dell’aristocrazia pagana, cui indubbiamente lo avvicinavano le convinzioni politiche e religiose; nondimeno, pur tributando lodi a singole personalità, come storico manifesta un deciso atteggiamento critico nei confronti dei ceti nobiliari della capitale, denunciandone la preoccupante decadenza morale e culturale. Si ignorano la data, il luogo e le circostanze della morte, avvenuta verosimilmente intorno al 400 d.C. 564 © Casa Editrice G. Principato


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Ammiano continuatore di Tacito La figura di Ammiano si stacca, isolata, dalla folta schiera degli epitomatori e dei biografi fioriti nel IV secolo. Di contro alle tendenze predominanti nella sua epoca, egli intende farsi continuatore della grande tradizione storiografica di Roma, e in particolare dell’opera di Cornelio Tacito, come dimostra il fatto che le Res gestae si aprivano là dove si erano concluse le Historiae tacitiane. Rerum gestarum libri XXXI L’opera storica di Ammiano Marcellino constava originariamente di 31 libri; la narrazione, secondo quanto si ricava da un passo posto a suggello dell’opera, si estendeva dal 96 al 378 d.C., «dal principato di Nerva Cesare alla morte di Valente» (XXXI, 16, 9). Sono pervenuti integri fino a noi i libri XIV-XXXI, che trattano gli avvenimenti successivi alla vittoria di Costanzo II su Magnenzio (anno 353) fino alla disfatta di Adrianopoli, sotto i regni di Costanzo, Giuliano, Gioviano, Valentiniano, Graziano e Valente. Digressioni Una delle caratteristiche più vistose dell’opera storica ammianea è la frequenza degli excursus, non di rado di ampiezza notevole, che soprattutto nella prima parte vengono a interrompere il flusso della narrazione. Si incontrano excursus a carattere sociologico-moralistico, come quelli incentrati sulla decadenza dei costumi dell’aristocrazia e della plebe romana; altri di argomento geo-etnografico, ad esempio sui Saraceni, sulle Gallie, sull’Egitto, sulla Persia, sugli Unni e gli Alani; altri ancora di natura squisitamente erudita, a proposito di terremoti, arcobaleni, eclissi, epidemie, macchine da guerra, metodi divinatori, obelischi, palme e geroglifici, fino a una minuziosa dissertazione intorno al computo dell’anno bisestile. Metodo storiografico È lo stesso Ammiano a dichiarare espressamente in diverse occasioni i princípi e i criteri di ordine metodologico che lo guidano nella composizione dell’opera, gli stessi che avevano ispirato i sommi storici della letteratura latina, da Sallustio a Livio a Tacito. Veritas e fides Nel congedare il suo lungo lavoro Ammiano ribadisce, secondo quanto già aveva affermato Cicerone nel De oratore (II, 62), che lo storico deve

Rerum gestarum libri

Struttura e contenuti dell’opera ▰ Libri XIV-XXV: una partizione annalistica Nella

prima parte dell’opera che noi leggiamo, Ammiano si attiene, seppure non rigorosamente, alla tradizionale partizione annalistica e si sposta di continuo da Oriente a Occidente e dal centro alla periferia dell’impero, ricercando effetti di sincronismo narrativo. Tuttavia, come già nella storiografia tacitiana, entro lo schema degli annales si disegnano i contorni delle biografie imperiali: il libro XIV è dedicato a Costanzo Gallo, associato al trono in qualità di Cesare e infine decapitato per ordine di Costanzo Augusto; nei libri XV-XXI lo storico si concentra sulla figura di Giuliano dalla sua nomina a Cesare, avvenuta in Milano il 6 novembre 355,

all’assunzione della porpora imperiale (361). Al breve regno dello stesso Giuliano sono riservati i libri XXII-XXV: l’imperatore restaura apertamente i culti pagani, quindi allestisce una nuova impresa militare contro la Persia. Nonostante i successi iniziali, la spedizione si chiude, dopo la morte di Giuliano sul campo [ T8], con una disastrosa ritirata.

▰ Libri XXVI-XXXI: un criterio “geografico” Negli ultimi libri, che riguardano soprattutto le operazioni di guerra contro i barbari su diversi fronti, la scansione cronologica anno per anno viene abbandonata a favore di un criterio “geografico”, in base al quale l’autore dedica alle vicende dell’Occidente e dell’Oriente sequenze narrative più vaste, che talora abbracciano senza interruzioni gli avvenimenti di parecchi anni.

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PROFILO STORICO

innanzitutto impegnarsi a non alterare in alcun modo la verità dei fatti, serbandosi rigorosamente imparziale e obiettivo: «Ho esposto questi avvenimenti [...] nei limiti delle mie forze, come può farlo un vecchio soldato ed un Greco, né mai ho osato, almeno così credo, tacendo o mentendo affermare coscientemente il falso in un’opera che ha per fine la verità». Discurrere per negotiorum celsitudines Ormai giunto «alle soglie dell’epoca presente», nel proemio programmatico al XXVI libro l’autore ritiene necessario prendere sdegnosamente le distanze dalle futilità del biografismo imperante: riferire quelle che in altro loco chiama minutiae ignobiles è «in contrasto con i princípi della storia, la quale è solita trascorrere sulle cime degli eventi più clamorosi (discurrere per negotiorum celsitudines) e non perdersi nell’indagine di particolari di cause di poca importanza» (XXVI, 1, 1). Brevitas La selettività che si richiede alla narrazione storica comporta l’osservanza del precetto della brevitas. Quasi con le medesime parole di Sallustio (Bell. Cat. 4, 2; Rer. gest. XXVIII, 1, 2), Ammiano promette di esporre «brevemente i fatti in quanto sono degni di essere ricordati». Autopsia e testimonianze dirette Sulle orme di Erodoto, Tucidide e Polibio, l’autore delle Storie si professa seguace del metodo «autòptico» (in greco autopsía significa «il vedere di persona»), che privilegia le informazioni ricavate dalla propria esperienza o dai resoconti di coloro che presero parte agli avvenimenti: «Nei limiti in cui ho potuto indagare la verità dei fatti, ho narrato [...] ciò di cui mi fu possibile essere testimone nel corso della mia vita o che potei apprendere interrogando scrupolosamente coloro che ne erano stati partecipi» (XV, 1, 1). Moralismo e pessimismo Dai grandi storici del passato Ammiano eredita dunque una concezione elevata e nobile della storiografia, ispirata a un austero moralismo che sovente si esprime nelle forme dell’indignatio e di un tagliente sarcasmo. A Tacito, in particolare, lo avvicina la visione profondamente pessimistica del mondo e della storia che emerge dalla sua opera.

Soldato romano abbatte un barbaro, statua bronzea, ca 200 d.C. New York, Metropolitan Museum.

Il mito di Roma Aeterna Vicino agli ambienti della rinascita culturale pagana, continuatore della storiografia filosenatoria, scrittore di lingua greca che sceglie di scrivere in latino rivolgendosi agli aristocratici romani fedeli alla tradizione e al culto degli antichi dèi, Ammiano (come di lì a poco Rutilio Namaziano) professa una fede incondizionata nell’idea di Roma, nella grandezza perenne della città. Certo, riprendendo la concezione organicistica (o “biologica”) già enunciata da Floro [ cap. 13.3], e prima di lui da Seneca Padre [ cap. 1.2], lo storico ammette che l’impero romano è ormai giunto alla fase della vecchiaia e si regge più

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che altro sul prestigio di un grande nome; né, diversamente da Floro, osa preconizzare un ritorno di giovinezza; nondimeno, da un capo all’altro dell’opera, continua a ribadire la sua incrollabile certezza, in stridente contrasto con il fosco quadro di decadenza, di irreparabile sfacelo che emerge dalle sue stesse pagine. Decadenza e corruzione del presente La contrapposizione tra la felicitas del passato (più o meno remoto) e la corruzione del presente è un motivo topico della storiografia (e della letteratura) latina: ormai, però, fra il modello ideale e la realtà rappresentata si apre un vero e proprio abisso. La storia di Ammiano è una sequela di violenze, di tradimenti, di abusi e di orrori: lotte spietate per il potere, processi ingiusti e supplizi crudeli, eserciti imbarbariti, onnipotenti e ribelli, aristocrazia corrotta, plebi miserabili, sommosse urbane, impoverimento delle campagne, insipienza politica, arbitrii fiscali, obsolescenza degli antiqui mores, dissensi religiosi cooperano al progressivo sfaldamento della compagine statale. I barbari Ma il più grave motivo di apprensione, che si dilata fino ad assumere la consistenza di un incubo, è la minaccia barbarica che incombe dall’esterno sui territori dell’impero. Diversamente da Tacito, che rendeva omaggio alle virtutes dei nordici Germani (così simili a quelle dei Romani di un tempo), Ammiano legge i segni della fine nella mostruosa ferinità dei barbari del Nord [ T9 ONLINE]: «il culto di Roma e l’idea retorica della durata eterna del suo impero rimangono in Ammiano, ma celano una seconda coscienza che è di catastrofe e si rivela nelle immagini di orde inesauribili con l’immensità alle spalle che premono sui confini» (Piovene). Una visione del mondo oscillante e incerta Quali sono le forze che governano un mondo tanto caotico, precario e oscuro? Come già Tacito, Ammiano sembra oscillare fra due visioni opposte e inconciliabili: talora afferma che gli eventi umani sono determinati da un’incontrastabile legge divina, identificata con AdrastíaNemesi, colei che provvede immancabilmente a premiare i buoni ed a punire gli empi; in altri casi il mondo gli appare in balìa del caso, sottomesso unicamente ai volubili ondeggiamenti della Fortuna. Non per questo, tuttavia, si astiene dal denunciare con severità i colpevoli traviamenti e gli errori degli uomini. I personaggi della storia: ritratti imperiali A Tacito, ancora una volta, lo accomuna l’interesse per la psicologia dei personaggi. Anche in questo caso, com’è naturale, lo storico si concentra sulle figure degli imperatori, ai quali dedica, solitamente in forma di epitafio, i tradizionali ritratti, per lo più virati al nero. I vizi, infatti, prevalgono quasi invariabilmente sulle virtù, gli aspetti negativi su quelli positivi: violenti, spietati, avidi di potere, attanagliati dalla paura e dal sospetto, prestano orecchio alle delazioni circondandosi di funzionari indegni e corrotti; crudeli e sanguinari, non di rado inetti ai loro compiti politici e amministrativi, commettono errori nella conduzione delle campagne militari, e, quel ch’è peggio, fanno insensate concessioni ai barbari, gravide di conseguenze disastrose [ T9 ONLINE ]. La figura di Giuliano Unico spiraglio di luce, ben presto richiuso, il breve regno di Giuliano. La sua nobile figura di principe-filosofo tende a coincidere, nella ricostruzione appassionata e partecipe di Ammiano, con quella del sovrano ideale. Il giovane asceta dedito agli studi filosofici che i tempi e le circostanze costringono 567 © Casa Editrice G. Principato


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ad assumersi il grave carico del potere, si dimostra fin dal principio, investito del governo delle Gallie in qualità di Cesare, valoroso guerriero e saggio amministratore; salito fortunosamente al trono, difenderà con intransigenza il territorio dell’impero, e insieme i valori culturali e religiosi della tradizione, fino alla morte eroica ed esemplare [ T8]. Indipendenza di giudizio Tuttavia, Ammiano dà prova di notevole lucidità e indipendenza di giudizio – obbligo dichiarato, come si è visto, dello storico – anche nei confronti del suo idolo, astenendosi dall’occultarne i difetti, talora criticandone apertamente le iniziative, come ad esempio «il divieto d’insegnare da lui fatto ai maestri di retorica e di grammatica che professassero la religione cristiana», che gli appare addirittura «inumano e degno di essere sepolto in un eterno silenzio» (XXII, 10, 7). Arte e stile Alla storiografia “tragica” di Ammiano si addice la tensione costante dello stile, retoricamente elaborato, per lo più intonato al registro alto e solenne dei grandi modelli, Tacito e Sallustio, dei quali ammira e imita la scrittura densa e pregnante, la brevitas, l’inconcinnitas, la predilezione per la variatio: caratteristiche, tuttavia, che l’autore esaspera e porta all’estremo, così che il suo periodare appare non di rado contorto e faticoso, sino all’oscurità. La ricerca di un tono elevato è preponderante, ma non esclusiva: tipici della sua prosa, anzi, sono gli scarti di stile, che trascorre dal sublime al colloquiale, dalle screziature fantastico-romanzesche al più crudo realismo. Anche la lingua di Ammiano presenta una tessitura variegata, composita e artificiosa, che fa pensare in certo modo alla prosa di Apuleio. Accanto alle neoconiazioni si registrano numerosi arcaismi (rivelatori di un culto dell’antico proprio della rinascita pagana), poetismi, volgarismi, termini tecnici (soprattutto del linguaggio militare), nonché voci, espressioni, callidae iuncturae e sententiae di provenienza letteraria, attinte alle epoche ed ai generi più svariati, che l’autore accosta mediante una ricercata tecnica «musiva».

Guida allo studio

1.

Illustra contenuti e struttura dei libri superstiti di Ammiano Marcellino, precisando la consistenza originaria dell’opera e l’estensione cronologica della narrazione. 2. Indica i criteri di ordine metodologico e i modelli storiografici seguiti da Ammiano nella composizione dei Rerum gestarum libri. 3. Delinea la visione della storia di Roma quale emerge dall’opera di Ammiano Marcellino: come si configura il rapporto fra passato e presente? quale stridente contrasto occorre rilevare?

4. La concezione ammianea del mondo e della storia appare oscillante fra due visioni opposte e inconciliabili: quali? È questo l’unico aspetto che permette di accostare la sua opera storiografica a quella di Tacito? 5. Come viene rappresentata la figura di Giuliano nei Rerum gestarum libri di Ammiano? Nell’elaborazione della tua risposta tieni presente anche il brano dedicato al racconto della sua morte [ T8].

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8 Historia Augusta Trenta biografie imperiali Sotto il titolo di Scriptores historiae Augustae o Historia Augusta («Storia degli Augusti», ossia «degli imperatori») sono raccolte trenta biografie imperiali (otto delle quali raggruppano più vite), che abbracciano un arco di tempo compreso fra l’assunzione al trono di Adriano (117 d.C.) e la fine del regno di Carino e Numeriano (284-285 d.C.). Oltre alle vite degli imperatori ufficialmente regnanti (Augusti), la silloge include anche biografie, più brevi, di eredi designati alla successione (Caesares), pretendenti ed usurpatori (tyranni). Nel testo a noi pervenuto si apre una vasta lacuna, corrispondente ai regni di Filippo l’Arabo, Decio, Treboniano Gallo e Volusiano (anni 244-253 d.C.), che si estende a coinvolgere la prima parte della biografia dedicata ai due Valeriani. Si ritiene inoltre probabile, data la totale assenza di una presentazione proemiale nella Vita Hadriani, che in origine la Historia Augusta avesse inizio con le biografie di Nerva e di Traiano, onde ricongiungersi, secondo una consolidata tradizione della storiografia antica, al punto preciso (il principato di Domiziano), dove si erano concluse le opere dei predecessori: Tacito e, soprattutto, Svetonio, l’autore delle Vitae Caesarum. Problemi di datazione e attribuzione Nei codici manoscritti l’opera viene attribuita a sei autori, altrimenti ignoti: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Vulcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco. Le trenta biografie, di ampiezza assai variabile, sono distribuite fra i sei autori in misura ineguale, senza ordine apparente. Quanto alla datazione, la silloge appare composta fra il 285 e il 337, come attesterebbero le dediche e le apostrofi agli imperatori regnanti in quegli anni (da Diocleziano a Costantino) disseminate in vari luoghi dell’opera. Tuttavia, la presenza di anacronismi e di incongruenze anche vistose ha indotto gli studiosi moderni a revocare in dubbio l’autenticità dei nomi degli autori (e la loro stessa esistenza), nonché dello scenario storico-cronologico nel quale la raccolta pretende di collocarsi. Una falsificazione di epoca teodosiana? Una sostanziale uniformità di stile e di linguaggio fa pensare che dietro sei nomi fittizi si celi la mano di un unico, anonimo autore, che avrebbe operato in un’epoca alquanto più tarda. Delle numerosissime ipotesi formulate nel corso di un serrato dibattito critico che si prolunga da oltre un secolo nel tentativo di circoscrivere il periodo di composizione delle biografie, così come di stabilire l’identità e le intenzioni del presunto falsario (o quanto meno di tracciarne un profilo convincente dal punto di vista sociale, culturale, ideologico), nessuna può essere considerata risolutiva. Nondimeno, una serie di allusioni a personaggi, istituzioni, avvenimenti di fine secolo; una marcata tendenza filosenatoria e tradizionalista che potrebbe rinviare all’ambiente aristocratico della rinascita pagana [ cap. 18.1]; la dipendenza, infine, riscontrata in alcuni luoghi del testo, dal Liber de Caesaribus di Aurelio Vittore, pubblicato dopo il 360 d.C., persuadono oggi la maggioranza degli studiosi a fissare la cronologia dell’opera all’epoca di Teodosio o, al più tardi, del successore Onorio, fra i due estremi del 379 e del 423 d.C. Il modello principale è Svetonio Nell’introduzione alla Vita di Probo (2, 7), “Flavio Vopisco”, riprendendo l’ormai canonica distinzione fra storia e biografia, tiene a dichiarare i propri modelli. Accanto a Mario Massimo, autore di una per569 © Casa Editrice G. Principato


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PROFILO STORICO

duta raccolta di vite imperiali da Nerva ad Elagabalo, spicca ovviamente Svetonio, il più illustre rappresentante del genere. Svetoniana è, con ogni evidenza, la struttura delle vite: il biografo segue in linea di massima l’ordine cronologico fino alla proclamazione imperiale, passando poi ad organizzare i materiali per species o categorie, per ritornare al criterio cronologico nell’imminenza della morte, preceduta da un acconcio catalogo di omina mortis e seguita, eventualmente, dal resoconto delle esequie e degli onori postumi, da una descrizione fisica dell’estinto, o ancora da un giudizio complessivo sul suo operato. Di fatto, l’imitazione riguarda i tratti più esteriori, e forse deteriori, della maniera svetoniana. Viene portata all’esasperazione la tendenza a privilegiare la notizia curiosa, il dettaglio eccentrico, l’aneddoto piccante e scandaloso [ T10 ONLINE ], che tradisce il gusto del pettegolezzo fine a se stesso. Tendenza filosenatoria Il giudizio pronunciato dai biografi sui vari imperatori, invariabilmente stereotipato e almeno in apparenza rigidamente moralistico, sembra informarsi ad un unico criterio: indipendentemente dall’effettiva portata storica del loro operato, boni e optimi principes sono quelli che hanno governato in accordo con il senato, mostrandosi rispettosi verso le prerogative della vetusta assemblea; pessimi o in qualche modo criticabili (compreso Adriano) tutti gli altri. Falsificazione dei documenti Gli autori seguono il metodo svetoniano anche nell’inserzione di documenti “originali”: epistole, decreti del senato, leggi, discorsi, atti e proclamazioni ufficiali vengono profusi a piene mani nel corso dell’esposizione, e in quantità enormemente superiore rispetto al modello. Ma se i documenti citati da Svetonio erano sicuramente autentici [ cap. 12.3], quelli della Historia Augusta appaiono evidenti falsificazioni (con la sola eccezione, probabilmente, del senatoconsulto posto a conclusione della Vita di Commodo). Inattendibilità storica Da quanto si è detto, appare giustificato il verdetto di scarsa o comunque dubbia attendibilità storica pronunciato in ogni tempo sulla Historia Augusta. Nonostante le frequenti professioni di serietà storiografica e l’ostentato dispregio nei confronti degli scrittori proclivi alle dicerie scandalistiche, è ormai assodato che informazioni di buona lega si mescolano inestricabilmente a un coacervo di falsificazioni, notizie improbabili e particolari di fantasia. È peraltro doveroso distinguere un primo gruppo di vite (quelle di Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero, Commodo, Pertinace, Didio Giuliano, Settimio Severo e Caracalla, chiamate dagli studiosi «vite principali»), che offrono un quantitativo piuttosto consistente di dati e materiali storicamente validi, dal resto della raccolta, dove occorre registrare una sorta di processo involutivo, culminante nelle biografie più tarde, attribuite a “Pollione” e “Vopisco”. Il valore documentario dell’opera è ulteriormente inficiato dalla problematica – talora impossibile – individuazione delle fonti utilizzate. Tra le fonti dichiarate, alcune sono autentiche e di un certo rilievo; parecchie del tutto sconosciute e molto probabilmente fittizie. Gusto del divertissement erudito Non è dunque illegittimo supporre, sulla scorta di autorevoli studiosi (in particolare il Syme) che il “segreto” dell’enigmatica Historia Augusta vada cercato piuttosto sul versante del divertissement erudito; che si tratti cioè di una parodia delle forme storiografiche tradizionali messa in570 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

sieme da uno scholasticus, grammatico o retore, abile nell’escogitare detti celebri, estrosi cataloghi e nomi d’invenzione. Fonte di primaria importanza Eppure, nonostante i dubbi, le contraddizioni, i molti interrogativi quasi certamente destinati a rimanere senza risposta, la Historia Augusta costituisce una fonte di primaria importanza, talora unica, per la ricostruzione storica di quel periodo. La scarsità dei documenti superstiti del II e III secolo obbliga gli studiosi moderni a cercare nelle pagine di quest’opera, sia pure con infinite cautele, almeno qualche frammento di verità, chiedendo conferma di ogni singolo dato alle scienze ausiliarie della storia (archeologia, epigrafia, papirologia, numismatica). Lingua e stile Anche dal punto di vista formale gli scrittori della Historia Augusta riprendono, accentuandole, le caratteristiche del modello svetoniano. Lo stile dei biografi (o meglio dell’anonimo autore) appare piuttosto semplice, retoricamente non troppo elaborato ma anche piatto e monotono, sovente trasandato. Mediocre e persino scadente sul piano dell’arte, la Historia Augusta rappresenta un prezioso documento per gli storici della lingua: il testo, aperto a una cospicua immissione di forme del latino tardo, abbonda di volgarismi, voci colloquiali, termini tecnici, vocaboli rari e curiose coniazioni verbali.

Guida allo studio

1.

Per quali ragioni si ritiene che le biografie imperiali della Historia Augusta siano frutto di una falsificazione? A quale epoca risale verosimilmente la compilazione della raccolta?

2. Qual è il modello principale seguito dai biografi della Historia Augusta? Da quali aspetti dell’opera lo si evince? 3. Qual è il grado di attendibilità storica, e d’altra parte il valore documentario, delle trenta biografie?

9 Un poeta di corte: Claudiano La vita e le opere Claudio Claudiano nasce probabilmente ad Alessandria d’Egitto intorno al 370. Le notizie in nostro possesso coprono il decennio 395-404, a cui risalgono numerose opere che, per il loro carattere politico-propagandistico, sono databili con sicurezza. Nel 395 doveva essere già un poeta affermato nell’ambiente senatorio romano, se gli viene affidata la stesura del Panegyricus in onore dei consoli Olibrio e Probino. Tra il 395 e il 402 è poeta di corte a Milano, dove un rapporto assai stretto lo lega al generale vandalo Stilicone, di fatto reggente della parte occidentale dell’impero dopo la morte di Teodosio. Sono di questi anni l’invettiva In Rufinum (396-397), i Panegyrici per il terzo (396) e il quarto (398) consolato dell’imperatore d’occidente Onorio, l’Epithalamium per le nozze di Onorio e Maria, figlia di Stilicone (398), il poema epico-storico De bello Gildonico (398), il Panegyricus dictus Manlio Theodoro consuli (399), l’invettiva In Eutropium (399), il De consulatu Stilichonis (400), e un secondo poema epico, De bello Getico (o Gothico o Pollentino; 402). Quest’elenco cronologico lascia intendere, dietro il mutare delle forme letterarie (panegirico, invettiva, poema epico-storico), il profondo coinvolgimento di Claudiano nella politica 571 © Casa Editrice G. Principato


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18. La rinascita della cultura pagana

PROFILO STORICO

di corte. L’ultima sua opera databile con sicurezza è il Panegyricus de sexto consulatu Honorii del 404; al medesimo anno va forse assegnata l’incompiuta Laus Serenae, dedicata alla moglie di Stilicone. I più ritengono che sia morto poco tempo dopo, al più tardi nel 408, quando Stilicone cadde in disgrazia e fu giustiziato. Agli ultimi anni di vita risale il poemetto epico-mitologico De raptu Proserpinae in tre libri, rimasto incompiuto probabilmente per la morte dell’autore. Fusione dei generi L’aspetto più originale della produzione di Claudiano come poeta di corte è la fusione dei generi. I suoi panegirici contengono molti spunti epici, pur seguendo in linea generale sia i precetti raccomandati dai retori per i discorsi encomiastici sia il modello della panegiristica latina in prosa, fissato da Plinio il Giovane. Allo stesso modo, nei poemi epico-storici legati alla più scottante attualità (la ribellione del mauro Gildone del 397-398; l’invasione dei Goti di Alarico nel 402-403), risulta sempre rilevante l’elemento encomiastico. Claudiano “propagandista” tra committente e pubblico Gran parte di questa produzione “ufficiale” era d’altra parte destinata alla recitazione, davanti al pubblico dell’aristocrazia senatoria a Roma o della corte a Milano. Claudiano doveva soddisfare le esigenze propagandistiche di un potentissimo committente, la corte imperiale cristianizzata e politicamente dominata da Stilicone, cercando di rassicurare un pubblico che comprendeva anche l’aristocrazia pagana, influente soprattutto a Roma. Dal punto di vista religioso, l’onnipresenza del repertorio mitico “pagano” nelle sue opere non implica necessariamente che egli fosse un paganus pervicacissimus (come lo definisce Orosio), dato che tra i suoi committenti c’erano anche cristiani intolleranti come Serena, la moglie di Stilicone. In effetti in molti passi si avverte un generico monoteismo, conciliabile al più con un cristianesimo alquanto tiepido. Poesia mitologica: De raptu Proserpinae Un discorso a parte va fatto per il De raptu Proserpinae: qui la materia è puramente mitica, senza riferimenti diretti alla realtà contemporanea. Il mito del rapimento di Proserpina era già narrato nell’inno omerico a Demetra, ma un modello importante per Claudiano è sicuramente Ovidio (nel libro V delle Metamorfosi).

De raptu Proserpinae Struttura e contenuti dell’opera ▰ Libro I Plutone, irato perché non ha moglie, convoca

un concilio infernale, in cui si decide di sottoporre la questione a Giove attraverso Mercurio. Giove indica come sposa per il dio degli inferi Proserpina, figlia di Cerere: perché Plutone possa rapirla, Venere è incaricata di attirare Proserpina fuori dalla splendida reggia siciliana dove la madre Cerere l’ha nascosta.

▰ Libro II Mentre Proserpina, accompagnata

da Venere, Minerva e Diana, coglie fiori in un incantevole paesaggio primaverile, Plutone emerge dalle profondità sotterranee e la rapisce; l’arrivo della

fanciulla agli inferi [ T11] segna un momento di stupefazione e di festa.

▰ Libro III In un concilio divino, Giove spiega la sua intenzione di donare agli uomini l’agricoltura; Cerere, dea delle messi, angosciata da sogni profetici [ T12 ONLINE ], torna in Sicilia. Non trovando Proserpina, dà sfogo alla sua disperazione e, accese due fiaccole gigantesche al fuoco dell’Etna, va alla ricerca della figlia . Il poema di Claudiano, incompiuto, si ferma qui; in una fase successiva del mito, Cerere dona agli uomini la cerealicoltura e a Proserpina è concesso di trascorrere parte dell’anno agli inferi e parte sulla terra: la sua vicenda di morte e rinascita corrisponde al ciclo delle stagioni e dell’agricoltura.

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PROFILO STORICO

Descrittivismo e arte allusiva È stato sovente osservato come nel De raptu Proserpinae raggiunga esiti particolarmente felici la tecnica descrittiva claudianea. Tra i passi più famosi ricordiamo: l’ékphrasis della tela tessuta da Proserpina nella reggia di Cerere, su cui figura una rappresentazione del cosmo e delle varie zone della terra (I, 246-275); la descrizione dei luoghi intorno a Enna, avvolti da una primavera miracolosa mentre Proserpina esce a raccogliere fiori insieme a Venere, Minerva e Diana (II, 71-150); la potente immagine di Plutone che erompe sulla terra, provocando un momentaneo sovvertimento dell’ordine naturale (II, 186203). In alcuni momenti il poema presenta una grazia pensosa da epillio alessandrino, che ricorda l’Achilleide di Stazio. Lingua, stile, metrica Il latino di Claudiano è sostanzialmente derivato dalla tradizione epica, e quindi costantemente letterario e sostenuto: un retaggio epico è l’uso ormai meccanico delle perifrasi e degli epiteti. La metrica claudianea è di perfezione classica.

Guida allo studio

1.

Illustra gli aspetti salienti dell’attività di Claudiano in quanto poeta di corte, precisando il committente, il destinatario e gli obiettivi propagandistici della sua produzione “ufficiale”.

2. Esponi brevemente i contenuti narrativi del poema De raptu Proserpinae di Claudiano, indicandone fonti e modelli. Per quali ragioni il De raptu appare isolato dalla restante produzione del poeta?

10 Trattati grammaticali e commenti Nuova fioritura dei centri scolastici La ristrutturazione dello Stato romano e il rinnovato prestigio della figura imperiale dopo Diocleziano e Costantino favoriscono la moltiplicazione dei centri scolastici, che conoscono un notevole rigoglio lungo tutto il IV secolo e per una parte del V, prima del definitivo collasso provocato dalle invasioni barbariche. Trattati grammaticali A quest’epoca appartiene il maggior numero di testi scolastici di grammatica a noi noti. Lo schema più consueto prevede tre parti: la prima è riservata alla fonologia; la seconda alla morfologia; la terza ed ultima, al confine tra grammatica e retorica, alle virtutes (le figure retoriche) e ai vitia (barbarismi, solecismi) del discorso. Gli autori più letti sono tra i poeti Terenzio, Virgilio e Orazio, tra i prosatori Cicerone e Sallustio. La diffusione del codex, che soppianta definitivamente il volumen proprio nel IV secolo, favorisce anche sul piano pratico il lavoro di commento e di analisi dei testi. Gli autori Agli inizi del IV secolo operano grammatici come Plozio Sacerdote, autore di un’Ars grammatica, e Nonio Marcello, cui si deve un’enciclopedia grammaticale in venti libri intitolata De compendiosa doctrina. Verso la fine del secolo è attivo a Costantinopoli il cristiano Flavio Sosipatro Carisio, che dedica al figlio 573 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

18. La rinascita della cultura pagana

un’Ars grammatica in cinque libri. Contemporaneamente, a Roma, Foca compone un’Ars de nomine et verbo e una Vita Vergilii in versi. Ma le due personalità più significative e prestigiose operanti tra IV e V secolo sono Elio Donato e Servio. PROFILO STORICO

Donato Attivo in Roma verso la metà del IV secolo, maestro di Rufino e di Gerolamo [ cap. 19.3], Donato scrisse due manuali di grammatica: l’Ars minor, destinata ai principianti, e l’ Ars maior, rivolta agli studenti dei corsi superiori. Nella prima vengono prese in esame le parti del discorso mediante una struttura a domanda e risposta. Nella seconda si affrontano questioni più impegnative; lo schema è quello tripartito cui già si è accennato. Grande fu la fortuna di Donato nell’età medievale: la sua opera, più volte commentata fin dal secolo V, costituì la base degli studi grammaticali, tanto che Donatus, per antonomasia, si chiamò la grammatica stessa. Donato compone anche dei commenti a Terenzio e a Virgilio, che è ormai il poeta più letto e studiato della classicità: lo commentano, nel V secolo, anche Giunio Filargirio (Bucoliche e Georgiche), Tiberio Claudio Donato (cui si devono le Interpretationes Vergilianae) e soprattutto Servio, una delle maggiori personalità letterarie dell’epoca. Servio Maurus (o Marius) Servius Honoratus nacque poco prima del 370. Nei Saturnalia [ 20.6], ambientati nel 383, Servio è infatti raffigurato come un giovinetto. Nella stessa opera, peraltro, egli viene lodato come il maggiore dei grammatici viventi, che ogni giorno commenta Virgilio ai giovani della capitale (Sat. VI, 6,1). La presenza di Servio nei Saturnalia ha tutta l’aria di essere un anacronismo: l’opera fu presumibilmente composta intorno al 430, quando la fama di Servio era al culmine, ed è verosimile che l’autore abbia voluto inserirlo tra gli interlocutori del dialogo a causa del prestigio di cui il grammatico godeva. Intorno ai primi anni del V secolo Servio compose un commento a tutte le opere di Virgilio. Colpisce la vastità di orizzonti del lavoro, che non si ferma ai tradizionali aspetti linguistici e stilistici; i versi sono anzi uno spunto per digressioni di ampia portata culturale, tanto che l’opera dà la sensazione di costituire nel suo complesso una sorta di enciclopedia del sapere antico. Come nei Saturnalia di Macrobio, viene privilegiata un’interpretazione allegorica dei testi virgiliani. Servius Danielinus Del commento sono giunte due redazioni; la più ampia va sotto il nome di Servius Danielinus (da Pierre Daniel, l’umanista francese che rinvenne il codice e ne curò la prima edizione nel 1600) o Servius auctus, cioè «accresciuto» dalle note aggiunte in età medievale, tratte forse dal perduto commento di Donato.

Guida allo studio

1.

Descrivi lo schema ricorrente dei trattati di grammatica del IV secolo, ricordando i testi e gli autori più importanti.

2. Quali sono gli autori più letti e commentati in ambito scolastico nel IV secolo? 3. Chi furono i maggiori grammatici dell’epoca? In quale ambiente operarono?

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PROFILO STORICO

11 La prosa tecnico-scientifica Diffusione dei trattati di argomento tecnico-scientifico Lo sviluppo delle scuole favorì nel IV secolo anche la diffusione di trattati di argomento tecnico-scientifico, alcuni indirizzati ad un pubblico di specialisti, altri di carattere più genericamente formativo. Dalla natura del destinatario dipendeva la scelta del linguaggio e dello stile: se il criterio fondamentale era quello della chiarezza, non mancavano testi di fattura più elaborata, talora perfino in versi. Agricoltura L’agricoltura è un tema ricorrente nella letteratura romana. Tra IV e V secolo è attivo Palladio, autore di un Opus agriculturae (o De re rustica) in tredici libri seguito da un quattordicesimo in distici elegiaci sugli innesti (De insitione). Dopo un primo libro di carattere generale e introduttivo, la materia risulta suddivisa in dodici sezioni, corrispondenti ai dodici mesi dell’anno. Medicina Solo a partire dall’età augustea si erano diffuse in Roma vere e proprie scuole di medicina, seguite dalla produzione di ampi trattati sull’argomento: si ricorderanno gli otto libri De medicina di Celso [ cap. 3.2] e le Compositiones di Scribonio Largo [ cap. 3.4]. Di medicina si parlava anche nei libri XX-XXXII dell’imponente Naturalis historia di Plinio il Vecchio [ cap. 3.7]. Ai secoli IV-VI si deve un’imponente fioritura di testi di medicina, molti dei quali rielaborazioni dal greco o da precedenti opere latine: dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, arricchita di nuovi materiali, deriva ad esempio l’anonima Medicina Plinii in tre libri; dalle Compositiones di Scribonio Largo, anch’esse ampiamente rimaneggiate, il ricettario di Marcello Empirico di Bordeaux, vissuto tra il IV e il V secolo. Arte militare Di arte militare si erano già occupati in passato sia Catone il Vecchio sia Celso in una sezione particolare delle loro enciclopedie. A Frontino si dovevano invece gli Strategemata e un De re militari che non ci è pervenuto [ cap. 3.8]. Del III secolo è il De munitionibus dello pseudo-Igino, altrimenti citato con il titolo De metatione castrorum, su come disporre le truppe all’interno dei castra. Alla seconda metà del IV secolo appartiene l’anonimo De rebus bellicis, prezioso documento sulla tecnica militare romana, ricco di osservazioni sulla vita politica ed economica dell’epoca. Flavio Vegezio, un funzionario imperiale vissuto intorno al 400, è l’autore di un trattato di arte militare dal titolo Epitoma rei militaris. L’Epitoma tratta del reclutamento dei soldati, dell’organizzazione delle legioni, delle strategie belliche, di come condurre un assedio o una battaglia navale. Geografia Già si è detto della Chorographia di Pomponio Mela [ cap. 3.5] e degli itineraria di cui si provvidero in età imperiale sia i comuni viaggiatori sia gli eserciti per i loro spostamenti [ cap. 15.4]. Tra il IV e il V secolo va collocato Vibio Sequestre, autore di un dizionario alfabetico De fluminibus fontibus lacubus nemoribus paludibus montibus gentibus presenti nei poeti latini, in particolare Virgilio, Ovidio, Lucano, Silio Italico.

Guida allo studio

1.

Elenca i più significativi trattati tecnicoscientifici composti a partire dal IV secolo, indicandone il titolo, l’autore e l’argomento.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

18. La rinascita della cultura pagana

Materiali

B essenziale

Bibliografia

PROFILO STORICO

ONLINE

LEGGERE UN TESTO CRITICO • F. Canfora, I concetti-chiave dell’ideologia pagana senatoria • M. Yourcenar, «Il lettore moderno nell’Historia Augusta è a casa propria» BIBLIOGRAFIA ESTESA

� La cultura pagana nel IV secolo AA.VV., Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, Tor ino 1968; S. D’Elia, Introduzione alla civiltà del Basso Impero, Napoli 1972; A.H.M. Jones, Il tramonto del mondo antico, Bari 1972; A. Cameron, Paganism and Literature in Late Fourth Century Rome, in Entretiens sur l’antiquité classique, 23, 1977, pp. 1-40; AA.VV., Società romana e impero tardoantico, IV (Tradizione dei classici, trasformazioni della cultura), a cura di A. Giardina, Bari 1986; S. Roda, Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà provinciale, in Storia di Roma, III/1 (La cultura tardoantica. Crisi e trasformazioni), cit., pp. 643-674. � La poesia pagana del IV secolo Edizioni: Publilio Optaziano Porfirio, Carmi, a cura di G. Polara, Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli 1976; I carmi e i frammenti di Tiberiano, a cura di S. Mattiacci, Olschki, Firenze 1990; Il «De rosis nascentibus», traduzione e commento di G. Cupaiuolo, Ateneo, Roma 1984; La veglia di Venere (Pervigilium Veneris), a cura di A. Cucchiarelli, Rizzoli (BUR), Milano 2003. � Ausonio Edizioni: Opere di Decimo Magno Ausonio, a cura di A. Pastorino, UTET, Torino 1971; La Mosella e altre poesie, a cura di L. Canali, Mondadori 2011. Studi: F. Benedetti, La tecnica del «vertere» negli epigrammi

di Ausonio, Firenze 1980; E. Di Lorenzo, Ausonio. Saggio su alcune componenti stilistiche, Napoli 1981; F. Della Corte, Ausonio e il suo tempo, «Cultura e scuola», 28, 1989, pp. 64-70; A. Traina, Su Ausonio «traduttore», in Poeti latini (e neolatini), Bologna 1989; L. Vannucci, Ausonio fra Virgilio e Stazio, «Atene e Roma», 34, 1989, pp. 39-54; • A. La Penna, Il «lusus» poetico nella tarda antichità. Il caso Ausonio, in Storia di Roma, III/2 (L’età tardoantica. I luoghi e le culture), Torino 1993, pp. 731-751. � Simmaco Per la vicenda dell’Ara della Vittoria: La maschera della tolleranza. Ambrogio, Epistole 17 e 18; Simmaco, Terza Relazione, introduzione di I. Dionigi, trad. di di A. Traina, con un saggio di M. Cacciari, Rizzoli (BUR), Milano 2006. Studi: D. Romano, Simmaco, Palermo 1955; G. Lo Menzo Rapisarda, La personalità di Simmaco e la III Relatio, Catania 1967; F. Canfora, Simmaco e Ambrogio, Bari 1970. � Panegyrici Latini Edizioni: Panegirici Latini, a cura di D. Lassandro e G. Micunco, UTET, Torino 2000. Studi: F. Del Chicca, La struttura retorica del panegirico latino tardoimperiale in prosa. Teoria e prassi, «Annali della Facolta di Lettere e Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari», 6, 1985, pp. 79-113; D. Lassandro, Sacratissimus imperator: l’immagine del princeps nell’oratoria tardoantica, Bari 2000.

576 © Casa Editrice G. Principato

� Storici e biografi I. Lana, La dissoluzione della storiografia pagana negli ultimi secoli di Roma, Torino 1963. � Ammiano Marcellino Edizioni: Le storie, a cura di A. Selem, UTET, Torino 1973 (poi TEA, 2 voll., Milano 1994); Storie, a cura di A. Resta Barrile, 4 voll., Zanichelli, Bologna 1973. Studi: A. Selem, Giuliano l’Apostata nelle «Storie» di Ammiano, Roma 1979; V. Neri, Costanzo, Giuliano e l’ideale del civilis princeps nelle «Storie» di Ammiano Marcellino, Roma 1984; F. Cupaiuolo, Ammiano e il cristianesimo. Religione e politica nelle «Res gestae» di Ammiano Marcellino, Bologna 1985; T.D. Barnes, Ammianus Marcellinus and the Representation of Historical Reality, Ithaca & London 1998. � Historia Augusta Edizioni: Scrittori della Storia Augusta, a cura di P. Soverini, 2 voll., UTET, Torino 1983 (poi TEA, 4 voll., Milano 1993). Studi: S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II, 2, Bari 1966, pp. 214-247; A. Chastagnol, Recherches sur l’«Histoire Auguste», Bonn 1971; R. Syme, Emperors and Biography. Studies in the «Historia Augusta», Oxford 1971; P. Soverini, Problemi di critica testuale nella «Historia Augusta», Bologna 1981; R. Syme, «Historia Augusta» Papers, Oxford 1983; P. Soverini, Tra retorica e politica. Studi su Plinio il Giovane, Frontone e la «Historia Augusta», Bologna 1988. � Claudiano Edizioni: Il rapimento di


PROFILO STORICO

essenziale

Bibliografia

B

Sintesi

S

Proserpina. La guerra dei Goti, a cura di F. Serpa, Rizzoli (BUR), Milano 1981; Elogio di Serena, a cura di F.E. Consolino, Marsilio, Venezia 1986; De bello Gothico, edizione critica, traduzione e commento a cura di G. Garuti, Pàtron, Bologna 2000; Il rapimento di Proserpina, a cura di L. Micozzi, Mondadori (OSCAR), Milano 2013. Studi: D. Romano, Claudiano,

Pa l e r m o 1 9 5 8 ; A . Fo , Studi sulla tecnica poetica di Claudiano, Catania 1982; I. Gualandri, Il classicismo claudianeo: aspetti e problemi, in AA.VV., Metodologie della ricerca sulla tarda antichità, Napoli 1990, pp. 25-48. � Grammatica e retorica G. Morelli, Ricerche sulla tradizione grammaticale latina, Roma 1970; H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’anti-

chità, Roma 1971; G. Kennedy, The art of Rhetoric in the Roman World, Princeton 1972. � Prosa tecnico-scientifica Edizioni: Vegezio, L’arte della guerra, a cura di M. Pellegrini, Mondadori, Milano 2001. Studi: R. H. Rodgers, An Introduction to Palladius, London 1975; F. Prontera, Geografia e geografi nel mondo antico. Guida storica e critica, Roma-Bari 1983.

La rinascita della cultura pagana Le iniziative politiche, amministrative e militari promosse da Diocleziano e Costantino, poi da Teodosio, assicurano all’impero un periodo di relativa stabilità che si protrae sino alla fine del IV secolo. Si assiste a una rinascita degli studi e a una ripresa del mecenatismo, che favoriscono una nuova, imponente fioritura letteraria. L’affermazione politica del cristianesimo determina per contrasto il risveglio della cultura pagana, suscitando tentativi di reazione alla progressiva cristianizzazione della vita pubblica; reazione che si esplica sia sul piano politico e religioso sia su quello storico-culturale. Giuliano, imperatore dal 361 al 363, avvia un programma di restaurazione degli antichi culti e della tradizione pagana. Il progetto si dissolve con la sua improvvisa morte durante la sfortunata campagna contro i Persiani. Intanto, nella città di Roma, l’aristocrazia senatoria pagana tenta un’ultima affermazione della propria identità storica e nazionale. Le maggiori personalità sono Agorio Pretestato, Nicomaco Flaviano e Simmaco; tutti e tre figurano quali protagonisti nei Saturnalia di Macrobio, l’ultima opera che si proponga di celebrare il paganesimo. Il recupero dei tradizionali valori della romanità implica anche la difesa dei classici latini, di cui si approntano nuove edizioni e commenti: un’operazione significativa, ma ristretta entro gli angusti confini della colta aristocrazia pagana. Dall’epoca dei novelli, la poesia latina pagana aveva percorso la strada del virtuosismo tecnico e del lusus, concentrandosi sugli aspetti formali e sperimentali della composizione poetica. A que-

sta tradizione vanno ricondotti i preziosi carmina figurata di Optaziano Porfirio; anche Tiberiano si ispira per diversi aspetti al novellismo, ma nei suoi carmina tratta contenuti più elevati, manifestando un gusto più sobrio. Anonimi sono giunti i carmi forse più raffinati e suggestivi dell’età tardoimperiale, il Pervigilium Veneris e l’elegia De rosis nascentibus. Carattere autobiografico hanno i versi di Naucellio, compresi negli Epigrammata Bobiensia; Avieno compone tre opere di tradizionale impianto didascalico; Aviano si dedica al genere favolistico. Ausonio di Bordeaux (310-393 o 394 d.C.), insignito di prestigiose cariche dagli imperatori Valentiniano e Graziano, svolge una politica filosenatoria e conservatrice, fondata sulla tolleranza religiosa e sulla preminenza dei tradizionali valori della cultura pagana. Esautorato dagli incarichi pubblici nel 383, si ritira a Bordeaux dedicandosi agli otia letterari. Il corpus di Ausonio comprende opere encomiastiche, componimenti scolastici, epistole, Epigrammata. Fra le sue opere più felici, il canzoniere per Bissula; il suo capolavoro è la Mosella, un poemetto in esametri all’incrocio fra il carme odeporico, l’encomio e l’idillio. Quinto Aurelio Simmaco (ca 340 - post 402), uno dei più autorevoli rappresentanti della cultura pagana del IV secolo, rivestì importanti cariche pubbliche e si distinse nell’ambito dell’oratoria e dell’epistolografia. Il suo nome è specialmente legato all’episodio dell’altare della Vittoria e agli infruttuosi tentativi di impedire la rimozione dalla Curia del venerabile monumento (382-384). Con l’eccezione di Ammiano Marcellino, la let-

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

18. La rinascita della cultura pagana

Sintesi

PROFILO STORICO

S

teratura latina non conosce più storici di alto livello dopo la morte di Tacito. Si assiste a un’involuzione del genere storiografico: gli storici posteriori al II secolo appartengono ai nuovi ceti dell’apparato burocratico imperiale e sono quindi legati direttamente ai prìncipi; di qui l’assenza di profondità e problematicità storica, così come di riflessione politica. Le forme più diffuse sono quelle del compendio (o breviario) e del riassunto (o epitome). Al IV secolo risalgono verosimilmente le Periochae, spogli e sbrigativi resoconti dei libri Ab urbe condita di Livio; tra IV e V si datano le Epitomi dell’opera di Valerio Massimo. Al genere del breviario vanno ascritte le opere di Eutropio e di Festo. Ammiano Marcellino, siriano di Antiochia (ca 330 - ca 400 d.C.), intraprese la carriera militare; nel 363 partecipò alla spedizione di Giuliano in Persia. Verso il 380 si stabilì a Roma, dove attese alla composizione della sua opera storica, i Rerum gestarum libri XXXI («Storie»); la narrazione, in forma (non rigorosamente) annalistica, interrotta da frequenti excursus, si estendeva dal 96 al 378 d.C., abbracciando le vicende dell’Oriente e dell’Occidente. Sono pervenuti integri i libri XIV-XXXI. Ammiano, contro le tendenze dominanti della sua epoca, vuole farsi continuatore della grande tradizione storiografica di Roma, e in particolare dell’opera di Tacito, cui lo avvicinano l’austero moralismo e una visione del mondo e della storia profondamente pessimistica, oscillante e incerta. La storia di Ammiano è una sequela di violenze, di abusi e di orrori; la minaccia barbarica che incombe sui territori dell’impero assume la consistenza di un incubo. Unico spiraglio di luce, subito richiuso, il brevissimo regno di Giuliano. Eppure, in stridente contrasto con il fosco quadro di irreparabile sfacelo che emerge dalle sue stesse pagine, Ammiano professa una fede incondizionata nel mito di Roma Aeterna, nella grandezza perenne della città. Sotto il titolo di Historia Augusta sono raccolte trenta biografie imperiali, dall’assunzione al trono di Adriano (117 d.C.) alla fine del regno di Carino e Numeriano (284-285 d.C.). Nei codici l’opera viene attribuita a sei autori, altrimenti ignoti: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Vulcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco. La silloge appare composta fra il 285 e il 337, ma anacronismi e incongruenze hanno indotto gli studiosi moderni a revocare in dubbio l’autenticità dei nomi degli autori nonché la datazione esibita. Una marcata tendenza filosenatoria e tradizionalista potrebbe rinviare all’ambiente aristocratico della rinascita pagana; altri indizi fanno pensare a una falsificazione

di epoca teodosiana, forse dovuta a un unico autore. Il modello principale è Svetonio; ma l’imitazione riguarda i tratti più esteriori (e forse deteriori) della maniera svetoniana. Appare giustificato il verdetto di inattendibilità storica; d’altro canto non è illegittimo supporre che si tratti di un divertissement erudito, e persino di un’estrosa parodia, specie nelle biografie più tarde. Claudio Claudiano (ca 370 - ca 408 d.C.), nato probabilmente ad Alessandria, fra il 395 e il 402 è poeta di corte a Milano, dove si lega al potente generale vandalo Stilicone. Compone un gran numero di opere: panegirici, poemi epico-storici, invettive, nelle quali si riscontra un’originale tendenza alla fusione dei generi, mentre risulta sempre rilevante l’elemento encomiastico. Onnipresente il repertorio mitico pagano, nonostante Claudiano operi nella corte imperiale cristianizzata, di fatto cercando nel contempo di rassicurare il pubblico dell’aristocrazia pagana; in ogni caso gli si può attribuire un generico monoteismo, conciliabile al più con un cristianesimo alquanto tiepido. Dalla sua produzione “ufficiale” si distacca il poema incompiuto De raptu Proserpinae in tre libri, dove la materia è puramente mitica, esente da riferimenti diretti alla realtà contemporanea. Il mito del rapimento di Proserpina era antichissimo, ma il principale modello dell’autore è il V libro delle Metamorfosi di Ovidio. Esiti particolarmente felici raggiunge qui la tecnica descrittiva di Claudiano; non mancano momenti di grazia idillica nel gusto dell’epillio alessandrino. Il linguaggio è costantemente letterario e sostenuto. Durante il IV secolo e una parte del V i centri scolastici conoscono un notevole rigoglio: a quest’epoca appartiene il maggior numero dei trattati grammaticali e dei commenti ai testi a noi noti. Le due personalità più significative sono Elio Donato e Servio; entrambi godettero di grande fortuna nell’età medievale. A Donato si devono due manuali di grammatica, l’Ars minor e l’Ars Maior, e i commenti a Terenzio e Virgilio; a Servio un commento di ampia portata culturale a tutte le opere di Virgilio, dove viene privilegiata l’interpretazione allegorica. Lo sviluppo delle scuole favorì nel IV secolo anche la diffusione di trattati di argomento tecnico-scientifico, alcuni indirizzati ad un pubblico di specialisti, altri di carattere più genericamente formativo, dedicati a temi ricorrenti nella letteratura romana: agricoltura, medicina, arte militare, geografia. In diversi casi si tratta di rifacimenti di note opere composte in epoche precedenti.

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Percorso antologico Naucellio T1

«Sfogliando i dotti libri degli antichi» (Epigrammata Bobiensia 5)

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Optaziano Porfirio T2

Un carme figurato: la nave del mondo (Carmina 19)

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Pervigilium Veneris T3

La veglia di Venere

Ausonio T4

Poesie per Bissula (Bissula 4-5)

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Sulla via della Mosella (Mosella 1-22)

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Lodi del fiume (Mosella 23-81)

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Simmaco T7

L’altare della Vittoria (Relatio de ara Victoriae 1-10)

Ammiano Marcellino T8

Morte di Giuliano (Rerum gestarum XXV, 3)

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I Goti attraversano il Danubio (Rerum gestarum XXXI, 4, 1-6)

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Historia Augusta T10

Vita dissoluta e stravagante di Carino (Carus et Carinus et Numerianus 16-18, 2)

Claudiano T11

Il Tartaro in festa (De raptu Proserpinae II, 326-360)

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Il sogno di Cerere (De raptu Proserpinae III, 67-110)

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

18. La rinascita della cultura pagana

Optaziano Porfirio T2

Un carme figurato: la nave del mondo

Carmina 19

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Pervigilium Veneris T3

La veglia di Venere

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Ausonio T4

Poesie per Bissula

Bissula 4-5

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T 5 Sulla via della Mosella PERCORSO ANTOLOGICO

Mosella 1-22 LATINO ITALIANO

Nota metrica: esametri.

Il poemetto inizia con il racconto del viaggio che conduce il poeta, per luoghi disabitati e selve oscure, alle rive lucenti della Mosella. La nettezza della visione e il vigore impressionistico delle descrizioni sono filtrati attraverso raffinati richiami letterari all’Eneide di Virgilio. Nel libro VI (vv. 640-641), dopo aver percorso le vie tenebrose, Enea giunge ai campi luminosi dell’Eliso. Virgilio annota: Largior hic campos aether et lumine vestit/ purpureo solemque suum, sua sidera norunt («Più limpido è il cielo e veste di luce/ viva le pianure: un loro sole e loro stelle conoscono»). L’imitazione virgiliana ai vv. 12-13 fa scattare un paragone fra l’arrivo di Ausonio sulle rive della Mosella e quello di Enea alle sedi dei beati: la luce pura e serena della Mosella è resa più intensa dal confronto implicito con la luminosità radiosa degli Elisi. Anche il sintagma caligine caelum (v. 15) sottintende un confronto con Eneide XI, 187 (da cui è ricavato): Conditur in tenebras altum caligine caelum («tutto l’alto cielo per caligine fu sepolto nelle tenebre»). La caligo di cui Virgilio parla, tuttavia, non è uno spesso intrico di rami e di fronde ma il fumo che si alza da un rogo funebre. L’allusione mira a conferire una sfumatura cupa e inquietante alla descrizione.

Transieram celerem nebuloso flumine Navam addita miratus veteri nova moenia Vingo, aequavit Latias ubi quondam Gallia Cannas, infletaeque iacent inopes super arva catervae. Avevo attraversato nella bruma la corrente della Nahe veloce, dopo aver ammirato le nuove mura che circondano la vecchia Bingen, là dove i Galli subirono un giorno una sconfitta che eguagliò quella dei Romani a Canne, e dove, senza compianti e senza onori funebri, giacciono nei campi cataste di cadaveri.

1. Navam: la Nahe, un affluente di sinistra del Reno. 2. Vingo: oggi Bingen, alla confluenza della Nahe con il Reno. Qui, nel 71

d.C., Sestilio Felice sconfisse i Treviri, che avevano abbattuto il ponte sulla Nava per impedire il passaggio all’esercito romano. L’episodio è ricordato da Taci-

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to (Hist. IV, 70). Iperbolico il paragone con Canne, dove nel 216 i Romani subirono una gravissima sconfitta ad opera di Annibale.


PERCORSO ANTOLOGICO

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Unde iter ingrediens nemorosa per avia solum et nulla humani spectans vestigia cultus praetereo arentem sitientibus undique terris Dumnissum riguasque perenni fonte Tabernas arvaque Sauromatum nuper metata colonis, et tandem primis Belgarum conspicor oris Noiomagum, divi castra inclita Constantini. Purior hic campis aer Phoebusque sereno lumine purpureum reserat iam sudus Olympum, nec iam consertis per mutua vincula ramis quaeritur exclusum viridi caligine caelum, sed liquidum iubar et rutilam visentibus aethram libera perspicui non invidet aura diei. In speciem tum me patriae cultumque nitentis Burdigalae blando pepulerunt omnia visu: culmina villarum pendentibus edita ripis et virides baccho colles et amoena fluenta subterlabentis tacito rumore Mosellae.

Mi avvio poi per una strada solitaria che corre attraverso una regione boscosa, deserta, senza incontrare più alcun segno di presenza umana; oltrepasso l’arida Denzen, circondata da ogni parte da terre sitibonde, e Taverne, irrigata da una fonte perenne, e i terreni da poco ripartiti tra i coloni sarmatici: ed ecco, finalmente, al limitare del territorio dei Belgi, scorgo Neumagen, celebre campo fortificato del divo Costantino. Più pura è l’aria in queste pianure e Febo, libero ormai da nuvole, dischiude con luce serena il purpureo Olimpo. Non più tra un intrecciarsi di rami si deve andare alla ricerca di un lembo di cielo nascosto dietro un velame di verde, ma l’aria libera e trasparente del giorno apre allo sguardo il chiaro scintillar del sole e la splendente purità del cielo. Tutto quell’amabile spettacolo mi trasportò allora col pensiero al paesaggio della mia patria e alla bellezza della mia splendida Bordeaux: tetti di ville che si elevano lungo il pendio delle rive, colline verdeggianti di vigneti e, ai loro piedi, il corso amabile della Mosella, che fluisce con tacito murmure. (trad. di A. Pastorino) 9. Sauromatum: a coloni sarmati, provenienti dall’Europa orientale, era stato

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Lodi del fiume

da poco affidato il compito di difendere le postazioni lungo i confini del Reno.

Mosella 23-81

12. Phoebus: il sole.

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Simmaco T7

L’altare della Vittoria

Relatio de ara Victoriae 1-10

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

18. La rinascita della cultura pagana

Ammiano Marcellino T 8 Morte di Giuliano Rerum gestarum XXV, 3

PERCORSO ANTOLOGICO

ITALIANO

L’ultima notte di Giuliano, intento a meditare e a scrivere sotto la tenda militare, è funestata da presagi di morte. Dapprima gli appare il Genius publicus, nell’atto di allontanarsi da lui «con il capo e la Cornucopia avvolti da un velo»; subito dopo crede di vedere «una fiaccola ardentissima (flagrantissimam facem), simile a una stella cadente, dileguarsi dopo aver solcato un tratto del cielo» (XXV, 2, 3-4). Ma l’imperatore, come già aveva fatto alla vigilia della spedizione persiana, segnata da una serie impressionante di omina (XXIII, 1-3), non cura i divieti degli aruspici e ordina che siano levate le tende. Sorto il nuovo giorno, all’improvviso i Persiani attaccano l’esercito in marcia: nel pauroso disordine della mischia, Giuliano, trascurando di indossare la corazza, accorre in aiuto delle schiere che minacciano di cedere; ma quando i nemici sembrano ormai dispersi, un dardo lanciato da mano ignota lo colpisce mortalmente, trapassandogli il fegato. All’orrido fragore della battaglia succede, in un violento contrasto tonale, lo spazio quieto e raccolto della tenda, dove l’imperatore prende serenamente congedo dai suoi fedeli e dalla vita con un nobile discorso. Nel costruire la scena della morte esemplare di Giuliano lo scrittore si ispira palesemente a modelli di diversa natura ed origine, dal Fedone platonico e dalla morte di Trasea Peto negli Annales di Tacito (XVI, 34) alla Ciropedia di Senofonte (il “testamento parlato” di Ciro il Vecchio liberamente tradotto da Cicerone nel Cato maior) ai Ricordi dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio (XII, 36), armonizzandoli in un insieme coerente e suggestivo. Due figure fondamentali si incrociano e si sovrappongono in questo episodio, che consacra la morte “filosofica” di un rector rei publicae: quella del saggio socratico e quella dell’ottimo principe, il monarca salvifico rapito dal destino al culmine della sua aristía guerriera. Così Giuliano si dichiara pronto a morire senza rimpianti, forte del ricordo di una vita pura, trascorsa nell’osservanza delle virtutes filosofiche, persuaso che – secondo l’insegnamento di Platone – l’anima immortale sia in procinto di liberarsi dalla prigione corporea per ricongiungersi alla sua origine celeste; ma, subito dopo, aggiunge che se ne va lieto (gaudens... abeo) in quanto può disegnare con mano ferma il quadro del suo buon governo: conscio di aver rettamente esercitato il potere, si avvia a ricevere il premio che secondo Cicerone (Somnium Scipionis 13; 16) attende, nelle luminose plaghe della Via Lattea, i reggitori dello Stato.

[1] Allorché partimmo da quella località, i Persiani, che per le sconfitte spesso subite avevano terrore delle battaglie campali con la fanteria, tesero insidie e ci seguivano nascostamente osservando da alti colli da entrambe le parti la marcia delle schiere, in modo che i nostri soldati, messi in sospetto, per tutta la giornata né costruissero un vallo né si fortificassero con palizzate. [2] Mentre i fianchi erano efficacemente protetti e l’esercito, come esigeva la natura del terreno, avanzava in formazioni quadrate, ma non compatte, fu annunciato all’imperatore, il quale ancora disarmato s’era spinto innanzi per esplorare, che la retroguardia era stata improvvisamente attaccata alle spalle. [3] Fuor di sé per questa notizia infausta, dimenticò la lorica e, afferrato nella confusione uno scudo, si affrettava a portare aiuto alla retroguardia, ma fu distolto da un’altra preoccupazione, poiché gli veniva annunciato che anche i soldati della prima linea, dai quali s’era

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allontanato, stavano subendo un eguale attacco. [4] Mentre, dimentico di sé stesso e del pericolo che correva, si affrettava a porre riparo a queste minacce, da un’altra parte uno squadrone di corazzieri persiani attaccò le centurie del centro. Gettatisi con impeto sopra il lato sinistro che già aveva ceduto, poiché i nostri non sopportavano il fetore ed il barrito degli elefanti, i Persiani combattevano con lance ed un gran numero di dardi. [5] Ma, mentre l’imperatore correva dove il pericolo della battaglia era più grave, balzarono fuori i nostri fanti armati alla leggera e colpirono ai garetti ed alle spalle i Persiani messi in fuga e così pure le fiere. [6] Quando Giuliano, incurante di se stesso, con grida ed alzando le mani cercò di indicare chiaramente che i nemici trepidanti s’erano dispersi in fuga, e, eccitando l’ira di quanti li inseguivano, si gettò audacemente nella mischia, da tutte le parti gli gridavano le guardie del corpo, disperse dal terrore, che evitasse la massa dei soldati in fuga come il crollo di un tetto mal costruito. Ma improvvisamente, non si sa donde provenisse,1 una lancia della cavalleria gli sfiorò il braccio ed attraverso le costole gli si conficcò fra i lobi più bassi del fegato. [7] Mentre tentava di estrarla con la destra, s’accorse che i nervi delle dita gli erano stati recisi dal ferro aguzzo da entrambe le parti. Cadde da cavallo e, soccorso immediatamente dai presenti, fu riportato nell’accampamento dove fu sottoposto alle cure dei medici. [8] Poco dopo, diminuito alquanto il dolore, cessò di temere e, lottando con grande coraggio contro la morte, chiedeva le armi ed il cavallo per ridare fiducia alle truppe con il suo ritorno in battaglia e per mostrarsi non ansioso per la propria sorte, ma profondamente preoccupato per la salvezza altrui. Dava prova, sebbene in una situazione ben diversa, dello stesso vigore con cui quel celebre comandante Epaminonda, colpito a morte a Mantinea,2 dopo essere stato riportato nella sua tenda, chiedeva con affannosa cura il suo scudo. Allorché lo ebbe visto vicino, si rallegrò e morì per la gravità della ferita, di modo che chi intrepido perdeva la vita, temeva per la perdita dello scudo. [9] Ma, poiché la volontà non era sorretta dalle forze e d’altronde egli soffriva per la perdita di sangue, rimase immobile dopo aver perduto la speranza di sopravvivere, dato che, informatosi, aveva appreso che il luogo, dov’era caduto, si chiamava Frigia. Infatti aveva saputo che in questo luogo egli sarebbe morto per volontà del destino. [10] Ma è incredibile con quanto ardore, dopo che l’imperatore fu riportato nella tenda, i soldati si slanciassero a vendicarlo fuori di sé per l’ira ed il dolore, battendo le lance sugli scudi e decisi anche a morire, se questa fosse la volontà

1. non si sa da dove provenisse: in un capitolo successivo (XXV, 6, 6) Ammiano insinua che l’imperatore sia stato ucciso a tradimento dai suoi, ricorrendo all’espediente tacitiano di riferire senza commento i rumores: «i nemici ci attaccarono dalle balze circostanti con dardi

di vario genere e con parole turpi, accusandoci di essere traditori e assassini di un ottimo sovrano. Essi pure avevano appreso dai racconti dei disertori la voce, che s’era diffusa senza sicuro fondamento (rumore incerto), che Giuliano era caduto colpito da un dardo romano».

2. Epaminonda… a Mantinea: Epaminonda di Tebe, caduto nella battaglia di Mantinea in Arcadia (362 a.C.), che vide la vittoria dei tebani contro le forze riunite di Sparta e di Atene.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

18. La rinascita della cultura pagana

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della sorte. Sebbene una densa polvere offuscasse loro la vista ed il calore torrido togliesse vigore alle membra, tuttavia, come se fossero congedati in séguito alla perdita del comandante, si gettavano contro le armi nemiche senza riguardo per la propria vita. [11] D’altra parte i Persiani con maggior coraggio toglievano agli avversari per mezzo di una pioggia di dardi la possibilità di vederli, mentre gli elefanti, che li precedevano lentamente, incutevano terrore ai cavalli ed agli uomini con la grandezza dei loro corpi e con le orrende creste. [12] Pertanto si udiva anche a distanza lo scontrarsi dei guerrieri ed il gemito di quanti cadevano, il nitrire dei cavalli ed il tintinnio del ferro, finché, essendo tutt’e due le parti stanche e sazie di ferite, la notte ormai profonda separò i contendenti. [13] Caddero in quella battaglia cinquanta nobili e satrapi persiani assieme ad un grandissimo numero di soldati semplici; morirono fra gli altri i famosissimi generali Merena e Nohodare. La magniloquenza degli antichi ammiri pure, piena di stupore, le venti battaglie di Marcello3 combattute in diverse località; aggiunga anche Sicinio Dentato4 ornato di un gran numero di corone militari; ammiri inoltre Sergio,5 che, a quanto si tramanda, fu ferito ventitré volte in vari combattimenti, ed il cui ultimo discendente, Catilina, oscurò con macchie indelebili lo splendore delle gloriose vittorie. Tuttavia la tristezza offuscava la gioia per il successo. [14] Quest’era la situazione generale dopo che Giuliano si era allontanato dal campo e, poiché il fianco destro dell’esercito era sfinito dalla stanchezza ed era stato ucciso Anatolio, che ricopriva la carica di capo della cancelleria, il prefetto Saluzio si trovò in una situazione pericolosissima. Ma, liberato dal pericolo per opera di un suo aiutante, riuscì a salvarsi mentre Fosforio, un consigliere che per caso si trovava presente, perdette la vita. Alcuni funzionari di corte e soldati, che in mezzo a numerosi pericoli avevano occupato una fortezza vicina, appena tre giorni dopo poterono ricongiungersi con l’esercito. [15] Nel frattempo Giuliano, che giaceva nella tenda, parlò a quanti gli stavano attorno abbattuti e tristi: «È arrivato, amici, il momento assai opportuno di uscire di vita. Giunto al momento di restituirla alla natura, che la richiede, come un debitore leale mi rallegro e non mi rattristo né mi dolgo (come alcuni pensano), poiché ben so, per opinione unanime dei filosofi, quanto l’anima sia più felice del corpo e penso che, ogniqualvolta una condizione migliore venga separata da quella peggiore, dobbiamo rallegrarci, non dolerci. Penso pure che anche i celesti diedero la morte ad alcune persone piissime6 come massimo compenso. [16] Ma io ben so che mi è stato dato il dono

3. Marcello: il console M. Claudio Marcello, che sconfisse i Galli Insubri a Clastidium (222 a.C.) ed espugnò Siracusa (211 a.C.). 4. Sicinio Dentato: tribuno della plebe nel 454 e 450 a.C., esempio quasi leggendario di virtù bellica secondo quanto

riferisce Aulo Gellio (Noctes Atticae II, 11), che attinge probabilmente a Varrone e attraverso di lui alle remote tradizioni annalistiche. 5. Sergio: combattente nella prima guerra punica (Plinio il Vecchio, Nat. hist. VII, 28).

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6. alcune persone piissime: accenna ad esempi celebri nella tradizione letteraria (Cleobi e Bitone, Agamede e Trofonio) ricordati da Cicerone nelle Tusculanae (I, 113-114).


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della vita perché non soccombessi di fronte a gravi difficoltà, né mai mi umiliassi né mi piegassi, dato che sono ben conscio che tutti i dolori, se da un lato hanno il sopravvento sugli ignavi, cedono di fronte a quanti resistono loro. [17] Né io mi pento di quanto ho fatto, né mi sfiora il ricordo di qualche delitto; sia nel periodo in cui ero costretto all’oscurità ed alla miseria, che dopo essere stato assunto all’impero, ho conservato pura la mia anima (almeno così ritengo), che penso tragga origine dagli dèi immortali ai quali è affine. Giacché ho amministrato la vita civile con equilibrio ed ho mosso ed affrontato guerre dopo matura deliberazione, sebbene non sempre i successi e l’utilità delle decisioni prese vadano di pari passo, poiché forze a noi superiori rivendicano a sé i risultati delle imprese umane. [18] Considerando tuttavia che scopo di un giusto impero è il benessere e la sicurezza dei sudditi, io fui sempre, come ben sapete, più propenso a misure di pace ed esclusi dai miei atti ogni forma di arbitrio, che corrompe le azioni ed i caratteri.7 Me ne vado lieto poiché sono consapevole che, ogniqualvolta lo Stato, come un padre imperioso, mi ha esposto deliberatamente ai pericoli, io sono stato ben saldo, avvezzo com’ero a calpestare i turbini della sorte. [19] Né mi vergognerò d’ammettere che da tempo sapevo, in séguito ad una profezia sicura, che io sarei perito di ferro. Perciò adoro la divinità eterna, perché non muoio in séguito ad insidie nascoste, né dopo una lunga e dolorosa malattia, né condannato come un criminale,8 ma perché ho meritato questa splendida fine a mezzo il corso della mia fiorente gloria. Infatti è giustamente considerato pauroso ed ignavo chi desidera la morte quando non è necessaria come chi la evita quand’è opportuna. [20] Mi basta d’aver detto questo; ora le forze mi vengono meno. Riguardo all’elezione del mio successore, cautamente taccio,9 per non omettere imprudentemente qualcuno che sia degno o per non esporlo all’estremo pericolo nominando chi ritengo adatto a questo compito, se per caso un altro gli venisse preferito. Ma, come un onesto figlio dello Stato, desidero che si trovi dopo di me un buon imperatore». [21] Dopo aver pronunciato serenamente queste parole, distribuì, come con un ultimo decreto, agli amici più intimi il suo patrimonio familiare e chiese di Anatolio, capo della cancelleria. Poiché Saluzio gli rispose che era stato felice,10 ne comprese la fine e pianse vivamente la morte dell’amico, proprio lui che con animo nobile aveva disprezzato la propria. [22] Nel frattempo tutti i presenti piangevano, ma Giuliano, che conservava ancora tutta la sua autorità, li rimproverava affermando che era da vili piangere un sovrano che si stava ricongiungendo al

7. Considerando tuttavia… e i caratteri: riferimento, piuttosto esplicito, a un passo di Cicerone, De officiis I, 85; concetti analoghi ricorrono, peraltro, nella distinzione operata da Giamblico neoplatonico (uno degli auctores di Giuliano) fra tirannide e monarchia. 8. condannato come un criminale: allude alla morte del fratellastro Costanzo

Gallo (354 d.C.), di cui narra Ammiano stesso (XIV, 11). 9. cautamente taccio: nel clima di sospetto, di violenze e di intrighi che si era ormai instaurato nell’ambiente di corte, designare un successore equivaleva spesso a una condanna a morte; come dimostrò puntualmente la fine di Procopio, parente di Giuliano e alto fun-

zionario imperiale, costretto alla fuga e perseguitato con accanimento soltanto perché si era sparsa la voce che il defunto principe l’avesse in extremis destinato alla porpora (XXVI, 6-9). 10. che era stato felice: eufemismo per dire che era morto.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

18. La rinascita della cultura pagana

cielo ed alle stelle. [23] Essi perciò tacquero ed egli disputò profondamente con i filosofi Massimo e Prisco11 sulla nobiltà dell’animo. Ma, essendosi troppo aperta la ferita al fianco dov’era stato colpito ed impedendogli l’infiammazione del sangue di respirare, dopo aver bevuto dell’acqua fredda, spirò serenamente nel cuor della notte all’età di 32 anni. Era nato a Costantinopoli ed era rimasto solo sin dalla fanciullezza in séguito alla fine del padre Costanzo, ucciso dopo la morte del fratello Costantino assieme a molti altri nelle lotte che accompagnarono la successione, e della madre Basilina appartenente ad antica nobiltà. (trad. di A. Selem)

PERCORSO ANTOLOGICO

11. Massimo e Prisco: Massimo di Efeso, seguace della teurgia di Giamblico, fu maestro di Giuliano e autore della sua “conversione” al neoplatonismo; Prisco, anch’egli neoplatonico, nato in Epiro, insegnava ad Atene quando lo conobbe

T9

Giuliano, che lo volle presso di sé e lo ebbe in grande onore come filosofo ed esperto di arti magiche. Dopo la morte di Giuliano, furono entrambi coinvolti, a più riprese, in gravi accuse di magia e di cospirazione: Massimo fu decapitato

I Goti attraversano il Danubio

nel 372 per ordine di Valente (XXIX, 1, 42); Prisco morì probabilmente in Grecia al tempo dell’invasione dei Goti.

Rerum gestarum XXXI, 4, 1-6

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Historia Augusta T 10

Vita dissoluta e stravagante di Carino Carus et Carinus et Numerianus 16-18, 2

Doppia maiorina di Antiochia, raffigurante l’imperatore Giuliano.

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PERCORSO ANTOLOGICO

Claudiano T 11 Il Tartaro in festa De raptu Proserpinae II, 326-360 LATINO ITALIANO

Nel brano che segue, conclusivo del secondo libro, Plutone conduce agli inferi Proserpina. Ad attenderla è l’intero popolo dei morti, che festeggia le nozze divine con un sontuoso banchetto. La discesa agli inferi era un tema obbligato della poesia epica, rielaborato in varie forme dalla poesia tragica e lirica (si rilegga ad esempio Tibullo, Elegiae I, 3, 57-82 [ vol. II, T 2,cap. 4]). Claudiano lo riprende, ma da una prospettiva completamente nuova e rovesciata: l’Erebo non è più il luogo della desolazione e dei supplizi ma delle dolcezze e dei piaceri. I tradizionali personaggi infernali vengono ad assumere, nella magica sospensione della festa, una nuova identità: le Furie preparano crateri di vino; Caronte canta amabilmente sulla sua barca, per una volta vuota di anime; Làchesi cessa di spezzare i fili della vita; i dannati sono liberati dai loro tormenti. Con sorpresa del lettore, l’Ade viene infine a configurarsi secondo i tratti consueti della mitica età dell’oro: scorre vino nel Cocito, latte nell’Acheronte. A ragione Coleridge, il grande poeta romantico inglese, poté osservare che Claudiano, nello scrivere, sembra mosso dall’«assillante bramosa vanità» di stupire i suoi lettori, al punto che «ogni verso, anzi ogni parola si arresta, ti guarda ferma in faccia e chiede e implora la lode» (The Notebooks, novembre-dicembre 1805).

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Pallida laetatur regio gentesque sepultae luxuriant epulisque vacant genialibus umbrae. Grata coronati peragunt convivia Manes; rumpunt insoliti tenebrosa silentia cantus; sedantur gemitus. Erebi se sponte relaxat squalor et aeternam patitur rarescere noctem urna nec incertas versat Minoia sortes. Verbera nulla sonant nulloque frementia luctu impia dilatis respirant Tartara poenis:

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Si rallegra l’esangue paese, il popolo morto fa festa, le larve si danno ai pranzi augurali. Le anime incoronate di fiori siedono a gioioso convito, canti mai prima uditi rompono il tenebroso silenzio, cessano i gemiti. L’Erebo mitiga spontaneamente la sua desolazione e concede che l’eterna notte si diradi, né l’urna di Minosse volge le incerte sorti. Non risuonano percosse; l’empio Tartaro, non più fremente di strazi, respira nella tregua delle pene.

Nota metrica: esametri.

330. Erebi: l’oltretomba. Nella rappresentazione virgiliana (Aen. VI), comprendeva i Campi Elisi, dove si trovavano le anime dei giusti, e il Tartaro (cfr. v. 334), sede dei dannati.

332. urna... Minoia: Minosse è il giudice infernale che urnam movet (Aen. VI, 432), sorteggia cioè i nomi di coloro che dovranno giudicare le anime o, secondo un’altra interpretazione, estrae le sorti

per stabilire chi per primo debba essere giudicato. Cfr. anche Orazio, Carm. II, 3 [ vol. II, T16 ONLINE , cap. 3].

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non rota suspensum praeceps Ixiona torquet; non aqua Tantaleis subducitur invida labris. Solvitur Ixion et Tantalus invenit undas et Tityus tandem spatiosos erigit artus squalentisque novem detexit iugera campi (tantus erat!), laterisque piger sulcator opaci invitus trahitur lasso de pectore vultur abreptasque dolet iam non sibi crescere fibras. Oblitae scelerum formidatique furoris Eumenides cratera parant et vina feroci crine bibunt flexisque minis iam lene canentes extendunt socios ad pocula plena cerastas et festas alio succendunt lumine taedas. Tunc et pestiferi pacatum flumen Averni innocuae transistis, aves, flatumque repressit Amsanctus: fixo tacuit torrente vorago.

La vorticosa ruota non tortura Issìone appeso, ostile l’acqua non sfugge alle labbra di Tàntalo. Issione è slegato, Tantalo raggiunge l’onda, Tizio finalmente solleva le vaste membra e scopre nove iugeri di campo inaridito (tanto grande egli era); il lento aratore dell’oscuro fianco l’avvoltoio, deluso si ritrae dal petto sfinito e si duole che non ricrescano le dilaniate fibre. Dimentiche dei delitti e della temibile collera, le Eumènidi preparano le coppe e con i feroci capelli bevono il vino: deposta l’ira, con miti canti accostano ai bicchieri ricolmi gli aggrovigliati colùbri, e accendono le torce festose di luce nuova. Quel giorno senza danno varcaste, o uccelli, il corso placato del mortifero Averno, e l’Amsanto trattenne i vapori: il baratro tacque con le acque immobili.

335. Ixiona: inizia il tradizionale catalogo dei dannati: Issione, re dei Lapiti, per aver osato insidiare Giunone, fu legato per le estremità ad una ruota che eternamente girava. 336. Tantaleis... labris: per aver trafugato agli dèi nettare e ambrosia, Tantalo era stato condannato ad essere eternamente tormentato dalla fame e dalla se-

te. Differente versione in Lucrezio (De rerum natura III, 980-981). 338. Tityus: il mostruoso gigante ucciso da Apollo per vendicare l’oltraggio recato alla madre Latona. Il suo fegato, perennemente roso da un avvoltoio, continuamente ricresceva. Cfr. Virgilio, Aen. VI, 595-600. 344. Eumenides: le Furie vendicatrici.

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348-349. Tunc... aves: dotta allusione all’etimologia del nome Averno, dal greco àornos («senza uccelli»). Si trattava di un lago craterico, non lontano da Cuma, che emanava pestilenziali esalazioni. 350. Amsanctus: palude irpina dai vapori miasmatici, ov’era situato, nell’immaginazione popolare, un altro ingresso agli inferi.


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Tunc Acheronteos mutato gurgite fontes lacte novo tumuisse ferunt, hederisque virentem Cocyton dulci perhibent undasse Lyaeo. Stamina nec rumpit Lachesis; nec turbida sacris obstrepitant lamenta choris. Mors nulla vagatur in terris, nullique rogum planxere parentes. Navita non moritur fluctu, non cuspide miles; oppida funerei pollent inmunia leti, impexamque senex velavit harundine frontem portitor et vacuos egit cum carmine remos.

Dicono che allora la fonte acherontèa, mutando il flusso, abbia versato ignoto latte e che il Cocìto verde di edera abbia traboccato di dolce vino. Làchesi non spezza il filo, né luttuosi gemiti rispondono ai sacri canti. La morte non si aggira più per il mondo, i genitori non si percuotono ai roghi, non muore tra i flutti il navigante, non è trafitto il soldato. Prosperano le città non toccate dal destino di morte: il vecchio passatore incoronò di canne la fronte scarmigliata e spinse cantando i remi ora leggeri. (trad. di F. Serpa)

353. Cocyton: il «fiume del pianto», le cui acque sfociavano nello Stige. – Lyaeo: tradizionale epiteto di Bacco, con il quale si indicava per metonimia il vino. 354. Lachesis: una delle tre Parche, con Atropo e Cloto: aveva il compito di recidere il filo della vita. 360. portitor: Caronte.

Il rapimento di Proserpina, particolare, affresco da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

T 12

Il sogno di Cerere

De raptu Proserpinae III, 67-110

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

MAPPA LA RINASCITA DELLA CULTURA PAGANA

reazione dell’aristocrazia senatoria romana al cristianesimo – ripristino degli antichi culti: Giuliano (361-363) rinascita degli studi classici – trattati grammaticali e commenti – prosa tecnico-scientifica nuova fioritura letteraria

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virtuosismo tecnico e lusus Optaziano Porfirio: Carmina figurata Tiberiano: varietas metrorum Pervigilium Veneris, “poeti delle rose” Naucellio: carmi autobiografici Avieno: poesia didascalica Aviano: raccolta di favole Ausonio: Mosella Claudiano: De raptu Proserpinae

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Simmaco Panegyrici Latini

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breviari: Eutropio e Festo epitomi: le Periochae dell’opera di Livio Ammiano Marcellino – Rerum gestarum libri XXXI (96-378 d.C., con lacune) – continuatore di Tacito: moralismo e pessimismo – veritas, fides, brevitas, autopsía – decadenza e corruzione del presente – Giuliano principe-filosofo, sovrano ideale Historia Augusta: 30 biografie imperiali (117-285 d.C.) – inattendibilità storica – aneddoti piccanti e scandalosi – gusto del divertissement erudito: una parodia?

• Aspetti della rinascita pagana

La poesia pagana

Oratoria ed epistolografia

IV secolo

Storiografia e biografia

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Completamento

1 Inserisci i dati mancanti della biografia di Ammiano. Ammiano Marcellino nasce intorno al a in Siria. Intraprende la carriera militare, entrando a far parte del corpo scelto dei . Nel 353-354 è a Nisibis in , addetto allo stato maggiore del magister equitum ; per circa sette anni resta al suo fianco nel corso di varie missioni. Nel partecipa alla spedizione di in . , si ritira a vita privata. Ritornato a Viaggia in Egitto e in Grecia; nel 380 si stabilisce a , dove attende alla composizione della sua grande opera storica. Si ritiene sia entrato in contatto con gli ambienti . La data di morte si colloca verosimilmente intorno al .

■ una raccolta di biografie imperiali ■ l’opera storica di Ammiano Marcellino 3. Nei secoli IV-V d.C. le forme storiografiche più diffuse sono ■ la monografia politica e l’annalistica ■ il breviario e l’epitome ■ l’annalistica e la storia universale ■ la monografia geo-etnografica e il breviario 4. Il modello principale di Claudiano nel De raptu Proserpinae è ■ l’Inno omerico a Demetra ■ il IV libro delle Georgiche ■ il V libro delle Metamorfosi di Ovidio ■ la VI Olimpica di Pindaro 5. Nei secoli IV-V d.C. il poeta più letto e commentato è ■ Omero ■ Virgilio ■ Orazio ■ Catullo p._____/5

p._____/12

Totale p._____/25

Collegamento

2 Attribuisci a ciascuna opera citata il nome dell’autore. 1. Descriptio orbis terrae 2. Mosella 3. Relatio de ara Victoriae 4. Liber de Caesaribus 5. Breviarium ab urbe condita 6. Laus Serenae 7. Ars maior 8. Opus agriculturae a. Simmaco b. Donato c. Claudiano d. Avieno e. Eutropio f. Ausonio g. Palladio h. Aurelio Vittore p._____/8

Quesiti a scelta multipla

3

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Il progetto di restaurazione avviato da Giuliano. 2. L’episodio dell’altare della Vittoria. 3. Claudiano poeta di corte. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Tendenze, modelli e argomenti della poesia pagana negli ultimi secoli dell’impero. 2. La Mosella di Ausonio. 3. Intenti, modelli e metodo storiografico di Ammiano Marcellino.

Indica il completamento corretto.

1. Il metro del Pervigilium Veneris è ■ l’esametro ■ il distico elegiaco ■ il senario giambico ■ il settenario trocaico 2. Sotto il titolo di Historia Augusta ci è pervenuta ■ una silloge di panegirici imperiali ■ una biografia di Ottaviano Augusto 591 © Casa Editrice G. Principato

La rinascita della cultura pagana

Verifica finale


19 Il trionfo del cristianesimo 1 Un’affaire del IV secolo: l’altare della Vittoria I fatti Nella curia, fin dall’epoca di Augusto, si trovava una statua alata della dea Vittoria, dinanzi alla quale era situato un altare: su di esso i senatori, entrando, erano soliti bruciare grani d’incenso e prestar giuramento alle leggi di Roma. L’imperatore cristiano Costanzo II, nel 357, aveva dato ordine di rimuovere l’altare dall’aula perché, secondo quanto riferisce Ambrogio, contaminari se putavit, si aram illam videret (Ep. 18, 32). L’altare venne ricollocato nella sua sede originaria non molto tempo dopo, forse durante il breve principato di Giuliano. Nel 382 Graziano, che si era allontanato dagli insegnamenti del maestro Ausonio per accostarsi a quelli del vescovo Ambrogio, annunciava una serie di misure antipagane: rinunciava, primo imperatore di Roma, alla carica di pontefice massimo; privava le vestali e i collegi sacerdotali delle rendite e dei privilegi fiscali; ordinava la confisca dei beni posseduti dai templi; sopprimeva le indennità dello Stato a favore delle cerimonie religiose pagane; imponeva infine di rimuovere l’altare della Vittoria dalla curia. Il senato di Roma, ancora in maggioranza pagano, incaricò Simmaco di recarsi a Milano, sede abituale dell’imperatore in Occidente, per ottenere la revoca di tali provvedimenti; contemporaneamente, i senatori cristiani consegnarono ad Ambrogio una petizione, affinché i decreti di Graziano non venissero abrogati. 592 © Casa Editrice G. Principato


Quid est ergo tempus? Cos’è infatti il tempo? Chi potrebbe definirlo in modo semplice e breve? Chi saprebbe coglierne, anche solo col pensiero, quel tanto che basta per tradurlo in parole? Eppure, vi è una nozione più familiare e nota, nei nostri discorsi, del tempo? E quando ne parliamo, certamente sappiamo quel che diciamo, e lo sappiamo anche quando ascoltiamo un altro che parla. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so: tuttavia, questo posso affermare con fiducia di sapere, che, se nulla passasse, non vi sarebbe un tempo passato, e se nulla venisse, non vi sarebbe un tempo futuro, e se nulla esistesse, non vi sarebbe un tempo presente. (Agostino di Ippona, Confessiones XI, 14, trad. di G. Chiarini)

sermo humilis planus simplex Surgamus ergo strenue Ciceronianus es, non Christianus Ara Victoriae

Recordari volo amare amabam in usum nostrum vindicanda Mentre accoglieva ufficialmente la petizione cristiana, l’imperatore rifiutava di incontrarsi con la delegazione di Simmaco. Nel 383 Graziano veniva ucciso a Lione dall’usurpatore Massimo; imperatore veniva acclamato il fratello Valentiniano II. Simmaco ne approfittava, l’anno successivo, per rinnovare la richiesta di abrogazione dei decreti emanati due anni prima: compose in tale occasione la Relatio de ara Victoriae, che venne inclusa dopo la sua morte nel X libro delle Epistulae [ cap. 18.4 e T7 ONLINE]. Diversamente dal predecessore, Valentiniano accondiscese a prestare ascolto alle richieste del senato romano: la relatio di Simmaco produsse una grande impressione, al punto che Ambrogio si affrettò a comporre due lettere, la prima per richiamare l’imperatore ai suoi doveri di cristiano e per chiedere che si rinviasse temporaneamente ogni decisione, la seconda per confutare il testo di Simmaco: le due lettere fanno oggi parte dell’epistolario ambrosiano (Ep. 17-18). Valentiniano confermò le decisioni prese dal fratello; Simmaco ritornò più tardi alla carica, dapprima con Teodosio (389), in seguito di nuovo con Valentiniano (391), sempre senza successo. La disfatta degli usurpatori Massimo (battaglia di Sciscia del 388) ed Eugenio (battaglia del Frigido del 394), entrambi di orientamento filopagano e senatorio, pose fine ad ogni speranza di riscossa; dopo gli editti di Teodosio del 391 e del 392, la questione dovette apparire quanto meno anacronistica. Nel febbraio 402, peraltro, Simmaco si recò di nuovo a Milano per 593 © Casa Editrice G. Principato


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PROFILO STORICO

conferire con il diciottenne imperatore d’Occidente Onorio. Nello stesso anno, il poeta cristiano Prudenzio componeva i due libri Contra Symmachum [ cap. 19.5]. Ambrogio era morto nel 397; Simmaco morì poco dopo il suo inutile viaggio. La statua della Vittoria (non più l’altare, che era stato definitivamente rimosso) doveva nel frattempo trovarsi ancora nella curia: Teodosio, recandosi in Roma poco prima della sua morte (395), aveva magnanimamente tollerato che essa restasse al suo posto, purché venisse considerata un oggetto d’arte, non un simbolo religioso. Probabilmente venne distrutta durante il sacco del 410, per mano dei barbari di Alarico [ cap. 20.1]. Significato della contesa La vicenda dell’altare può prestarsi a diverse considerazioni; gli interventi di Simmaco e di Ambrogio, in particolare, ci illuminano sulla natura ideologica dello scontro in atto. La tesi centrale del discorso di Simmaco è che le due religioni, cristiana e pagana, non sono incompatibili. Dal momento che nessun uomo può penetrare fino in fondo nel mistero divino, varie debbono necessariamente essere le vie che conducono alla verità: uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum (Rel. de ara Victoriae 10 [ T7 ONLINE, cap. 18]. Il concetto di tolleranza veniva dunque fondato su premesse eclettiche e relativistiche. La visione del mondo di Ambrogio poggiava al contrario sull’idea che Cristo si era rivelato agli uomini, e che esisteva una sola via (unum iter) alla verità e alla fede: tale via era indicata dai testi sacri, parole indiscutibili che escludevano tutte le altre. Alla tolleranza del paganesimo, il cristianesimo rispondeva con la severità della fede militante, che non ammette alternative.

visive

La Vittoria alata di Brescia «Oltre al numen dell’imperatore, la religione ufficiale previde la venerazione di un gran numero di attributi imperiali astratti, come pax, concordia, victoria. Quest’ultima ebbe rilevanza superiore alle altre, tantoché il problema del mantenimento ufficiale del suo culto catalizzò alcuni dei momenti più aspri della polemica tardoantica fra pagani e cristiani» (LizziConsolino). Volta leggermente verso sinistra, la figura femminile è vestita di una tunica fermata sulle spalle (kiton) e di un mantello (himation). La gamba lievemente rialzata e le braccia avanzate fanno pensare che il piede poggiasse sull’elmo di Marte e il braccio sinistro reggesse uno scudo, ora perduti. La figura della Vittoria alata costituisce una variante di una statua della fine del IV secolo a.C., l’Afrodite detta di Capua (ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), raffigurata mentre si ammira seminuda nello specchio che tiene tra le mani. Successivamente lo schema iconografico dell’Afrodite venne trasformato in Vittoria con l’aggiunta della tunica e delle ali e con la sostituzione dello specchio con lo scudo sul quale la divinità incide il nome del vincitore. La Vittoria di Brescia, forse inizialmente realizzata senza ali, aggiunte in un momento successivo, ne costituisce uno degli esempi più conosciuti, e uno dei rari bronzi pervenuti dal mondo antico.

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Statua in bronzo della Vittoria alata, secondo quarto del I secolo d.C. Brescia, Museo di Santa Giulia.

fonti


PROFILO STORICO

Due opposte visioni della storia Centro ideologico del discorso di Simmaco era il rifiuto di ogni novità e l’esaltazione del passato. Sempre nel mondo romano si era guardato alle origini come a un fondamento sacrale: in età imperiale il concetto di tradizione aveva tuttavia acquistato un valore supplementare, politico e sentimentale insieme, era insomma diventato una fede, e aveva alimentato a lungo, negli ambienti senatorii, la resistenza morale al principato. Ogni innovazione, presso gli ambienti del conservatorismo pagano, venne col tempo considerata un elemento negativo: i novatores andavano comunque guardati con sospetto. Proprio a tali concezioni ribatte Ambrogio nell’epistola 18, esaltando la nozione di progresso sia in ambito materiale che spirituale. All’immobilismo conservatore del paganesimo romano, egli oppone una visione dinamica della storia: come l’agricoltore ha trasformato col tempo, in virtù delle conquiste della tecnica, la natura selvatica e restia a produrre i frutti, così l’uomo è passato dalle rozze visioni religiose del primitivo politeismo alla compiuta sapienza del monoteismo cristiano. Una nuova teologia della storia si apprestava a sostituire la tradizionale visione, ciclica e non lineare, del mondo classico. Conclusioni Trattando della storiografia pagana e cristiana del IV secolo, Arnaldo Momigliano osserva come fosse «facile trasformare un manuale pagano in uno cristiano», mentre «era quasi impossibile rendere pagano ciò che era stato creato come cristiano». Ciò che Momigliano annota a proposito della storiografia, può valere su un piano più generale: il cristianesimo si presenta come una cultura più dinamica e aggressiva di quella pagana, a tal punto che può impadronirsi dei materiali dell’avversario senza esserne snaturata. È significativo che né i panegiristi, né gli storici, né i biografi, né gli oratori pagani si attentino in questa fase storica ad attaccare la religione cristiana: nella sua Relatio, lo stesso Simmaco non allude una sola volta al cristianesimo; Ambrogio, nelle sue risposte, può invece permettersi di parlare sprezzantemente e sarcasticamente del paganesimo. I cristiani, diversamente dai loro avversari, erano sostenuti dalla ferma convinzione di trovarsi nel centro della verità: di qui un’energia spirituale, una determinazione intellettuale che si traduceva in una instancabile volontà di trasformazione della realtà storica. «La lettera di Ambrogio è diversissima dalla relazione di Simmaco, ha tutt’altro tono: Simmaco è il funzionario, è il prefetto che si rivolge al sovrano in termini, se fermi, nondimeno rispettosi, deferenti; Ambrogio invece è il vescovo che, proclamandosi interprete d’un potere superiore a quello degli stessi sovrani (ché, come dice, fin l’imperatore, al pari d’ogni mortale, è soggetto a Dio onnipotente), non prega ma comanda, non implora ma minaccia. Siate ben certi – egli osa affermare – che, se voi, prìncipi, decidete contro di noi, noi vescovi non lo tollereremo: rifiuteremo i vostri doni, proibiremo il vostro accesso nella casa del Signore!» (F. Canfora).

Guida allo studio

1.

Ricostruisci le vicende che portarono alla rimozione dell’altare della Vittoria dalla curia romana. 2. Quali furono gli argomenti di Simmaco a favore della sua ricollocazione?

3. Come ribatté Ambrogio a tali argomenti? 4. In che modo, e in quale epoca, si concluse la vicenda? Quale significato assunse nello scontro fra mondo pagano e mondo cristiano? 595

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Educazione CIVICA

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La tolleranza, tra simboli e maschere La disputa sull’altare della Vittoria è tra gli eventi della storia antica che più suscitano discussioni e prese di posizione ancora oggi, perché in essa si intravvede l’archetipo di un conflitto che oppone tolleranza e dogmatismo, oppure, da un altro punto di vista, scetticismo relativista e verità rivelata. Da una parte Simmaco usa la parola dissimulatio per indicare un atteggiamento di “permissività”, la benevola concessione di chi finge di non vedere piuttosto che sanzionare e distruggere: se anche l’imperatore non crede più alla divinità della Vittoria (come forse non ci credono più molti pagani), perché non tollerare la presenza di una statua che simboleggia una tradizione secolare? Dall’altra Ambrogio contrappone alla falsità degli dèi pagani la Verità dell’unico Dio, e, contro il relativismo evocato da Simmaco, l’unicità della via che conduce a Lui; secondo il potente vescovo è bene diffidare dell’aurea lingua (in cui alle nostre orecchie risuonano gli aurea dicta lucreziani) dei sapienti, attraente e ingannevole. Una religiosità aperta, che aveva integrato divinità straniere con il sistema dell’interpretatio, che aveva connesso strettamente le pratiche cultuali all’azione politica, si scontra qui con la religione come Rivelazione. Alcuni, come il filosofo Massimo Cacciari, hanno denunciato nell’atteggiamento di Simmaco una «maschera», una finzione ipocrita che nasconde ben altra combattività, in un paganesimo che, del resto, aveva deposto le armi contro i cristiani da meno

di un secolo. Altri hanno esaltato le espressioni di tolleranza di cui abbonda la Relatio di Simmaco, ultima resistenza del pluralismo pagano contro l’assolutismo monoteista del cristianesimo: secondo lo storico Jan Assman è con il monoteismo che si introduce nella religione la separazione tra vero e falso, accanto a quelle più tradizionali tra puro e impuro, sacro e profano. Insomma, giustamente la disputa tra Simmaco e Ambrogio è stata definita anche un dialogo tra sordi, un confronto impossibile tra due culture che hanno raggiunto un punto di rottura, di incompatibilità. E che si possa giungere a un punto simile rappresenta un problema, in una società multiculturale come la nostra, in cui si confrontano culture e religioni. In particolare, alcuni hanno anche accostato la disputa sulla statua della Vittoria a quella che, alcuni anni fa, ha attraversato l’Italia e altri Stati europei sul tema dell’affissione del crocifisso in luoghi pubblici: è giusto esporre un simbolo religioso quale il crocifisso in un luogo pubblico, specie se si tratta di un’istituzione statale come la scuola? E il crocifisso è un mero “simbolo” culturale, quasi l’omaggio innocuo a una tradizione, o testimonianza concreta di una fede attiva? C’è poi il tema di fondo, che torna a farsi problema in occasioni simili: che cos’è la tolleranza? È sopportazione provvisoria della diversità, in attesa che nel mondo prevalga quella che per noi è la Verità, o è un valore in sé, da difendere sempre e comunque? Inoltre, come si chiedeva il filosofo Jürgen Habermas, «con quanta tolleranza la democrazia deve trattare i suoi nemici?», specie, aggiungiamo, se essi sono intolleranti?

2 Ambrogio La vita e la personalità Le origini Ambrogio (Aurelius Ambrosius) nacque fra il 339 e il 340 a Treviri, dove il padre aveva assunto dal 337 la carica di prefetto del pretorio per le Gallie. Apparteneva a una potente famiglia romana, da tempo convertita al cristianesimo ma legata da vincoli di parentela a quel Simmaco, pagano, che fu in seguito il suo maggior avversario nella contesa per l’altare della Vittoria. Alla morte del padre, Ambrogio si trasferì in Roma insieme alla madre, al fratello Satiro e alla sorella primogenita Marcellina. La carriera civile Dopo i tradizionali studi di grammatica e di retorica, Ambrogio venne avviato alla carriera civile: nel 369 fu consigliere del prefetto del pretorio di Italia, Illirico e Africa, con sede a Sirmio (nei pressi dell’odierna Belgrado); l’anno successivo venne nominato consularis Liguriae et Aemiliae, cioè governatore di un’ampia parte dell’Italia settentrionale, con sede a Milano. 596 © Casa Editrice G. Principato


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L’elezione a vescovo Benché non fosse ancora battezzato, costume assai diffuso all’epoca, nel 374 fu acclamato vescovo della città di Milano, succedendo all’ariano Aussenzio: estraneo fino ad allora agli ambienti del clero, Ambrogio, noto per l’equilibrio e la fermezza dimostrati nell’esercizio delle funzioni civili, dovette apparire l’uomo giusto per mediare tra la fazione ortodossa e quella ariana, da anni in conflitto nella diocesi milanese. L’episodio fu poi narrato, in versione miracolistica, nella Vita Ambrosii di Paolino [ L’elezione di Ambrogio a vescovo di Milano ONLINE]. Ambrogio venne battezzato il 30 novembre 374, ordinato sacerdote nella settimana seguente e infine consacrato vescovo il 7 dicembre dello stesso anno. Ancora ignaro di problemi dottrinali e pastorali, studiò sotto la guida di Simpliciano, un sacerdote di formazione neoplatonica: l’intensità degli studi, rivolti soprattutto alle Sacre Scritture e alla pratica esegetica, è testimoniata da una celebre pagina di Agostino [ La vita quotidiana di Ambrogio, vescovo di Milano ONLINE]. In possesso di una salda cultura retorica, Ambrogio conosceva anche la lingua greca: poté dunque applicarsi alla lettura non solo degli scrittori cristiani di lingua latina, ma anche di autori di lingua greca, sia cristiani (Origene, Atanasio, Basilio di Cesarea), sia pagani (Plotino, Porfirio). L’attività episcopale Straordinaria per energia, fermezza e lucidità intellettuale risultò da questo momento la sua attività nell’ambito pastorale e politico, condotta su tre fronti: lotta al paganesimo; autonomia della Chiesa dall’invadenza del potere imperiale; salvaguardia dell’ortodossia cristiana dagli attacchi interni, in specie dell’arianesimo. Decisivo fu il suo intervento nella questione dell’altare della Vittoria, che sancì la definitiva sconfitta del paganesimo dinanzi alla nuova fede, da poco proclamata religione di Stato (380). Al concilio di Aquileia (381) si batté con successo per la condanna dell’arianesimo. Nel 390 impose a Teodosio, che si era reso colpevole di una strage durante la rivolta di Tessalonica, una pubblica penitenza. Non meno rilevanti furono le iniziative di carattere liturgico, l’attività a favore di poveri e malati, le cure nell’amministrazione del patrimonio ecclesiastico. Ambrogio morì il 4 aprile 397, dopo ventidue anni di episcopato, e fu sepolto nella basilica che porta il suo nome.

▰ Sensibilità naturalistica La descrizione

Exameron ▰ Una raccolta di omelie L’Exameron è la prima

raccolta di omelie in lingua latina che conosciamo. Si compone di nove sermoni pronunciati durante la settimana santa di un anno compreso fra il 386 e il 390.

▰ L’argomento L’argomento è il primo capitolo

della Genesi, che Ambrogio commenta con l’ausilio di una ricca tradizione dottrinale, teologica, filosofica e letteraria. Il primo sermone tratta del cielo e della terra, il secondo della luce, il terzo del firmamento, il quarto delle acque, il quinto delle piante, il sesto del sole, della luna e delle stelle, il settimo dei pesci, l’ottavo degli uccelli, il nono, infine, degli animali e dell’uomo.

dell’universo nascente, in particolare, consente ad Ambrogio di esprimere tutta la sua sensibilità naturalistica in uno stile fresco e agile, ricco di aperture al linguaggio parlato.

▰ Echi della tradizione pagana Frequenti gli echi della tradizione classica: Virgilio soprattutto, ma anche Sallustio, Lucrezio, Ovidio e Orazio.

▰ All’Exameron si ispireranno i bestiari medievali I passi dedicati ai pesci, agli uccelli e in generale alle misteriose e leggendarie narrazioni sulla vita degli animali ispirarono i bestiari medievali, e favorirono la diffusione dell’opera [ T2 ONLINE].

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Il corpus delle opere In vent’anni, pur tra impegni pressanti e continui, Ambrogio compose un ingente numero di opere, che possiamo per comodità dividere in sei gruppi: opere esegetiche; opere ascetico-morali; opere di carattere dottrinale e dogmatico; orazioni; epistole; inni. La maggior parte delle opere è uno sviluppo di omelie, cioè di testi destinati alla predicazione: di qui il carattere di discorso parlato che presentano sovente i suoi scritti.

Le opere esegetiche Più della metà delle opere di Ambrogio sono esegetiche. In alcuni casi l’autore spiega versetto per versetto il testo sacro; in altri il passo biblico è un semplice spunto per discorsi di carattere morale. Esegesi allegorica Sovente Ambrogio ricorre all’interpretazione allegorica, con una predilezione per l’esegesi di tradizione alessandrina e origeniana. L’opera più estesa, divisa in dodici libri, è l’Expositio evangelii secundum Lucam, che resta tuttavia l’unica dedicata al Nuovo Testamento. Fra gli altri titoli, tutti di materia veterotestamentaria: Exameron («I sei giorni della creazione»); De Isaac vel anima («Isacco o l’anima» [ T4]), De Iacob et vita beata («Giacobbe e la vita beata»). Al tema della povertà e della ricchezza sono dedicati tre scritti di particolare interesse; De Helia et ieiunio, De Nabuthae, De Tobia. Il tema della ricchezza Particolare sensibilità Ambrogio rivela per i gravi problemi sociali che la crisi dell’istituzione imperiale e le imminenti invasioni avrebbero presto fatto esplodere. Nel De Nabuthae (385-390) viene affrontato il tema della ricchezza [ T3 ONLINE], nel De Tobia (composto nello stesso periodo) quello del prestito a usura. Partendo da episodi biblici, l’autore si scaglia contro le eccessive ricchezze: chi è ricco sarà escluso dal regno del cieli, a meno che non distribuisca parte del suo patrimonio a chi è povero. Ambrogio non vuole discutere la legittimità della proprietà privata, fondamento della cultura giuridica romana: sostiene tuttavia il diritto di ogni uomo a fruire dei beni della terra. Descrive in quadri di grande forza lo stato di miseria e di rovina causato dall’ulteriore espandersi del latifondismo tardoimperiale, denuncia la disumanità di chi costringe un padre a mettere all’asta i figli per pagare i propri debiti, attacca le sopraffazioni dei potenti nei confronti di chi è povero e indifeso.

Le opere ascetico-morali Particolare interesse Ambrogio rivolse durante gli anni della sua attività episcopale a problemi di natura pratica e morale. Una delle sue opere più significative è il trattato De officiis o De officiis ministrorum, un testo che esemplifica meglio di ogni altro l’incontro fra cultura pagana e cristiana. De officiis Pubblicato intorno al 389, il De officiis è modellato sull’omonima opera in tre libri di Cicerone, dedicata al figlio Marco. Rivolgendosi ai sacerdoti quali «figli», anche Ambrogio divide la materia in tre libri, che trattano, rispettando l’impostazione del modello ciceroniano, dell’honestum (libro I [ T1 ONLINE]), dell’utile (libro II) e dei rapporti fra i due concetti (libro III). Diversi sono tuttavia gli exempla, tratti dal mondo biblico piuttosto che dalla storia romana. Diverso è anche 598 © Casa Editrice G. Principato


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l’apparato concettuale, nonostante le molte analogie fra il pensiero cristiano e la dottrina stoica. Lo stile, chiaro e uniforme, presenta i tratti caratteristici della prosa argomentativa latina: periodi solidamente articolati (con predominio delle proposizioni consecutive); blocchi concettuali chiaramente individuati mediante nessi congiuntivi quali enim, nam, ergo, igitur, itaque, denique. Considerevole è l’uso degli strumenti retorici tradizionali, usati a fini parenetici e persuasivi. Il tema della verginità Un ampio numero di trattati è destinato da Ambrogio al tema della verginità, all’epoca particolarmente dibattuto. Ambrogio non sconsiglia il matrimonio (che alcune sette eretiche, al contrario, avversavano) ma vuole illustrare ai suoi fedeli i virginitatis beneficia e la santità di una vita casta. Le opere, nate in forma omiletica, appartengono alla prima e all’ultima fase dell’attività episcopale di Ambrogio: De virginibus (377), De viduis («Le vedove»; 377), De virginitate (378), De institutione virginis («L’educazione della vergine»; 391-393), Exhortatio virginitatis («Esortazione alla verginità»; 393-394).

Le opere dottrinali e dogmatiche Benché interessato più all’attività pastorale che a quella teologica, Ambrogio compose varie opere di carattere dogmatico, sollecitate in larga misura dagli eventi contemporanei. Non originali sul piano speculativo, tali opere rivelano forza argomentativa e chiarezza concettuale. Opere antiariane Di scottante attualità era la questione ariana, che da ormai mezzo secolo divideva al suo interno il mondo della Chiesa. Fermo sostenitore delle tesi cattoliche, Ambrogio volle confutare le posizioni degli ariani in tre opere: De fide, in cinque libri; De Spiritu Sancto, in tre libri; De incarnationis dominicae sacramento («Il mistero dell’incarnazione del Signore»). Le prime due, entrambe dedicate all’imperatore Graziano, furono scritte fra il 378 e il 381. Sui sacramenti Particolare interesse viene rivolto da Ambrogio al tema dei sacramenti, anch’esso fonte di divisione negli ambienti protocristiani. Già all’epoca di Cipriano [ cap. 17.3] si era a lungo discusso se fosse valido il battesimo conferito dagli eretici o, in generale, se validi potessero essere considerati i sacramenti impartiti da persone indegne. Ancora al tempo di Ambrogio, diverse sette cristiane sostenevano l’esistenza di peccati (ad esempio l’apostasia) che Dio non poteva perdonare. Rigorose ma equilibrate le posizioni assunte in merito da Ambrogio nel De paenitentia: infinita è la misericordia divina; la Chiesa si pone come mediatrice fra Dio e l’uomo.

Le orazioni e le lettere Le orazioni funebri Dato il suo ruolo pubblico, Ambrogio ebbe più volte occasione di pronunciare discorsi di carattere ufficiale. Sono state conservate quattro orazioni funebri, le prime due pronunciate nel 376 (o 378) per la morte del fratello Satiro, una terza nel 392 per le esequie di Valentiniano II, l’ultima nel 395, per la morte di Teodosio. Le due orazioni per il fratello Satiro presentano i motivi tradizionali della laudatio e della consolatio: vengono dunque illustrate le virtù del defunto, ed esposti i 599 © Casa Editrice G. Principato


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motivi di consolazione offerti dalla sua morte. Si è osservata, a questo proposito, l’influenza delle consolationes di Seneca. Nell’orazione per Teodosio è la laudatio a prevalere sulla consolatio. L’imperatore è ricordato per le sue virtù (fede, misericordia, umiltà) piuttosto che per le sue benemerenze storiche, cui si accenna assai brevemente. Un’ampia sezione è occupata dall’excursus sulla ricerca e sulla scoperta della croce di Cristo da parte di Elena, madre di Costantino. Chiaro il significato della digressione: l’imperatore che aveva reso legale il culto di Cristo viene affiancato a Teodosio, colui che aveva proclamato il cristianesimo religione ufficiale dello Stato romano. Non manca l’esortazione ai figli di Teodosio, Onorio ed Arcadio, perché continuino l’opera dei predecessori, instaurando un clima di pace e di collaborazione tra Chiesa ed Impero. Le lettere Anche l’epistolario di Ambrogio, uno dei più cospicui dell’antichità, denuncia una stretta dipendenza dai modelli classici: è infatti organizzato, come quello di Plinio il Giovane, in dieci libri, i primi nove di carattere privato, l’ultimo di carattere pubblico. Le novantun lettere a noi giunte, scritte fra il 379 e il 395, costituiscono una delle fonti più significative per la ricostruzione dei fatti contemporanei, e in particolare per i rapporti fra Chiesa ed Impero [ cap. 19.1]. Alcune sono dei veri e propri trattati di argomento teologico, esegetico e morale.

Gli inni Nonostante i precedenti di Ilario di Poitiers [ cap. 17.8] e di Mario Vittorino [ cap. 17.9], solo con Ambrogio si può dire nasca l’innografia liturgica occidentale. L’occasione Siamo negli anni 385-386, durante gli scontri che oppongono ariani e cattolici in Milano. Ambrogio ha occupato insieme ai suoi fedeli la Basilica Porziana, per evitare che cada nelle mani degli avversari. Agostino, testimone diretto degli avvenimenti, ricostruisce, in una celebre pagina delle Confessioni (IX, 7, 15), il clima di quei giorni: «Non da molto tempo la Chiesa milanese aveva introdotto questa pratica consolante e incoraggiante, di cantare affratellati, all’unisono delle voci e dei cuori, con grande fervore. Era passato un anno esatto, o non molto di più, da quando Giustina, madre del giovane imperatore Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare il tuo campione Ambrogio, istigata dall’eresia in cui l’avevano sedotta gli ariani. Vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a morire con il tuo vescovo, il tuo servo. [...] Fu allora, che s’incominciò a cantare inni e salmi secondo l’uso delle regioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia, innovazione che fu conservata da allora a tutt’oggi e imitata da molti, anzi ormai da quasi tutti i greggi dei tuoi fedeli nelle altre parti dell’orbe» (trad. di C. Carena). Fu Ambrogio a comporre sia il testo sia la melodia degli inni; essi esercitarono un tale fascino sui fedeli, che gli ariani, secondo la testimonianza dello stesso autore, lamentarono che il popolo fosse stato sedotto dal loro potere incantatorio. Problemi di attribuzione La fama e il prestigio di Ambrogio fecero sì che a lui venissero assegnati gran parte degli inni composti in epoche successive, e perciò chiamati «ambrosiani». Cinque gli sono attribuiti senza esitazione, sia per la coerenza dello stile, sia per l’autorevolezza delle testimonianze: Aeterne rerum conditor 600 © Casa Editrice G. Principato


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[ T5]; Iam surgit hora tertia; Deus creator omnium; Intende, qui regis Israel; Splendor paternae gloriae. Controversa l’attribuzione di altri tredici inni, la maggior parte dei quali viene oggi tuttavia assegnata con una certa sicurezza ad Ambrogio. Caratteristiche degli inni La struttura prevalente è quella di otto strofe di quattro versi ciascuna; il metro è il dimetro giambico catalettico. I temi sono vari: si va dall’inno destinato al culto dei santi e dei martiri alle preghiere per le varie ore della giornata o per una festività religiosa. Intende, qui regis Israel è ad esempio un canto per la notte di Natale, Deus creator omnium per la sera; Aeterne rerum conditor veniva intonato al canto del gallo. Il linguaggio è piano e accessibile, ma ricco di immagini vivide e potenti. Ambrogio non rinuncia al tradizionale apparato retorico della poesia latina: predominano simmetrie di costruzioni, figure di ripetizione e riprese lessicali.

Guida allo studio

1.

Racconta come Ambrogio divenne vescovo di Milano, ricordando gli aspetti e i momenti salienti della sua attività pastorale. 2. In quanti gruppi si possono classificare le sue numerose opere? 3. Esponi le caratteristiche delle opere esegetiche di Ambrogio, indicando i titoli più significativi; in particolare, illustra i contenuti e la struttura dell’Exameron. 4. A quale celebre testo classico si richiama il De officiis di Ambrogio? Quali affinità e

quali differenze si riscontrano fra il testo di Ambrogio e il suo modello? 5. Ricostruisci l’episodio storico che segna la nascita dell’innografia liturgica occidentale. 6. Fra gli inni chiamati tradizionalmente «ambrosiani», quali vengono sicuramente attribuiti ad Ambrogio? 7. Individua, anche mediante concreti riferimenti all’inno riportato nella sezione antologica [ T5], i caratteri formali e tematici degli inni ambrosiani.

3 Gerolamo La vita e le opere Le origini Gerolamo (Sophronius Eusebius Hieronymus) nasce negli anni 345-347 a Stridòne, sul confine tra Dalmazia e Pannonia, da un’agiata famiglia di fede cristiana. Gli studi a Roma Verso i dodici anni è inviato a Roma alla scuola di Donato [ cap. 18.10], il celebre grammatico; riceve qui, assieme al conterraneo Rufino, un’accurata e approfondita educazione classica. A Roma viene battezzato da papa Liberio (352-366). Primo viaggio in Oriente Terminati gli studi, Gerolamo si reca a Treviri, residenza dell’imperatore Valentiniano, dove maggiori erano le opportunità per chi voleva intraprendere una carriera nell’amministrazione pubblica. Qui legge la Vita di Antonio scritta da Atanasio [ cap. 17.10], che gli comunica l’entusiasmo per la vita monastica. Più tardi, ad Aquileia, conduce una rigorosa vita ascetica insieme a un gruppo di amici, raccolti sotto la guida spirituale del vescovo Valeriano. Verso la fine del 372, quasi all’improvviso, decide di partire per l’Oriente, non senza portare con sé una ricca biblioteca di testi pagani e cristiani. Nell’autunno del 374 giunge ad Antiochia. 601 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

19. Il trionfo del cristianesimo

PROFILO STORICO

Ciceronianus es, non Christianus Di nuovo attratto dalla vita anacoretica, nei mesi successivi si ritira nel deserto di Càlcide [ T6 ONLINE], in un monastero provvisto di un professore di ebraico e di apprendisti scrivani. Qui, con ogni probabilità, ha luogo l’angosciosa visione del tribunale divino che lo accusa di essere «ciceroniano, non cristiano» [ T7 ONLINE]. A Roma, presso papa Damaso Intorno al 377 Gerolamo ritorna ad Antiochia, dove è ordinato sacerdote. Nel 382 è di nuovo a Roma, dove diviene segretario di papa Damaso, una personalità di vasta cultura [ cap. 16.7] che aveva rapporti con l’aristocrazia romana e con il movimento ascetico. Damaso gli affida l’incarico di rivedere le numerose traduzioni latine del Nuovo Testamento allora correnti, uniformandole sul testo greco originale. Contemporaneamente, diviene direttore spirituale di un gruppo di donne dell’aristocrazia romana. Due di queste, Paola e la figlia Eustochio, lo seguiranno di lì a poco nel nuovo viaggio in Oriente. Ma il rigorismo delle sue posizioni provoca l’ostilità degli ambienti cristiani più mondanizzati, tanto che alla morte di Damaso (11 dicembre 384) Gerolamo deve abbandonare la capitale. A Betlemme, per sempre Nell’agosto 385 inizia il secondo viaggio in Oriente, dove è presto raggiunto da Paola ed Eustochio, insieme alle quali visita i luoghi santi e gli eremi d’Egitto, prima di insediarsi definitivamente, nel 386, a Betlemme. Grazie al cospicuo patrimonio di Paola, Gerolamo fonda due monasteri, uno femminile ed uno maschile, un ospizio per pellegrini e una scuola, nella quale insegna ai monaci a copiare i manoscritti. Un’attività instancabile Mentre i barbari imperversano in ogni parte dell’impero [ T9 ONLINE], giungendo fino a Roma e saccheggiandola (410 d.C.), Gerolamo si impegna in una multiforme attività. A lui si devono, nell’arco di un operoso trentennio, la traduzione e il commento dei testi sacri, opere agiografiche e storico-letterarie (fra cui il De viris illustribus), scritti polemici contro le tesi origeniste e pelagiane. Muore a Betlemme il 30 settembre del 419 o del 420. Il corpus delle opere Eccezionalmente ampio e vario è il corpus delle opere composte da Gerolamo, che per comodità di studio possono essere articolate in sei sezioni: traduzioni dei testi scritturali; opere esegetiche ed erudite; opere di polemica religiosa; opere agiografiche; opere storico-letterarie; l’epistolario.

Il traduttore, l’esegeta, l’erudito La Vulgata A Roma, nel 384, Gerolamo approntò su invito di papa Damaso una versione latina dei Vangeli, cui si aggiunse una traduzione dei Salmi (il cosiddetto «Salterio romano»). Data l’affezione della comunità cristiana per le antiche versioni latine dei Vangeli, queste prime prove furono condotte con estrema cautela: Gerolamo si limitò pertanto a ripulire i testi da grecismi e da volgarismi, dovuti alla scarsa cultura degli anonimi traduttori, e a correggere gli errori più palesi. Solo a Betlemme, fra il 389 e il 405, Gerolamo intraprese la traduzione integrale dell’Antico Testamento. Si ricorderà [ cap. 16.2] che mentre i libri neotestamentari erano stati composti in greco, quelli veterotestamentari, scritti originariamente nelle lingue del popolo ebraico, erano stati tradotti in latino attraverso la 602 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

mediazione della Bibbia greca dei Settanta. Le versioni geronimiane dell’Antico Testamento si discostarono da una concezione rigidamente letteralistica della traduzione, avvicinandosi a quella classica (e ciceroniana) ad sensum, che mirava a restituire lo spirito del testo originale. Opere esegetiche ed erudite Parallelamente all’attività di revisione e di traduzione dei testi biblici, Gerolamo si impegna in un costante lavoro di commento e di interpretazione, ispirandosi al metodo allegorico della scuola di Alessandria, ma con un maggior rigore filologico e storico. Molti dei commenti sono dati in forma omiletica: lezioni di interpretazione biblica rivolte ai fedeli in occasione di una ricorrenza liturgica o agli stessi monaci perché venissero istruiti sui libri sacri. La maggior parte di tali omelie furono stenografate dai presenti, e in questa forma ci sono pervenute.

Opere di polemica religiosa, agiografiche e storico-letterarie Opere di polemica religiosa Anche se mediocri sul piano dottrinale, notevole interesse storico rivestono le opere di polemica religiosa, nelle quali l’autore dispiega tutto il tradizionale armamentario apologetico, puntando sull’asprezza dei toni (irrisioni, invettive, sarcasmi, attacchi ad personam) piuttosto che sulla sostanza degli argomenti dottrinali. Fra le molte opere, si possono qui ricordare: Adversus Helvidium (382-384), sulla verginità post partum di Maria, contestata dal laico Elvidio; Adversus Iovinianum (393), contro il monaco Gioviniano (satiricamente definito da Gerolamo Epicurus christianorum), che negava valore alla castità e alla vita ascetica; Apologia adversus libros Rufini, scritto negli anni 402-404 al culmine di una violenta disputa con l’amico e compagno di studi di un tempo, ora nemico a causa delle simpatie origeniste; Dialogus adversus Pelagianos (verso il 415) contro l’eresia di Pelagio, combattuta negli stessi anni anche da Agostino.

De viris illustribus ▰ L’argomento Il De viris illustribus, titolo mutuato da Svetonio, si compone di 135 brevi schede dedicate ad altrettanti scrittori cristiani di lingua greca e latina: uno di essi è Seneca, sul conto del quale correvano da tempo leggende circa la sua conversione al cristianesimo; l’ultimo è lo stesso Gerolamo, che ci consegna un ampio autoritratto letterario corredato di un elenco delle opere fino allora composte. ▰ Un intento polemico L’intento dell’opera è

polemico: Gerolamo intende opporre «gli uomini illustri» della tradizione cristiana (da san Pietro a se stesso) a quelli della tradizione pagana, rivendicandone la dignità letteraria e culturale (dal paganesimo tradizionalmente contestata, fino all’irrisione e al disprezzo).

▰ Gli attacchi si estendono ad uomini di Chiesa Gli attacchi polemici, tuttavia, non vengono riservati esclusivamente ai nemici di Cristo ma si rivolgono anche all’interno della Chiesa. Alle simpatie verso personaggi del passato che sente in qualche modo affini, come Tertulliano, corrispondono le antipatie e le gelosie nei confronti dei contemporanei: ad Ambrogio, significativamente, l’autore dedica una scheda brevissima e reticente; Agostino, poi, è addirittura ignorato, nonostante nel 392 fosse già ampiamente noto per i suoi scritti.

▰ Lo schema è ripreso da Svetonio Le singole

schede contengono in genere notizie sulla vita e sulla morte del personaggio, accompagnate da un elenco assai sommario delle opere. Lo schema, benché ridotto, è nella sostanza quello di Svetonio [ cap. 12.3].

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PROFILO STORICO

Opere agiografiche Sulla scia della Vita di Antonio composta vent’anni prima da Atanasio e quasi immediatamente tradotta in lingua latina [ cap.17.10], anche Gerolamo scrisse fra il 377 e il 379, durante la permanenza nel deserto di Calcide, una Vita Pauli. L’intento, ancora una volta, era polemico: dimostrare che il primo eremita della storia non era stato Antonio ma Paolo di Tebe, di cui viene narrata in toni favolosi la vita solitaria trascorsa un secolo prima nel deserto d’Egitto. A questa prima vita tennero dietro altre due operette agiografiche, scritte entrambe nei primi anni della permanenza a Betlemme: la Vita Malchi, nella quale è lo stesso protagonista a narrare in prima persona la sua avventurosa esistenza; la Vita Hilarionis, dedicata al fondatore del monachesimo in Terrasanta. Ricordi autobiografici ed esperienze personali si intrecciano, in queste narrazioni, con vicende mirabolanti e fantasiose degne di un romanzo. Opere storico-letterarie Di notevole importanza, soprattutto sul piano documentario, sono due scritti a carattere storico-letterario che non hanno precedenti nella letteratura latina cristiana: il Chronicon e il De viris illustribus, composti il primo a Costantinopoli verso il 380, il secondo a Betlemme nel 392. Entrambi vanno intesi come una traduzione e un aggiornamento di due opere di Eusebio di Cesarea (265-340 ca.), la Cronaca e la Storia ecclesiastica [ cap. 16.6]. Il Chronicon è il primo esempio latino cristiano di letteratura cronografica: contiene infatti gli avvenimenti fondamentali della storia del mondo, a partire da Abramo, disposti in tavole sincroniche su colonne parallele. Eusebio era giunto agli avvenimenti del 303 (estesi da un continuatore di età costantiniana fino al 326); Gerolamo riprende il lavoro di Eusebio, lo integra e lo arricchisce di notizie sul mondo romano, spingendosi fino al 378.

L’epistolario Varietà di contenuti L’epistolario geronimiano, uno fra i più importanti dell’antichità cristiana, comprende 154 lettere (117 di Gerolamo; le restanti dei corrispondenti) di carattere assai vario: alcune sono di contenuto intimo e privato; altre rientrano nell’ambito della consolatio o dell’elogio funebre; altre ancora sono in forma di trattato. Accenti polemici e sarcastici Sovente lo sdegno del santo si accanisce contro i suoi contemporanei, spesso anche illustri personalità, con rapide formule icastiche e con punte di sarcasmo che lasciano sempre il segno. Talvolta si tratta di veri e propri quadri satirici, ricchi di dettagli fulminanti. Tra i bersagli più frequenti troviamo proprio i rappresentanti del clero, i monaci, le matrone dedite a pratiche ascetiche, personaggi di cui Gerolamo descrive con caustica spietatezza i comportamenti inconseguenti, le doppiezze, l’asservimento alle mode. Ritratto dell’autore Dall’epistolario emerge in tutta la sua impulsiva e vitale contraddittorietà la figura dell’autore, diviso fra gli studi classici e quelli cristiani (Ep. 22 [ T7 ONLINE]), fra ascesi e tentazioni mondane. Significative, anche per l’importanza dei temi culturali affrontati, le diciassette lettere scambiate con Agostino. Carichi di pathos e di angoscioso smarrimento sono invece i passi che riecheggiano i terribili avvenimenti dell’epoca [ T9 ONLINE]. Pur plaudendo alla fine del paganesimo [ T8 ONLINE], Gerolamo continua a sentirsi pienamente romano, e guarda al crollo imminente dell’impero con desolato orrore. 604 © Casa Editrice G. Principato


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Varietà di stile La varietà dei contenuti, nelle epistole, pretende un’analoga varietà di stile, che lo stesso Gerolamo teorizza nell’epistola 49, rammentando al suo corrispondente i precetti retorici della cultura pagana. Il livello dello stile, in ogni caso, è mediamente più elevato e sostenuto di quello impiegato da Cicerone nelle sue lettere.

Guida allo studio

1.

Riferisci gli eventi più significativi della vita di Gerolamo, cercando di mettere in luce i forti contrasti e le tonalità drammatiche della sua vicenda spirituale. 2. Descrivi il vasto corpus delle opere geronimiane, articolandolo in sezioni

omogenee; di ciascun gruppo ricorda almeno i titoli più significativi. 3. Quale incarico venne affidato da papa Damaso a Gerolamo? E in che modo il santo lo portò a termine?

4 Agostino La vita e le opere La vita e la personalità Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, in Numidia, da Patrizio, un pagano convertito al cristianesimo solo in punto di morte, e da Monica, fervente cristiana che influì profondamente sull’educazione del figlio. Studiò dapprima nella città natale e a Madaura (patria del neoplatonico Apuleio); poi, tra il 371 e il 374, a Cartagine, dove visse due esperienze fondamentali: l’amore per una donna, dalla quale ebbe un figlio, e la lettura dell’Hortensius di Cicerone, che lo avvicinò agli studi filosofici [ Laboratorio]. Nel 374 aprì una scuola a Tagaste; dopo la morte di un amico tornò a Cartagine, dove insegnò retorica dal 375 al 383. Nel 383 si trasferì a Roma; l’anno successivo l’influente senatore pagano Simmaco gli procurò una cattedra a Milano, sede della corte imperiale. A Milano l’incontro decisivo fu quello con Ambrogio, di cui Agostino ascoltò alcuni sermoni, ma importante fu anche la lettura dei «libri dei platonici» (Conf. VII, 9), in particolare le opere di Plotino. Nel 386 avvenne la conversione al cristianesimo, vissuta come un radicale distacco dalle ambizioni mondane: lasciato l’insegnamento e annullato un progetto matrimoniale, Agostino si ritirò a Cassiciàco (forse l’odierna Cassago Brianza), insieme ad alcuni amici, al figlio e alla madre. Nell’aprile 387 Agostino ricevette il battesimo da Ambrogio. Nel 388 fu di nuovo in Africa, a Tagaste, dove fondò una comunità religiosa. Nel 391, durante una visita a Ippona, venne ordinato sacerdote per acclamazione popolare. Nel 396 divenne vescovo della città. A partire da questa data diede inizio a un’intensissima attività pastorale, segnata soprattutto dalla lotta contro le eresie manichea, donatista e pelagiana. Agostino morì il 28 agosto 430, pochi mesi prima che Ippona cadesse nelle mani dei Vandali di Genserico. Il giovane Agostino: il manicheismo La vita di Agostino, fino alla conversione, si configura come un’inesausta ricerca: la presenza del male nel mondo, il rapporto tra l’anima e il corpo erano problemi vitali per la sua anima appassionata. 605 © Casa Editrice G. Principato


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Il manicheismo, col suo netto dualismo Bene-Male, Luce-Tenebre, anima-corpo, dispiegava una costruzione intellettuale molto attraente: poiché il male si annidava nel corpo, era possibile sottrarsi al suo dominio conducendo una vita ascetica. Per un altro verso, se il male compiuto dall’uomo era, in realtà, opera di potenze oscure, estranee alla sua volontà, la responsabilità personale passava pericolosamente in secondo piano: una simile impostazione suscitò ben presto gravi perplessità in Agostino. Ma soprattutto egli restò deluso dall’incontro con Fausto di Milevi, vescovo manicheo dal quale il giovane “uditore” si aspettava risposte definitive, e che invece si rivelò un puro retore, umanamente simpatico ma privo di profondità intellettuale (Conf. V, 10-11). In Italia: la conversione Fu allora che Agostino partì per Roma, attratto dalla fama di scuole più tranquille e didatticamente stimolanti rispetto a quelle, assai turbolente, di Cartagine. Era ancora legato ai circoli manichei, ma proprio a Roma gli si aprirono nuovi orizzonti intellettuali: per un breve periodo aderì alla Nuova Accademia, erede della scuola filosofica fondata da Platone e dominata, a partire dal III secolo a.C., da tendenze scettiche. Le tesi demolitrici degli accademici lo allontanarono definitivamente dal manicheismo, e d’altra parte costituirono un primo contatto con il pensiero del grande filosofo greco (Conf. V, 19). Trasferitosi a Milano, importante centro di elaborazione della filosofia neoplatonica, Agostino poté leggere opere di Platone e di Plotino nella traduzione di Mario Vittorino [ cap. 17.9], e ritrovare significativi echi di quelle dottrine nella predicazione del vescovo Ambrogio. Nell’esperienza della conversione non andrà sottovalutato il fattore intellettuale: il neoplatonismo fornisce ad Agostino l’unica impalcatura concettuale pienamente compatibile con le Sacre Scritture; l’esegesi biblica di Ambrogio permette di conciliare l’Antico e il Nuovo Testamento; le epistole di san Paolo svelano a una mente filosofica la portata rivoluzionaria del messaggio cristiano, la sua sfida alla scienza dei filosofi in nome di una sapienza superiore. Il corpus delle opere Tradizionalmente le opere di Agostino (un corpus imponente: circa mille libri) vengono distinte in opere filosofico-teologiche, polemiche, esegetiche, catechetiche, autobiografiche, apologetiche, epistolari. Alle quali andrà aggiunto l’imponente complesso dei Sermones, che si è andato progressivamente arricchendo con nuove acquisizioni. Autentica summa del pensiero teologico-dogmatico agostiniano è il De Trinitate, in quindici libri, cominciato nel 399 e terminato verso il 420 d.C. Moltissime sono le opere polemiche, volte in particolare alla confutazione del manicheismo, del donatismo e del pelagianesimo. Tra le numerose opere esegetiche vanno almeno ricordate le Enarrationes in Psalmos («Commenti ai Salmi»); tra le opere catechetiche il De doctrina Christiana in quattro libri, i primi tre composti nel 396, il quarto tra 426 e 427. Della copiosa attività epistolare di Agostino ci è pervenuto un corpus di 279 lettere, delle quali oltre cinquanta sono scritte da suoi corrispondenti. Tutte risultano composte dal 386 fino alla morte, a vari destinatari e con le finalità più diverse [ T17-T18 ONLINE]. Ma le due opere che più si impressero nella cultura occidentale sono il De civitate Dei (ventidue libri composti e pubblicati per gruppi tra il 412 e il 427) e soprattutto le Confessiones in tredici libri, scritti fra il 396 e il 400 d.C. 606 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Le Confessioni Da autobiografia a confessio Agostino, nelle Retractationes (II, 32), divide le Confessioni in due parti: i libri I-X parlano di lui stesso (de me), i libri XI-XIII consistono in un dettagliato commento dei versetti della Genesi relativi alla creazione del mondo (de scripturis sanctis). I libri propriamente “autobiografici” sono i primi nove, che raccontano la vita di Agostino dalla nascita alla morte della madre [ T10-T13]: si tratta tuttavia di un’autobiografia spirituale, in cui episodi marginali assumono un forte valore simbolico, mentre eventi fondamentali sono volutamente sottratti a precisazioni contingenti. Il libro X [ T14-T15 ONLINE] è una straordinaria meditazione sulla memoria, che funge in qualche modo da cerniera tra la prima parte narrativa e il finale filosofico-teologico. Il problema dell’unità: la memoria Questa mescolanza di introspezione psicologica e studio biblico dà un’impressione di debolezza strutturale, di disorganicità progettuale: il primo problema, il più interessante sul piano letterario, è quindi quello dell’unità dell’opera. Forse la chiave di volta del progetto agostiniano si trova proprio in quel libro X, che, lungi dal costituire una digressione, fornisce la base teorica dell’avvicinamento tra l’uomo Agostino e Dio [ T14]: indagando nella memoria, Agostino riconosce un’idea di felicità che prescinde dai sensi, verso la quale tutti naturalmente tendono. La vera felicità, sottratta al trascorrere del tempo, è in Dio. Dio è nella nostra memoria: perciò il processo del ricordo ci riconduce da noi stessi a Lui. Le parole dell’autore cedono allora alla Parola di Dio. Realtà e simbolo spirituale Si capisce come questo piano filosofico-teologico superi ogni contingenza, e recuperi dalla dispersione della biografia esteriore solo quegli eventi che siano suscettibili di interpretazione e di senso. Accade così che un banale furto di pere [ T11] compiuto da adolescente si trasformi in un simbolo del male compiuto per se stesso, e diventi segno di una tendenza peccaminosa più grave delle scelleratezze di Catilina (II, 4-5). L’estasi di Ostia Le pagine altissime sulla morte di Monica a Ostia sono precedute da una visione estatica che è il vertice mistico dell’opera: «giungemmo alla nostra mente e la sorpassammo per attingere alla regione dell’abbondanza [...] E mentre ne parlavamo e vi anelavamo, la toccammo appena in uno slancio totale del cuore» (Conf. IX, 24). Quando Monica si distacca per sempre dalle cose temporali, per le quali ha ormai perso ogni interesse, Agostino raggiunge la sicurezza della fede: l’Agostino di allora è diventato l’Agostino di ora, e il racconto biografico tace. Da questo momento alla stesura dell’opera passano undici anni. La riflessione sul tempo Nel libro XI, il commento ai primi versetti della Genesi dà luogo a una geniale riflessione sul tempo: il tempo ha una consistenza puramente psicologica, è «estensione dell’anima». Perciò si dovrà parlare non di presente, passato e futuro, quasi fossero realtà oggettivamente misurabili, ma di presente del presente come «attenzione», presente del passato come memoria, presente del futuro come attesa. Il discorso sulla memoria viene quindi ricompreso in un nuovo scavo psicologico, al termine del quale si ritrova la trascendenza di Dio, eterno e immutabile: a Lui l’uomo tende, giacché «inquieto è il nostro cuore finché non s’acquieta in te» (Conf. I, 1). L’intera struttura delle Confessioni è allora 607 © Casa Editrice G. Principato


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19. Il trionfo del cristianesimo

PROFILO STORICO

riconducibile alla tripartizione del tempo: i libri I-IX sono i libri della memoria, il libro X è il libro del presente, i libri XI-XIII sono i libri del futuro, della quies promessa dalla Parola di Dio. Non sfuggiranno due paradossi significativi: il libro del presente è una meditazione sulla memoria, mentre nei libri del futuro l’analisi dei giorni della Creazione ci riconduce all’inizio dei tempi, e nel settimo giorno del Signore è prefigurata la quies finale di Agostino e di tutti i credenti, in una dimensione ormai decisamente corale di lode. Perciò l’autobiografia si trasforma in confessio e la storia personale diventa storia del mondo.

La Città di Dio Storia e apologia La storia del mondo è, a un primo sguardo, l’oggetto della Città di Dio. Tuttavia in essa lo spunto è apologetico: subito dopo la presa di Roma da parte dei Goti di Alarico (410), si era levata un’ultima protesta pagana contro il cristianesimo, visto come il responsabile dell’indebolimento dell’impero [ cap. 20.1]. Anche molti cristiani, peraltro, vissero con angoscia il tramonto di Roma: tra questi Gerolamo [ T9 ONLINE] e, inizialmente, lo stesso Agostino. Il quale tuttavia volle reagire con un lavoro imponente, in cui avrebbero dovuto unirsi intento apologetico e discussione teologica.

fonti

visive

Una Natività protocristiana L’episodio della Natività è fra i più ricorrenti del repertorio figurativo cristiano: il dipinto più antico a noi pervenuto è databile tra la fine del II e l’inizio del III secolo. Prudenzio dedicò al soggetto il penultimo inno del Cathemerinon, dove le canoniche figure dei pastori venuti ad adorare il piccolo Gesù sono usate per introdurre il tema della cecità del mondo pagano, dal poeta attribuita al potere nefasto dei demoni: «Eterno re, com’è santa la culla del Tuo Presepe, cara nei secoli al mondo, venerata anche dai bruti! Il gregge stesso l’adora, gli esseri senza ragione, le rustiche creature che la pastura sostenta. Vanno i pastori e le bestie pieni di fede al Presepe; ognuno crede, comprende, anche i poveri animali. Solo lo nega, ribelle, l’illustre stirpe dei padri, quasi preda delle Furie, ebbra d’un magico filtro» (Cath. XI, 77-92, trad. di E. Bossi).

Coperchio di sarcofago rappresentante la Natività, prima metà del IV secolo d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

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PROFILO STORICO

La struttura: pars destruens e pars construens Come per le Confessioni, è lo stesso Agostino a chiarire la struttura dell’opera: i libri I-X rappresentano la pars destruens, in cui si confutano la religione e la filosofia dei pagani nella loro incapacità di dare la felicità sia in terra (I-V) che dopo la morte (VI-X); i libri XI-XXII costituiscono la pars construens, in cui Agostino illustra la nascita (XI-XIV), l’evoluzione (XV-XVIII) e la fine (XIX-XXII) delle due civitates che agiscono nella storia, la civitas Dei e la civitas diaboli. Le due civitates: una “teologia della storia” La civitas Dei e la civitas diaboli trovano compimento su due piani diversi: la prima è anche civitas coelestis, esiste fin dalla creazione degli angeli e, dopo il Giudizio, è destinata alla gloria della vita eterna; la seconda è nata con la caduta degli angeli ribelli e, alla fine dei tempi, sarà annientata per sempre nella seconda morte. Inquadrata in uno schema “esameronale”, in base al quale si succedono sei epoche corrispondenti alle sei età dell’uomo (infanzia, fanciullezza, adolescenza, gioventù, maturità, vecchiaia) e ai sei giorni della Creazione, la storia umana ha un momento di svolta nella venuta di Cristo: la fondazione della Chiesa crea un punto di riferimento istituzionale per la civitas Dei peregrinans; la fede cristiana è una possibilità di salvezza per tutti gli uomini. D’altra parte, la nascita di Cristo avviene nella pienezza del potere imperiale di Roma, in un regime di pace: nel disegno teologico che sottende la storia, Roma svolge quindi una funzione positiva di instauratrice dell’ordine. Le due civitates contrapposte non possono essere identificate senz’altro con le due istituzioni terrene della Chiesa e dello Stato. Da una parte, non c’è salvezza fuori dalla Chiesa, ma non tutti i cristiani sono veri cristiani, e quindi non tutti i componenti della Chiesa saranno nella civitas Dei alla fine dei tempi. Dall’altra, lo Stato non coincide con la civitas diaboli, piuttosto è un mezzo terreno a disposizione della Chiesa ma anche delle potenze del male: come portatore di ordine e di pace, assolve positivamente la sua missione storica; quando in esso prevale la libido dominandi, diviene l’incarnazione del male. Tuttavia lo Stato esaurisce il suo significato nell’ambito terreno; la Chiesa, invece, al di là della sua imperfezione umana, è segno di una perfezione ultraterrena. Un opus ingens Mentre le Confessioni sono nate «come una Minerva già perfetta» (Pizzolato), la Città di Dio sembra soffrire della sua stessa mole e della prolungata elaborazione negli anni dell’estenuante polemica antipelagiana. La frequenza di riassunti e anticipazioni denuncia la volontà di Agostino di attuare un piano preordinato, ma la quantità dei problemi e i diversi fronti polemici (contro i pagani e contro gli eretici) generano digressioni che indeboliscono fortemente la struttura e contraddizioni che mettono in pericolo la coerenza concettuale dell’opera.

Guida allo studio

1.

Quali furono le esperienze e gli incontri decisivi nella vita di Aurelio Agostino? Su quali problemi si concentra la sua assidua ricerca prima della conversione? 2. Dopo aver passato rapidamente in rassegna i principali gruppi di opere che costituiscono l’imponente corpus agostiniano, soffermati in particolare sulle Confessioni,

illustrandone i contenuti e la struttura. 3. Indica l’argomento del De civitate Dei e lo spunto originario che dà impulso alla composizione dell’opera, descrivendone la struttura. 4. Quale funzione viene assegnata allo Stato romano nella visione di Agostino?

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19. Il trionfo del cristianesimo

5 Prudenzio PROFILO STORICO

La vita Di Prudenzio (Aurelius Prudentius Clemens), il maggior poeta latino cristiano dell’antichità, possediamo scarse notizie, per lo più desunte dalle sue opere. Nasce nel 348, probabilmente a Calagurris, la città della Spagna Tarragonese che già aveva dato i natali, tre secoli prima, a Quintiliano. Compiuti i tradizionali studi di grammatica e di retorica, Prudenzio si dedica all’attività forense, è due volte governatore di provincie ed entra nell’amministrazione imperiale ricoprendo alti incarichi. Dopo la morte di Teodosio si ritira a vita privata. Verso il 401-402 intraprende un viaggio a Roma: la vista dei luoghi santi gli ispira un ciclo poetico in onore dei martiri. Nel 403 ritorna a Calagurris, dove si dedica integralmente alla vita ascetica. Ignota è la data della morte, successiva, e probabilmente prossima, al 405. Il corpus delle opere Il corpus delle opere può essere classificato in tre gruppi: poesia innologica (Cathemerinon; Peristephanon), poesia epico-didascalica (Apotheosis; Hamartigenia; Psychomachia); poesia apologetica (Contra Symmachum). A questi titoli si devono aggiungere due componimenti in versi lirici che aprono e chiudono simmetricamente, nelle intenzioni dell’autore, l’intero corpus poetico: una Praefatio, nella quale Prudenzio ripercorre la storia della propria vita, confessa i propri peccati e dichiara il proposito di cantare le lodi di Dio; un Epilogus, nel quale offre a Dio la propria poesia. Prudenzio compone la maggior parte dei suoi testi, se non tutti, dopo la morte di Teodosio e dopo il ritiro dalla vita pubblica, probabilmente in seguito a una profonda crisi spirituale. Di qui la tensione drammatica che contraddistingue l’intera sua produzione; di qui, soprattutto, l’organicità del suo programma poetico, frutto di una scelta meditata e consapevole. Gli inni Gli inni costituiscono la sezione più compiuta e poeticamente felice dell’opera di Prudenzio. Il Cathemerinon («Inni per la giornata») è una raccolta di dodici componimenti di metro vario destinati alla preghiera e distinti in due esadi. I primi sei scandiscono i momenti rituali della giornata: Hymnus ad galli cantum;

Sacrificio di Isacco, dal Sarcofago di Giunio Basso,  IV secolo. Roma, Museo di San Pietro in Vaticano.

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PROFILO STORICO

Hymnus matutinus; Hymnus ante cibum; Hymnus post cibum; Hymnus ad incensum lucernae; Hymnus ante somnum. Più varia la seconda esade, che comprende i seguenti inni: per il digiuno; dopo il digiuno; per tutte le ore; per le esequie di un defunto; per il giorno del Natale; per l’Epifania. Il Peristephanon («Inni delle corone») comprende quattordici inni dedicati ai santi martiri della cristianità. Il titolo allude alle corone, un tempo segno di vittoria militare o sportiva, ora simbolicamente adibite alla celebrazione della vittoria sui peccati del mondo e sui persecutori pagani. Se il modello poetico di riferimento sono gli Inni di Ambrogio, Prudenzio non rinuncia a competere sul piano stilistico con la poesia di Seneca e di Lucano, sul piano metrico con i carmi oraziani. Come nelle Passiones [ cap. 16.3], il tema della lode si mescola con il gusto dell’orrido e del meraviglioso: i martiri affrontano, nei versi di Prudenzio, le torture più inaudite, sfidano i propri carnefici, li irridono, trionfano sul male e sul dolore, guadagnandosi eroicamente il regno dei cieli [ T19 ONLINE]. Gli inni di Ambrogio erano destinati all’uso liturgico, quelli di Prudenzio alla meditazione privata: di qui la dilatazione delle parti narrative, il maggior grado di letterarietà, l’ampiezza dei discorsi (spesso in simmetrica opposizione), l’insistenza sugli aspetti crudamente realistici del martirio. Le opere epico-didascaliche Particolare interesse, anche al di fuori dell’ambito strettamente letterario, presentano tre poemetti in esametri di argomento dogmatico e morale: Apotheosis («La divinizzazione»), dedicato al tema trinitario; Hamartigenia («L’origine del peccato»), centrato sul problema del male e della sua origine; Psycomachia, l’opera più singolare e innovativa, un poemetto allegorico di 915 esametri che può essere variamente tradotto «Combattimento dell’anima», «nell’anima» o «per l’anima». Nella Psycomachia si assiste all’epico scontro fra Vizi e Virtù personificati: Fede contro Idolatria; Pudicizia contro Libidine; Pazienza contro Ira; Umiltà contro Superbia; ecc. La battaglia sembra infine vinta, e le Virtù ritornano al loro accampamento; fra loro, tuttavia, si cela la Discordia, il cui vero nome si rivelerà poi essere Eresia: scoperta, viene trafitta dalla Fede. Al termine della battaglia viene edificato un Tempio dell’anima. Alle scene guerresche si alternano i discorsi edificanti. L’opera assume speciale rilievo in quanto costituisce il modello dei fortunati poemi allegorici medievali. Poesia apologetica: Contra Symmachum Entro l’estate del 402 furono composti i due libri Contra Symmachum, centrati sulla confutazione della religione romana tradizionale (libro I) e delle tesi sostenute da Simmaco nella Relatio de ara Victoriae (libro II). Non manca l’elogio di Teodosio, l’imperatore cristiano che ha allontanato l’empia superstitio veterum dal mondo, instaurando il regno della giustizia. Testo apologetico non aspro, il Contra Symmachum rivela un profondo rispetto per la romanità e per le sue istituzioni, celebrate come strumenti provvidenziali ai fini della diffusione del cristianesimo. All’impero è destinato non solo il ruolo di difensore della religione cristiana contro il paganesimo ma anche dell’antica civiltà romana contro i pericoli della barbarie. Conclusioni su Prudenzio L’aspetto storicamente più significativo della poesia di Prudenzio è l’innesto di una spiritualità cristiana sulle forme classiche dell’antica poesia latina: processo già avviato in età costantiniana (si pensi a Giovenco) ma 611 © Casa Editrice G. Principato


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19. Il trionfo del cristianesimo

PROFILO STORICO

che solo ora giunge a maturazione, grazie alla raffinata cultura letteraria dell’autore, che si impegna in un poderoso sforzo di emulazione. Prudenzio si confronta con Virgilio epico e bucolico, con Orazio lirico e satirico, con Lucrezio, con l’Ovidio delle Metamorfosi, con Seneca tragico, con Persio, con Lucano, con i poeti di età flavia, con Giovenale, con l’invettiva epica di Claudiano, rielaborando i suoi modelli con estrema libertà.

Guida allo studio

1.

Descrivi il corpus delle opere poetiche di Prudenzio, organizzato dall’autore in un vero e proprio ciclo. 2. Illustra i caratteri della poesia innologica di Prudenzio, mediante diretti riferimenti al

testo del Peristephanon che narra il martirio di Eulalia [ T19 ONLINE]. 3. Qual è l’argomento del Contra Symmachum? Quale imperatore viene elogiato nell’opera?

6 Paolino di Nola Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo visse anche Ponzio Meropio Anicio Paolino, tradizionalmente noto come Paolino di Nola, dal nome della città dove scelse di vivere dopo la conversione. La nascita e la carriera Nato a Burdigala (l’odierna Bordeaux) attorno al 353 da una ricca e illustre famiglia che vantava possedimenti in Gallia, Spagna e Italia, Paolino aveva studiato alla scuola del concittadino Ausonio, il più celebre retore di Gallia [ cap. 18.3]. Intrapresa la carriera politica e civile, era stato consul suffectus nel 378, governatore della Campania dal 380 al 383. Proprio qui aveva avuto modo di assistere alle feste in onore di San Felice, il martire nolano di cui si celebrava il 14 gennaio il dies natalis, il giorno cioè del martirio del santo e della sua nascita alla vita eterna. La conversione Nel decennio successivo Paolino maturò la sua conversione: si sposò con Terasia, cristiana di nobile famiglia spagnola, ebbe modo di parlare con Martino di Tours e con Ambrogio, fu infine battezzato (389 ca) e si ritirò in Spagna in solitaria meditazione, dopo aver venduto gran parte dei suoi beni e averne distribuito il ricavato ai poveri. Fu allora che Ausonio si rivolse a lui in lunghe ed accorate lettere, cui l’antico discepolo rispose con argomenti che forse il vecchio retore, cristiano per pura convenienza, non poteva comprendere [ T20 ONLINE]. Ricevuta l’ordinazione sacerdotale a Barcellona (Natale del 394), Paolino si trasferì insieme con la moglie a Nola (395), dove fondò una comunità monastica e trascorse una vita ascetica presso la tomba di Felice, trasformata in luogo santo, meta di pellegrinaggi. Non mancò peraltro di intrattenere intensi rapporti con i grandi protagonisti della vita religiosa contemporanea, fra i quali Agostino, Gerolamo, Rufino e Pelagio. Nominato nel 409 vescovo della sua diocesi, si trovò l’anno successivo a dover fronteggiare i Goti di Alarico; nel 419 fu invitato da Onorio a presiedere il sinodo generale di Spoleto; morì il 22 giugno 431, giorno ancora oggi dedicato a san Paolino nel calendario cristiano. 612 © Casa Editrice G. Principato


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Una letteratura al servizio della fede Educato sui classici pagani, Paolino sentì che la conversione al cristianesimo richiedeva una completa trasformazione di vita e di pensiero: allo stesso Ausonio, che gli aveva rimproverato di aver abbandonato «le assemblee delle Muse» (Ep. 23, 35), Paolino risponde di aver ripudiato le Muse pagane e le tradizionali immagini della mitologia classica per dedicarsi interamente a Dio. Non abbandona dunque la letteratura, ma sceglie di mettere la retorica al servizio della fede. Scrive, dopo la conversione, sia in prosa sia in versi, esclusivamente su temi cristiani o inerenti alla vita del nuovo Stato cristiano: epistole, parafrasi della Bibbia, un panegirico per Teodosio non pervenuto, epigrammi e soprattutto il ciclo dei Carmina natalicia composti in onore del santo patrono di Nola. Se nuovi sono i contenuti, alla tradizione classica sono attinte sia le strutture retoriche sia le forme poetiche. Carmina natalicia Il ciclo dei Carmina natalicia comprende quattordici componimenti scritti uno all’anno, dal 395 al 408, per commemorare altrettanti anniversari del martirio di Felice. Di ampiezza diseguale (il maggiore supera gli ottocento versi), per lo più in esametri, i Natalicia rievocano gli episodi della vita del santo e i suoi miracoli, celebrano le feste in suo onore, descrivono la semplice ed entusiastica devozione dei fedeli. Il carattere enfatico della poesia colta di età tardoimperiale, appreso alla scuola di Ausonio, si mescola con il gusto pittorico dei racconti miracolistici e la propensione al meraviglioso che ritroviamo nelle coeve vite dei santi.

Guida allo studio

1.

Quali furono le scelte decisive che Paolino di Nola sentì di dover compiere, nella vita così come nell’ambito dell’attività letteraria, in seguito a una conversione intesa come radicale metamorfosi?

2. Illustra contenuti e struttura del ciclo dei Carmina natalicia.

7 Sulpicio Severo La nascita e gli studi Sulpicio Severo nasce in Aquitania verso il 363 da un’illustre famiglia gallo-romana di fede cristiana. Compie gli studi nell’ambiente scolastico di Bordeaux, lo stesso dove si era formato pochi anni prima Paolino di Nola, con il quale stringe una profonda amicizia. La conversione Intorno agli anni 393-395 si colloca la scelta decisiva della sua vita, maturata a seguito di un’improvvisa ispirazione. Sulpicio dona ai poveri una parte rilevante dei propri beni e si ritira nella tenuta di Primuliacum, una località non identificata del tolosano, dove compone negli anni successivi tutte le opere a noi note. Una figura esemplare: Martino di Tours Intorno alla figura di Martino di Tours gravita si può dire tutta la produzione di Sulpicio Severo, che al santo dedica un testo agiografico (Vita Martini), tre Lettere, e due libri di Dialogi. Originario 613 © Casa Editrice G. Principato


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della Pannonia (dov’era nato nel 316-317), soldato fin verso i quarant’anni, poi monaco, infine vescovo di Tours nel 371 e fondatore nel 375 del monastero di Marmoutier, Martino costituisce agli occhi di Sulpicio un perfetto modello di vita cristiana. Sulpicio riesce anche a conoscerlo di persona poco prima che Martino muoia, nel 397; ed è un ricordo indelebile, incastonato come una reliquia nel racconto della Vita. La Vita Martini La Vita di Martino viene composta fra il 395 e il 397, quando il santo è ancora in vita. Lo stesso autore, per rendere più attendibile il suo racconto, avverte di aver usato come fonti testimonianze proprie o di chi aveva personalmente conosciuto il santo. Lo scopo dell’opera è duplice: innanzitutto edificante (i lettori devono essere esortati a emulare le gesta del santo); in secondo luogo apologetico, per difendere Martino dalle accuse che gli erano state rivolte negli ambienti ecclesiastici più rigoristi, in particolare quella di aver militato a lungo nell’esercito (si ricordino le posizioni antimilitariste assunte dal protocristianesimo).

fonti

visive

Il martirio di San Lorenzo A San Lorenzo è dedicato il secondo inno del Peristephanon di Prudenzio. Mentre le carni bruciano sulla graticola, il santo rivolge sarcastiche battute al suo carnefice: «Poi che il continuo ardore maturò il fianco abbrustolito, di sulla graticola egli primo rivolge al giudice poche parole: – È un pezzo che brucio da questo lato: rivoltami; e vedi un po’ cos’abbia fatto quel tuo ardente Vulcano. Lo fa rivoltare il prefetto. E quegli: – È cotto: divora; e prova se sia più gustoso crudo od arrostito (II, 397-408, trad. di C. Marchesi). Alla fine del IV secolo, quando l’età delle persecuzioni era ormai lontana, i martiri vengono descritti in pose atletiche e plateali, mentre tengono lunghi discorsi durante i tormenti, sprezzano lo strazio delle loro carni, incitano i torturatori ad aggravare il supplizio, ridicolizzano umoristicamente gli avversari. Si osservi, nel mosaico, l’incedere risoluto del santo, che sembra irrompere su un palcoscenico di teatro dove già è stata preparata, ad uso degli spettatori, una graticola arroventata dalle fiamme; sulla sinistra della scena, un armadio contenente i quattro Vangeli.

Lunetta a mosaico con la rappresentazione di S. Lorenzo dinanzi alla graticola, prima metà del IV secolo. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia.

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PROFILO STORICO

L’opera vuole essere una riconversione cristiana dei modelli della biografia classica: al posto dell’eroe o del filosofo, la figura del santo. Della vita di Martino vengono ripercorse le tappe più significative: la precoce conversione religiosa, la scelta di una vita ascetica, il servizio episcopale. Seguendo il tipico procedimento per species delle biografie alessandrine, vengono poi catalogati gli episodi più gloriosi del suo operato: miracoli, esorcismi, guarigioni, conversioni, lotta al paganesimo. Predominano, come nella Vita di Antonio di Atanasio [ cap. 17.10], le categorie del meraviglioso e del demoniaco [ T21 ONLINE]. Il testo ebbe grande fortuna, e contribuì in modo decisivo ad alimentare la leggenda del santo. Le altre opere Agli anni 397-398 appartengono tre lettere nelle quali Sulpicio ritorna sulla figura di Martino per difenderne l’operato e diffonderne il culto. Al modello ciceroniano si ispirano i due libri dei Dialogi, che Sulpicio compone intorno al 404. La conversazione fra i due interlocutori è tutta imperniata su episodi, sovente fantastici, di monaci e di asceti, sui quali primeggia naturalmente la figura di Martino. Va sottolineato nell’opera l’incrocio di generi e di forme diverse: un dialogo ciceroniano che ospita narrazioni agiografiche e resoconti di viaggi (itineraria) con intenti marcatamente polemici e apologetici.

Guida allo studio

Materiali

ONLINE

essenziale

Bibliografia

B

1.

Intorno a quale figura esemplare gravita la produzione di Sulpicio Severo?

2. Fra le opere composte da quest’ultimo, ricorda la più significativa, mettendo in luce la riconversione del modello letterario classico operata dall’autore.

DOCUMENTI E TESTIMONIANZE • Dalla Vita Ambrosii: l’elezione di Ambrogio a vescovo di Milano • La vita quotidiana di Ambrogio, vescovo di Milano, nel racconto di Agostino BIBLIOGRAFIA ESTESA

� Ambrogio Edizioni antologiche: Opere, a cura di G. Coppa, UTET, Torino 1969. Gli Inni di Ambrogio sono stati tradotti da G.B. Pighi (Hymni, Verona 1982), da M. Santagostini (OSCAR Mondadori, Milano 1992) e da M. Simonetti (Inni, EDB, Bologna 1999). Studi: L. F. Pizzolato, La dot-

trina esegetica di S. Ambrogio, Milano 1978; S. Mazzarino, Storia sociale del vescovo Ambrogio, Roma 1989; C. Pasini, Ambrogio di Milano: azione e pensiero di un vescovo, Milano 1996; AA.VV., Nec timeo mori, Atti del Congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte di Sant’Ambrogio

(Milano, 4-11 aprile 1997), a cura di L.F. Pizzolato e M. Rizzi, Milano 1998; M. Sordi, Ambrogio e la tradizione di Roma, Roma 2008. � Gerolamo Edizioni antologiche: Opere scelte, a cura di E. Camisani, UTET, Torino 1971. Opere singole: Vita di Ilarione - In memoria di Paola, in

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19. Il trionfo del cristianesimo

essenziale

Bibliografia

PROFILO STORICO

B

Vite dei santi, a cura di C. Mohrmann, vol. IV, testo critico e commento di A. A. R. Bastiaensen e J. W. Smit, traduzione di C. Moreschini e L. Canali, Fondazione Lorenzo Valla-A. Mondadori editore, Milano 1975; Vite di Paolo, Ilarione e Malco, a cura di G. Lanata, Adelphi, Milano 1975; Gli uomini illustri, a cura di A. CeresaGastaldo, Nardini, Firenze 1988; Lettere, a cura di C. Moreschini, traduzione di R. Palla, Rizzoli (BUR), Milano 1989; Omelie sui Vangeli e su varie ricorrenze liturgiche, a cura di S. Cola, Città Nuova, Roma 1990. Studi: M. Marcocchi, Motivi umani e cristiani nell’epistolario di S. Girolamo, Milano 1967; G. Stoico, L’epistolario di S. Girolamo, Napoli 1972 (studio di carattere stilistico e criticoletterario); AA.VV., Gerolamo e la biografia letteraria, a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Genova 1989; Motivi letterari ed esegetici in Gerolamo, Atti del Convegno di Trento, 5-7 dicembre 1995, a cura di C. Moreschini e G. Menestrina, Brescia 1997; L. Gamberale, Problemi di Gerolamo traduttore fra lingua, religione e filosofia, in AA.VV., Cultura latina e cristiana fra III e IV secolo, Firenze 2000, pp. 311-345. � Agostino Edizioni: Le confessioni, introduzione di C. Mohrmann, trad. di C. Vitali, Rizzoli (BUR), Milano 1974; Commento ai Salmi, a cura di M. Simonetti, Fondazione L o r e n z o Va l l a - A r n o l d o Mondadori Editore, Milano 1988; La città di Dio, a cura di C. Carena, Einaudi, Torino 1992; Confessioni, 5 voll., introduzione generale di J.

Fontaine, testo criticamente riveduto e apparati scritturistici a cura di M. Simonetti, trad. di G. Chiarini, commento di vari autori, Fondazione L o r e n z o Va l l a - A r n o l d o Mondadori Editore, Milano 1992-1997; L’istruzione cristiana, a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo VallaArnoldo Mondadori Editore, Milano 1994. Studi: P. Brezzi, Analisi e interpretazione del «De civitate Dei» di Sant’Agostino, Tolentino 1960; P. Brown, Agostino d’Ippona, Torino 1971; L.F. Pizzolato, La fondazione dello stile nelle «Confessioni» di S. Agostino, Milano 1972; P. Brown, Religione e società nell’età di S. Agostino, Torino 1975; A. Pincherle, Vita di S. Agostino, Bari 1980; E. Gilson, Introduzione allo studio di S. Agostino, Milano 1984; H.-I. Marrou, S. Agostino e la fine della cultura antica, Milano 1986; AA.VV., L’opera letteraria di Agostino tra Cassiciacum e Milano, Palermo 1987; A.G. Hamman, La vita quotidiana nell’Africa di S. Agostino, Milano 1989; R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna 1991; W. Beierwaltes, Agostino e il neo­ platonismo cristiano, Milano 1995. � Prudenzio Edizioni: Inni della giornata (con Praefatio ed Epilogus), a cura di E. Bossi, Zanichelli, Bologna 1970; Apotheosis, a cura di E. Rapisarda, Catania 1953; Contra Symmachum, a cura di E. Rapisarda, Catania 1954; Hamartigeneia, a cura di R. Palla, Giardini, Pisa 1981; Psychomachia, a cura di G. Castelli e C. Prosperi, Acqui Terme 2000. Studi: D. Romano, Carattere

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e significato del «Contra Symmachum», Palermo 1955; I. Lana, Due capitoli prudenziani. La biografia, la cronologia delle opere, la poetica, Roma 1962; A.-M. Palmer, Prudentius on the Martyrs, Oxford 1989; I. Gualandri, Dio, il male, il bene nella poesia di Prudenzio, «Cassiodorus», 5, 1999, pp. 103-122; G. Guttilla, Prudenzio e il martirio di Eulalia: una rilettura del «Peristephanon» 3, «Revue d’études augustiniennes et patristiques», 54, 2008, pp. 63-93. � Paolino di Nola Edizioni: I carmi, a cura di A. Ruggiero, Città Nuova, Roma 1986; Epistole ad Agostino, a cura di T. Piscitelli Carpino, Napoli-Roma 1989; Le lettere, 2 voll., a cura di G. Santaniello, Napoli-Roma 1992. Studi: R. Argenio, San Paolino di Nola cantore di miracoli, Roma 1970; R.P.H. Green, The Poetry of Paulinus of Nola. A Study of his Latinity, Bruxelles 1971; J. Fontaine, Naissance de la poésie dans l’Occident chrétien, Paris 1981, pp. 143-176; S. Prete, Motivi ascetici e letterari in Paolino di Nola, Napoli-Roma 1987. � Sulpicio Severo Edizioni: Vita di Martino, in Vite dei santi, a cura di C. Mohrmann, vol. IV, testo critico e commento di Jan W. Smit, traduzione di L. Canali, Fondazione Lorenzo VallaArnoldo Mondadori Editore, Milano 1975. Studi: J. Fontaine, Alle fonti della agiografia europea. Storia e leggenda nella «Vita» di San Martino di Tours, «Rivista d i S t o r i a e L e t t e r at u r a Religiosa», II, 1966, pp. 187206; F. Ghizzoni, Sulpicio Severo, Roma 1983.


PROFILO STORICO

Sintesi

S

Il trionfo del cristianesimo Nel 357 l’imperatore cristiano Costanzo II aveva dato ordine di rimuovere dalla curia di Roma l’altare della dea Vittoria, che poco dopo era stato ricollocato nella sede originaria, forse durante il principato di Giuliano. Nel 382 Graziano, nell’ambito di una serie di misure antipagane, imponeva nuovamente la rimozione del venerabile monumento. Simmaco si adoperò allora ripetutamente, per anni, affinché insieme agli altri decreti antipagani il provvedimento fosse abrogato, ma sempre invano. Nel 384 aveva presentato a Valentiniano II la Relatio de ara Victoriae. Nel discorso di Simmaco la richiesta di tolleranza si fonda su basi eclettiche e relativistiche: le due religioni, pagana e cristiana, non sono incompatibili; a nessun uomo è dato penetrare nel mistero divino; dunque le vie che conducono alla verità possono e devono essere varie. La Relatio fece grande impressione, tanto che Ambrogio si affrettò a comporre due lettere (Ep. 17-18): la prima per richiamare l’imperatore ai suoi doveri di cristiano; la seconda per confutare il testo di Simmaco. Cristo si è rivelato agli uomini, ed esiste una sola via, indicata dai testi sacri, alla verità e alla fede. Si scontrano qui due opposte visioni della storia: da una parte la concezione ciclica del paganesimo, fondata sulla sacralità delle origini e sull’idealizzazione del passato; dall’altra quella linea­re e dinamica del cristianesimo. Ambrogio (fra 339 e 340-397), vescovo della città di Milano dal 374, svolse un’energica attività nell’ambito pastorale e politico, condotta su tre fronti: lotta contro il paganesimo; autonomia della Chiesa dal potere imperiale; salvaguardia dell’ortodossia cristiana dagli attacchi interni, in specie dell’arianesimo. Decisivo fu il suo intervento nella questione dell’altare della Vittoria, che sancì la definitiva sconfitta del paganesimo dinanzi alla nuova fede. Nell’arco di vent’anni Ambrogio compose un ingente numero di opere, che possiamo dividere in sei gruppi: opere esegetiche (tra cui l’Exameron, i «sei giorni» della creazione nel I libro della Genesi); opere ascetico-morali (da ricordare almeno il De officiis, modellato sull’omonimo trattato di Cicerone); opere di carattere dottrinale e dogmatico; orazioni; inni; epistole (tra le fonti più importanti per la conoscenza dei fatti contemporanei, in particolare i rapporti fra Chiesa e impero). La maggior parte delle opere è uno sviluppo di omelie, cioè di testi destinati alla predicazione: di qui il carattere di discorso parlato che presentano sovente i suoi scritti.

Gerolamo (fra 345 e 347 – 419 o 420), compiuti i suoi studi a Roma, conduce un’esistenza costellata di svolte improvvise e impulsive, fra Treviri, Aquileia, Roma e le terre d’Oriente, attratto a più riprese dalla vita anacoretica, finché nel 386 si stabilisce definitivamente a Betlemme. Mentre i barbari imperversano in ogni parte dell’impero, giungendo nel 410 fino a Roma, Gerolamo si dedica, nell’arco di un trentennio, alla composizione di un corpus di opere eccezionalmente ampio e vario. Di rilevante importanza la sua attività di traduttore dei testi scritturali: a lui si deve in particolare la traduzione integrale dell’Antico Testamento (la Vulgata). Compone inoltre opere esegetiche ed erudite, di polemica religiosa, agiografiche, storico-letterarie (tra le più notevoli, il Chronicon e il De viris illustribus); infine, il ricco epistolario, caratterizzato da una grande varietà di temi e di stile, in cui si delinea una sorta di autoritratto, che rispecchia i forti contrasti e le tonalità drammatiche della sua vicenda spirituale. In numerose lettere Gerolamo attacca i contemporanei nei toni dello sdegno polemico e del sarcasmo; altrove riecheggia con accenti di pathos e di smarrimento i terribili avvenimenti dell’epoca: pur plaudendo alla fine del paganesimo, continua a sentirsi pienamente romano. Agostino (354-430) nasce a Tagaste, in Numidia. Nel 383 si trasferisce da Cartagine a Roma; l’anno successivo Simmaco gli procura una cattedra a Milano. Due le esperienze decisive: l’incontro con il vescovo Ambrogio e la lettura dei libri dei filosofi platonici. Nel 386 si converte al cristianesimo, distaccandosi dalle ambizioni mondane; l’anno successivo riceve il battesimo da Ambrogio. Ritornato in Africa, nel 396 diviene vescovo della città di Ippona: intraprende un’intensissima attività pastorale, segnata dalla lotta contro le eresie manichea (da cui era stato attratto in gioventù), donatista e pelagiana. L’imponente corpus delle opere di Agostino (circa mille libri) comprende opere filosofico-teologiche, polemiche (volte in particolare alla confutazione delle eresie), esegetiche, catechetiche (da ricordare fra queste il De doctrina Christiana, composto fra 396 e 427), autobiografiche, apologetiche, oltre all’epistolario e ai Sermones. Autentica summa del pensiero teologico-dogmatico agostiniano è il De Trinitate (399-420). Ma le due opere che più si impressero nella cultura occidentale sono il De civitate Dei (412-427) e soprattutto le Confessiones (396-400).

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19. Il trionfo del cristianesimo

PROFILO STORICO

S

I primi nove libri delle Confessioni sono autobiografici: raccontano la vita di Agostino dalla nascita alla morte della madre Monica. Il libro X è una straordinaria meditazione sulla memoria: lo scavo memoriale conduce a Dio. I libri conclusivi (XI-XIII), un dettagliato commento dei versetti della Genesi relativi alla creazione del mondo, sono invece di argomento filosofico-teologico; il libro XI contiene le celebri riflessioni sul tempo. Nella Città di Dio lo spunto è apologetico: subito dopo il sacco di Roma (410), si era levata un’ultima protesta pagana contro il cristianesimo, visto come il responsabile dell’indebolimento dell’impero. I libri I-X rappresentano la pars destruens, in cui si confutano la religione e la filosofia dei pagani; i libri XI-XXII costituiscono la pars construens, in cui Agostino illustra la nascita, l’evoluzione e la fine delle due civitates che agiscono nella storia, la civitas Dei e la civitas diaboli. La prima è anche civitas coelestis, esiste fin dalla creazione degli angeli e dopo il Giudizio è destinata alla gloria della vita eterna; la seconda è nata con la caduta degli angeli ribelli e, alla fine dei tempi, sarà annientata per sempre. Le due civitates contrapposte, tuttavia non possono essere senz’altro identificate con le due istituzioni terrene della Chiesa e dello Stato. Da una parte, non c’è salvezza fuori dalla Chiesa, ma non tutti i cristiani sono veri cristiani, e quindi non tutti saranno nella civitas Dei alla fine dei tempi. Dall’altra, lo Stato non coincide con la civitas diaboli, è piuttosto un mezzo terreno a disposizione della Chiesa (quando è portatore di ordine e di pace) ma anche delle potenze del male (quando in esso prevale la libido dominandi). Prudenzio (348-post 405) è il maggior poeta latino cristiano dell’antichità. Il corpus delle sue opere può essere classificato in tre gruppi: poesia innologica (Cathemerinon; Peristephanon), poesia epico-didascalica (Apotheosis; Hamartigenia; Psychomachia); poesia apologetica (Contra Symmachum). Il Peristephanon («Inni delle corone») comprende quattordici inni dedicati ai santi martiri della cristianità, destinati non già all’uso liturgico (come gli inni ambrosiani, modello di riferimento dell’autore) ma alla meditazione privata. Il titolo allude alle corone, un tempo segno di vittoria militare o sportiva,

ora simbolicamente adibite alla celebrazione della vittoria sui peccati del mondo e sui persecutori pagani. Come nelle Passiones, il tema della lode si mescola con il gusto dell’orrido e del meraviglioso. Nella Psycomachia si assiste all’epico scontro fra Vizi e Virtù personificati: l’opera costituisce il modello dei fortunati poemi allegorici medievali. L’aspetto storicamente più significativo della poesia di Prudenzio è l’innesto di una spiritualità cristiana sulle forme classiche dell’antica poesia latina. Paolino di Nola (353-431), nato a Burdigala in Gallia, dopo il 383 matura la sua conversione e riceve il battesimo nel 389. Nel 395 si stabilisce a Nola, dove fonda una comunità monastica e trascorre una vita ascetica accanto alla tomba del martire Felice, trasformata in luogo di culto e meta di pellegrinaggi. Educato sui classici pagani alla scuola del conterraneo Ausonio, Paolino sente che la conversione al cristianesimo richiede una completa trasformazione di vita e di pensiero. Non abbandona la letteratura, ma sceglie di mettere la retorica al servizio della fede. Scrive, dopo la conversione, sia in prosa sia in versi, esclusivamente su temi cristiani: l’opera più significativa è il ciclo dei Carmina natalicia composti in onore del santo patrono di Nola. Se nuovi sono i contenuti, alla tradizione classica sono attinte sia le strutture retoriche sia le forme poetiche. Intorno alla figura di Martino di Tours gravita si può dire tutta la produzione di Sulpicio Severo (ca 363-420), che al santo dedica un testo agiografico (Vita Martini), tre Lettere, e due libri di Dialogi. La Vita di Martino (395-397) vuole essere una riconversione cristiana dei modelli della biografia classica: al posto dell’eroe o del filosofo, la figura del santo. Della vita di Martino, agli occhi di Sulpicio perfetto modello di vita cristiana, vengono ripercorse le tappe più significative; poi, secondo il procedimento per species delle biografie alessandrine, gli episodi più gloriosi del suo operato: miracoli, esorcismi, guarigioni, conversioni, lotta al paganesimo. Predominano, come nella Vita di Antonio di Atanasio, le categorie del meraviglioso e del demoniaco. Il testo ebbe grande fortuna, e contribuì in modo decisivo ad alimentare la leggenda del santo.

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Percorso antologico Ambrogio T1

Doveri medi e doveri perfetti

De officiis I, 36-37

T2

La tigre e lo specchio

T3

In difesa dei poveri

T4

Dottrina cristiana e sermo humilis

T5

Aeterne rerum conditor

Exameron IX, 21 De Nabuthae 1-2 De Isaac vel anima 7, 57

Hymni

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Gerolamo T6

La vita nel deserto

Epistulae 22, 7

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T7

Ciceronianus es, non Christianus

Epistulae 22, 30

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T8

Le rovine del paganesimo

T9

Quid salvum est, si Roma perit?

Epistulae 107, 2

LAT

Epistulae 123, 15-16

ONLINE

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Agostino T10

Recordari volo

Confessionum II, 1

T11

Il furto delle pere

T12

Nondum amabam et amare amabam

T13

Lettura della Bibbia

T14

La divina chiamata

T15

Le insidie del piacere estetico

T16

Cosa fare della cultura pagana

T17

Esortazione allo studio delle Sacre Scritture

T18

Sul servizio militare

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Confessionum II, 9

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Confessionum III, 9

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Confessionum X, 38

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Confessionum III, 1

Confessionum X, 49-50 De doctrina Christiana II, 60 Epistulae 132

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IT LAT

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Peristephanon III, 126-170

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Ausonio e Paolino: uno scambio epistolare Ausonio, Epistulae 24; Paolino, Carmina 10, 19-42; 103-155

IT

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Epistulae 189, 4-6

Prudenzio T19

Il martirio di Eulalia

Paolino di Nola T20

Sulpicio Severo T21

Martino e il diavolo

Vita Martini 24

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619 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

19. Il trionfo del cristianesimo

Ambrogio T1

Doveri medi e doveri perfetti

T2

La tigre e lo specchio

T3

In difesa dei poveri

De officiis I, 36-37

Exameron IX, 21

De Nabuthae 1-2

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 4 Dottrina cristiana e sermo humilis De Isaac vel anima 7, 57 LATINO ITALIANO

Anche Ambrogio, come Agostino e come tutti i maggiori intellettuali cristiani dei primi secoli, avverte l’esigenza di utilizzare un linguaggio e uno stile adeguati alla diffusione e alla spiegazione delle verità cristiane. Humilis, planus, simplex definiscono, nella scala tradizionale dei genera dicendi, il linguaggio più basso, semplice, popolare, adatto per argomenti comici o di vita quotidiana: il cristianesimo lo innalza invece a veicolo delle più profonde e sublimi verità dello spirito. L’humilitas evangelica non è soltanto una virtù morale, ma anche un nuovo modo di concepire la dimensione letteraria.

Constitue nunc doctorem aliquem, qui rem obscuram velit aperire audientibus, quemadmodum, etsi ipse potens in sermone sit et scientia, condescendat tamen ad eorum scientiam qui non intellegant et simplici et planiore atque usitato sermone utatur, ut possit intellegi. Quisquis igitur inter audientes vivacior sensu sit, qui facile sequi possit, elevat eum atque excutit. Hunc videns doctor revocat, ut patiatur magis doctorem humilioribus et planioribus immorari, quo et ceteri sequi possint. Immaginati ora un maestro che voglia spiegare agli uditori un argomento oscuro: in che modo costui, sebbene esperto nella parola e nella conoscenza, discende tuttavia al livello della conoscenza di coloro che non capiscono e come si serve di un parlare semplice e usuale, così che possa essere compreso! Pertanto chiunque tra gli ascoltatori è di intelligenza più sveglia in modo da poterlo seguire facilmente, eleva il maestro e lo scuote. E questi, vedendolo così fatto, lo richiama, perché sopporti che il maestro si soffermi sulle questioni più umili e più piane, affinché anche gli altri possano seguire. (trad. di C. Moreschini)

620 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

Leggere un TESTO CRITICO Lo stile è umile, ma l’oggetto è sublime Le pagine più incisive sulla nozione di sermo humilis si devono al filologo tedesco Erich Auerbach, autore di importanti studi sulla lingua letteraria nella tarda

antichità latina e nel Medioevo. Sull’argomento si vedano anche le tesi di Hagendahl [ Leggere un testo critico, p. 628].

Nelle Scritture si riconosce il “basso” stile, che per lo piú è indicato con la parola humilis. Scopo e carattere di questa umiltà dello stile è la generale comprensibilità; la Sacra Scrittura deve essere accessibile anche per le persone dappoco, le quali devono esserne prese e trovarsi in essa come a casa propria. Ma il contenuto della Scrittura non è sempre semplice; essa contiene misteri, cela un significato piú profondo, e molto in essa appare oscuro. Ma anche questo non è presentato in uno stile dotto e “superbo”, in modo da intimidire e respingere il lettore semplice. Invece, chi non è di cuore leggero (chi non è immodesto e superficiale) può penetrare anche nel senso piú profondo; la Scrittura «cresce con le creature», ossia le creature crescono nella sua comprensione. Tuttavia sono pochi, quelli che penetrano in essa: per riuscirvi occorre non dottrina, ma vera umiltà (Agostino, De doctr. 2, 41-42), che corrisponde all’umiltà del suo stile; ciò che è profondo e occulto non è altro che ciò che viene detto anche apertamente, semplicemente e chiaramente, solo che esso apre strati piú profondi dell’intelletto, in modo da tenere incessantemente nella sua tensione e nella sua aspirazione l’ascoltatore o il lettore che ricerca la pia sapienza, cosciente della profondità del mistero, giacché nessuno arriva fino all’ultima profondità. La dottrina talvolta può essere utile, ma non è affatto una condizione per arrivare alla conoscenza piú profonda: ciò è in rapporto con la convinzione, spesso espressa da Agostino, che la vera conoscenza sulla terra si ha soltanto per un contatto momentaneo (ictu), per una illuminazione, nella quale l’uomo toccato da questa grazia può restare solo per un breve momento; e subito ricade nel terreno e nel comune. Cosí tutto lo stile della Sacra Scrittura è humilis, modesto o umile. Anche ciò che è occulto (segreta, recondita) è espresso in modo modesto. Ma l’oggetto, semplice o occulto che sia, è elevato. La modestia o umiltà dell’esposizione è l’unica forma possibile, l’unica appropriata, in cui cosí elevati misteri possano essere resi accessibili agli uomini; corrispondentemente all’Incarnazione, la quale era una humilitas che si inchinava anche nel senso che gli uomini non avrebbero potuto sopportare lo splendore della divinità di Cristo. Ma l’Incarnazione, nel suo corso terreno, non poteva essere raccontata altrimenti che in uno stile modesto e umile. La nascita nella stalla di Betlemme, la vita fra pescatori e pubblicani e altre persone ordinarie del traffico quotidiano, la passione con tutti i suoi atti realistici e spogli di dignità, non si adattavano né allo stile dell’alta eloquenza né a quello della tragedia o del grande epos. Secondo le concezioni dell’estetica agostiniana quello sfondo, quell’ambiente, si adattavano tutt’al piú ad uno dei generi letterari inferiori. Ma lo stile umile della Sacra Scrittura comprende l’elevato. Esso comprende parole semplici, talvolta quotidiane e rozzamente realistiche, esso comprende periodi ineleganti e da lingua parlata; ma l’oggetto è sublime, e la sublimità si manifesta nella sua profondità; la Scrittura contiene dappertutto un senso occulto. In questa fusione del sublime con l’umile, molto spesso il sublime (res excelsa et velata mysteriis, secreti sui dignitas) è equiparato all’oscuro e all’occulto. Ma anche questo non è sublime nel senso che non tutti possono parteciparvi. L’aspetto onnicomprensivo di questo stile è l’umiltà. (E. Auerbach, Sermo humilis, in Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli, Milano 1960, pp. 53-55)

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

19. Il trionfo del cristianesimo

T 5 Aeterne rerum conditor Hymni LATINO ITALIANO

PERCORSO ANTOLOGICO

Nota metrica: otto strofe tetrastiche, composte ciascuna di quattro dimetri giambici acatalettici.

È l’alba: il gallo canta, spunta la stella del mattino e si dileguano i terrori della notte. L’inno presenta un chiaro significato allegorico, fondato sull’antitesi lux/ nox: le tenebre sono il regno della tentazione e del peccato; la luce, simbolo del Dio che conforta e perdona, richiama la Chiesa alla preghiera. L’esperienza notturna è vissuta con sensibilità intensa ed angosciata: la notte appare come una dimensione inquietante e pericolosa, abitata da presenze nemiche in agguato (la schiera degli spiriti erranti; i latrones), dominata da un senso di precarietà e di dispersione (le figure del viandante, dei marinai, dell’infermo), percorsa dalla costante tentazione del tradimento e del peccato (l’episodio di Pietro che rinnega Cristo). 1

Aeterne rerum conditor noctem diemque qui regis et temporum das tempora ut alleves fastidium,

1

Eterno creatore del mondo che governi notte e giorno, che fai seguire tempo a tempo per alleviare il nostro tedio,

2

praeco diei iam sonat, noctis profundae pervigil, nocturna lux viantibus, a nocte noctem segregans.

2

canta l’araldo del giorno, scolta della profonda notte, luce notturna ai viandanti che dalla notte stacca la notte.

3

Hoc excitatus lucifer solvit polum caligine, hoc omnis erronum chorus vias nocendi deserit.

3

Per lui, ridestato, Lucifero scrosta dal cielo le tenebre per lui, lo stuolo degli erranti diserta le strade del male.

4

Hoc nauta vires colligit pontique mitescunt freta, hoc ipse petra ecclesiae canente culpam diluit.

4

Per lui il marinaio si rinfranca, e si placano i flutti del mare; anche la pietra della chiesa al suo canto lava il peccato.

5

Surgamus ergo strenue, gallus iacentes excitat, et somnolentos increpat, gallus negantes arguit.

5

Sù, di buon animo, in piedi, il gallo scuote gli oziosi il gallo striglia gli assonnati, e biasima i rinnegati.

6

Gallo canente spes redit, aegris salus refunditur, mucro latronis conditur, lapsis fides revertitur.

6

Al suo canto ritorna speranza, negli infermi torna salute; il bandito ripone l’arma, chi è caduto la fede ritrova.

1. Aeterne... regis: cfr. Genesi 1, 3-5. – et temporum das tempora: eco di Daniele (2, 21): Et ipse mutat tempora, et aetates. 2. praeco diei: il gallo.

3. lucifer: la stella del mattino. – erronum chorus: gli spiriti maligni che vagolano nella notte. 4. petra ecclesiae: l’immagine si trova in Matteo 16, 18; l’episodio in cui Pietro

622 © Casa Editrice G. Principato

rinnega Cristo è ancora in Matteo 26, 69-75. 5. negantes: letteralmente «chi si rifiuta» di alzarsi al richiamo del gallo, ancora una volta allegoria del rinnegamento di Cristo.


PERCORSO ANTOLOGICO

7

Iesu, labantes respice et nos videndo corrige: si respicis, lapsus cadunt fletuque culpa solvitur.

8

Tu lux refulge sensibus mentisque somnum discute, Te nostra vox primum sonet, et ora solvamus Tibi.

7. Iesu... respicis: allusione allo sguardo rivolto a Pietro da Cristo sulla croce (Luca 22, 61).

7

Volgi gli occhi a chi vacilla, guidaci, Gesù, col tuo sguardo; se ci guardi, le colpe cessano il peccato si scioglie nel pianto.

8

Tu luce risfolgora ai sensi dissipa il sonno dell’anima per primo Te la voce nomini per Te le bocche si aprano.

8. mentisque somnum: il peccato. Si ricordi Dante: «tant’era pien di sonno a

quel punto/ che la verace via abbandonai» (Inferno I, 11-12).

Gerolamo T6

La vita nel deserto

Epistulae 22, 7

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T 7 Ciceronianus es, non Christianus Epistulae 22, 30 ITALIANO

Nel 384 – in una lunga lettera inviata ad Eustochio, figlia di Paola – Gerolamo narra un episodio della propria vita eremitica, con l’intento di ricordare alla ragazza posta sotto la sua guida spirituale il pericoloso fascino delle tentazioni letterarie. Già Tertulliano aveva scritto: «Che hanno a che fare tra di loro Atene e Gerusalemme? L’Accademia platonica e la Chiesa? Gli eretici e i cristiani?» (De praescr. haer. 7, 9). A sua volta, nel passo che introduce al racconto della propria travagliata esperienza, Gerolamo osserva: «Che ci fa Orazio insieme al Salterio, Virgilio insieme ai Vangeli, Cicerone insieme all’apostolo? [...] non si deve bere insieme il calice di Cristo e il calice dei demoni». Resta il fatto che diverse espressioni di questo brano echeggiano versi di Virgilio.

Quando, molti anni fa, mi amputai, per il regno dei cieli, casa, genitori, sorella, parenti e – cosa più difficile – l’abitudine a pranzi piuttosto lauti, dirigendomi alla volta di Gerusalemme a militare per Cristo, non potevo restar privo della biblioteca che a Roma mi ero messa insieme con molta cura e fatica. E così io, sciagurato, digiunavo per poi leggere Cicerone. Dopo frequenti veglie notturne, dopo le lacrime che mi faceva uscire dal profondo delle viscere il ricordo dei vecchi peccati, prendevo in mano Plauto. E se talvolta, ritornato in me, iniziavo a leggere i profeti, mi faceva orrore quel linguaggio rozzo e, non vedendo la luce a causa della cecità degli occhi, non pensavo che fosse colpa degli occhi, ma del sole. Mentre l’antico serpente si faceva beffe di me in questo modo, verso la metà della Quaresima la febbre mi penetrò fin nelle midolla e si impadronì del mio corpo esausto, e senza un attimo di tregua – anche a dirlo è incredibile – mi consumò 623 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

19. Il trionfo del cristianesimo

PERCORSO ANTOLOGICO

le membra infelici al punto che a stento restavo attaccato alle mie ossa. Intanto si preparava il funerale; tutto il corpo era già freddo ed il calore vitale dell’animo palpitava solo nel povero petto, appena tiepido, quando improvvisamente, rapito nello spirito, vengo tratto davanti al tribunale del Giudice, dove c’erano tanta luce e tanto fulgore irradiato dai presenti che io, gettatomi a terra, non avevo il coraggio di alzare lo sguardo. Interrogato su chi fossi, risposi di essere cristiano. E colui che sedeva disse: «Menti, tu sei ciceroniano, non cristiano; dove c’è il tuo tesoro, lì c’è anche il tuo cuore» (Matteo 6, 21). Subito ammutolii e tra le percosse – egli aveva ordinato infatti che io fossi battuto – ero tormentato ancor più dal fuoco della coscienza, mentre consideravo tra me quel versetto: Ma nell’inferno chi canterà le tue lodi? (Salmo 6, 6) Iniziai tuttavia a gridare e a dire, lamentandomi ad alta voce: Pietà di me, Signore, pietà di me (Salmo 56, 2). Queste parole risuonavano tra i colpi di frusta. Alla fine, gettatisi alle ginocchia di colui che presiedeva, gli astanti supplicavano che concedesse il perdono alla mia giovane età, che desse all’errore la possibilità di penitenza, con la condizione che avrebbe preteso poi tale supplizio se mai avessi ripreso a leggere libri di scrittori pagani. Io che, costretto in una situazione così critica, sarei stato disposto a promettere anche di più, cominciai a giurare e a dire, chiamando a testimonio il suo nome: «Signore, se mai avrò testi profani, se li leggerò, significherà che ti ho rinnegato!». Rilasciato dopo queste parole di giuramento, torno sulla terra e, fra la meraviglia di tutti, apro gli occhi, talmente inondati di lacrime da convincere, visto il mio dolore, anche gli increduli. E non si era trattato di un sogno né di quelle vane fantasie da cui spesso siamo ingannati. Lo attesta il tribunale davanti al quale stetti prostrato, lo attesta il giudizio di cui ebbi paura – non mi capiti mai più di incorrere in un processo del genere! –, il fatto che avevo le spalle livide, che sentivo le piaghe al risveglio, e che da allora ho letto i testi sacri con tanto zelo, quanto non ne avevo avuto prima nel leggere i testi mortali. (trad. di R. Palla)

Caravaggio, San Gerolamo scrivente, 1606 ca. Roma, Galleria Borghese.

T8

Le rovine del paganesimo

T9

Quid salvum est, si Roma perit?

Epistulae 107, 2

Epistulae 123, 15-16

624 © Casa Editrice G. Principato

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ONLINE


PERCORSO ANTOLOGICO

Agostino T 10 Recordari volo Confessionum II, 1 LATINO

Nel primo libro delle Confessioni Agostino ha rievocato alcuni episodi della propria infanzia e della propria fanciullezza, ricordando le debolezze del corpo, le incongruenze dell’educazione ricevuta, le vane esercitazioni letterarie alle quali aveva dovuto assuefarsi, gli studi di retorica che lo avevano allontanato da Dio, l’abisso di male nel quale giorno per giorno era precipitato. Neanche l’infanzia, agli occhi dell’uomo che rievoca il proprio lontano passato, appare immune dal peccato: i piccoli furti nella dispensa di casa, la smania di sovrastare i propri compagni nei giochi, le bugie con cui ingannava continuamente i maestri e i genitori gli appaiono come i segni di un’inclinazione al male che nell’uomo convive in ogni epoca della vita con la naturale aspirazione al bene. Giunto al secondo libro, poco prima di dover narrare l’età dell’adolescenza, dominata dai primi turbamenti dei sensi e dal desiderio di uniformarsi ai costumi dei suoi coetanei («ed io» scriverà in II, 3 «per non essere disprezzato diventavo più vizioso: che se non avevo commesso nulla che mi mettesse alla pari con quegli sciagurati, inventavo colpe non commesse, per non parer da meno in quanto ero più innocente, per non esser tenuto in dispregio in quanto più casto»), Agostino si rivolge a Dio per trovare nel suo amore il significato della propria vita.

[1]

Recordari volo transactas foeditates meas et carnales corruptiones animae meae, non quod eas amem sed ut amem te, Deus meus. [2] Amore amoris tui facio istuc, recolens vias meas nequissimas in amaritudine recogitationis meae, ut tu dulcescas mihi, dulcedo non fallax, dulcedo felix et secura, et colligens me a dispersione, in qua frustatim discissus sum, dum ab uno te aversus in multa evanui.

[1] Voglio ricordare le mie passate turpitudini e le dissolutezze carnali della mia anima, non perché io le ami, ma affinché io ti ami, mio Dio. transactas: participio perfetto del verbo transı̆go (ĕgi, aˉctum, ĕre). – foeditates... corruptiones: le scelte lessicali pongono l’accento sull’aspetto ripugnante dei piaceri carnali, che finiscono per insozzare persino l’anima, creata ad immagine di Dio. – non quod... sed ut: all’antitesi tra le due proposizioni (causale la prima, finale la seconda) corrisponde la costruzione chiastica dei verbi e dei pronomi (eas amem... amem te), posti anch’essi in forte contrasto (eas... te). [2] Faccio questo per amore del tuo amore, richiamando alla mente nell’amarezza della mia riflessione le vie della mia dissolutezza, affinché tu diventi dolce per me, dolcezza non

fallace, dolcezza felice e sicura, e raccogliendomi dalla dispersione nella quale sono stato lacerato in pezzi, quando, staccato da te – l’Uno – mi disciolsi nella molteplicità [delle cose]. Amore amoris: il poliptoto era già in un passo della favola di Amore e Psiche narrata da Apuleio (in Amoris incidit amorem): ma qui l’espressione si carica di un acceso valore mistico. – tui: genitivo insieme oggettivo e soggettivo: è l’amore misericordioso di Dio per l’autore, ma anche l’amore di chi scrive per Dio. – istuc: accusativo neutro del pronome dimostrativo istic, istaec, istuc (iste+ce, particella epidittica). – in amaritudine... meae: con un’eco di un passo di Isaia (38, 15): Recogitabo tibi omnes annos meos in amaritudine animae meae («Ripenserò dinanzi a te a tutti i miei anni, nell’amarezza dell’anima mia»).

– dulcescas... dulcedo... dulcedo: si notino la figura etimologica (dulcescas... dulcedo) e l’anafora (dulcedo... dulcedo), rafforzate dall’allitterazione dei sostantivi intermessi (fallax... felix). Mihi è dativo di vantaggio. – colligens: participio presente del verbo collı̆go (leˉgi, leˉctum, ĕre). – dispersione... discissus sum: è la dispersione in cui cade il giovane Agostino, abbandonandosi al potere delle passioni. – frustatim: avverbio, dal sostantivo frustum, i («pezzo, pezzetto, frammento»). – dum: con valore temporale: «per tutto il tempo che». – ab uno... in multa: si noti l’antitesi, che oppone (non senza reminiscenze della filosofia neoplatonica) Dio (l’Uno) al molteplice. L’aggettivo aversus è impiegato in funzione predicativa.

625 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

19. Il trionfo del cristianesimo

[3] Exarsi enim aliquando satiari inferis in adulescentia et silvescere ausus sum variis et umbrosis amoribus, et contabuit species mea et computrui coram oculis tuis, placens mihi et placere cupiens oculis hominum. [3] Infatti ogni tanto, nella mia adolescenza, bruciai dal desiderio di saziarmi nei piaceri più bassi e osai inselvatichirmi in amori svariati e tenebrosi, e la mia bellezza si consunse e imputridii agli occhi tuoi, per piacere a me stesso e per la brama di piacere agli occhi degli uomini. Exarsi... satiari: costruzione inedita (sul modello di cupio + infinito), che ve-

locizza l’espressione del concetto. Exarsi è perfetto di exardesco (arsi, arsum, ĕre). – inferis: ablativo di abbondanza del sostantivo neutro plurale infera. – silvescere: questo perdersi in una selva di amori tenebrosi apre la strada all’immagine medievale (resa celebre dall’incipit del poema dantesco) della selva del peccato. – contabuit: perfetto del verbo contabesco (taˉbŭi, ĕre), che segnala un

Analizzare il testo

PERCORSO ANTOLOGICO

1.

Quale motivo spinge l’autore a rievocare dinanzi a Dio le vicende del proprio lontano passato? 2. Commenta, dal punto di vista filosofico, l’espressione dum ab uno te aversus in multa evanui.

processo di rovina e di dissoluzione, ma anche uno struggersi doloroso dell’anima. – computrui: perfetto di computresco (trŭi, ĕre): ancora un verbo incoativo, di forte valore espressivo, come il precedente contabuit. – oculis tuis... oculis hominum: antitesi esibita, rafforzata anche dall’uso del poliptoto placens mihi et placere cupiens. L’espressione è già nel Salmo 78, 10.

3. Rintraccia nel passo che hai letto le figure retoriche più significative, interpretandole alla luce del pensiero dell’autore, e in particolare del rapporto che si istituisce tra uomo e Dio.

T 11 Il furto delle pere Confessionum II, 9 LATINO ITALIANO

All’età di sedici anni, dopo aver interrotto gli studi a Madaura ed aver fatto ritorno a Tagaste, il giovane Agostino si lega a cattive compagnie e si abbandona a una vita dissipata. Nell’episodio, apparentemente trascurabile, l’autore individua la radice del male allo stato puro, conseguenza del peccato originale. [9] Furtum certe punit lex tua, Domine, et lex scripta in cordibus hominum, quam ne ipsa quidem delet iniquitas: quis enim fur aequo animo furem patitur? Nec copiosus adactum inopia. Et ego furtum facere volui et feci nulla compulsus egestate nisi penuria et fastidio iustitiae et sagina iniquitatis. Nam id furatus sum, quod mihi abundabat et multo melius, nec ea re volebam frui quam furto appetebam, sed ipso furto et peccato. [9] La tua legge punisce il furto, Signore, è vero, e lo punisce la legge scritta nel cuore

dell’uomo, che neppure l’iniquità riesce a cancellare: c’è forse un ladro che sopporti volentieri un ladro? Ma neppure se è ricco, e l’altro spinto dalla povertà. Eppure io volli commettere un furto, e lo commisi non costretto da alcuna miseria, bensì da povertà e insofferenza di giustizia e sovrabbondanza di iniquità. Rubai infatti ciò che avevo in abbondanza e di qualità anche migliore, per godere non di ciò che cercavo di procurarmi col furto, bensì del furto stesso e del peccato.

626 © Casa Editrice G. Principato


PERCORSO ANTOLOGICO

Arbor erat pirus in vicinia nostrae vineae pomis onusta nec forma nec sapore inlecebrosis. Ad hanc excutiendam atque asportandam nequissimi adulescentuli perreximus nocte intempesta, quousque ludum de pestilentiae more in areis produxeramus, et abstulimus inde onera ingentia non ad nostras epulas, sed vel proicienda porcis, etiamsi aliquid inde comedimus, dum tamen fieret a nobis quod eo liberet quo non liceret. Ecce cor meum, Deus, ecce cor meum, quod miseratus es in imo abyssi. Dicat tibi nunc ecce cor meum quid ibi quaerebat, ut essem gratis malus et malitiae meae causa nulla esset nisi malitia. Foeda erat, et amavi eam; amavi perire, amavi defectum meum, non illud ad quod deficiebam, sed defectum meum ipsum amavi, turpis anima et dissiliens a firmamento tuo in exterminium, non dedecore aliquid, sed dedecus appetens. C’era un albero di pere, nei pressi della nostra vigna, carico di frutti non particolarmente attraenti né per l’aspetto né per il sapore. Qui ci spingemmo, noi ragazzacci, per scuoterlo e spogliarlo, a notte fonda, dopo aver protratto, secondo le nostre pessime abitudini, fino a quell’ora il gioco nelle piazze, e ne portammo via una gran quantità di frutti, non per farne una scorpacciata, ma per gettarle ai porci, anche se poi finì che qualcuno ne mangiammo, pur di provare ciò che tanto più ci era gradito quanto più era proibito. Ecco il mio cuore, Dio, ecco il cuore che nel profondo dell’abisso ti ha mosso a pietà. Ora ti dirà, questo mio cuore, cos’era andato a cercarvi, e perché io fossi tanto malvagio senza un motivo e la mia malvagità non avesse altro motivo all’infuori di sé stessa. Era immonda, e io l’amai; amai la mia rovina, amai il mio annientamento: non ciò per cui mi annientavo, amai, ma l’annientamento stesso, turpe anima che si strappava al tuo saldo sostegno «per sterminarsi», bramando non qualcosa con ignominia, ma l’ignominia stessa. (trad. di G. Chiarini)

T 12

Nondum amabam et amare amabam

Confessionum III, 1

ONLINE

T 13 Lettura della Bibbia Confessionum III, 9 LATINO ITALIANO

Verso i diciotto anni, poco dopo aver letto l’Hortensius di Cicerone, spinto da una forma di curiositas intellettuale più che da un’autentica esigenza religiosa, Agostino intraprende la lettura della Bibbia. Ma il testo viene rapidamente accantonato per motivi di ordine stilisticoespressivo: contro i dettami tradizionali della retorica classica, un contenuto alto, sublime, ispirato (successu excelsam et velatam mysteriis) si trovava infatti ad essere esposto mediante un linguaggio semplice e piano (incessu humilem). 627 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

19. Il trionfo del cristianesimo

[9] Itaque institui animum intendere in scripturas sanctas et videre quales essent. Et ecce video rem non compertam superbis neque nudatam pueris, sed incessu humilem, successu excelsam et velatam mysteriis, et non eram ego talis ut intrare in eam possem aut inclinare cervicem ad eius gressus. Non enim sicut modo loquor, ita sensi, cum attendi ad illam scripturam, sed visa est mihi indigna quam Tullianae dignitati compararem.1 Tumor enim meus refugiebat modum eius et acies mea non penetrabat interiora eius. Verum tamen illa erat, quae cresceret cum parvulis,2 sed ego dedignabar esse parvulus et turgidus fastu mihi grandis videbar.

PERCORSO ANTOLOGICO

[9]

Decisi dunque di dedicarmi alle Sacre Scritture e vedere com’erano. Ed ecco, vi scorgo qualcosa di impenetrabile ai superbi e di inaccessibile ai fanciulli, e tuttavia d’accesso basso e agevole, di proseguimento sempre più alto e avvolto di misteri, e io non ero in grado di penetrarvi o di chinare il capo a seconda del cammino. L’impressione che ne ebbi allora, quando mi accostai a quel libro, non fu la stessa di ora, ma mi parve indegna di esser raffrontata alla dignità di Cicerone.1 La mia boria rifuggiva da quello stile semplice e il mio acume non ne penetrava la profondità. Quell’opera era fatta invece per crescere assieme ai piccoli2: ma io disdegnavo di farmi piccolo e, gonfio di vanità, credevo di esser chissà quanto grande. (trad. di G. Chiarini) 1. sed visa est... compararem: Cicerone era considerato da secoli il modello più alto di elocutio. 2. parvulis: il riferimento è ad alcuni

noti passi del Vangelo di Matteo (11, 25; 18, 3): abscondisti haec a sapientibus, et prudentibus, et revelasti ea parvulis; Amen dico vobis, nisi conversi fueritis, et

efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum caelorum.

Leggere un TESTO CRITICO Sermo humilis e tradizione letteraria negli scrittori cristiani Harald Hagendahl (1889-1986), docente di Lingue Classiche presso l’Università svedese di Göteborg, individua, sulla linea del Norden, una contraddizione fra teoria e prassi negli scrittori cristiani: da una parte

essi sostengono l’esigenza di uno stile semplice e piano, dall’altra fanno uso dello stile ornato della tradizione pagana.

Gli scrittori [cristiani], per la maggior parte, si attengono a un altro punto di vista. L’eloquentia (euglottia), designata anche con sermo o verba, costituisce a loro avviso il segno di riconoscimento proprio della letteratura profana (cioè classica), mentre essi rivendicano semplicemente la verità (veritas oppure res) come proprio possesso.1 Si tratta di una contrapposizione paradossale tra teoria e prassi. «In teoria», dice il Norden, «essi 1. Un buon esempio è la caratterizzazione dei filosofi e oratori che fa Gerolamo, in Is. 33, 13: «applaudono se

stessi nell’erudizione e nell’eloquenza del mondo [...] tutto il loro ornamento è nelle parole; essi hanno solo le foglie e

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l’ombra dei discorsi, ma non possiedono il frutto della verità». 2. Quando si parla di Dio, si dice nella


PERCORSO ANTOLOGICO

quasi senza eccezioni sostengono che si dovrebbe scrivere con la massima semplicità, in pratica hanno spesso fatto volentieri il contrario». Un caso particolarmente curioso si trova già in Cipriano.2 Nulla in hoc libello erit rhetorici pompa sermonis, assicura Gerolamo in una lettera (Ep. 22, 2, 2) nella quale questo stilista nato supera se stesso. Affermazioni del genere si trovano un numero incalcolabile di volte. L’affettata avversione per la retorica è radicata nel sentimento che questa sia incompatibile con la semplicità cristiana; può darsi anche che entri qui la modestia dello scrittore, raccomandata dall’etichetta letteraria. I cristiani presero il nomignolo di piscatores, con il quale i loro critici pagani denigravano gli apostoli, e ne fecero un titolo di gloria. Tertulliano oppone al filosofo (sophista) i piscatores,3 altri preferiscono la contrapposizione piscator-orator.4 Le antitesi vengono usate volentieri ed efficacemente soprattutto da Gerolamo. «Quanti leggono oggi Aristotele e Platone», chiede, «o anche soltanto conoscono i loro nomi? Ma dei nostri rusticani e piscatores parla il mondo intero. E così le loro semplici parole devono essere annunziate con un discorso semplice (Itaque sermone simplici simplicia eorum verba pandenda sunt)». Per quanto gli autori potessero encomiare anche la simplicitas e rusticitas cristiana, non si attenevano poi ad esse nella prassi. La tradizione letteraria profana ha il sopravvento. Quanto più un autore chiede indulgenza per il suo sermo incultior, tanto più ci si può attendere da lui attenzione particolare alla lingua e allo stile. (H. Hagendahl, Cristianesimo latino e cultura classica, Borla, Roma 1988)

prima opera (Ad Donatum 2), non è conveniente un discorso imbellettato di eloquenza, ma il discorso semplice della verità: non diserta, sed fortia, nec ad audientiae popularis inlecebram culto sermone fucata, sed ad divinam indulgentiam praedicandam rudi veritate simplicia («accetta parole sostanziose e che non si curano della forma, e che non sono artificiosamente costruite ed elegantemente esposte per adescare le orecchie della gente, ma sono semplici in base alla

disadorna verità, adatte ad annunciare la bontà di Dio»). Il contrasto tra l’esigenza che viene contrapposta alla forma dell’annuncio, e la forma stessa in cui questa esigenza è presentata da Cipriano, non potrebbe essere maggiore. Si devono osservare le clausole ritmiche, le antitesi, l’accurato parallelismo, dove ogni parola di un membro ha un corrispondente nell’altro e dove entrambi i membri corrispondenti si compongono quasi della stessa quantità di sillabe, e finalmente il

gioco delle rime nelle sillabe finali. Il tutto è più conforme allo stile retorico che non al linguaggio semplice della verità. 3. Tertulliano, Anim. 3, 3: «Cristo non ha mandato a predicare dei sofisti ma dei pescatori». 4. Sulpicio Severo prega il lettore (Vita Mart., praef. 1) di fare attenzione alle cose piuttosto che alle parole, e continua: «si ricordino che anche la salvezza del mondo è stata predicata non da oratori [...] ma da pescatori».

T 14 La divina chiamata Confessionum X, 38 LATINO ITALIANO

Due i temi sviluppati in questo breve capitolo: la bellezza divina, eterna e immutabile, che irraggia anche le cose terrene; il richiamo all’interiorità. Lo stile, acceso e lirico, fondato su ripetizioni intensive (Sero te amavi... sero te amavi), antitesi (intus/ foris; formosa/ deformis; Mecum eras, et tecum non eram), metafore di forte carica sensoriale (fraglasti, gustavi, esurio, sitio, tetigisti, exarsi), è affidato a una sintassi concisa e folgorante, di grande forza espressiva. Si ricordi che anche Cristo aveva esortato alla brevitas (Matteo 5, 37): Sit autem sermo vester: Est, est; Non, non; quod autem his abundantius est, a malo est («Ma sia il vostro parlare: sì, sì; no, no; perché il di più viene dal maligno»). 629 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

19. Il trionfo del cristianesimo

[38]

Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, sero te amavi! Et ecce intus eras et ego foris et ibi te quaerebam et in ista formosa, quae fecisti, deformis inruebam. Mecum eras, et tecum non eram. Ea me tenebant longe a te, quae si in te non essent, non essent. Vocasti, et clamasti et rupisti surditatem meam, coruscasti, splenduisti, et fugasti caecitatem meam, fraglasti et duxi spiritum et anhelo tibi, gustavi et esurio et sitio, tetigisti me et exarsi in pacem tuam.

[38] Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco, tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo e, brutto com’ero, mi gettavo sulle bellezze da te create. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano cose che, se non fossero in te, non sarebbero. Gridasti e chiamasti e spezzasti la mia sordità, balenasti, splendesti e scacciasti la mia cecità, schiudesti il tuo profumo, ne respirai e a te anelo, ne gustai e di te ho fame e sete, mi toccasti, e m’infiammai della tua pace.

PERCORSO ANTOLOGICO

(trad. di G. Chiarini)

T 15

Le insidie del piacere estetico

Confessionum X, 49-50

ONLINE

T 16 Cosa fare della cultura pagana De doctrina Christiana II, 60 ITALIANO

Affrontando il delicato problema del rapporto fra cultura cristiana e cultura pagana, Agostino si pronuncia per un netto rifiuto, sul piano pratico come su quello dogmatico, di quanto non sia utilizzabile entro una prospettiva religiosa. Riconosce tuttavia che la cultura pagana comprende, accanto a falsità e menzogne, sparse verità che debbono essere recuperate e restituite al loro pieno significato. Il discorso viene fondato sull’interpretazione allegorica di un noto episodio dell’Antico Testamento, la fuga dall’Egitto del popolo ebraico, narrato nel libro dell’Esodo. Agostino non manca, a questo proposito, di condannare le forme di esegesi allegorica praticate in ambito pagano (sic doctrinae omnes gentilium... debet abominari atque devitare): gli stoici, ad esempio, leggevano ed interpretevano allegoricamente i poemi omerici. [60] Quanto a quelli che si chiamano filosofi, se hanno detto cose vere e compatibili

con la nostra fede, soprattutto i platonici, non solo non le dobbiamo temere ma le dobbiamo rivendicare da loro, quasi che non le posseggano legittimamente, per usarne noi. Gli Egiziani non soltanto avevano idoli e imponevano pesanti gravami, che il popolo d’Israele detestava e respingeva, ma possedevano anche suppellettili e ornamenti d’oro e d’argento e vesti, che il popolo uscendo dall’Egitto rivendicò nascostamente a sé per farne uso migliore, agendo non di propria iniziativa ma per comando di Dio; e furono gli stessi Egiziani che, all’oscuro di tutto, affidarono loro questi oggetti di cui non sapevano fare buon uso.1 Allo stesso modo, tutte le discipline

1. Sicut enim Aegyptii... non bene utebantur: Dio aveva promesso a Mosè che il popolo d’Israele non sarebbe uscito a mani vuote d’Egitto: «ma

ogni donna chiederà alla sua vicina e a quella che dimora nella sua casa vasi d’argento e d’oro e vestiti; voi li porrete addosso ai vostri figli e alle vostre figlie

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e così spoglierete l’Egitto» (Esodo 3, 21-23). Dopo aver assistito impotente alle dieci piaghe d’Egitto, il Faraone fu costretto a lasciar partire il popolo di


PERCORSO ANTOLOGICO

dei pagani non contengono soltanto invenzioni false e superstiziose e gravami faticosi e inutili, che ognuno di noi quando sotto la guida di Cristo esce dalla società dei pagani deve detestare ed evitare; ma contengono anche discipline liberali molto adatte all’esercizio della verità e utilissimi precetti morali; troviamo anche presso di loro alcune affermazioni veritiere sulla venerazione dell’unico Dio. È come oro e argento che essi non hanno prodotto ma hanno estratto, per così dire, dalle miniere della divina provvidenza, che è diffusa dovunque, e di cui fanno uso perverso e offensivo a servizio dei demoni. Quando il cristiano si separa spiritualmente dalla loro società apportatrice di miserie, deve strapparli da loro per volgerli al retto uso della predicazione del Vangelo. Anche i loro vestiti, cioè alcune norme istituite dagli uomini e tuttavia appropriate alla società umana dalla quale in questa vita non possiamo estraniarci, sarà lecito accoglierle e possederle per volgerle all’utilità dei cristiani. (trad. di M. Simonetti)

Dio: «ma i figli d’Israele, facendo come Mosè aveva ordinato, chiesero agli Egiziani dei vasi d’argento e d’oro, e mol-

T 17 T 18

tissimi vestiti. E il Signore fece trovar grazia al popolo dinanzi agli Egiziani, in modo che essi prestassero, e così gli

Ebrei spogliaron gli Egiziani» (Esodo 12, 35-36; trad. di E. Tintori).

Esortazione allo studio delle Sacre Scritture

ONLINE

Epistulae 132

Sul servizio militare

Epistulae 189, 4-6

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Peristephanon III, 126-170

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Prudenzio T 19

Il martirio di Eulalia

Paolino di Nola T 20

Ausonio e Paolino: uno scambio epistolare

ONLINE

Ausonio, Epistulae 24; Paolino, Carmina 10, 19-42; 103-155

Sulpicio Severo T 21

Martino e il diavolo

Vita Martini 24

ONLINE

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LABORATORIO

Nell’officina di Agostino Lettura dell’Hortensius di Cicerone Confessiones III, 4, 7-8

ANTITESI (ASINDETO AVVERSATIVO)

ANAFORA DISPOSIZIONE CHIASTICA DEI DUE VERBI

FIGURA ETIMOLOGICA

Inter hos ego inbecilla tunc aetate discebam libros eloquentiae, in qua emineˉre cupiebam fine damnabili et ventoso per gaudia vanitatis humanae, et usitato iam discendi ordine perveneram in librum cuiusdam Ciceronis, cuius linguam fere omnes mirantur, pectus non ita. Sed liber ille ipsius exhortationem contı̆net ad philosophı̆am et vocatur Hortensius. Ille vero liber mutavit affectum meum et ad Te ipsum, Domine, mutavit preces meas et vota ac desideria mea fecit alia. Viluit mihi repente omnis vana spes et immortalitem sapientiae concupiscebam aestu cordis incredibili et surgere coeperam, ut ad te redirem. Non enim ad acuendam linguam, quod videbar emere maternis mercedibus, cum agerem annum aetatis undevicensimum iam defuncto patre ante biennium, non ergo ad acuendam linguam referebam illum librum neque mihi locutionem sed quod loquebatur persuaserat.

METAFORA

ABLATIVO ASSOLUTO CON VALORE CAUSALE

In tale ambiente, in età ancora immatura, io studiavo libri di eloquenza, arte nella quale contavo di farmi un nome, con un fine biasimevole e vano, per le gioie della vanità umana. E secondo l’usuale ordine dell’insegnamento ero arrivato al libro di un certo Cicerone, di cui quasi tutti ammirano la perfezione linguistica, non tutti l’animo; libro che contiene l’esortazione dell’autore alla filosofia ed è intitolato Ortensio. Ebbene, quel libro cambiò la mia mentalità, cambiò anche il tono delle mie preghiere a Te, Signore, cambiò radicalmente le mie aspirazioni e i miei desideri. Di colpo ogni sorta di vane speranze rinvilì; con incredibile ardore di cuore presi a desiderare la sapienza imperitura: e già incominciavo ad alzarmi per far ritorno a Te. Non ad affinare la mia lingua, il che in apparenza pagavo con il mensile materno – avevo diciannove anni ed il padre era morto da due – non ad affinare la lingua volgevo la lettura di quel libro; non mi impressionava l’eleganza del dire ma quello che esso diceva. (trad. di C. Vitali)

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I dati

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Nell’anno 373 d.C. il giovane Agostino si trova a Cartagine, dove ha intrapreso gli studi di retorica in una classe alquanto turbolenta, tra studenti (Inter hos) che godevano dell’appellativo di eversores (termine che potremmo tradurre con “sterminatori, distruttori”), per l’insolenza e la prepotenza che esercitavano, soprattutto sui nuovi arrivati o sugli studenti più timidi. Pur aborrendo dalle loro imprese, il giovane studente di retorica si compiace della loro compagnia, quasi vergognandosi di non essere come loro. È in questo particolare momento della sua vita che Agostino, come prescrivevano i programmi scolastici dell’epoca (usitato iam discendi ordine), affronta la lettura dell’Hortensius, un dialogo ciceroniano, per noi perduto, che esortava agli studi filosofici.

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fine ventoso: lett. «un fine pieno di vento». Nella traduzione proposta, un «fine vano». Prova a spiegare meglio il passaggio dal termine latino a quello italiano. Potremmo tentare una traduzione più aderente all’immagine usata dall’autore? Osserva, poco più avanti, anche l’espressione vana spes. vanitatis: un termine che ricorre spesso nei padri della Chiesa e in generale in tutti gli scritti cristiani. Aiutandoti con gli esempi proposti dal vocabolario, spiega il diverso significato che il termine vanitas assume nel mondo cristiano rispetto a quello classico. cuiusdam Ciceronis: lett. “di un certo Cicerone”. L’uso dell’aggettivo indefinito quidam ha fatto sobbalzare i lettori di ogni tempo. Alcuni l’hanno interpretato in senso ironico, altri in senso dispregiativo, come a marcare la superiorità del pensiero cristiano su quello pagano. Altri ancora, come un’espressione rivolta a un pubblico privo di cultura letteraria. Non manca chi ha ipotizzato che l’aggettivo valesse per il giovane studente, ancora ignaro del nome di Cicerone. Prendi posizione sulla questione, alla luce del testo che stai leggendo. Nel duro giudizio riservato a Cicerone, Agostino oppone lingua a pectus: che cosa significa? E in quale espressione ancora ricorre, nella seconda parte del brano, la stessa opposizione segnalata con tanta energia concettuale dall’autore? Sed liber ille... Ille vero liber: quale figura retorica viene impiegata, in questo caso, dall’autore?

desideria: desiderium è il rimpianto, la nostalgia di qualcosa che abbiamo perduto. Il termine deriva infatti da de (che esprime l’idea dell’allontanamento) e dalla radice di sidus, sideris (“astro, stella”): nostalgia di un’origine astrale. Nel mondo cristiano, è come se l’etimologia nascosta dentro la parola venisse risvegliata: ogni desiderio, anche il più umano, non è altro che desiderio di Dio. È un esempio di risemantizzazione del lessico latino. Viluit: ricerca il paradigma di questo verbo. concupiscebam aestu cordis: i termini rinviano all’esperienza del desiderio fisico, ma sono qui piegati a un’esigenza di ordine puramente spirituale. surgere: anche questo termine presenta un acceso colore cristiano, e indica un risorgimento dell’anima, prima tappa che porta alla conversione. Il capitolo è diviso in due momenti: il primo di carattere narrativo, nel quale l’autore fa uso di una lingua elegante e armoniosa, modellata proprio sull’esempio dello stile ciceroniano; il secondo invece più sgranato, caratterizzato dal ricorso a moduli paratattici e da spunti lirici e appassionati, che mettono l’accento sulla risonanza interiore provocata dalla lettura del libro. Dove si pone la cesura tra i due paragrafi?

Oltre il testo 11

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Leggi il celebre passo del sogno geronimiano [ T7 ONLINE], in cui Dio accusa Gerolamo di essere «ciceroniano, non cristiano». Ha un significato accostare il passo di Agostino e quello di Gerolamo? Cosa ci dicono sul rapporto che i padri della Chiesa intrattengono con la cultura pagana? L’Hortensius di Cicerone appartiene al genere del protrettico, sul modello del Protreptikós di Aristotele: cosa significa questo termine? L’Hortensius affrontava una quaestio molto dibattuta nel mondo antico: la contrapposizione fra eloquenza e filosofia: nel dialogo, Cicerone sosteneva, contro Ortensio, il primato della filosofia. Ma era sempre stata questa la sua posizione? Tieni presente, nella tua risposta, l’epoca in cui l’Hortensius fu composto. Ille vero liber mutavit affectum meum: dunque Agostino attribuisce alla lettura del dialogo ciceroniano la sua prima svolta nella vita. Quali furono le tappe successive, che lo condussero al Battesimo, nel 387 a.C.? Agostino dichiara, all’inizio del passo, di volere eccellere nell’arte dell’eloquenza: a quali professioni avviavano gli studi di retorica? 633

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

MAPPA IL TRIONFO DEL CRISTIANESIMO

L’altare della Vittoria

• • •

Simmaco, Relatio de ara Victoriae (384) Ambrogio, Epistulae 17-18 due opposte concezioni del mondo e della storia

Ambrogio, vescovo di Milano (fra 339 e 340-397)

• • • •

opere esegetiche: Exameron, De Nabuthae opere ascetico-morali: De officiis opere dottrinali e dogmatiche: contro l’eresia ariana orazioni, lettere, inni

Gerolamo (fra 345 e 347-419 o 420)

• • • •

traduzioni dei testi scritturali: la Vulgata opere esegetiche, polemiche, agiografiche opere storico-letterarie: De viris illustribus epistolario: autoritratto, eventi contemporanei

• •

imponente corpus di opere: oltre mille libri Confessiones (13 libri fra 396 e 400) – libri I-IX, de me: autobiografia spirituale – libro X: meditazione sul tempo e sulla memoria – libri X-XIII, de scripturis sanctis: commento della Genesi De Civitate Dei (22 libri fra 412 e 427) – spunto apologetico: accuse ai cristiani dopo il 410 – libri I-IX, pars destruens: confuta religione e filosofia dei pagani – libri X-XXII, pars construens: le due civitates; teologia della storia

Agostino, vescovo di Ippona (354-430)

Prudenzio (348-ca 405)

• • • •

poesia innologica: Peristephanon poesia epico-didascalica: Psychomachia poesia apologetica: Contra Symmachum spiritualità cristiana, forme classiche

Paolino di Nola (ca 353-431)

• • •

retorica al servizio della fede vita ascetica a Nola Carmina Natalicia in onore di Felice

Vita Martini (395-397) – Martino di Tours modello di vita cristiana – meraviglioso e demoniaco – riconversione della biografia classica

Sulpicio Severo (ca 363-420)

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Collegamento

Completamento

1 Inserisci i dati mancanti della biografia di Agostino. Aurelio Agostino nacque a , in Numidia, nel da , una fervente cristiana che esercitò una grande influenza sull’educazione e sulla vita del figlio. Tra il 371 e il 374 si recò a , dove si dedicò agli studi filosofici grazie alla lettura dell’ di Cicerone. Nel 383 si trasferì a ; l’anno successivo ottenne una cattedra a dove conobbe , che influì profondamente sulla sua vita. Nel si convertì al cristianesimo, lasciò l’insegnamento e abbandonò gli ambienti mondani. Nel 388 ritornò in , dove fondò una comunità religiosa. Nel 396 divenne vescovo di e iniziò una lunga e appassionata attività pastorale, segnata dalla lotta contro le eresie. Morì il 28 agosto del . p._____/12

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. Ambrogio compose nel 384 una Relatio de ara Victoriae b. Ambrogio divenne vescovo di Milano senza essere stato battezzato c. Ambrogio combatté a lungo la dottrina ariana d. Gerolamo non fu mai in contatto epistolare con Agostino e. Gerolamo iniziò una nuova traduzione dei Vangeli su invito di papa Damaso f. Gerolamo visse a Betlemme dal 386 alla morte g. Prudenzio nacque in Gallia nel 348 d.C. h. L’opera più significativa di Prudenzio sono gli Inni i. Paolino di Nola scrisse un ciclo di Carmina natalicia

V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F

3 Attribuisci a ciascuna opera di Agostino l’argomento trattato. 1. 2. 3. 4.

Confessiones De civitate Dei De Trinitate Retractationes

a. Ricapitolazione e revisione critica della propria opera in due libri b. Summa del pensiero storico-filosofico di Agostino in ventidue libri con finalità apologetica c. Summa del pensiero teologico-dogmatico di Agostino in quindici libri d. Autobiografia spirituale di Agostino in tredici libri p._____/4 Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Studi classici e studi cristiani in Gerolamo. 2. Gli Inni di Ambrogio. 3. Vita e conversione di Paolino di Nola. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. La concezione della storia nel De civitate Dei di Agostino. 2. La Vita Martini di Sulpicio Severo. 3. Il corpus delle opere di Prudenzio.

V|F V|F

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Il trionfo del cristianesimo

Verifica finale


20 Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico 1 Il sacco di Roma (410 d.C.) e le reazioni dei contemporanei Alarico espugna Roma Il 24 agosto del 410 le truppe barbariche di Alarico, fino a poco tempo prima alleate di Onorio, espugnano Roma, mettendola a sacco per tre lunghi giorni. La notizia ebbe vasta e immediata risonanza in ogni regione dell’impero, suscitando reazioni di sgomento. Sul piano strategico e politico, l’episodio non rivestiva particolare importanza: Roma, da ormai lungo tempo, non era più residenza imperiale, e già da diversi mesi era stata abbandonata dai più alti dignitari civili e religiosi, pontefice compreso. Ciò che colpiva era il significato simbolico del fatto: cadeva il mito di Roma eterna e invincibile, inespugnata da ottocento anni, da quando (390 a.C.) i Galli di Brenno avevano osato penetrare in città e darla alle fiamme. Gerolamo, che viveva allora a Betlemme, nelle sue lettere paragonò il sacco di Roma alla rovina di Troia cantata da Virgilio e a quella di Gerusalemme profetizzata nelle pagine dell’Antico Testamento: Quid salvum est, si Roma perit? [ T9 ONLINE, cap. 19]. E interrompendo il commento a Ezechiele cui 636 © Casa Editrice G. Principato


Possono anche le città morire Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris: grandia consumpsit moenia tempus edax; sola manent interceptis vestigia muris, ruderibus latis tecta sepulta iacent. Non indignemur mortalia corpora solvi: cernimus exemplis oppida posse mori. Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa, immensi spalti ha consumato il tempo vorace. Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri, giacciono tetti sepolti in vasti ruderi. Non indigniamoci che i corpi mortali si disgreghino: ecco che possono anche le città morire. (Rutilio Namaziano, De reditu suo I, 409-414, trad. di A. Fo)

Quid salvum est, si Roma perit? De ortographia apes debemus imitari doctissima virgo Philologia Consolatio Philosophiae Vivarium Historia Francorum stava allora lavorando, annotava: «Chi avrebbe supposto che Roma, edificata sulle vittorie universali, potesse franare?». Le reazioni dei pagani e dei cristiani L’evento produsse un effetto sconvolgente soprattutto nella cerchia dei pagani. Benché duramente colpiti dai provvedimenti di Teodosio e di Onorio, essi costituivano ancora una presenza importante e culturalmente insigne, soprattutto in Roma, dove all’epoca erano attive personalità come Servio, Macrobio e Rutilio Namaziano. Si pensi che nel 415 l’autorità imperiale ordinò la confisca dei beni dei templi pagani, e che altri decreti contro il paganesimo furono emanati nel 423, nel 435 e ancora nel 438: tali provvedimenti dimostrano la persistenza di un focolaio di opposizione, seppure esiguo e circoscritto, al potere cristiano. Rifacendosi ad antichi oracoli, i pagani interpretarono la caduta di Roma come l’inevitabile conseguenza di un’empietà, e cioè la cacciata degli dèi tradizionali a favore dell’unico dio cristiano. L’accusa non era nuova, e ad essa aveva già risposto a suo tempo Tertulliano nell’Apologeticum [ cap. 17.2]; nuova era invece l’inquietante coincidenza dei fatti con le antiche profezie. Si comprende dunque 637 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

20. Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

PROFILO STORICO

come nei cristiani fosse viva l’esigenza di dare una risposta chiara, forte, teologicamente e storicamente motivata a tali dicerie, in primo luogo dimostrando che il cristianesimo non era responsabile delle sciagure presenti, in secondo luogo rovesciando le accuse sul mondo pagano. Fu Agostino ad assumersi per primo questo compito con un’opera ponderosa e di altissimo impegno dottrinale, il De civitate Dei, composta e pubblicata tra il 412 e il 427 [ cap. 19.4]. Agostino non doveva tuttavia limitarsi ad intervenire personalmente nella questione: fu proprio sulla base di una sua precisa richiesta che nacquero le Historiae adversus paganos di Orosio, pubblicate nel 417-418 e destinate per secoli a restare uno dei testi più autorevoli della nuova Europa cristiana.

Guida allo studio

1.

Che cosa accadde nell’agosto del 410 d.C.? Perché il fatto, pur non essendo in sé così rilevante sul piano politico, suscitò una tale eco nel mondo contemporaneo?

2. Quali furono le reazioni di pagani e cristiani di fronte all’evento?

2 Un’opera su commissione: le Historiae adversus paganos di Orosio Notizie su Orosio Verso il 413 un giovane prete originario della penisola iberica giunge a Ippona, dove è vescovo Agostino, forse in visita privata, forse come delegato del clero spagnolo. Era nato nei pressi di Bracara (l’odierna Braga, in Galizia) fra il 375 e il 380; dalla Spagna è stato costretto a fuggire in seguito all’invasione barbarica del 409, ed ora, in uno dei centri più attivi del cristianesimo occidentale, stringe rapporti di amicizia con Agostino. Nel 415 Orosio interviene al sinodo di Gerusalemme in qualità di rappresentante degli antipelagiani; l’anno successivo rientra ad Ippona, dove si ferma un paio d’anni. Dopo il 417 si perdono del tutto le sue tracce. Le Historiae adversus paganos Agostino, intento a scrivere il De civitate Dei, sente l’esigenza di affiancare alla propria opera una ricca documentazione storica, che valga a dimostrare come i cristiani non siano affatto colpevoli delle sciagure presenti. Affida l’incarico ad Orosio. Nascono così gli Historiarum adversus paganos libri septem, una storia universale dalla creazione del mondo fino all’età contemporanea (l’ultimo avvenimento citato è del 416). L’intento è apologetico: dimostrare attraverso una sistematica analisi della storia dell’umanità come le epoche passate fossero state ben peggiori di quella presente, e come solo l’avvento di Cristo avesse mitigato la durezza della vita umana sulla terra. Una concezione cristiana della storia Orosio non è uno storico: la sua narrazione non è mai disinteressata, ma volta a dimostrare una tesi; la scelta degli argomenti è sempre calcolata; l’esposizione frettolosa; la ricostruzione dei fatti, molto spesso, inattendibile e tendenziosa. Ma le sue tesi sulla provvidenzialità dell’impero romano, voluto da Dio per realizzare il proprio disegno nel mondo, diventeranno presto dottrina ufficiale della Chiesa. 638 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

PERCORSO ANTOLOGICO

T 1 Funzione provvidenziale dell’impero romano Historiae adversus paganos VI, 22 ITALIANO

Diversamente da Agostino, che aveva sempre guardato con un certo sospetto all’idea di uno Stato che rappresentasse in terra la città di Dio, Orosio propone una visione della storia nella quale all’impero romano viene assegnata una funzione provvidenziale: Cristo si è incarnato nel momento in cui Augusto, «per volere di Dio», ha pacificato il mondo; l’impero romano non è dunque un organismo statale fra gli altri ma è stato posto da Dio al di sopra di tutti gli altri imperi della storia. Cristianesimo e romanità, Chiesa e Impero costituiscono due realtà complementari e necessarie per la salvezza dell’uomo e per il trionfo del regno di Dio. Quando Dante scrive, nel secondo canto dell’Inferno, che Enea «fu de l’alma Roma e di suo impero/ ne l’empireo ciel per padre eletto» (vv. 20-21), si richiama con ogni evidenza alla concezione orosiana dell’impero provvidenziale. Si leggano anche i versi successivi: «la quale e ’l quale, a voler dire lo vero,/ fu stabilita per lo loco santo/ u’ siede il successor del maggior Piero»: Roma («la quale») e l’Impero («’l quale») furono cioè stabiliti ab aeterno dalla provvidenza divina perché la religione cristiana si diffondesse a suo tempo nel mondo, e l’antica capitale dei Cesari divenisse «lo loco santo», la sede della Chiesa cattolica.

E in quel tempo, cioè nell’anno in cui Cesare per volere di Dio diede al mondo la pace più vera e più stabile, nacque Cristo, al cui avvento questa pace fece da ancella e alla cui nascita gli angeli esultanti cantarono e gli uomini udirono: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà». Colui nelle cui mani era pervenuta la somma dei poteri, non tollerò, o piuttosto non osò, esser chiamato «signore» degli uomini proprio nel tempo in cui nacque tra gli uomini il vero Signore di tutto il genere umano. E ancora, quel Cesare che Dio aveva predestinato a così grandi misteri, ordinò per la prima volta di fare ovunque il censimento delle singole province e di iscrivervi tutti gli uomini, proprio nel medesimo anno in cui anche Dio si degnò di apparire e di essere uomo. Allora, dunque, nacque Cristo e, appena nato, fu subito iscritto nel censo romano. È questo il primo chiarissimo riconoscimento che mostrò Cesare come principe di tutti gli uomini e i romani come signori del mondo con la registrazione ufficiale di tutti gli uomini uno per uno, nella quale volle figurare come uomo tra gli uomini anche Colui che tutti gli uomini creò: ciò che non fu concesso mai, in questo modo, dalla nascita del mondo e dall’inizio del genere umano, neppure al regno babilonico e macedonico, per non dire a qualsivoglia altro piccolo regno. E senza alcun dubbio appare chiaro all’esperienza, alla fede e alla ragione di ciascuno che è stato nostro Signore Gesù Cristo a far progredire questa città – accresciuta e protetta dal suo favore – a tale apice di grandezza: a questa città volle appartenere quando venne, farsi chiamare cioè cittadino romano per attestazione del censo romano. (trad. di A. Bartalucci)

Guida allo studio

1.

Chi affidò a Orosio l’incarico di comporre le Historiae adversus paganos, e con quale intento?

2. Illustra la visione della storia che emerge dall’opera, precisando quale funzione venga assegnata all’impero di Roma. 639

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

20. Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

3 La nuova visione del mondo di Salviano PROFILO STORICO

Le invasioni barbariche del V secolo Negli anni in cui Orosio e Agostino scrivevano, era ancora possibile nutrire una certa fiducia nella solidità strutturale dell’impero e nella sua capacità assimilatrice: ma già nel 429 i Vandali passano in Africa (e lo stesso Agostino ha modo di saggiarne la ferocia durante l’assedio di Ippona); nel 439 Genserico conquista Cartagine e la mette a ferro e fuoco; la Britannia, già abbandonata a se stessa fin dal 407, non è più in grado di opporsi agli attacchi degli invasori; a metà del secolo gli Unni dilagano in Occidente travolgendo ogni resistenza; nel 455 Genserico espugna di nuovo Roma (che subirà un terzo sacco trent’anni dopo); già devastata fin dai primi anni del secolo, dopo il 460 la Gallia è occupata da Visigoti e Burgundi; nel 476 Romolo Augustolo viene deposto, a Ravenna, dall’erulo Odoacre. La posizione antiromana di Salviano A questi tragici avvenimenti assiste Salviano, nato intorno al 400 a Colonia o a Treviri; costretto dalle invasioni ad abbandonare la terra natia, si stabilisce nel monastero sull’isoletta di Lérins (oggi St. Honorat, di fronte a Cannes), per poi passare a Marsiglia, dove muore intorno al 470. L’idolo polemico di Salviano non sono più i pagani, ormai scomparsi o ininfluenti, ma i cristiani stessi: nel trattato Ad ecclesiam seu Adversus avaritiam li esorta aspramente a lasciare in eredità i propri beni alla chiesa; negli otto libri De gubernatione Dei («La divina provvidenza») addita la corruzione della cristianità romana di fronte alla maggiore onestà dei barbari, i nuovi favoriti di Dio, i quali, benché eretici, sono visti come lo strumento di una giusta punizione divina. La fine di Roma è quindi la liberazione dalla schiavitù del male.

Guida allo studio

1.

Ripercorri le vicende biografiche di Salviano sullo sfondo dei terribili avvenimenti del V secolo.

2. Qual è la sua posizione nei confronti di Roma e delle popolazioni barbariche?

Cavaliere vandalo, mosaico rinvenuto a Cartagine, V-VI secolo. Londra, British Museum.

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PROFILO STORICO

4 La poesia della fine di Rutilio Namaziano Il viaggio in Gallia di Rutilio Namaziano Nell’autunno del 417 (secondo altri del 415) un facoltoso possidente romano originario della Gallia Narbonese, Rutilio Namaziano, abbandona Roma per un viaggio che deve condurlo in patria; di questo viaggio lascerà un resoconto in versi, De reditu suo. Ultima significativa opera poetica composta da un pagano, il poemetto di Rutilio si configura come un’impressionante testimonianza delle desolate condizioni in cui versano le città e i territori dell’impero all’indomani delle scorrerie gotiche, e insieme come un simbolico addio al mondo felice della classicità. Notizie su Rutilio Discendente da una nobile famiglia della Gallia forse originaria di Tolosa, educato nelle migliori scuole di retorica della sua provincia, di religione pagana e legato agli ambienti neoplatonici dell’aristocrazia senatoria, trasferitosi ancor giovane a Roma, Rutilio Namaziano aveva ricoperto importanti cariche pubbliche: nel 412 era stato magister officiorum (una sorta di ministro degli interni), nel 414 praefectus Urbi, massima autorità civile, militare e giudiziaria in una città ormai non più residenza imperiale e disertata dai potenti personaggi della corte. Nessuno dei contemporanei ci parla di lui, a meno di non identificarlo con il Rutilius al quale viene dedicata l’unica commedia di età imperiale a noi pervenuta, il Querolus sive Aulularia, composta da un anonimo scrittore di ambiente gallico verso la fine del IV secolo o agli inizi del V [ cap. 20.5]. De reditu suo Tutte le notizie su Rutilio derivano perciò dalla sua unica opera, un poemetto odeporico in distici elegiaci scritto poco dopo il 417 (o il 415), quando il poeta doveva essere già avanti negli anni. Dell’opera, riscoperta nel monastero di Bobbio solo nel 1493, resta il primo libro (644 vv.), con una probabile lacuna iniziale, e i primi 68 versi del secondo, cui si devono aggiungere i 39 emistichi ritrovati nel 1973 in un codice della Biblioteca Nazionale di Torino. In assenza di indicazioni, l’opera è stata variamente intitolata dagli editori: De reditu suo, Reditus ab urbe Roma ad Gallias, Itinerarium. L’argomento L’argomento del carme è dunque un «ritorno», e precisamente il viaggio, che Rutilio descrive in forma di diario, dalle foci del Tevere fino a una città imprecisata della Gallia, per portare soccorso agli abitanti della sua terra devastata dalle incursioni barbariche [ T2]. È autunno, e con una flottiglia di piccole navi, costeggiando il litorale, poiché tutti i ponti lungo l’Aurelia sono stati distrutti e non è prudente viaggiare per le vie di terra, il poeta tocca vari approdi fino al porto di Luna; a questo punto il testo si interrompe (ma i frammenti recentemente scoperti riguardano le città di Genova e di Albenga, appena fortificata dopo le devastazioni gotiche). Il componimento può vantare illustri precedenti, dall’iter Siculum di Lucilio all’iter Brundisinum di Orazio (Sermones I, 5), dal viaggio di Ovidio verso Tomi (nei Tristia) al propemptikòn di Stazio (nelle Silvae) fino alla Mosella di Ausonio. Prima di affrontare il mare, il poeta innalza un inno a Roma (vv. 47-164), regina mundi, hominum genitrixque deorum, luogo di bellezze naturali e di cultura, di civiltà e di giustizia, alla quale Rutilio contrappone la gens sacrilega dei Goti di Alarico che l’hanno recentemente violata. Ma l’elogio della grande Roma appare ormai in stridente contrasto con il paesaggio desolato della costa italica: città un tempo 641 © Casa Editrice G. Principato


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20. Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

popolose, ora quasi disabitate; templi e santuari abbandonati; dappertutto ruderi, rovine. La descrizione dei luoghi e il racconto del viaggio sono interrotti da digressioni di rilevante significato ideologico: una violenta polemica contro gli ebrei (I, 383-398) e un’invettiva contro i monaci cristiani della Capraia (I, 439-452). PROFILO STORICO

Ideologia e cultura di Rutilio In un latino classico, sobrio, elegante, lontano dalla lingua dell’uso, ricco di allusioni erudite, di reminiscenze mitiche, di memorie eziologiche, Rutilio si abbandona all’elegia di un mondo minacciato dalla fine, percorso dai segni di un tramonto imminente, nel quale tuttavia continua ad aver fede. Visioni tristi e luttuose si alternano alle descrizioni delle bellezze naturali, agli incontri affettuosi con gli amici, ricchi senatori, uomini di alta cultura, possidenti che vivono ormai arroccati in sontuose dimore prossime a divenire cittadelle militari. Fra echi di Virgilio, di Orazio, di Ovidio, di Giovenale e di poeti che Rutilio poteva anche aver conosciuto personalmente come Ausonio e Claudiano, l’autore finisce così per pronunciare un appassionato elogio del paganesimo, cui contrappone i costumi nefasti e innaturali del giudaismo e del cristianesimo: il suo poemetto, a ben guardare, non è tanto un viaggio di ritorno quanto un viaggio d’esilio, come testimoniano le continue allusioni alla poesia dell’ultimo Ovidio.

Guida allo studio

1.

Delinea i tratti essenziali della figura di Rutilio Namaziano, inserendola nel contesto storico e culturale dell’epoca. 2. Esponi l’argomento del poemetto di Rutilio, ripercorrendo l’itinerario del suo «ritorno». 3. Definisci in termini culturali il De reditu suo di Rutilio Namaziano, sottolineando in particolare: a) il genere letterario di appartenenza, i modelli poetici, gli aspetti

linguistici e stilistici dell’opera; b) la visione del mondo espressa dall’autore e la sua posizione nei confronti della religione cristiana; c) il valore di testimonianza storica del poemetto. 4. Piuttosto che un «viaggio di ritorno», il De reditu di Rutilio è stato definito un «viaggio d’esilio». Dopo aver letto i frammenti riportati nella sezione antologica [ T2], sapresti spiegare perché?

5 Querolus sive Aulularia: una commedia ambientata sulle sponde della Loira A un Rutilius, che potrebbe essere l’autore del De reditu suo, è dedicata l’unica commedia di età imperiale a noi pervenuta, composta da un anonimo scrittore di ambiente gallico verso la fine del secolo IV o agli inizi del V e intitolata Querolus sive Aulularia («Il piagnone o La commedia della pentola»). Se davvero questo Rutilio fosse il poeta ritornato in Gallia dopo il 417, la commedia andrebbe datata intorno al 420 d.C. Una ripresa plautina Il titolo rimanda alla celebre commedia plautina, di cui è la continuazione. Querolus («Querulo», ovvero «Piagnone») è infatti il figlio del vecchio Euclione, l’avaro dell’Aulularia di Plauto. 642 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Caratteri dell’opera L’autore, nella dedica, afferma di non aver scritto la commedia per una pubblica rappresentazione sulla scena ma per una lettura privata durante un banchetto signorile. Del resto le antiche fabulae teatrali erano state soppiantate fin dal I secolo a.C., nel gusto popolare, dal pantomimo e dai giochi del circo, sopravvivendo nelle sale di lettura ad esclusivo uso di un pubblico colto ed esigente. L’anonimo autore del Querolus si rivolge a un alto dignitario imperiale, ambientando la commedia sulle sponde della Loira, in una villa signorile tardoantica pullulante di servi. I suoi intenti, come spiega nel prologo, sono moraleggianti (l’ingannatore fallirà nel suo proposito; colui che ha ordito la beffa verrà beffato). Il testo, ed è l’aspetto più sorprendente, non è scritto in versi ma in una prosa ritmica e cadenzata: probabilmente l’autore non era in grado di utilizzare correttamente i complessi sistemi metrici del teatro antico. Rapporti con la tradizione comica latina Il Querolus presenta poche affinità con Plauto, dal quale si limita a ricavare una situazione di base (quella del vecchio avaro e del tesoro nascosto) e la figura del genio tutelare (il Lar), che anche qui viene investito della funzione di prologo. Ma nel corso dell’azione drammatica il personaggio del Lare subisce un’evoluzione imprevista: in una scena successiva lo ritroviamo infatti mentre dialoga con Querulo, obbligandolo a una sorta di esame di coscienza. È anche questo un segno dell’orientamento moraleggiante della commedia, più vicina al modello terenziano che a quello plautino.

Guida allo studio

1.

Esponi la trama del Querolus sive Aulularia, indicando il modello, la destinazione e l’ambientazione della fabula, nonché gli intenti espressi dall’autore nel prologo.

Querolus sive Aulularia Personaggi e trama della commedia ▰ Un tesoro nascosto In punto di morte, Euclione

rivela al parassita Mandrògero il luogo dove ha nascosto un tesoro, promettendogli, a patto che informi il figlio, metà dell’eredità; non aggiunge tuttavia di averlo celato in un’urna cineraria.

▰ Il piano furfantesco del parassita Mandrogero

decide di impossessarsi del tesoro senza dividerlo con l’erede, e si introduce con due complici nella casa del «piagnone», un giovane scorbutico, perennemente scontento e lamentoso, dandogli ad intendere di poterlo liberare dalla sua mala sorte con l’ausilio di magiche operazioni.

2. Chi è l’autore della commedia? Quale l’epoca di composizione?

▰ Lo scioglimento impreveduto Rinvenuta la cassetta del tesoro, i tre se la battono: ma quando scoprono l’urna cineraria, convinti di essere stati giocati dal vecchio Euclione, la ributtano da una finestra nella casa di Querulo. L’urna si infrange sul pavimento, rivelando il suo prezioso contenuto. Tutti accorrono, compreso Querulo, che prende possesso della legittima eredità. Mandrogero a questo punto reclama la propria parte, che gli viene negata. ▰ L’arbitrato Si ricorre a un arbitrato (situazione tipica della néa: si pensi a Menandro, autore di una commedia che porta questo titolo): l’oro viene assegnato a Querulo, che tuttavia accoglierà in casa Mandrogero come parassita.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

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6 Le sintesi enciclopediche di Macrobio e di Marziano Capella PROFILO STORICO

Macrobio Vir clarissimus et illustris è definito nei manoscritti Macrobio Ambrogio Teodosio: il primo titolo si adatterebbe a un senatore, il secondo a un alto funzionario imperiale. Incerta è anche la collocazione cronologica, tra la fine del IV e la prima metà V secolo (forse è lui un Macrobio che fu prefectus praetorio Italiae nel 430). Ce ne sono pervenute tre opere: un Commentarius in Somnium Scipionis («Commento al Sogno di Scipione») interamente conservato, i Saturnaliorum convivia («Conviti durante i Saturnali»), o semplicemente Saturnalia, in sette libri, conservati con diverse lacune, e il trattato grammaticale De differentiis et societatibus Graeci Latinique verbi («Differenze e analogie tra il verbo greco e quello latino»), di cui restano scarsi frammenti. Il dialogo dei Saturnalia è ambientato in tre giornate delle feste dei Saturnali del 384, nelle case di tre illustri pagani dell’epoca: Vettio Agorio Pretestato, Nicomaco Flaviano, Simmaco. In una cornice ispirata ai modelli platonici, i presenti affrontano vari argomenti all’insegna dell’erudizione enciclopedica: dalle questioni etimologiche e grammaticali si passa ai problemi giuridici e religiosi, attingendo a fonti esclusivamente pagane (Varrone, Gellio, Svetonio, il greco Plutarco). A Virgilio è dedicata la maggior parte dei libri III-VI [ T4 ONLINE]. L’obiettivo è non disperdere l’eredità culturale del paganesimo. Marziano Capella Più o meno negli stessi anni (tra il 410 e il 439) in Africa l’avvocato cartaginese Minneio Felice Marziano Capella scrive il suo De nuptiis Mercurii et Philologiae («Le nozze di Mercurio e Filologia»), vasta enciclopedia dell’erudizione classica in nove libri. Dopo i primi due libri di forma narrativo-allegorica (il racconto delle nozze tra Mercurio e la doctissima virgo Filologia, propiziate da Apollo e approvate dagli dèi in assemblea), nei libri successivi troviamo le sette arti liberali sotto le vesti allegoriche di ancelle donate alla sposa da Apollo: Grammatica, Dialettica, Retorica, Geometria, Aritmetica, Astronomia, Musica. Se la cornice allegorico-narrativa rimanda alla storia apuleiana di Amore e Psiche, la maggiore fonte dottrinale sono le Disciplinae di Varrone, in cui peraltro le arti liberali erano nove: la cultura essenzialmente neoplatonica di Macrobio ha indotto a eliminare architettura e medicina, arti troppo legate al mondo materiale. L’opera ha una forma mista di prosa e poesia, ed è scritta in uno stile artificioso e complicato.

Guida allo studio

1.

Illustra l’argomento, la struttura e l’ambientazione dei Saturnalia di Macrobio. Chi sono gli interlocutori del dialogo? 2. Esponi l’argomento del De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella,

descrivendone la complessa struttura. 3. Definisci i molteplici influssi culturali (fonti e modelli letterari, riferimenti filosofici) che contribuiscono a caratterizzare l’opera di Marziano Capella.

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PROFILO STORICO

7 Le storie romanzate Fortuna del romanzo greco in Roma La produzione romanzesca, di argomento avventuroso (storico o mitico) e dagli intrecci laboriosi e complicati, caratterizzata da toni fantastici e ambientazioni esotiche, che in Grecia circolava già dal I secolo d.C., giunse successivamente anche in Occidente, tramite traduzioni e rielaborazioni dirette prevalentemente a un pubblico di media e bassa cultura. Forniamo qui alcuni esempi di tale produzione, da cui sarebbe derivato il fortunato filone tardomedievale delle «storie di antichi cavalieri». Romanzi su Alessandro Magno Alle avventure di Alessandro Magno erano dedicate le Res gestae Alexandri Magni di Giulio Polemio, biografia romanzata la cui fonte è il cosiddetto Romanzo di Alessandro, testo molto diffuso in area orientale. Anonimo è invece un Itinerarium Alexandri che ha come fonte soprattutto lo storico greco Arriano, vissuto nel II secolo d.C. Tra fine IV e inizi V secolo viene datata l’Epitome rerum gestarum Alexandri, un «riassunto», come indica il titolo, delle imprese del sovrano macedone, scritto con stile e scrupolo documentario superiori ai precedenti. Romanzi sul ciclo troiano Al ciclo troiano si ispirano invece un Lucio Settimio, autore nella seconda metà del IV secolo di una Ephemeris belli Troiani («Diario della guerra di Troia»), basato su un originale greco del I secolo d.C., e l’anonimo autore (nella finzione il sacerdote troiano Darete Frigio) della Historia de excidio Troiae, databile alla fine del V secolo. Historia Apollonii regis Tyri L’Historia Apollonii regis Tyri, composta probabilmente nei primi anni del VI secolo, con i suoi elementi romanzeschi e fiabeschi, ci riporta invece nell’atmosfera della novella e del romanzo greco: Apollonio, esule all’inizio della storia, si ritrova infine re di Antiochia e di Cirene.

Guida allo studio

1.

A quale tradizione letteraria si ricollega la fioritura tardoantica di storie romanzate e quali sviluppi conoscerà nel Medioevo?

2. A quali vicende storiche e/o mitiche si ispirano di preferenza i narratori? Ricorda le opere più interessanti, indicandone l’argomento, gli autori (quando noti), le fonti.

8 Verso il Medioevo Dalla caduta dell’impero alla guerra greco-gotica L’impero «cadde senza rumore» Nel settembre del 476 Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente, venne deposto da Odoacre, re degli Eruli. L’episodio passò si può dire inosservato presso i contemporanei: l’impero, come ha scritto Arnaldo Momigliano, «cadde senza rumore»; l’emozione e gli echi apocalittici del 410 non si ripeterono, quasi che il diluvio delle invasioni, dei saccheggi e delle conquiste avesse assuefatto le coscienze. Per tutto il secolo IV, e all’inizio del V, si era paventata la rovina di Roma, o si era voluto 645 © Casa Editrice G. Principato


DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

20. Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

porre l’accento sulla sua senescenza; quando la fine venne, non suscitò né reazioni né riflessioni. Dovevano passare quasi cinquant’anni perché, almeno dalle testimonianze sopravvissute, qualcuno interpretasse la deposizione come la fine dell’impero.

PROFILO STORICO

L’Italia nell’età di Teodorico Allarmato dalla politica espansionistica di Odoacre, nel 488 l’imperatore d’Oriente Zenone decise di favorire i disegni ambiziosi del giovane Teodorico, un ostrogoto che era stato inviato a Bisanzio come ostaggio. Sconfitto sull’Isonzo e sull’Adige, Odoacre si rifugiò in Ravenna, dove resistette diversi anni all’assedio. Nel 493 fu costretto infine a cedere: Teodorico, che si era impegnato nel corso delle trattative a risparmiargli la vita, lo fece trucidare durante un banchetto. Iniziava così il regno ostrogoto in Italia (493-553), ben presto caratterizzato da un’accentuata politica di indipendenza nei confronti di Bisanzio. Teodorico si propose un’opera di conciliazione fra l’elemento germanico e quello italico, promuovendo la rinascita economica, sociale e culturale dei territori conquistati. Ne sono testimonianza i restauri degli antichi monumenti in Roma, gli splendidi edifici che sorsero in Ravenna (il palazzo di Teodorico, la basilica di Sant’Apollinare Nuovo), la promulgazione dell’Edictum Theodorici (che regolava, ispirandosi al Codice Teodosiano, i rapporti giuridici fra Goti e Romani), la fioritura di significative personalità letterarie. I rapporti fra Roma e Ravenna si guastarono tuttavia per l’intervento degli imperatori d’Oriente, interessati a riappropriarsi dei territori occidentali: a farne le spese furono anche i maggiori intellettuali dell’epoca, da Boezio (fatto giustiziare da Teodorico) a Cassiodoro (che preferì, al termine della guerra greco-gotica, rinunciare alla carriera pubblica, ritirandosi a vita monastica). Terribili furono,

Processione delle vergini, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.

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PROFILO STORICO

per l’Italia, le conseguenze della guerra: nel 553, quando le ostilità si chiusero con la vittoria dei Bizantini, la penisola era ormai una landa desolata. Procopio di Cesarea, uno storico greco testimone dei fatti, descrive in pagine impressionanti lo stato di abbandono del territorio e la squallida miseria delle popolazioni, decimate dalle violenze, dalle carestie e dalle epidemie. Roma, che nei secoli precedenti era arrivata a contare circa un milione e mezzo di abitanti, si era ridotta a poche migliaia di anime.

La poesia in età romano-gotica Ennodio e Aratore Proprio nell’Italia di Teodorico, negli anni che precedono la fase cruenta del regno ostrogoto, fiorisce la poesia di Magno Felice Ennodio, nato in Gallia verso il 474 da una famiglia dell’ordine senatorio. Provvisto di buona cultura, si trasferì giovanissimo a Milano, dove insegnò retorica per qualche tempo. Nel 513 fu nominato vescovo di Pavia, uno dei maggiori centri dell’Italia teodoriciana, e qui morì nel 521. Autore di varie opere in prosa, Ennodio compose anche due libri di Carmina. Nella varietà dei temi (un epitalamio; un itinerario; inni religiosi; epigrammi, alcuni dei quali di contenuto osceno o satirico; epitafi; dediche sacre), prevale una poesia di tono erudito e di forme eleganti, ispirata ai modelli classici del mondo pagano. Suo discepolo fu Aratore, che nel 544, nel pieno della guerra greco-gotica, recitò con successo in Roma il poema De actibus Apostolorum. Massimiano Sempre nella prima metà del VI secolo fu attivo Massimiano, con il quale si conclude la storia della poesia elegiaca latina di contenuto erotico. Contemporaneo di Boezio, cui il poeta fa esplicito riferimento nella terza composizione della sua raccolta, Massimiano è autore di sei elegie, per un totale di 656 versi. L’elegia erotica, come si ricorderà, aveva vissuto la sua grande stagione in età augustea con le raccolte di Cornelio Gallo, di Tibullo, di Properzio e di Ovidio. Ai modelli canonici del genere continua a guardare Massimiano, traendone molteplici spunti non solo sul piano dei contenuti ma anche delle immagini e delle espressioni, tanto che si è potuto parlare, per i suoi carmi, di tecnica centonaristica. Nuovo è invece il motivo della vecchiaia, centro ispiratore dell’intera raccolta. Il sentimento della fine che pervade le elegie è stato interpretato in una duplice prospettiva, storica e personale: la senescenza del poeta si propone al lettore come una metafora del definitivo commiato dal mondo pagano.

Guida allo studio

1.

Ripercorri gli eventi fondamentali occorsi tra la deposizione di Romolo Augustolo (476 d.C.) e la conclusione della guerra grecogotica (553 d.C.), tracciando un quadro della situazione in cui versa la penisola italiana.

2. Perché lo storico Arnaldo Momigliano scrive che l’impero d’Occidente «cadde senza rumore»? 3. Delinea in sintesi i caratteri della produzione poetica in età romano-gotica. 647

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L’ultimo rappresentante della grande cultura latina: Severino Boezio PROFILO STORICO

Severino Boezio viene tradizionalmente definito l’ultimo rappresentante della cultura antica in lingua latina: «un dato di fatto, questo, che non vale tanto sulla base della cronologia, quanto perché il filosofo fu l’ultimo ad avere la chiara consapevolezza della propria funzione e della propria posizione, che si riallacciavano a quelle della tradizione classica» (Moreschini). La vita Nato a Roma da nobile famiglia senatoria fra il 475 e il 477, Anicio Manlio Torquato Severino Boezio ricevette un’educazione accurata. Nel 510 venne nominato consul sine collega, dopo di che fu membro di diritto del senato. Mentre occupava la carica di magister officiorum (522-523), che prevedeva anche importanti compiti diplomatici, si incrinarono definitivamente i rapporti fra Teodorico e il senato, sospettato di tramare con l’imperatore d’Oriente. Per aver preso le difese del patrizio romano Albino, ingiustamente processato, Boezio fu messo sotto accusa sulla base di lettere falsificate. Imprigionato a Pavia agli inizi del 524, fu spogliato di tutte le sue prerogative, giudicato senza possibilità di difesa e infine condannato a morte. L’esecuzione avvenne probabilmente nell’estate del 525 (ma la data, collocabile fra il 524 e il 526, resta incerta).

Il dittico di Boezio. Brescia, Museo di Santa Giulia.

Le opere Di incalcolabile importanza sul piano storico fu la sua multiforme attività, volta a mettere in salvo il patrimonio della cultura e della filosofia greca, minacciato dalla progressiva dissoluzione delle strutture scolastiche imperiali. In un primo tempo, fra il 502 e il 507, Boezio si applicò a una serie di trattati che compendiassero le conoscenze fondamentali del Quadrivio: De institutione arithmetica («I fondamenti dell’aritmetica»), De institutione musica, De institutione geometrica, De institutione astronomica. Attingendo alle fonti della tradizione platonico-pitagorica, in queste opere l’autore dedica particolare attenzione ai valori mistico-simbolici contenuti nei numeri e nelle loro combinazioni. Nel 508 passò alla seconda fase del suo immane lavoro, con la traduzione e il commento dell’Isagoge di Porfirio (234-305), un testo che «introduceva», come dice il titolo, alle Categorie di Aristotele. Le opere logiche di Aristotele erano state per lo più ignorate dalla cultura romana, e solo grazie all’attività di Mario Vittorino [ cap. 17.9] avevano incominciato a circolare in Occidente. Concluso il lavoro sull’Isagoge, Boezio progettò di tradurre e di commentare l’intera opera di Platone e di Aristotele, con l’intento di dimostrare la sostanziale convergenza dei due massimi sistemi filosofici del mondo antico. L’impresa restò interrotta a causa della morte prematura: nondimeno Boezio fece in tempo a tradurre e a commentare proprio le opere logiche di Aristotele, che vennero così trasmesse, in lingua latina e

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PROFILO STORICO

corredate di un ampio commento, alla cultura medievale. Il lavoro sui testi aristotelici (Analytica priora et posteriora, De interpretatione, Topica) fu accompagnato dalla composizione di trattati originali sui medesimi argomenti (De categoricis syllogismis, Introductio ad categoricos syllogismos, De hypotheticis syllogismis, De divisione, De differentiis topicis). De consolatione Philosophiae Durante la prigionia Boezio scrisse il prosimetro De consolatione Philosophiae in cinque libri, nel quale la Filosofia personificata appare all’autore e lo conforta delle sue sventure. In parte consolatio nel senso classico del termine (soprattutto nei primi due libri), in parte protrepticon («esortazione»), l’opera si presenta in forma di dialogo inframezzato da brani poetici. Per la ricchezza delle fonti (Platone, Aristotele, Cicerone, la letteratura neoplatonica, Agostino), per la profonda e nobile spiritualità, per l’armonia delle strutture, per la composta bellezza dei passi poetici, l’opera esercitò un rilevante influsso, a partire dalla rinascenza carolingia, sul pensiero e sulla letteratura del Medioevo (si ricordino soltanto la Vita nuova di Dante e il Secretum del Petrarca), fino al primo Umanesimo, e può essere a buon diritto considerata un classico della letteratura europea. Boezio fu cristiano? Oggi si è generalmente concordi nel ritenere che Boezio sia stato cristiano, in quanto non sembrano sussistere più dubbi sull’autenticità di alcuni trattati di argomento teologico trasmessi sotto il suo nome. Tuttavia, «se Boezio era cristiano, non è meno vero che nella Consolatio elementi cristiani sono quasi del tutto assenti: le citazioni bibliche che si sono volute rintracciare sono, tutt’al più, vaghe reminiscenze, il nome di Cristo non compare e il Dio di Boezio sembra essere il Dio astratto dei filosofi piuttosto che il Dio personale dei cristiani. D’altra parte non ci sono elementi nettamente pagani nell’opera di Boezio [...] ed è estremamente difficile dimostrare nella Consolatio l’esistenza di enunciati contrari alla dottrina e alla fede cristiana» (Mohrmann). Un vero e proprio martire

De consolatione philosophiae di Boezio Struttura e contenuti dell’opera ▰ Libro I: appare Filosofia Il primo libro si apre

con un componimento in distici elegiaci nel quale il prigioniero, malato e affranto, effonde il suo dolore, circondato dalle Muse che gli dettano le parole del poetico lamento. All’improvviso gli appare una donna venerabile dagli occhi luminosissimi e penetranti, che nel suo aspetto mostra tutto il vigore della gioventù, sebbene sia «tanto carica d’anni da non potersi credere in nessun modo appartenente al tempo nostro». Scacciate le Muse, scaenicae meretriculae, la donna si china ad asciugare le lacrime del protagonista, che riconosce in lei la propria nutrice e compagna, Filosofia. Quest’ultima gli rivela di essere venuta a lui per consolarlo nella sua afflizione, e gli rammenta gli exempla di altre illustri vittime dell’ingiustizia quali

Socrate, Zenone, Seneca, invitandolo a «mettere a nudo la sua ferita». Boezio le narra allora la storia delle proprie disgrazie, segno di una condizione degradata dell’umanità, che vede il trionfo dell’iniquità sulla virtù, in flagrante contrasto con l’ordine cosmico. Il racconto si chiude con un inno di invocazione alla divinità (O stelliferi conditor orbis).

▰ Libri II-V Nel secondo libro la Filosofia lo esorta ad accettare con animo rassegnato le vicissitudini della Fortuna. Nel terzo si dibatte la questione del vero bene, che non risiede nelle ricchezze, negli onori, nella potenza, ma in Dio. Il quarto libro verte sul problema della giustificazione del male nel mondo. L’esistenza del male, che per i giusti rappresenta comunque una prova salutare, rientra negli imperscrutabili disegni divini. Nel quinto libro, infine, si passa ad affrontare i problemi, ancora più ardui, del libero arbitrio e della prescienza divina. 649

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PROFILO STORICO

della fede, vittima della persecuzione dell’ariano Teodorico contro i cattolici, fu comunque ritenuto Boezio nel corso di tutto il Medioevo. Le sue spoglie furono traslate l’anno 725 nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, a Pavia, dove tuttora riposano, entro un sarcofago di pietra che reca l’iscrizione corpus sancti severini boetii martir. Così lo ricorda anche Dante, nel cielo dei sapienti: «Lo corpo ond’ella [l’anima di Boezio] fu cacciata giace/ giuso in Cieldauro; ed essa da martiro/ e da essilio venne a questa pace» (Par. X, 127-129).

Cassiodoro: un progetto di conservazione del patrimonio culturale La vita Nato a Squillace prima del 490, nel 507 Flavio Magno Aurelio Cassiodoro pronuncia un panegirico di Teodorico che gli apre le porte della carriera amministrativa. Questore (507-511), console (514), magister officiorum (524) prima al servizio di Teodorico poi dei successori, prefetto del pretorio dal 533 al 537, Cassiodoro svolse per più di un ventennio un ruolo significativo all’interno della corte. Dopo il 540, mentre infuriava la guerra greco-gotica, fu a Costantinopoli, dove rimase fino alla conclusione del conflitto. Tornato in Italia, verso il 555 si ritirò nelle sue terre d’origine, in Calabria, dove fondò il monastero di Vivarium. Qui, dedito agli studi, morì verso il 583. Nel 565 era scomparso, a Bisanzio, l’imperatore d’Oriente Giustiniano; tre anni dopo i Longobardi erano calati in Italia, conquistandola in gran parte; al 580 risale l’ultima attestazione dell’esistenza in Roma di un senato.

La comunità monastica di Vivarium ▰ Un progetto di difesa e di conservazione del patrimonio classico Se fino allo scoppio della guerra greco-gotica Cassiodoro aveva potuto sperare in una conciliazione tra popolo germanico e romano, mettendosi al servizio dei Goti e illustrandone la genealogia, dopo la vittoria bizantina egli decide di abbandonare completamente l’attività pubblica, dedicandosi a un progetto enciclopedico di difesa e di conservazione del patrimonio culturale: ma diversamente da Boezio, che guardava alla grande cultura classica, e soprattutto alla tradizione filosofica, Cassiodoro pensa a testi di carattere tecnico e religioso, da utilizzare innanzitutto nella vita quotidiana di un monastero.

▰ Trascrizione ed emendazione dei manoscritti

Il crollo progressivo dell’istituzione scolastica aveva comportato due gravi fenomeni, che avrebbero inciso in profondità sulla cultura mediolatina: da una parte era vistosamente diminuito il numero di coloro che sapevano leggere e scrivere; dall’altra, il latino era diventata una lingua sempre meno conosciuta. A Vivarium Cassiodoro si dedica perciò con i suoi confratelli a un’attività di trascrizione e di emendazione dei manoscritti.

▰ Compendi La tendenza al compendio, che negli ultimi due secoli aveva caratterizzato soprattutto la cultura pagana, ora impronta anche la produzione cristiana. Nel dedicarsi quasi esclusivamente a opere di compilazione, Cassiodoro è mosso dal bisogno di salvare un patrimonio che corre il pericolo di disperdersi completamente; ed è certo significativo che la sua ultima opera, scritta poco prima del 580, sia un De ortographia che il vecchissimo monaco compone ad uso dei confratelli, sempre più in difficoltà con la lingua scritta. ▰ Le Institutiones Sempre a Vivarium nascono infine

le Institutiones, un’opera di carattere enciclopedico in due libri dedicati il primo ai testi sacri, il secondo alle arti liberali, ritenute queste ultime indispensabili per la formazione culturale del monaco. Non mancano nozioni pratiche di agricoltura, di medicina e di erboristeria, ciò che insomma poteva risultare utile ai monaci del convento.

▰ Un modello per le biblioteche monastiche medievali Come la biblioteca di Vivarium divenne il modello delle biblioteche medievali, le Institutiones costituirono per secoli il modello pedagogico dell’Europa cristiana.

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PROFILO STORICO

Opere di argomento storico Al primo periodo della vita di Cassiodoro appartengono le opere di argomento storico: i Chronica, scritti negli anni di Teodorico sul modello dell’omonima opera di Gerolamo [ cap. 19.3] e la Historia Gothorum, composta fra il 526 e il 533. I Chronica sono un compendio di storia universale da Adamo al 519: dato l’orientamento filogotico dell’autore, non c’è da stupirsi che al sacco di Roma del 410 non venga quasi fatto cenno. Nell’Historia Gothorum, non pervenuta ma ugualmente nota grazie all’ampio compendio di Iordanes, i Goti vengono nobilitati fin dalle origini, e Teodorico è descritto come un sovrano ideale. Ci troviamo a una vera svolta del genere storico, con la nascita di una storiografia nazionale germanica: nel giro di un paio di secoli seguiranno la Historia Francorum di Gregorio di Tours, la Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda, la Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Le Variae Dello stesso periodo è l’opera destinata in età medievale a maggior fortuna, le Variae, una raccolta in dodici libri delle lettere ufficiali e dei decreti scritti dall’autore per conto di Teodorico e dei successori. Composti in uno stile ricco e ornato, tali documenti costituirono il modello della prosa cancelleresca fino al XIII secolo. Da essi venne ricavata la dottrina dei tre stili (umile, medio, sommo), che Cassiodoro teorizza, richiamandosi ai classici latini, nell’introduzione dell’opera. L’esperienza di Vivarium Vivarium segna una linea di netta demarcazione nella vita e nell’attività di Cassiodoro, che sente ormai – con il passare degli anni – l’esigenza di salvare il grande patrimonio del mondo classico, dedicandosi a opere di carattere compendiario o enciclopedico: fra di esse, il De ortographia e le Institutiones [ La comunità monastica di Vivarium].

Il sonno della cultura Gregorio di Tours Negli stessi anni in cui Cassiodoro scriveva il trattato De ortographia, in Gallia – che solo due secoli prima era stato il maggior centro di studi

Gregorio Magno detta i suoi canti a un monaco benedettino, miniatura conservata al Cleveland Museum of Art.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

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PROFILO STORICO

retorici dell’impero – Gregorio, vescovo di Tours dal 537, morto intorno al 594, non si limita a denunciare lo stato di abbandono in cui versano gli studi, ma confessa con disappunto la propria scarsa istruzione, l’ignoranza della lingua stessa, il latino, in cui pure si accinge a scrivere. E in effetti l’opera più nota di Gregorio, la Historia Francorum, composta in dieci libri fra il 576 e il 591, presenta sconcertanti incertezze morfologiche e sintattiche, tali da pregiudicare anche la chiarezza e l’ordine espositivo della narrazione. Pur provenendo da una famiglia nobile ed esercitando una funzione sociale importante, Gregorio sconta personalmente la dissoluzione del sistema scolastico, la difficoltà delle comunicazioni, la povertà degli strumenti culturali ancora a disposizione. Come ha osservato Auerbach, la lingua di Gregorio «è così fatta che può ordinare le circostanze soltanto molto imperfettamente; una serie di fatti che non sia semplicissima egli non sa rappresentarla dall’alto. La sua lingua ordina malamente, o non ordina per nulla». Gregorio Magno A Vivarium come a Tours, nei monasteri come nelle città, la conservazione del patrimonio culturale deve ormai fare i conti con la scarsa conoscenza della lingua, il diradarsi del pubblico colto, la difficoltà di provvedersi dei libri o dei materiali per trascriverli, il progressivo isolamento culturale dei singoli centri. A ciò si deve aggiungere la diffidenza che la Chiesa, ormai unica detentrice della cultura, manifesta verso gli studi profani. Papa Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, proclama di disprezzare l’ars loquendi, giungendo a rimproverare un suo vescovo che aveva osato grammaticam quibusdam exponere. Secondo una notizia molto probabilmente leggendaria, egli avrebbe incendiato il tempio di Apollo Palatino per distruggere tutte le opere dei classici ivi conservate. Di certo fu apertamente ostile agli autori profani e perfino alle regole grammaticali della lingua latina. Nonostante avesse a lungo soggiornato in Oriente, si rifiutò di apprendere la lingua greca. La sua opera più significativa sono i Dialogi, pubblicati fra il 593 e il 594: nella cornice di un dialogo che si svolge tra lui e il diacono Pietro, si narrano storiette fiabesche di angeli, demoni e santi. Lo stile è humilis, ricco di espressioni della lingua parlata, assai trascurato sul piano formale ma non privo di una sua immaginosa efficacia. Il fine è devozionale: rafforzare la fede di chi legge e di chi ascolta. Il sonno della cultura Il pontificato di Gregorio si protrasse dal 590 al 604. Il secolo che si apriva sarebbe passato alla storia come il più povero, culturalmente, della civiltà occidentale: occorrerà attendere l’età carolingia per assistere a una rinascita degli studi e a un’incisiva riorganizzazione della vita scolastica. Come scrive Auerbach, «ora coloro che partecipano alla vita intellettuale sono così pochi che, dispersi per le isolate scuole dell’Europa occidentale, hanno fra di loro soltanto relazioni irregolari; anche se più tardi diventano più numerosi, restano una società chiusa di maestri e scolari. Lo scopo della loro attività è molto più la conoscenza e la dottrina che il godimento; non c’è più un gruppo o un ceto di persone che possa sentire un colto soddisfacimento nella letteratura. [...] è cominciato un periodo nel quale i gruppi dirigenti della società non posseggono più cultura, e neppure libri, e neppure una lingua nella quale potesse esprimersi una cultura ad essi appropriata. C’era una lingua dotta, e c’erano lingue parlate che non potevano essere scritte; ma non c’era una lingua di cultura». 652 © Casa Editrice G. Principato


PROFILO STORICO

Guida allo studio

1.

Riepiloga i fatti più significativi della vita di Severino Boezio, illustrandone la multiforme attività, non senza sottolineare le finalità del suo imponente lavoro. Per quali ragioni Boezio viene definito l’ultimo rappresentante della cultura antica in lingua latina? Si può affermare con certezza che sia stato cristiano? 2. Esponi l’argomento, la struttura e i contenuti essenziali dei cinque libri De consolatione Philosophiae di Boezio, indicando le motivazioni della persistente fortuna dell’opera fino all’età dell’Umanesimo. 3. Si possono individuare due fasi nettamente distinte nella vita, così come nell’attività culturale e nella produzione letteraria, di Aurelio Cassiodoro. Indica gli avvenimenti

e gli aspetti salienti di entrambi i periodi, ricordando i titoli e gli argomenti delle opere più significative. 4. Per quali aspetti della sua attività Cassiodoro può essere considerato, insieme a Boezio, un decisivo anello di congiunzione fra la declinante civiltà antica e la cultura del Medioevo cristiano? Indica i contributi decisivi in tal senso, sottolineando le analogie e le differenze rispetto all’operato di Boezio. 5. Tenendo conto della testimonianza di Gregorio di Tours e degli interventi di papa Gregorio Magno, delinea la situazione del sistema scolastico, con particolare riguardo alla conoscenza della lingua latina, alla fine del VI secolo. È giustificato parlare per quest’epoca di «sonno della cultura»?

COMPITO di REALTÀ • Una lezione di fine studi 1. La consegna • Durante l’Open-day del vostro ultimo anno di Liceo, il Consiglio di Classe vi chiede di illustrare, con il linguaggio dei vostri coetanei, il significato e l’importanza dello studio del mondo antico, e in particolare della letteratura latina, ad uso di coloro che si apprestano ad iniziare lo stesso ciclo di studi. • Durante la lezione-conferenza, dovrete far ricorso non solo alla parola (e dunque a un discorso rigorosamente strutturato per punti) ma anche ad immagini, suoni, musiche che vi sembrino pertinenti. L’obiettivo non è persuadere in modo emotivo l’uditorio, ma puntare sulla sostanza reale, e dunque argomentata, delle asserzioni. Per convincere i vostri giovanissimi uditori, dovrete innanzi tutto aver convinto voi stessi e i vostri compagni di studio.

2. Gli strumenti • Quel che vi viene chiesto, giunti ormai al termine degli studi, è proprio la capacità di orientarsi con gusto e libertà nel grande labirinto delle forme simboliche, e in particolare di quelle relative al mondo antico. • Consigliamo soltanto di scegliere una sequenza di autore classico, non troppo lunga, che diventi il cuore del vostro discorso, e che potrete riprendere più volte ma in modalità diverse (il suono della voce, l’immagine a stampa, la voce di un attore). 3. Le fasi operative • Coinvolgete nel lavoro, se possibile, compagni di studi di anni precedenti, che già frequentano l’Università (anche in facoltà non umanistiche), giungendo progressivamente a definire il contenuto e la forma della vostra lezione, che potrà essere affidata a una sola voce, o meglio a un concerto di voci che provengano da più classi.

AUTOVALUTAZIONE Conoscenza dell’argomento

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di narrazione e di esposizione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Capacità di aggregazione

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Competenze digitali

 scarso

 sufficiente

 discreto

 buono

 ottimo

Giudizio complessivo sul progetto

 coerente

 esaustivo

 originale

 adeguato

 non adeguato

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

20. Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

Materiali

PROFILO STORICO

ONLINE

BIBLIOGRAFIA ESTESA

essenziale

Bibliografia

B

� Orosio Edizioni: Le storie contro i pagani, a cura di A. Lippold, trad. di A. Bartalucci, 2 voll., Fondazione Lorenzo Valla-A. Mondadori Editore, Milano 1976. Studi: E. Corsini, Introduzione alle «Storie» di Orosio, Torino 1968; F. Fabbrini, Paolo Orosio, uno storico, Roma 1979. � Salviano Edizioni: Contro l’avarizia, a cura di E. Marotta, Città Nuova, Roma 1977; Il governo di Dio, Città Nuova, a cura di S. Cola, Roma 1994. Studi: M. Pellegrino, Salviano di Marsiglia, Roma 1940; M. Ianelli, La caduta di un impero nel capolavoro di Salviano, Napoli 1948. � Rutilio Namaziano Edizioni: De reditu, a cura di E. Castorina, Sansoni, Firenze 1967; Viaggio di ritorno, a cura di T. Picone, Graficop, Como 1987; Il ritorno, a cura di A. Fo, Einaudi, Torino 1992. Studi: I. Lana, Rutilio Namaziano, Torino 1961; AA. VV., Il nuovo Rutilio Namaziano, «Maia», 27, 1975, pp. 3-26. � Querolus sive Aulularia F. Corsaro, «Querolus». Studio

introduttivo e commentario, Pàtron, Bologna 1965; A. Masera, Querolus sive Aulularia: la nuova cronologia e il suo autore, Le Lettere, Firenze 1991. � Macrobio Edizioni: I Saturnali, a cura di N. Marinone, UTET, Torino 1977; Commento al Sogno di Scipione, a cura di M. Neri, saggio introduttivo di I. Ramelli, Bompiani 2007. � Marziano Capella Edizioni: Le nozze di Filologia e Mercurio, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2001; Tutti i commenti a Marziano Capella (Scoto Eriugena, Remigio di Auxerre, Bernardo Silvestre e anonimi), a cura di I. Ramelli, presentazione di G. Reale, Bompiani, Milano 2006. � Storie romanzate Edizioni: Storia di Apollonio re di Tiro, a cura di G. Balboni, in Il romanzo classico, a cura di Q. Cataudella, Casini, Firenze 1958, pp. 1309-1366; Giulio Valerio, Imprese di Alessandro il Macedone, in Il romanzo di Alessandro, vol. I, a cura di R. Stoneman, trad. di T. Gargiulo, Fondazione L o r e n z o Va l l a - A r n o l d o Mondadori Editore, Milano 2007, pp. 356-463.

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� Verso il Medioevo B o e z i o, L a c o n s o l a z i o n e della filosofia, a cura di C. Moreschini, UTET, Torino 1994. Tra gli studi: H. Chadwick, Boezio. La consolazione della musica, della logica, della teologia e della filosofia, Il Mulino, Bologna 1986. Cassiodoro, Le istituzioni, Città Nuova, Roma 2001. Uno studio pregevole e accessibile sull’autore è quello di F. Cardini, Cassiodoro il Grande. Roma, i barbari e il monachesimo, Jaca Book, Milano 2017. Massimiano, Elegie della vecchiaia, a cura di L. Canali, Ladolfi, Borgomanero 2011. Gregorio di Tours: La storia dei Franchi, a cura di M. Oldoni, 2 voll., Fondazione Lorenzo Valla-A. Mondadori Editore, Milano 1981; Storie di santi e di diavoli, a cura di S. Pricoco e M. Simonetti, 2 voll., Fondazione Lorenzo Valla-A. Mondadori Editore, Milano 2005-2006. Studi di carattere complessivo: E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956; ID., Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli, Milano 1960.


PROFILO STORICO

Sintesi

S

Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico Nel 410 i Visigoti, guidati da Alarico, espugnano Roma e la saccheggiano per tre giorni. La notizia suscita reazioni di sgomento in ogni regione dell’impero. Ciò che soprattutto colpiva era il significato simbolico dell’evento: cadeva il mito di Roma eterna e invincibile, inespugnata da ottocento anni, da quando i Galli di Brenno erano penetrati nella città e l’avevano data alle fiamme. L’episodio ebbe un effetto sconvolgente soprattutto nella cerchia dei pagani: benché duramente colpiti dai ripetuti decreti imperiali, nella città di Roma essi costituivano ancora una presenza culturalmente insigne. I pagani interpretarono la caduta di Roma come conseguenza di un’empietà: la cacciata degli dèi tradizionali a favore dell’unico dio cristiano. I cristiani risposero affermando che il cristianesimo non era responsabile delle presenti sciagure e rovesciarono le accuse sul mondo pagano. Agostino assunse per primo questo compito con il De civitate Dei, composto fra il 412 e il 427; dietro sua richiesta, Orosio scrisse le Historiae adversus paganos (417-418), dove si profila una visione provvidenzialistica della storia in chiave cristiana destinata ad imporsi nel corso del Medioevo. Negli anni in cui Orosio e Agostino scrivevano, era ancora possibile nutrire una certa fiducia nella solidità strutturale dell’impero: ma già nel 429 i Vandali passano in Africa; nel 439 Genserico conquista Cartagine e la mette a ferro e fuoco; a metà del secolo gli Unni dilagano in Occidente; nel 455 Genserico espugna di nuovo Roma; dopo il 460 la Gallia è occupata da Visigoti e Burgundi; nel 476 Romolo Augustolo viene deposto, a Ravenna, dall’erulo Odoacre. Assiste a questi tragici avvenimenti Salviano (400-470): costretto dalle invasioni ad abbandonate la terra natale (Colonia o Treviri), si ritira nel monastero di Lérins dedicandosi alla vita ascetica. La posizione di Salviano è decisamente antiromana. Ma il suo idolo polemico non sono ormai più i pagani, bensì i cristiani stessi. La società cristiana ha assimilato i modelli di vita iniqui e corrotti dei pagani: è dunque lecito pensare che Dio voglia riscattare l’umanità grazie all’opera dei barbari invasori, forza rigeneratrice del mondo. Essi, e non già l’impero romano (come invece sosteneva Orosio), sono lo strumento di Dio. Ultima opera poetica significativa composta da un pagano (dopo il 415 o il 417), il poemetto odeporico in distici elegiaci De reditu suo di Rutilio Namaziano è il diario di un viaggio per mare,

dalle foci del Tevere alla Gallia, terra di origine del poeta, intrapreso per portare soccorso agli abitanti della regione, devastata dalle invasioni barbariche. Il carme si configura come un’impressionante testimonianza delle desolate condizioni in cui versano le città e i territori dell’impero all’indomani delle scorrerie gotiche. Elegia di un mondo minacciato dalla fine, il De reditu costituisce tuttavia un estremo, appassionato elogio della civiltà pagana, cui il poeta contrappone i costumi nefasti e innaturali del giudaismo e del cristianesimo. L’unica commedia di età imperiale a noi pervenuta, composta da un anonimo scrittore di ambiente gallico verso la fine del secolo IV o agli inizi del V, si intitola Querolus sive Aulularia. Il titolo rimanda alla celebre commedia plautina, di cui è la continuazione. Querolus («Querulo», ovvero «Piagnone») è infatti il figlio del vecchio Euclione, l’avaro dell’Aulularia di Plauto. Peraltro la commedia presenta ben poche affinità con il teatro plautino; gli intenti moraleggianti rinviano piuttosto al modello terenziano. I Saturnalia di Macrobio, illustre dignitario pagano dell’ordine senatorio, sono un’opera enciclopedica in 7 libri e in forma di dialogo, ambientata durante le feste dei Saturnali in Roma dal 17 al 19 dicembre del 384. L’autore si propone di non disperdere l’eredità culturale del paganesimo; erudizione e imitazione letteraria assurgono a strumenti di conservazione di un mondo e delle sue tradizioni. In Africa, in un’epoca compresa tra il sacco di Roma (410) e il sacco di Cartagine (439), Marziano Capella compone una vasta enciclopedia dell’erudizione classica in 9 libri, il prosimetro De nuptiis Mercurii et Philologiae. I primi due libri del trattato sono in forma narrativo-allegorica; nei sette libri successivi, di carattere dottrinale, le ancelle-arti espongono il proprio sapere. La maggiore fonte dottrinale sono le Disciplinae di Varrone; cospicui sono i riferimenti alle filosofie ermetiche, neoplatoniche e cristiane. In età tardoantica si registra una fioritura di storie romanzate che si ricollegano al filone del romanzo greco d’avventura, destinate a fortunati sviluppi nel Medioevo. I narratori, per lo più anonimi, si ispirano a vicende storiche (le gesta di Alessandro), non di rado arricchite di spunti fantastici, o mitiche, soprattutto episodi della saga troiana, “trasferiti” dal registro epico a quello romanzesco. Nel 493 Teodorico, appoggiato da Bisanzio, espugnava Ravenna, dove da anni resisteva all’as-

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PROFILO STORICO

S

sedio Odoacre: aveva inizio il regno ostrogoto in Italia. Teodorico si propose un’opera di conciliazione fra l’elemento germanico e quello italico, promuovendo la rinascita economica, sociale e culturale dei territori conquistati. I rapporti fra Roma e Ravenna si guastarono tuttavia per l’intervento degli imperatori d’Oriente, interessati a riappropriarsi dei territori occidentali: a farne le spese furono anche i maggiori intellettuali dell’epoca, da Boezio a Cassiodoro. Terribili furono, per l’Italia, le conseguenze della guerra greco-gotica: nel 553, quando le ostilità si chiusero con la vittoria dei Bizantini, la penisola era ormai una landa desolata.

so la corte di Teodorico e dei suoi successori. Verso il 555 si ritirò in Calabria, dove fondò il monastero di Vivarium. Compose opere di argomento storico; nelle Variae, una raccolta di lettere ufficiali e di decreti, fornì il modello della prosa cancelleresca fino al XIII secolo, teorizzando la dottrina dei tre stili. Negli anni di Vivarium si impegnò (come già Boezio) in un progetto di conservazione del patrimonio culturale classico, dedicandosi a opere di carattere compendiario ed enciclopedico, fra cui il De ortographia e soprattutto le Institutiones, che costituirono per secoli il modello pedagogico dell’Europa cristiana.

Nell’Italia di Teodorico fiorisce la poesia di Ennodio con due libri di Carmina dalle forme eleganti; sempre nella prima metà del VI secolo è attivo Massimiano, autore di sei elegie erotiche modellate sulle raccolte dei poeti augustei.

Negli stessi anni in cui Cassiodoro scriveva il trattato De ortographia, Gregorio di Tours confessa con disappunto la propria scarsa istruzione, l’ignoranza della lingua stessa, il latino, in cui pure si accinge a scrivere. E in effetti l’opera più nota di Gregorio, la Historia Francorum (576-591), presenta sconcertanti incertezze morfologiche e sintattiche, tali da pregiudicare la chiarezza e l’ordine espositivo della narrazione.

Severino Boezio (fra 475 e 477-525), ultimo rappresentante della tradizione culturale antica in lingua latina, rivestì alte cariche finché i rapporti fra Teodorico e il senato di Roma si deteriorarono irreparabilmente: fu ingiustamente accusato, imprigionato a Pavia (524), condannato a morte e decapitato. Di incalcolabile importanza fu la sua multiforme attività, volta a mettere in salvo il patrimonio della cultura antica e della filosofia greca, minacciato dalla dissoluzione delle strutture scolastiche imperiali. Tra 502 e 507 attese a una serie di trattati che compendiassero le conoscenze fondamentali del Quadrivio; dal 508 tradusse e commentò testi filosofici greci (in particolare le opere logiche di Aristotele), oltre a comporre trattati originali. Durante la prigionia scrisse il prosimetro De consolatione Philosophiae in cinque libri e in forma di dialogo, nel quale la Filosofia personificata appare all’autore e lo conforta delle sue sventure. Sulla scorta di fonti prestigiose (Platone, Aristotele, Cicerone, la letteratura neoplatonica, Agostino), nel testo si aprono dissertazioni su impegnative questioni dottrinali. L’opera esercitò un notevole influsso sul pensiero e sulla letteratura d’Europa, dalla rinascenza carolingia fino al primo Umanesimo.

Alla fine del VI secolo la conservazione del patrimonio culturale deve fare i conti anche con la diffidenza che la Chiesa, ormai unica detentrice della cultura, manifesta verso gli studi profani. Papa Gregorio Magno proclama infatti di disprezzare l’ars loquendi ed è apertamente ostile agli autori profani e perfino alle regole grammaticali della lingua latina. Il pontificato di Gregorio si protrasse dal 590 al 604. Il secolo che si apriva sarebbe passato alla storia come il più povero, culturalmente, della civiltà occidentale: occorrerà attendere l’età carolingia per assistere a una rinascita degli studi e a un’incisiva riorganizzazione della vita scolastica.

Aurelio Cassiodoro (ante 490 – ca 583) svolse per più di un ventennio un ruolo significativo pres-

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Percorso antologico Orosio T1

Funzione provvidenziale dell’impero romano IT Historiae adversus paganos VI, 22

Rutilio Namaziano T2

Risalendo in autunno le coste italiche IT De reditu suo I, 217-644 passim

Macrobio T3 T4

Un metodo di studio: apes debemus imitari Saturnalia, praefatio 1-10

LAT

Virgilio, fonte di ogni sapienza Saturnalia I, 24, 10-25

IT

ONLINE

IT

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Rutilio Namaziano T 2 Risalendo in autunno le coste italiche De reditu suo I, 217-644 passim ITALIANO

In un autunno del 415 o del 417, l’illustre senatore di origine gallica Rutilio Namaziano lascia Roma per far ritorno alla sua terra, di recente devastata dalle scorrerie barbariche: Vandali, Alani, Svevi nel 407; i Visigoti guidati da Ataulfo, reduci dal sacco dell’urbe, fra il 412 e il 415. Dopo una lunga attesa nel porto di Augusto, la piccola flotta prende il mare, evitando il largo e tenendosi stretta alle coste, per poter trovare un riparo in caso di tempeste. Le località toccate lungo il percorso recano i segni dell’abbandono e del tempo distruttore. L’avvistamento della Capraia porge l’occasione per un’aspra invettiva contro i monaci cristiani che hanno scelto di vivere sull’isola in povertà e in solitudine. Una sosta, causata dal maltempo, consente al poeta di riabbracciare l’amico e conterraneo Vittorino, che si è ritirato nelle campagne d’Etruria per sfuggire alle invasioni. Il primo libro si conclude con una descrizione, preziosa e suggestiva, del mare in tempesta.

Noi salpiamo al tenue chiarore dell’alba; dai colori rinati riconosciamo i campi. Navighiamo lungo le coste su piccole cimbe, 220 cui assicurano riparo numerose insenature. 219. cimbe: navicelle leggere e ricurve, adatte per la navigazione fluviale o per la pesca costiera, non per lunghi viaggi o

per il mare alto; ma Rutilio si limiterà a costeggiare il lido.

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

20. Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

PERCORSO ANTOLOGICO

Gonfiatevi vele onerarie, sulle acque lucenti dell’estate; l’autunno vuole sicuri rifugi. Costeggiamo Alsio, lasciamo indietro Pyrgi, paesi oggi di grandi ville, ieri piccole città. 225 E già il pilota indica il territorio di Cere: Agilla era un tempo il suo nome, ed è perduto. Rasentiamo Castro, corroso dal mare e dal tempo, dove un’antica porta rivela un luogo mezzo diroccato. […] Sorge la Capraia sul mare alto, sordida isola, 440 piena di uomini che fuggono la luce. Monaci con un nome greco si dicono, per voler vivere soli, privi di testimoni. Temono i doni della fortuna, i rovesci della sventura. Qualcuno si fa da sé infelice, per non esserlo? 445 Quale pazza furia di un cervello sconvolto è temere i mali, non sopportare i beni? […] Da una tetra tempesta discende una dolce sosta. Vittorino, la parte più cara del mio cuore, ci rese felici con il suo incontro. 495 Tolosa era caduta, ed egli, esule, errava per i campi d’Etruria, sacrificando a lari stranieri. Splendeva la sua saggezza nell’avversità; con animo non diverso era vissuto in tempi più felici. Oceano, e Tule, e ogni campo arato 500 della barbara Britannia conoscono le sue virtù. Fu prefetto; operò con moderazione; ora gode del frutto di un immenso affetto. […]

223-227. Alsio… Pyrgi… Cere… Castro: Alsio (odierna Palo) dovrebbe in realtà seguire e non precedere Pyrgi (oggi S. Severa), che un tempo era stato il porto fortificato di Cere (Cerveteri, una delle dodici città dell’antica confederazione

etrusca). Castro corrisponde invece all’odierna S. Marinella. 441. con un nome greco: monachus deriva dal greco monos («solo»). 493. Vittorino: gallo come Rutilio, Vittorino aveva abbandonato la sua patria

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nel 413, quando Tolosa era stata occupata dai Visigoti di Ataulfo, e si era ritirato in una villa d’Etruria. 499. Tule: un’isola dell’estremo nord, difficile da identificare con precisione (forse una delle Orcadi, forse l’Islanda).


PERCORSO ANTOLOGICO

Ma con ali di pioggia, ma con picee nubi l’Africo giorno dopo giorno ci vieta di riprendere il viaggio. È mattino, e già le Iadi gonfie d’acqua tramontano, già si cela alle tempeste invernali la Lepre, astro scarso di luce, 635 ma potente, potente nell’innalzare i marosi. Mai il navigante lascerebbe le fradicie coste sotto il suo segno poiché, compagno del burrascoso Orione, sfugge, umida preda, alla stella estuosa del Cane. E noi vedevamo il mare giallo per le sabbie sommosse, 640 coperti i campi da una lava di onde, come quando l’oceano penetra fra le zolle, invade con il suo flutto errante le terre che già deve lasciare, e forse rifluisce da un altro mondo, urtando nel nostro, o forse alimenta con le sue acque gli astri fiammeggianti.

631. l’Africo: vento meridionale, apportatore di pioggia e tempesta. 633-638. le Iadi… Lepre… Orione… Cane: quattro costellazioni volgenti al tramonto, da cui Rutilio prende spunto per costruire una preziosa scena di caccia astronomica, con la Lepre inseguita dal Cane ardente. 643-644. e forse rifluisce… fiammeggianti: due diverse teorie formulate dagli antichi sull’origine delle maree oceaniche. Si interrompe a questo punto il testo tràdito del primo libro.

Il mare in tempesta, particolare di un sarcofago, III-V secolo. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Macrobio T3

T4

Un metodo di studio: apes debemus imitari

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Saturnalia, praefatio 1-10

Virgilio, fonte di ogni sapienza

Saturnalia I, 24, 10-25

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DALLA CRISI DELL’IMPERO ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

MAPPA DAL SACCO DI ROMA ALLA FINE DEL MONDO ANTICO

(410-fine VI sec.)

• • • • •

significato simbolico: cade il mito di Roma eterna i pagani: conseguenza dell’empietà cristiana i cristiani: la nuova fede non è responsabile Agostino inizia a comporre De civitate Dei (412) Orosio: Historiae adversus paganos (417-418)

Salviano (ca 400-470)

De gubernatione Dei: condanna della corrotta Roma cristiana – i barbari, non l’impero, sono lo strumento di Dio

De reditu suo di Rutilio Namaziano (post 415 o 417)

• •

poemetto odeporico in distici elegiaci (mutilo) «viaggio di ritorno» da Roma alle Gallie – paesaggio desolato delle coste italiche elegia di un mondo minacciato dalla fine

Il sacco di Roma (410): le reazioni

Querolus sive Aulularia (fine IVinizi V sec.)

I Saturnalia di Macrobio (384-395 o 430-440)

• •

commedia in prosa ritmica – destinata a una lettura privata, pubblico colto – continuazione dell’Aulularia plautina

opera enciclopedica in forma di dialogo (7 libri) – dotte conversazioni fra illustri personaggi pagani +intorno alle discipline del sapere antico conservare l’eredità culturale del paganesimo

De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella (fra 410 e 439)

enciclopedia dell’erudizione classica (9 libri) – prosimetro; cornice narrativo-allegorica

Storie romanzate (IV-V secolo)

modello: i romanzi avventurosi di età ellenistica – vicende tratte dalla storia o dal mito

Verso il Medioevo

• • • •

Boezio, De consolatione Philosophiae, prosimetro Cassiodoro, Historia Gothorum, Variae, Institutiones Gregorio di Tours, Historia Francorum Gregorio Magno: ostilità verso gli studi profani

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Completamento

Collegamento

1 Inserisci i dati mancanti della biografia di Boezio. Boezio nacque a da una nobile famiglia senatoria fra 475 e 477. Nel venne nominato , dopo di che fu membro di diritto del . Negli anni , in cui rivestiva la carica di , si incrinarono i rapporti fra e il senato, sospettato di tramare con . Per aver preso le difese di un patrizio ingiustamente processato, Boezio fu messo sotto accusa sulla base di . Imprigionato a agli inizi dell’anno , fu giudicato senza possibilità di difesa, condannato a morte e giustiziato, probabilmente nell’estate del . p._____/12

Vero / Falso

2 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. La posizione di Orosio è decisamente antiromana b. Secondo Salviano i barbari sono la forza rigeneratrice del mondo c. Nel De reditu suo Rutilio Namaziano innalza un inno a Roma d. Nei Saturnalia di Macrobio ampio spazio è dedicato a Virgilio e. Con Massimiano si conclude la storia dell’elegia erotica latina f. Tra il 502 e il 507 Boezio compendiò i fondamenti delle arti del Trivio g. Cassiodoro fu condannato a morte da Teodorico

V | F V | F V | F V | F V | F V | F V | F p._____/7

3

tore. 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Attribuisci a ciascuna opera citata il nome dell’au-

De gubernatione Dei Historia Francorum Historiae adversus paganos Institutiones De nuptiis Mercurii et Philologiae Commentarius in Somnium Scipionis

a. Marziano Capella d. Gregorio di Tours

b. Orosio c. Macrobio e. Salviano f. Cassiodoro p._____/6 Totale p._____/25

Quesiti a risposta singola

4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/10 righe per ciascuno). 1. Funzione dell’impero romano nella visione della storia di Orosio. 2. Destinazione, ambientazione e modelli del Querolus sive Aulularia. 3. La posizione di papa Gregorio Magno verso gli studi profani. Trattazione sintetica

5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. Aspetti narrativi, descrittivi e ideologici nel De reditu suo di Rutilio Namaziano. 2. Ambientazione, argomenti e finalità dei Saturnalia di Macrobio. 3. Struttura, contenuti e fortuna del De consolatione Philosophiae di Boezio.

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Dal sacco di Roma alla fine del mondo antico

Verifica finale


PROVA DI CERTIFICAZIONE LINGUISTICA LATINA Livello B1 Summarium Gnaeus Iulius Agricola, equestri nobilitate natus, cuius pater propter Gai Caesaris iram interfectus est et cuius mater rarae castitatis fuit, per honestarum artium cultum pueritiam adulescentiamque transegit. Philosophiae studuit vehementius quam Romanum senatorem decuit, sed matris et aetatis merito ex sapientia modum adeptus est.

Dalla passione alla moderazione

5

10

15

Gnaeus Iulius Agricola, vetere et inlustri Foroiuliensium colonia ortus, utrumque avum procuratorem Caesarum habuit, quae equestris nobilitas est. Pater illi Iulius Graecinus senatorii ordinis, studio eloquentiae sapientiaeque notus, iisque ipsis virtutibus iram Gai Caesaris meritus: namque Marcum Silanum accusare iussus (est) et, quia abnuerat, interfectus est. Mater Iulia Procilla fuit, rarae castitatis. In huius sinu indulgentiaque educatus per omnem honestarum artium cultum pueritiam adulescentiamque transegit. Arcebat eum ab inlecebris peccantium praeter ipsius bonam integramque naturam, quod statim parvulus sedem ac magistram studiorum Massiliam habuit, locum Graeca comitate et provinciali parsimonia mixtum ac bene compositum. Memoria teneo solitum ipsum narrare se prima in iuventa studium philosophiae acrius, ultra quam concessum Romano ac senatori, hausisse, ni prudentia matris incensum ac flagrantem animum coercuisset. Scilicet sublime et erectum ingenium pulchritudinem ac speciem magnae excelsaeque gloriae vehementius quam caute adpetebat. Mox mitigavit ratio et aetas, retinuitque, quod est difficillimum, ex sapientia modum. (Tacito, De vita et moribus Iulii Agricolae, 4)

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1 Nella parafrasi proposta sono omesse otto parole: individuale tra quelle elencate nella tabella e inserisci il numero corrispondente nel testo, ove è lasciato lo spazio vuoto. Parafrasi del testo Gnaeus Iulius Agricola, nobili genere natus, Foro Iulii, nota colonia in Venetia, ortus est. pater, sapiens et dicendi peritus, Iuliius Graecinus senator fuit et propter suas

virtutes Gaio Caesari invisus fuit. Cum issus esset, Marcum Silanum

non accusavit et ob

recusationem occisus est. Eius mater, Iulia Procilia,

pudicitiae laudabilis fuit. Quae benignitate eum puerum et adulescentem educavit et eum honesta

Agricola bonam naturam habuit et habitavit ..................... ubi morem

Graium et parsimoniam provincialem didicit. Tacitus, horum

scriptor, habuit

Agricolam socerum et meminit Agricolam ipsum saepe narravisse se iuvenem studere philosophiae plus quam senatorem Romanum deceret: matris prudens consilium suum animum ex studio servavit. Agricola, magni ingenii vir, maximam gloriam cupiebat plus ardore quam moderatione. Aetatis sapientia et ipse aequus animus ad modum a iuventutis vehementia eum 1. qui 2. moderato 3. docta est 4. Massiliae

5. hanc 6. ipsas 7. verborum 8. haec

9. in Massilia 10. nullum 11. docuit 12. immoderato

13. verterunt 14. versi erunt 15. rerum 16. Cuius

2 Leggi le affermazioni e indica se sono vere o false, segnando la risposta a fianco. 1. Agricola traditur nobilitatis equestris duos maiores habere 2. Caesar diligebat Agricolae patrem 3. Iulius Graecinus Silanum accusavit 4. Caesaris ira iusta fuit 5. Iuliae Procillae casta verecundia nota fuit 6. Agricola puer a matre sua educatus est 7. Agricola semper Massiliae habitavit 8. Romanum senatorem philosophiae vehementer studere decet 9. Mater docuit Agricolam philosophiae studendae modum 10. Agricola sapiens non erat

3

V | F

V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F

Leggi le domande e scegli la risposta corretta tra quelle proposte.

1. Cur Gaius Caesar in Agricolae patrem irae indulgebat? a. Quia Caesar magno animo erat b. Quia Agricola non oboedivit c. Quia Agricolae pater magno animo erat 2. Quid Iulius Graecinus abnuerat? a. Accusatio in Marcum Silanum b. Accusatio in Caesarem c. Sua virtus 663 © Casa Editrice G. Principato


3. Ubi Agricola parvulus educatus est? a. In patris sinu b. Massiliae c. Romae 4. Quomodo Agricola arcebat inlecebra peccantium? a. sua bona natura et loco apto ad discendum b. matris auctoritate c. Graeco more 5. Estne “provincialis parsimonia” virtus? a. ita est b. minime c. clarum non est 6. Quid Tacitus recordatur? a. Agricolae verba ab aliis referta b. quod in Agricolae operibus scriptum est c. verba Agricolae quem cognovit 7. Quid Agricola obtinuit prudentia matris? a. Modus b. Flagrans animus c. Erectum ingenium 8. Quae Agricolae virtutes Tacitus laudat a. aetas b. modus et sapientia c. nulla virtus

4 Trasforma le proposizioni, seguendo il modello suggerito. 1. Namque Marcum Silanum accusare iussus (est). Caesar iussit 2. In huius sinu indulgentiaque educatus per omnem honestarum artium cultum pueritiam adulescentiamque transegit. , per omnem honestarum artium cultum Cum in huius sinu indulgentiaque pueritiam adulescentiamque transegit. 3. Parvulus sedem ac magistram studiorum Massiliam habuit, locum Graeca comitate et provinciali parsimonia mixtum ac bene compositum. Parvulus sedem ac magistram studiorum Massiliam habuit, ubi Graeca comitas et provincialis parsimonia ac bene 4. Memoria teneo solitum ipsum narrare se prima in iuventa studium philosophiae acrius, ultra quam concessum Romano ac senatori, hausisse Memoria teneo solitum ipsum narrare tempora ubi prima in iuventa studium philosophiae acrius, ultra quam concessum Romano ac senatori, 5 Scegli la riposta esatta tra quelle proposte, compilando la tabella sottostante e considerando attentamente il contesto. 1. Ortus è 2. illi è a. aggettivo a. aggettivo determinativo b. participio congiunto b. pronome al dativo c. participio passato di un verbo transitivo c. concordato con senatorii d. sostantivo d. nominativo maschile plurale 664 © Casa Editrice G. Principato


3. ipsis virtutibus è a. ablativo di tempo b. ablativo di mezzo c. ablativo assoluto d. ablativo di causa 4. abnuerat è a. un composto di sum b. il verbo reggente di una temporale c. un piuccheperfetto indicativo d. un verbo che indica contemporaneità con la principale 5. rarae castitatis è a. una callida iunctura b. nominativo singolare con arcaismo c. un genitivo di pertinenza d. complemento di qualità 6. praeter è a. avverbio b. preposizione che regge l’ablativo c. preposizione che regge l’accusativo d. preposizione che regge il genitivo

1

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7. quod statim parvulus sedem ac magistram studiorum Massiliam habuit è una proposizione a. relativa b. dichiarativa c. principale con nesso relativo d. causale indiretta 8. locum è a. apposizione b. complemento oggetto c. aggettivo neutro d. concordato con magistram 9. hausisse è a. infinito perfetto di audeo b. verbo dell’infinitiva c. infinito perfetto di un verbo difettivo d. verbo retto da ipsum 10. Vehementius è a. comparativo di un avverbio b. comparativo di un aggettivo c. comparativo assoluto d. neutro singolare di un aggettivo.

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INDICE DEI NOMI

INDICE dei NOMI

A

Achille Tazio 198 Acta Maximiliani 508 Adriano, imperatore 405, 410, 420-434 Afranio Burro 29, 120 Agostino 99, 137, 164, 449, 456, 494, 502, 509, 511, 515, 517, 537, 539, 597, 600, 603-9, 612, 638, 640 Agricola, Gneo Giulio 103, 113, 339, 342-4 Agrippa, Marco Vipsanio 24, 104, 497 Agrippina Minore (moglie di Claudio) 28, 120 Alarico 489, 572, 594, 608, 612, 636, 641 Albino (senatore) 648 Albinovano Pedone 277 Alceo 277 Alessandro Magno 27-8, 35-7, 198, 491, 645 Alessandro Severo, imperatore 491, 495 Alfio Avito 427 Ambrogio 511, 515-6, 535, 559, 561, 592, 603, 605-6, 611-2 Ammiano Marcellino 356, 556, 564, 565-6, 568 Ammonio Sacca 493, Anacreonte 277 Anneo Cornuto, Lucio 44, 56, 59, 63 Anneo Mela, Marco 63, 118, Anniano 427 Annibale 264-5 Antipatro (Celio) 277 Antologia Palatina 277 Antonia Minore (madre di Germanico) 26 Antonino Pio, imperatore 423, 428-430, 570 Antonio (eremita) 537-8, 604 Antonio Giuliano 431 Antonio, Marco (triumviro) 26-27, 34, 234, 487 Apicio, Marco Gavio detto 98-9 Apollonio di Tiana 491 Apollonio Rodio 260, 262 Appendix Perottina 48 Appendix Vergiliana 72 Apro, Marco 341 Apuleio 98, 108, 194, 198, 223, 424-5,

427, 442-78, 491, 524, 556, 568, 605, 645 Aquilio Regolo, Marco 325 Arato di Soli 558 Aratore 516, 647 Arcadio, imperatore 600 Archia di Antiochia 277 Archiloco 49, 277 Ario 535, 537 Ariovisto 346 Aristide di Mileto 199, 425 Aristobùlo 35 Aristotele 72, 107, 307, 406, 422, 648 Arminio 26, 346 Arnobio 502, 511, 529-530 Arria Maggiore 56 Artemidoro 332 Aruleno Rustico 30, 343 Asclepiade di Prusa (medico) 98, 447 Asinio Pollione, Gaio 44, 46, 64 Atanasio 509, 537-8, 597, 601, 604, 615 Atedio Meliore 253 Attalo (filosofo) 118 Attilio Regolo, Marco 264 Aufidio Basso 30, 345, 350 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano 24-9, 31, 43, 46, 48, 51, 64, 98-9, 104, 122, 131, 234, 257, 340, 347, 349-50, 407, 426, 565, 592 Aureliano, imperatore 489 Aurelio Probo, imperatore 489 Aurelio Vittore 569 Aurunzio Stella 253 Ausonio di Bordeaux, Decimo Magno 248, 277, 284, 311, 329, 428, 517, 555, 559-60, 562, 592, 612-3, 642 Aussenzio 535, 597 Aviano (Avianio o Avieno) 557, 558 Avieno, Rufio Festo 557-8

B

Babrio 558 Basilio di Cesarea 597 Batillo di Alessandria 46 Beda 651 Berenice 234 Besso 37 Bissula 559

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Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino 612, 648 Brenno 636 Britannico 120 Bruto, Marco Giunio 25, 29, 69 Burro 349

C

Calgaco 343 Caligola, imperatore 27-30, 35, 42, 102, 119-20, 127, 132, 137, 139, 233-4, 237, 348-9, 407, 487 Callistene di Olinto 35 Calpurniano 425 Calpurnio Pisone, Gaio 29 Calpurnio Siculo, Tito 45-6 Calvino (amico di Giovenale) 309 Calvo, Gaio Licinio 427 Caracalla, imperatore 488, 497-8, 570 Carino, imperatore 495, 569 Carisio, Flavio Sosipatro 573 Caritone di Afrodisia 198, 450 Cassio Dione 118-9, 130-1 Cassio Longino, Gaio (cesaricida) 29 Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio 248, 329, 646, 650, 651 Catilina, Lucio Sergio 607 Catone, Marco Porcio (il Censore) 64, 69, 72-3, 98, 103, 106, 425, 427, 431, 496, 575, 644 Catone, Marco Porcio (l’Uticense) 29, 44 Catullo, Gaio Valerio 205, 236, 283, 309, 427, 557, 560 Cecilio Metello, Quinto 346 Cecilio Stazio 522 Celio Antipatro, Lucio 425 Celso, Aulo Cornelio 96-9, 103, 575 Censorino 497 Cesare, Gaio Giulio 25, 30-2, 43-4, 63-4, 69, 96, 104, 197, 234, 236-8, 265, 324, 345-6, 356, 407, 426, 488, 560, 562-3, 565-613 Cesio Basso 56, 59 Chirone 256, 258 Cicerone, Marco Tullio 29-30, 44, 69, 105, 122, 124-5, 128, 205, 237, 244-5, 247-8, 329, 341, 355, 425, 428-9, 522, 524, 536, 558, 563, 573, 598, 605, 649 Cinna, Gaio Elvio 427


Cipriano 489, 502, 509, 514-5, 527-8, 599 Cipriano Gallico 516 Claudiano, Claudio 263, 284, 311, 329, 555, 572, 612, 642 Claudio, imperatore 28, 30, 35, 42, 48, 56, 102, 106, 119-21, 133, 262, 348-9 Claudio il Gotico, imperatore 489 Claudio Marcello 264, 445 Claudio Mario Vittorio 516 Claudio Massimo (proconsole d’Africa) 444 Claudio Nerone, Gaio 264, 407 Cleante di Asso 125 Cleopatra 234 Clitarco 35 Clito 37 Columella, Lucio Giunio Moderato 45-6, 98-9, 103, 105 Commodiano 516, 531 Commodo, imperatore 487-8, 570 Corbulone, Gneo Domizio 349 Cornelio Gallo, Gaio 647 Cornelio Nepote 48 Costante, imperatore 534 Costantino, imperatore 491, 494, 515-6, 529-31, 535, 554-5, 557-602, 569, 573, 600 Costanzo Cloro (Flavio Valerio Costanzo) 562 Costanzo II, imperatore 534, 565, 592 Cratete 448 Cremuzio Cordo, Aulo 26, 29, 42, 119, 139, 345, 349 Crisippo di Soli 125 Crispo, Flavio (figlio di Costantino) 530 Curiazio Materno 238, 341-2 Curione, Gaio Scribonio 64 Curzio Rufo 28, 35, 37, 108

D

Damaso, papa 517, 602 Dario 37 David 457 Decio, imperatore 489-90, 494, 527-8, 569 Demetrio Falereo 49 Democrito 307 Demostene 245 Didio Giuliano, imperatore 570 Diocleziano, imperatore 489-90, 494, 530, 554, 569, 573 Diodoto di Eritre 35 Dione di Prusa 425 Dionisio Periegeta 558 Domiziano, imperatore 234-5, 237-8, 245, 252-3, 272-3, 275, 306, 308, 311, 322, 325, 339-40, 343, 347, 404, 407, 569

Domizio Afro 251 Domizio Enobarbo, Gneo (seguace di Pompeo) 238 Domizio Marso 277 Domizio Ulpiano 497 Donato, Elio 406, 527, 536, 573-4, 601 Donato, Tiberio Claudio 574 Druso (fratello di Tiberio) 24, 26, 346

E

Elagabalo, imperatore 488, 491, 560, 570 Elenio Acrone 498 Elio Aristide 425 Eliodoro 198 Elvidio 603 Elvidio Prisco, Gaio 30, 343, 353 Emilio Paolo, Lucio 265 Emilio Papiniano 497 Emilio Scauro, Marco 42 Endelechio 517 Ennio, Quinto 33, 49, 65, 132, 263, 264, 425 Ennodio, Magno Felice 649 Epicari 354 Epicuro 126 Epitome rerum gestarum Alexandri 645 Epitteto 238, 526 Eraclito 307 Erennio Senecione 30, 343 Erode Attico 425, 431-2 Erodoto 374 Esiodo 49, 157 Esopo 49, 51, Euforione di Calcide 42 Eugenio (usurpatore) 562, 593 Eumene di Cardia 35 Eumenio 562 Euripide 134 Eusebio di Cesarea 494, 515, 604 Eustochio (seguace di Gerolamo) 602 Eutropio (storico) 428, 564 Evagrio di Antiochia 537-8 Ezechiele (profeta) 636

F

Fabiano (vescovo di Roma) 118 Fabio Giusto 341 Fabio Massimo, Quinto 264, 265 Fabula Milesia 197, 199, 450 Fabulae salticae 46, 64 Favorino di Arles 425, 432 Fedro 42-3, 48-9, 51-2 Felice (martire) 613 Felicita 508 Fenestella 345

Festo (grammatico) vedi Pompeo Festo Festo (storico) vedi Rufio Festo Fidia 422 Filargirio, Giunio 574 Filippo l’Arabo, imperatore 357, 456, 528, 569 Filodemo di Gadara 277 Firmico Materno, Giulio 511, 534 Flavio Gennadio Felice torquato 556 Flavio Giulio Trifoniano Sabino 556 Flavio Vegezio Renato 575 Flavio Vopisco 569 Floro 238, 426-7, 566 Foca 574 Fozio 449 Frontino, Sesto Giulio 96, 98, 113, 114, 575 Frontone, Marco Cornelio 137, 329, 424-5, 428, 429-30, 432 Fulgenzio, Fabio Planciade (il Mitografo) 517

G

Gaio Cesare (figlio di Giulia e Vipsanio Agrippa) 25, 31 Galba, imperatore 232, 348, 350 Galeno 98, 425 Gallieno, imperatore 489, 494 Gellio, Aulo 98, 424-5, 427-8, 431-2, 644 Genserico 605, 640 Germanico, Giulio Cesare 26-27, 42, 48, 349 Gerolamo 121, 137, 248, 284, 349, 504- 5, 509, 511, 514-5, 517, 537, 539, 574, 601-5, 608, 612, 636, 651 Giacomo (apostolo) 503 Gildone 572 Giovanni (apostolo) 503 Giovanni Lido 197, 329, 333 Giovenale, Decimo Giunio 46, 62, 132, 197, 215, 238-9, 252, 272, 302-15, 495, 556, 612, 642 Giuliano, imperatore 536, 555-6, 563, 565-8, 570, 592 Giulio Attico 103 Giulio Civile 348 Giulio Grecino 103 Giulio Ossequente 563 Giulio Paolo 497 Giulio Secondo 341 Giulio Solino, Gaio 497 Giustiniano, imperatore 650 Gracco, Gaio Sempronio 32 Gracco, Tiberio Sempronio 32 Graziano, imperatore 559-61, 565, 592-3, 598 Gregorio di Tours 651 Gregorio Magno 652

667 © Casa Editrice G. Principato


INDICE DEI NOMI

H

Historia Apollonii regis Tyri 645 Historiae adversus paganos 638 Historia de excidio Troiae 645 Historia ecclesiastica gentis Anglorum 651 Historia Francorum 651-2 Historia Gothorum 651 Historia Langobardorum 651

I

Ianuario Nepoziano 563 Igino (il Bibliotecario) 96 Ilario di Poitiers 248, 509, 511, 516, 534-6, 600 Ilarione (monaco) 509 Iordanes 651 Ippocrate 98, 100 Isidoro di Siviglia 248 Isocrate 562 Itinerarium Alexandri 645

Kresilas 422

K L

Labeone, Cornelio 497 Laberio, Decimo 429 Labieno, Tito 29, 73 Lattanzio, Lucio Celio Firmiano 502, 511, 514, 517, 530-1 Lattanzio Placido 259 Laudes Domini 516 Laus Pisonis 45, 562 Lessico Suda 406 Levio 427 Liberio (papa) 601 Livia Drusilla 24 Livio Salinatore 264 Livio, Tito 31, 33, 37, 64, 70, 128, 263-4, 276, 284, 340, 345, 347, 351, 355, 357, 426 Longo Sofista 198 Lucano, Marco Anneo 29, 44-6, 62-72, 120, 194, 204, 236-7, 259 Luciano di Samosata 425, 449-50 Lucilio (amico di Seneca) 125, 127, 129, 132, 140-1 Lucilio, Gaio 49, 56, 60, 304 Lucillio 45, 277 Lucio Cesare (figlio di Giulia e Vipsanio Agrippa) 24 Lucio di Patre 449 Lucio Settimio 645

Lucio Vero, imperatore 428-30, 486, 570 Lucrezio Caro, Tito 284, 429, 455, 557, 597, 612 Lutazio Catulo 277

M

Macrobio, Ambrosio Teodosio 98, 197, 275, 556, 558, 574, 637, 644 Magnenzio (usurpatore) 565 Malco (monaco) 509 Manlio Teodoro, Flavio 516, 648 Marcellina (sorella di Ambrogio) 596 Marcello (figlio di Ottavia) 24 Marcello Empirico di Bordeaux 575 Marco (figlio di Cicerone) 598 Marco Aurelio, imperatore 162, 423-4, 428-30, 486-8, 492, 570 Maria (figlia di Stilicone) 571 Mariano 427 Mario, Gaio 536 Mario Prisco 322, 339 Mario Vittorino, Gaio 511, 516, 535-7, 600, 606, 648 Martino di Braga 121 Martino di Tours 612-3 Marziale, Marco Valerio 45, 62, 72, 203, 236-8, 258, 265, 272-301 Marziano Capella 98, 428, 456, 644 Massima Cornelia 325 Massimiano, imperatore 562, 647 Massimino Trace, imperatore 489 Massimo (usurpatore) 561, 593 Matteo (evangelista) 504, 532 Mecenate, Gaio 44 Meleagro di Gadara 260, 277 Menandro 643 Messalina (moglie di Claudio) 28, 119-20, 310, 349 Messalla Corvino, Mario Valerio 44, 341 Minucio Felice, Marco 502, 511, 522-7 Mirone 422 Monica (madre di Agostino) 605, 607 Musonio Rufo, Gaio 44

N

Naucellio, Giunio (o Giulio) 557 Nemesiano, Marco Aurelio Olimpio 495 Nerone, imperatore 24, 28-30, 44-6, 56, 62-64, 105, 120-1, 123, 130, 133, 135, 137, 139, 192-4, 205, 232-4, 236-8, 240, 257, 263-4, 306, 347-9, 353-4, 407, 487 Nerva, imperatore 113, 235, 238, 339, 342-3, 347, 356, 420, 565, 569 Nevio, Gneo 65, 263-4 Nicomaco Flaviano, Virio 556, 561, 644 Nonio Marcello 573

668 © Casa Editrice G. Principato

Novato 139-40 Numeriano, imperatore 495, 569

O

Odoacre 640, 645 Olibrio 571 Omero 72, 133, 260, 263, 449, 532 Onorio, imperatore 562, 569, 571, 594, 600, 612, 636-7 Optaziano Porfirio, Publilio 557 Orazio Flacco, Quinto 43, 46, 49, 51-2, 56, 59-60, 72, 132, 200, 205, 281, 311, 406, 498, 560, 573, 597, 612, 642 Orosio 514, 572, 636 Osidio Geta 495 Ossiarte 37 Otone, imperatore 232, 348, 407 Ottavia (sorella di Ottaviano Augusto) 24 Ottavio (amico di Minucio Felice) 522-3 Ovidio Nasone, Publio 45, 72, 134, 237, 259, 281, 449, 495-6, 560, 572, 575, 597, 642, 647

P

Palladio (grammatico) 575 Panezio di Rodi 125 Paola (seguace di Gerolamo) 509, 602 Paolino di Milano 509 Paolino di Nola 284, 311, 516, 560, 612-3 Paolino di Pella 517 Paolino di Périgueux 516 Paolo (eremita) 604 Paolo Diacono 651 Paolo di Tarso (santo) 137, 509, 512, 514, 525, 536-7, 606 Papirio Carbone, Gneo 346 Papirio Fabiano 118 Partenio di Nicea 42 Passieno Crispo 406 Passio Perpetuae et Felicitatis 505 Patrizio (padre di Agostino) 605 Pelagio 603, 612 Pentadio 277, 495 Persio Flacco, Aulo 44, 46, 56, 58-60, 62-3, 132, 304-5, 498, 556, 612 Pertinace 570 Petronio Arbitro 29, 44, 55, 132, 192-4, 197-208 Pietro (apostolo) 503, 603, 650, 652 Pindaro 260 Pisone, Gaio Calpurnio 29, 46, 348-9 Pisone Liciniano, Lucio Calpurnio 348 Pitagora 447, 492 Platone 126, 343, 422, 444, 447-8, 454, 492, 606, 648-9 Plauto, Tito Maccio 643 Plinio Cecilio Secondo, Gaio (il Giovane)


105, 113, 138, 238-9, 248, 263, 265, 272-3, 306, 322-38, 350, 404-5, 514, 525, 562, 600 Plinio Secondo, Gaio (il Vecchio) 96-7, 104, 105-8, 193, 236, 325, 345, 350, 406, 408, 495, 497, 575 Plotino 492-4, 597, 605-6 Plozio Sacerdote 573 Plutarco 193, 425, 448, 644 Polibio 139, 566 Pompeo Festo, Sesto 33, 498 Pompeo Magno, Gneo 51, 64, 197 Pompeo, Sesto (proconsole) 33 Pompeo, Sesto (figlio di Pompeo) 66 Pomponio (poeta cristiano) 494 Pomponio Mela 96, 98, 102, 345, 497, 575 Pomponio Secondo 106 Ponzio 509, 527, 612 Poppea Sabina (moglie di Nerone) 354 Porfirio 494, 557, 597, 648 Posidonio di Apamea 125, 345 Possidio (discepolo e amico di Agostino) 509 Postumo 308 Prassitele 422 Pretestato, Vettio Agorio 556, 561, 644 Proba, Faltonia Betitia 517 Probino 571 Procopio di Cesarea 647 Properzio, Sesto 276, 281, 647 Prudenzio Clemente, Aurelio 284, 311, 516, 562, 594, 610-1 Pseudo-Igino 575 Pudentilla (moglie di Apuleio) 443, 445 Pytheas di Marsiglia 346, 410-1

Q

Quintiliano, Marco Fabio 30, 62, 72, 99, 105, 127, 137, 233, 236-8, 240-50, 244-5, 247-8, 253, 260, 262, 272, 322, 341, 355, 610 Quinto Cerellio 497

R

Remmio Palemone, Quinto 239-49 Reposiano 495 Romanzo di Alessandro 35 Romolo Augustolo 640, 645 Rossane 37 Rufino di Aquileia 574, 601, 612 Rufio Festo 564 Rutilio Namaziano, Claudio 566, 637, 641-2

S

Saffo 277 Sallustio Crispo, Gaio 70, 264, 345, 3535, 425-6, 429, 565, 568, 573, 597

Salomone 525 Salviano 640 Satiro (fratello di Ambrogio) 596, 599 Saturnino di Arles 534-5 Scipione Africano, Publio Cornelio 2645, 644 Scribonio Largo 100, 575 Sedulio 516 Seiano, Elio 26, 30, 32-3, 43, 48, 310, 349 Seneca Filosofo 28-30, 44, 62-3, 65, 70, 72, 99, 103, 118-42, 194, 200, 204, 2368, 245, 258, 272, 329, 349, 353, 355, 430, 495, 600, 611-2, 649 Seneca il Vecchio 64, 70 Seneca Padre 29, 33, 46, 136, 272, 566 Senofonte Efesio 198, 379, 450 Serena (moglie di Stilicone) 571 Sereno Sammonico, Quinto 139-40, 427, 495 Servilio Noniano 30, 350 Servio 72, 311, 556, 574, 637 Setticio Claro 325, 405, 407 Settimio Sereno 427 Settimio Severo, imperatore 488, 497, 570 Sicinio Ponziano (compagno di studi di Apuleio) 443, 445 Sicinio Pudente 445 Sidonio Apollinare 207, 265, 428 Silio Italico, Tiberio Cazio 236, 262-5, 272, 495, 575 Simmaco, Quinto Aurelio 328, 516, 556, 557, 560-1, 562, 592-5, 596, 605, 611, 644 Simonide di Ceo 272 Simpliciano 277 Sisenna, Lucio Cornelio 199 Socrate 343, 444, 448, 494, 506, 649 Sofocle 134, 306 Solino, Gaio Giulio 410, 497 Sozione 118 Stazio, Publio Papinio 46, 64, 236, 252-9, 262-3, 265, 278, 495, 556 Stilicone 562, 572 Strabone, Giulio Cesare 104, 345 Sulpicio Apollinare, Gaio 431-2, 509 Sulpicio Severo 516, 613-5 Svetonio Tranquillo, Gaio 28, 98, 118, 137, 194, 235, 238, 325, 328, 350, 352, 404-18, 426, 497, 569, 603, 644

T

Tabula Peutingeriana 497 Tacito, Cornelio 25, 29, 30, 43, 63, 70, 103, 106, 113, 118, 120, 130, 137, 192-4, 2356, 239, 322, 325, 328, 338-403, 426, 566-9 Teodorico 646-8, 650-1 Teodosio I, imperatore 491, 509-510, 515, 554, 558-9, 561, 562-3, 569, 593-4, 597, 599-600, 611, 613, 637, 644

Teodosio II, imperatore 494 Terasia (moglie di Paolino di Nola) 612 Terenziano Mauro 207, 496 Terenzio Afro, Publio 265, 406, 498, 574 Tertulliano, Quinto Settimio Florente 121, 137, 311, 350, 356, 502, 508, 511, 517, 522, 524-6, 528, 603, 637 Tiberiano 557 Tiberio Claudio Nerone (padre di Druso e Tiberio) 24, 30 Tiberio, imperatore 24-6, 30-3, 42-3, 48, 51-2, 98-9, 346, 349, 353-4, 357, 407, 574 Tibullo, Albio 276, 647 Tigellino 120 Tito, imperatore 64, 105-6, 109, 131, 232, 234, 237, 272-4, 407 Tolomeo I 35 Traiano, imperatore 113, 232-48, 306, 323-4, 328, 339-340, 343, 346-8, 404-6, 420, 426, 525, 569 Trasea Peto 30, 44, 343, 349 Treboniano Gallo 569 Tucidide 69, 566

U

Umbricio 308-9 Ursicino (generale) 564

V

Valente, imperatore 564, 565 Valentiniano I, imperatore 559, 561, 565 Valentiniano II, imperatore 561, 593, 599-601 Valeriano (vescovo) 601 Valeriano, imperatore 489-90, 509, 527 Valerio Anziate 263 Valerio Catone, Publio 427 Valerio Flacco, Gaio 236, 260-3, 265, 495 Valerio Massimo 25, 33-5, 114, 563 Valerio Probo, Marco 56 Varo, Publio Quintilio 346 Varrone Atacino, Publio Terenzio 260 Varrone Reatino, Marco Terenzio 96, 98, 103, 106, 132, 194, 406, 432, 644 Varrone, Gaio Terenzio 265 Vegezio vedi Flavio Vegezio Renato Velleio Patercolo 99, 575 Venanzio Fortunato 516 Verrio Flacco, Marco 498 Vespasiano, imperatore 105, 106, 113, 232-42, 260, 262, 339, 341, 348, 407 Vibia Perpetua 508 Vibio Sequestre 575 Vinicio, Marco 31-2

669 © Casa Editrice G. Principato


INDICE DEI NOMI

Vipstano Messalla 341 Virgilio Marone, Publio 43, 47, 66-7, 103, 237, 245, 259, 261-3, 275, 281, 311, 355, 406, 425-6, 432, 517, 532, 556-7, 573-5, 597, 612, 636, 642, 644 Vitellio, imperatore 232, 263, 348, 350, 407

Vitorio Marcello 253 Vitruvio Pollione 96, 105 Vittorino di Pettau 511 Volusiano 569 Vopisco 569 Vulcacio Gallicano 569

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Z

Zenone di Cizio 122, 125 Zenone di Elea 649 Zenone, imperatore 646


Referenze iconografiche Archivio Principato Shutterstock p. 24 p. 42 p. 53 p. 96 p. 107 p. 118 p. 127 p. 134 p. 145 p. 192 p. 211 p. 214 p. 239 p. 244 p. 252 p. 272 p. 289 p. 290 p. 302 p. 307 p. 308 p. 322 p. 328 p. 338 p. 347 p. 354 p. 372 p. 373 p. 399 p. 420 p. 452 p. 463 p. 486 p. 496 p. 502 p. 506 p. 522 p. 532 p. 536 p. 538 p. 554 p. 589 p. 592 p. 636

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671 © Casa Editrice G. Principato


Immagini di apertura p. 24 p. 42 p. 96 p. 118 p. 192 p. 232 p. 252 p. 272 p. 302 p. 322 p. 338 p. 404 p. 420 p. 442 p. 486 p. 502 p. 522 p. 554 p. 592 p. 636

Caligola da bambino, Nerone, Tiberio con Livia Drusilla, Druso Minore e Livilla, dettaglio del Gran Cammeo di Francia, I secolo d.C. Parigi, Bibliothèque Nationale. Scena sacrificale, affresco dalla Casa dei Vettii a Pompei, I secolo. Un giovane che raccoglie frutti, dettaglio dal mosaico del trionfo di Nettuno, II secolo. La Chebba, Tunisia. Un filosofo con la sua Musa, dettaglio di sarcofago, III-IV secolo. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. Scena di banchetto, affresco dalla Casa dei Casti amanti a Pompei. Anfiteatro Flavio, noto come Colosseo, I secolo, Roma. Il mito di Eteocle e Polinice, urna etrusca in alabastro, I secolo a.C. Natura morta con caraffa e ramo di pesco, dettaglio di affresco da Pompei. Rissa nell’anfiteatro, affresco da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Affresco con decorazione architettonica, dalla Villa di Boscoreale, I secolo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Scena di battaglia tra Romani e Germani, dettaglio del Sarcofago Grande Ludovisi, III secolo. Roma, Palazzo Altemps. Il giovane Domiziano con il padre Vespasiano, fregio B dei rilievi di Palazzo della Cancelleria, I secolo. Roma, Musei Vaticani. Fontana del Canopo, Villa Adriana, Tivoli. La favola dell’asino in un mosaico bizantino, IV secolo, Istanbul, Museo del mosaico. Tabula Peutingeriana, 1598, Vienna, Ex Biblioteca delle carte imperiali. Affresco con scena di banchetto, IV secolo. Roma, Catacombe di Marcellino e Pietro. Scene dal Nuovo Testamento, marmo policromo, III-IV secolo, Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme. Ila e le Ninfe, pannello in opus sectile dalla Basilica di Giunio Basso, IV secolo. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme. Natività, dettaglio di un sarcofago protocristiano, Roma, Musei Vaticani. Il palazzo di Teodorico, mosaico, V-VI secolo. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.

672 © Casa Editrice G. Principato


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T 12 Nuovi spettacoli: il pugnale di ghiaccio (Epigrammata IV, 18) LAT IT

1min
page 301

T 11 Epigrammi funebri (Epigrammata V, 34 e 37) LAT IT

3min
pages 299-300

T 6 Spettacoli: un cruento pantomimo (Liber de spectaculis 7) LAT IT

3min
pages 292-293

della signora Inzaghi

2min
page 298

Leggere un TESTO CRITICO Il realismo di Marziale (M. Citroni

2min
page 295

T 9 Epigrammi satirici (Epigrammata I, 10; I, 47; II, 38; VIII, 10; X, 8; X, 91) LAT IT

1min
page 294

T 10 Quadri di vita romana: lo sfratto di Vacerra (Epigrammata XII, 32) LAT IT

3min
pages 296-297

T 4 La vita a Bilbili (Epigrammata XII, 18) LAT IT

1min
page 290

T 5 Spettacoli: la sfilata dei delatori (Liber de spectaculis 4) LAT IT

1min
page 291

Verifica finale

2min
page 273

Bibliografia essenziale 286 Sintesi

3min
pages 288-289

T 2 Hominem pagina nostra sapit (Epigrammata X, 4) LAT IT T 3 Lasciva est nobis pagina, vita proba (Epigrammata I, 4) 280 ONLINE

5min
pages 281-282

T 4 Il dissidio interiore di Medea (Argonautica VII, 305-326) IT

2min
page 271

Il genere LETTERARIO L’epigramma in Grecia e in Roma

3min
page 279

MAPPA

0
page 272

Marziale nel tempo

2min
page 286

COMPITO DI REALTÀ Epigrammi moderni

1min
page 287

Bibliografia essenziale 266 Sintesi

1min
page 268

Bibliografia essenziale 248 Sintesi

6min
pages 251-253

T 2 Dal proemio delle Argonautiche (Argonautica I, 1-4) LAT IT

4min
pages 263-264

Quintiliano nel tempo

2min
page 250

T 1 Vantaggi della scuola pubblica (Institutio oratoria I, 2, 17-22) IT

2min
page 244

Educazione CIVICA Scuola e istruzione

5min
pages 245-246

Institutio oratoria Struttura e contenuti dell’opera: i dodici libri

3min
page 243

4 Quintiliano

2min
page 242

Fine del mecenatismo nell’età dei Flavi

4min
pages 239-240

Verifica finale

2min
pages 232-233

LABORATORIO Dum versas te, nox fit (Satyricon 41, 9-12

2min
page 230

Leggere un TESTO CRITICO Una chiave di lettura per l’episodio di Crotone: la legge dell’inversione (P. Fedeli

3min
page 228

MAPPA

1min
page 231

T 4 La novella della matrona di Efeso (Satyricon 110, 6-113, 2) IT

5min
pages 223-224

T 6 Contro l’epica storica (Satyricon 118) IT 227 ONLINE T 7 Un’ambigua dichiarazione di poetica (Satyricon 132, 15) LAT IT 227 ONLINE T 8 Una suasoria antropofagica (Satyricon 141) LAT IT

2min
page 229

Dialogo con i MODELLI Un racconto filosofico di Voltaire: Zadig

3min
page 225

CULTURA e SOCIETÀ Gli uomini-lupo

2min
page 222

Satyricon: che cosa significa questo titolo?

5min
pages 197-198

T 2 Cena Trimalchionis: l’ingresso di Trimalchione (Satyricon 32-34) LAT IT

8min
pages 214-216

Ambiguità prospettica del Satyricon: le discussioni letterarie

2min
page 206

Sintesi

3min
page 210

Leggere un TESTO CRITICO Soggettivismo e obiettività: un’illusione di vita concreta nello «specchio doppio» della narrazione (E. Auerbach

2min
page 205

Il Satyricon nel tempo

2min
page 209

T 1 Una disputa de causis corruptae eloquentiae (Satyricon 1-4) IT

6min
pages 211-213

Verifica finale

2min
page 193

T 20 Claudio sale in cielo (Apokolokyntosis 5-7, 1) IT

3min
page 183

LABORATORIO Magni animi est magna contemnere (Epistulae ad Lucilium 39, 4-5

4min
pages 190-191

MAPPA

0
page 192

COMPITO DI REALTÀ Lettere a Seneca

2min
page 189

T 21 Il furore di Medea (Medea 116-178) IT

9min
pages 184-187

T 16 Membra sumus corporis magni (Epistulae ad Lucilium 95, 51-53) LAT

7min
pages 179-180

T 19 Il progresso delle scienze (Naturales quaestiones VII, 25, 1-4) LAT IT

5min
pages 181-182

T 11 Il potere corruttore della folla (Epistulae ad Lucilium 7, 1-5) LAT

10min
pages 164-166

Confronti INTERTESTUALI Dalle Confessioni di Agostino: il contagio della folla

2min
page 168

Vita QUOTIDIANA a ROMA Gli spettacoli circensi nell’epistola 7 a Lucilio

3min
page 167

Il dibattito FILOSOFICO I timori delle pene infernali: anche Cicerone confuta Epicuro

1min
page 170

T 12 La libertà del saggio (Epistulae ad Lucilium 8, 1-7) IT

2min
page 169

T 14 Dio è in noi (Epistulae ad Lucilium 41, 1-5) LAT

12min
pages 171-174

La condizione degli schiavi nel pensiero cristiano delle origini: le lettere degli apostoli

4min
pages 177-178

Leggere un TESTO CRITICO Il senso del sacro nei culti di Roma arcaica R. Bloch

3min
page 175

T 4 Elogio di Claudio (Consolatio ad Polybium 7) LAT IT 147 ONLINE T 5 Otiosi e occupati (De brevitate vitae 14) LAT IT

8min
pages 149-151

T 8 Taedium vitae e commutatio loci (De tranquillitate animi 2, 13-15) LAT

7min
pages 155-156

T 9 L’uso del tempo (Epistulae ad Lucilium 1) LAT

3min
page 158

Educazione CIVICA Il paternalismo politico, dalla clementia al nudging

2min
page 154

Dialogo con i MODELLI Il motivo del taedium vitae in Lucrezio e in Orazio

2min
page 157

Le FORME dell’ESPRESSIONE Il linguaggio dell’interiorità

8min
pages 159-160

Leggere un TESTO CRITICO Un tema centrale nelle filosofie ellenistiche: la «cura di sé» (M. Foucault

2min
page 163

T 10 Le letture (Epistulae ad Lucilium 2) LAT IT

4min
pages 161-162

T 3 L’esame di coscienza (De ira III, 36) LAT IT

2min
page 148

Verifica finale

2min
page 119

Un titolo oscuro e variamente decifrato: Apokolokyntosis

2min
page 133

Seneca nel tempo

4min
pages 139-140

Le opere di Seneca non pervenute

2min
page 123

Il genere LETTERARIO La satira menippea

3min
page 134

Opere filosofiche di Seneca

8min
pages 141-143

T 1 Solo la morte ci rende liberi (Consolatio ad Marciam 19, 3-20, 3) IT T 2 Esempi di ferocia bestiale: Alessandro, Silla, Catilina, Caligola

5min
pages 146-147

MAPPA

1min
page 118

Naturalis historia VII, 21-32 passim) IT

4min
pages 112-113

Educazione CIVICA Plinio il Vecchio, eroe del pensiero e dell’umanità

2min
page 114

Bibliografia essenziale 115 Sintesi

3min
page 117

8 I trattati di Sesto Giulio Frontino, curator aquarum

5min
pages 115-116

Le opere non pervenute di Plinio: un vasto e variegato catalogo

8min
pages 108-111

De re rustica, praefatio1-4 passim) IT

2min
page 106

7 La Naturalis historia di Plinio il Vecchio

2min
page 107

T 14 La virtù di Catone (Pharsalia IX, 378-410) LAT IT 92 ONLINE T 15 «Al nume non occorrono parole» (Pharsalia IX, 544-586) IT

2min
page 94

MAPPA

1min
page 96

6 Agricoltura: il De re rustica di Columella

2min
page 105

2 Il progetto enciclopedico di Celso

1min
page 100

Verifica finale

2min
page 97

Un personaggio contraddittorio: il Catone di Lucano

2min
page 95

3 Gastronomia: il De re coquinaria di Apicio

2min
page 101

Educazione CIVICA Salus, valetudo, humanitas

4min
page 103

T 11 La quercia ed il fulmine (Pharsalia I, 129-157) LAT IT

3min
pages 86-87

Dialogo con i MODELLI Il monologo della maga Erìttone nel Faust di Goethe

2min
page 93

T 8 Malattie del corpo e malattie dell’animo (Saturae III, 60-118) LAT IT

8min
pages 80-83

Leggere un TESTO CRITICO Il simbolismo della quercia e del fulmine (E. Narducci

2min
page 88

T 12 Macabro rito di necromanzia (Pharsalia VI, 719-729; 750-821) IT

9min
pages 89-92

T 9 Elogio del maestro Anneo Cornuto (Saturae V, 1-51) LAT IT T 10 Sulla spiaggia di Luni, d’inverno (Saturae VI, 1-33) LAT IT 83 ONLINE

5min
pages 84-85

Lucano nel tempo

2min
page 74

COMPITO DI REALTÀ Un mondo di favole molto reali

2min
page 75

Le opere perdute di Lucano

5min
pages 66-67

6 La poesia epica: Lucano

2min
page 65

Le Satire II-VI di Persio: i temi trattati

3min
page 61

5 La poesia satirica: Persio

1min
page 58

T 3 Una dichiarazione di poetica (Choliambi) LAT IT

4min
pages 59-60

Persio nel tempo

2min
page 64

T 2 Un aneddoto di attualità (Fabulae II, 5) IT

1min
page 55

Dialogo con i MODELLI Fedro ed Esopo

3min
page 54

sulloscaffale Uno studio su Tiberio; due poemetti di Giovanni Pascoli

3min
page 29

MAPPA

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page 42

fontivisive La gemma Claudia

1min
page 30

Le nuove forme del dissenso nell’età del principato

4min
pages 46-47

Verifica finale

2min
page 43

3 Le favole di Fedro

1min
page 50

Il genere LETTERARIO La favola

2min
page 51

T 1 La favola del lupo e dell’agnello (Fabulae I, 1) LAT IT

4min
pages 52-53
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