Aurea dicta edizione Gialla - V3

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PERCORSO ANTOLOGICO

LETTURA e INTERPRETAZIONE La tecnica dell’argomentazione: exempla e sententiae

Nella prima parte dell’epistola l’argomentazione, illustrata da una martellante serie di esempi tratti dall’ambito della medicina, dell’agricoltura e della fisiologia (par. 3), si conclude con una sentenza destinata a imprimersi con forza nella memoria del lettore-discepolo: cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas (si noti, fra l’altro, l’elegante disposizione a chiasmo delle proposizioni).

L’obiezione dell’interlocutore e i consigli del maestro

Una possibile obiezione dell’interlocutore («Sed modo» inquis «hunc librum evolvere volo, modo illum»),

caratteristica del procedimento diatribico, introduce alla seconda parte della lettera (parr. 4-6). Il maestro abbandona ora l’ambito del discorso generale per dispensare i suoi preziosi consigli, rafforzandoli con l’autorevolezza del proprio esempio (Hoc ipse quoque facio).

Una massima di Epicuro

La massima di Epicuro (par. 5), estrapolata dal suo contesto filosofico, dovrà costituire motivo di riflessione per l’intera giornata e, si immagina, per l’esame di coscienza serale: si osservi (par. 6), anche in questo caso, il carattere sentenzioso dello stile, che rovescia con persuasiva efficacia i tradizionali luoghi comuni del discorso (non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est).

Leggere un TESTO CRITICO Un tema centrale nelle filosofie ellenistiche: la «cura di sé» Primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari: così leggiamo nella seconda epistola a Lucilio sopra riportata. Distaccarsi dai beni esteriori e prendersi cura di sé, scendere nel proprio intimo (in secretum pectoris sui; De ben. VI, 38, 5), farsi

medici della propria anima costituisce il nocciolo del pensiero senecano, estrema elaborazione di un tema caro alle filosofie ellenistiche. Ne parla, nella pagina che segue, uno dei maggiori filosofi novecenteschi, Michel Foucault (1926-1984).

«Né il giovane indugi a filosofare né il vecchio di filosofare sia stanco. Non si è né troppo giovani, né troppo vecchi per la salute dell’anima» (Epicuro, Epistola a Meneceo 122). È proprio questo tema epicureo della necessità della cura di sé che Seneca riprende in una delle sue lettere: «Un cielo sereno, quando ha acquistato il più alto grado di purezza e di splendore, non può ricevere una chiarezza ancor più viva. Così l’uomo che ha cura del corpo e dell’anima (hominis corpus animumque curantis) e che per mezzo loro si fabbrica la sua felicità, raggiunge il culmine dei suoi desideri e si trova in uno stato perfetto, in quanto il suo animo non è più agitato e il suo corpo è senza dolore» (Ep. ad Luc. 66, 45). Curare l’anima era un precetto che Zenone aveva dettato, fin dall’inizio, ai suoi discepoli e che Musonio riprenderà, nel I secolo, in una massima citata da Plutarco (L’ira 453d): «Chi vuole salvarsi deve vivere curando continuamente se stesso». È nota l’ampiezza assunta, in Seneca, dal tema dell’applicazione a se stessi; ed è per consacrarvisi che bisogna, secondo lui, rinunciare alle altre occupazioni: ci si potrà così rendere liberi per se stessi (sibi vacare: Ep. ad Luc. 17, 5; De brevitate vitae 7, 5). Ma questa vacatio assume la forma di un’intensa attività che esige la maggiore sollecitudine e l’impegno di tutte le proprie forze per «farsi da sé», «trasformarsi», «tornare a se stessi». Se formare (De brevitate vitae 24, 1), sibi vindicare (Ep. ad Luc. 1, 1 [ T9]), se facere (Ep. ad Luc. 13, 1; De vita beata 24, 4), se 161 © Casa Editrice G. Principato


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