Aurea dicta edizione Gialla - V3

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PERCORSO ANTOLOGICO

T 12 La libertà del saggio Epistulae ad Lucilium 8, 1-7 ITALIANO

Si è detto come la nozione di libertas cambi di segno nel passaggio dall’età repubblicana a quella imperiale: non riguarda più la sfera delle attività pubbliche ma la vita dello spirito, l’ambito propriamente morale. Seneca, che pure negli anni precedenti aveva partecipato intensamente alla vita civile di Roma, elogia ora apertamente il secessus, la condizione di chi ha troncato del tutto con il mondo e vive appartato, rammaricandosi di aver conosciuto tardi la via della verità («la via giusta, che tardi ho conosciuto»; par. 3). Non ha rinunciato a essere utile, secondo il precetto fondamentale della filosofia stoica; ha solo mutato i modi di esserlo: «Non solo lasciai gli uomini, ma anche le faccende e in primo luogo le mie, per attendere al bene dei posteri» (par. 2).

Seneca saluta il suo Lucilio. [1] Mi dici: «tu vuoi che io eviti la folla, che mi tenga ritirato e sia contento dell’approvazione della mia coscienza: orbene che sarà di quei vostri precetti, che ci comandano di morire operando?». E che? mi ritrassi dal mondo e chiusi ad esso le porte del mio animo, affinché mi fosse possibile giovare alla moltitudine. Ti pare forse che io consigli l’inerzia? Nessun giorno mi sfugge nell’ozio: dedico una parte della notte allo studio: non mi abbandono al sonno, ma ne sono vinto, e gli occhi affaticati dalla lunga veglia e che si chiudono li tengo aperti a forza sul lavoro. [2] Non solo lasciai gli uomini, ma anche le faccende e in primo luogo le mie, per attendere al bene dei posteri. Per essi scrivo qualcosa che possa riuscire giovevole: si tratta di precetti salutari, simili a ricette di medicine utili, di cui già ho sperimentato l’efficacia sulle mie piaghe, le quali, è vero, non sono del tutto guarite, ma hanno cessato di estendersi. [3] Indico agli altri la via giusta, che tardi ho conosciuto e quando ero ormai stanco di errare. Non faccio che dire: «Evitate tutto ciò che piace al volgo, che dipende dai capricci della fortuna: di fronte ad ogni bene da essa concesso fermatevi pieni di sospetto e di timore. Le fiere ed i pesci si lasciano ingannare dalla speranza di qualcosa che loro piace. Credete che questi beni siano doni della fortuna? non sono che tranelli. Chiunque di voi vorrà condurre una vita sicura, cerchi, il più possibile, di evitare tali ingannevoli favori: ci illudiamo, infelici, anche in questo: crediamo di averli in nostro possesso, mentre, in realtà, siamo in essi come invischiati. [4] Codesta strada ci conduce in precipizi: la vita di chi ama stare così in alto non può concludersi che con una caduta. Neppure fermarsi poi è possibile, quando la fortuna ha cominciato a portarci lontano dalla retta via, o almeno andare a fondo con la nave diritta o tutto d’un tratto: essa non si accontenta di rovesciare, ma precipita a capofitto e sbatte con violenza. [5] Dunque seguite un tenore di vita sano e salutare, curate il corpo solo quanto basta perché esso stia bene; conviene trattarlo piuttosto duramente, affinché obbedisca con prontezza all’animo: il cibo calmi la fame, la bevanda estingua la sete, i vestiti riparino dal freddo, la casa difenda il corpo dalle intemperie. Che importa che essa sia costruita con zolle erbose o con marmi di vario colore, giunti da remote regioni? Sappiate che un tetto di paglia protegge l’uomo non meno bene che un tetto d’oro. Disprezzate tutto ciò che un’inutile 167 © Casa Editrice G. Principato


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